Città Nuova

Economia Civile

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Gli Editoriali di Città Nuova - Economia

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.10/2013 del 25/05/2013

Giuramento ippocrate ridUna delle lezioni che dovremmo trarre da questa  crisi,  che  si  prospetta  sempre  più seria e lunga, riguarda le professioni economiche. In medicina da tempi remoti esiste il cosiddetto  “Giuramento  di  Ippocrate”,  che  viene  prestato  dai medici e odontoiatri prima di iniziare la loro professione.

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 Perché non prevedere qualcosa di simile anche per tutte le professioni economiche, non solo per i manager (per i quali se ne parla già da un po’), ma anche per commercialisti, consulenti, economisti, amministratori, bancari? Lo si potrebbe intitolare a un illustre economista del passato (Adam Smith o Antonio Genovesi, ad esempio), e creare dei momenti pubblici simbolici (al momento della consegna della laurea, dell’iscrizione all’albo, o della firma del primo contratto di lavoro).

Il  giuramento  è  una  forma  di  patto,  che  quindi  utilizza registri e linguaggi più potenti di quelli dei soli contratti. Nel moderno “Giuramento di Ippocrate”, il medico si
impegna, in quella che chiamano «alleanza terapeutica», a difendere la vita, di non compiere mai atti idonei a «promuovere la morte di una persona», di fondare i rapporti di
cura sulla «fi ducia e sulla reciproca informazione», e molto altro ancora. Un giuramento per le professioni economiche dovrebbe comprendere almeno i seguenti punti:

«1. Non userò mai a mio vantaggio e contro gli altri le maggiori informazioni di cui disporrò. 2. Guarderò al mercato come un insieme di opportunità per crescere insieme,
e non ad una lotta. 3. Non tratterò mai i lavoratori solo come un costo, come un capitale, una risorsa, al pari degli altri costi, capitali e risorse dell’economia. I lavoratori sono prima di tutto persone». E altro ancora. Certo, lo sappiamo, non bastano i giuramenti per fare un buon medico o un buon commercialista; ma, se i simboli e le “liturgie” sono curati e pensati, possono aiutare a creare una mentalità,  una  cultura  soprattutto  per  i  nuovi  professionisti.

Nella nostra società di mercato il peso delle scelte economiche nella vita della gente è crescente: si muore per una cura sbagliata, ma anche, lo stiamo tragicamente vedendo,
per un licenziamento sbagliato o per un mutuo sbagliato. L’etica economica è un bene di prima necessità.

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Gli Editoriali di Città Nuova - Economia

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.10/2013 del 25/05/2013

Giuramento ippocrate ridUna delle lezioni che dovremmo trarre da questa  crisi,  che  si  prospetta  sempre  più seria e lunga, riguarda le professioni economiche. In medicina da tempi remoti esiste il cosiddetto  “Giuramento  di  Ippocrate”,  che  viene  prestato  dai medici e odontoiatri prima di iniziare la loro professione.

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Il “Giuramento di Genovesi”

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Economia e disoccupazione

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.8/2013 del 25/04/2013

DisoccupatiÈ  passato  poco  tempo  da  quando  Le  Monde  (2 aprile)  ha  riportato  la  notizia  di  un appello  di un  gruppo  di  studenti  di  economia  (pepseco.wordpress.com) per un insegnamento pluralista della economia nelle scuole e università. Lamentano la presenza di un pensiero unico e la mancanza di una prospettiva storica che darebbe, di per sé, una idea di scienza economica plurale e complessa, nella quale coesistono più visioni, filosofie, visioni dell’uomo.

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 Un po’ di storia, non solo in Francia ma in tutto il mondo e da noi, farebbe scoprire, ad esempio, che è esistito un grande economista di nome John M. Keynes che di fronte alla crisi del ’29 elaborò una teoria alternativa a quella del suo (e nostro) tempo. Dimostrò che per uscire da trappole depressive – si parlava a suo tempo di “grande  depressione”  –  e  di  pessimismo  generalizzato,  c’era bisogno di interventi esterni al mercato che sbloccassero lo stallo. Il principale elemento che serve nelle gravi crisi  è  la  fiducia,  soprattutto  quella  di  sistema:  credere seriamente che non si è da soli e che le istituzioni sono con noi, tra le quali lo Stato e oggi l’Europa.

Ed  è  proprio  questa  fiducia  che  manca  oggi  al  nostro mondo  del  lavoro  e  agli  imprenditori.  Sono  sfiduciati perché vedono che oltre alle gravi difficoltà dei mercati e del fatturato, le istituzioni e la società civile sono distanti e non raramente ostili. Si sentono trattati come evasori (quando faremo una petizione per abolire quegli spot sul “parassita sociale”? Non converte nessuno e crea inimicizia sociale), vessati, confusi con speculatori e faccendieri, e sopratutto non stimati.

Senza stima e amicizia civile e reciproca non si ricrea fiducia,  non  si  crea  nuovo  sviluppo,  non  si  crea  nuovo lavoro. Quel milione di licenziati di quest’anno, un numero pazzesco che non dovrebbe darci pace, interpella le nostre coscienze e convenienze. Non creeremo nuovo lavoro senza generare nuovi imprenditori, o lasciandoli morire. Studiare meglio economia non basta, ma è necessario.

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Economia e disoccupazione

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.8/2013 del 25/04/2013

DisoccupatiÈ  passato  poco  tempo  da  quando  Le  Monde  (2 aprile)  ha  riportato  la  notizia  di  un appello  di un  gruppo  di  studenti  di  economia  (pepseco.wordpress.com) per un insegnamento pluralista della economia nelle scuole e università. Lamentano la presenza di un pensiero unico e la mancanza di una prospettiva storica che darebbe, di per sé, una idea di scienza economica plurale e complessa, nella quale coesistono più visioni, filosofie, visioni dell’uomo.

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Quel numero pazzesco

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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.5/2013, 10/03/2013

Benedetto XVI 01 ridAmore è forse la parola più abusata e logora nella nostra cultura dei consumi, della finanza e dell'edonismo. Amore è stata invece la parola che Benedetto XVI ha messo al centro della sua dottrina sociale. Deus Caritas est, la sua prima enciclica, Caritas in Veritate, l'ultima.

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E così quell’amore che la nostra civiltà ha scartato, Papa Benedetto l’ha scelta come testata d'angolo del suo edificio, della casa della Chiesa, del suo papato e della sua conclusione. L’amore della chiesa e di questo Papa si chiama charitas, una parola latina dalla lunga e complessa storia. Era usata nel linguaggio commerciale (ciò che è caro, che vale), e divenne la parola che i primi cristiani latini scelsero per tradurre agape.

Era questa parola greca che il Nuovo testamento aveva quasi inventato per poter dire una dimensione dell’amore che le altre parole greche usate in quel tempo, cioè Eros e philia (amore di amicizia), non riuscivano a rendere nella sua rivoluzionaria novità. L’agape, infatti, a differenza dell'eros, ama anche ciò che non è desiderabile, e ama anche il non amico. È amore di gratuità. Al tempo stesso l’agape non si oppone a eros e philia, ma li chiama alla loro pienezza. E’ questo un altro grande messaggio di Papa Benedetto, contenuto nella sua prima enciclica, alla cui luce va letta anche la Caritas in veritate, che ci dice che il dono non si oppone al mercato, né la gratuità al contratto. Ma occorre evitare il grave e comunissimo errore di confondere i doni con i regali, e la gratuità con il gratis (prezzo zero).

È questo amore che Benedetto XVI ha posto al centro delle sue encicliche, che non sono solo sociali ma prima antropologiche e teologiche. Solo un Papa autenticamente teologo poteva scrivere lettere autenticamente sociali. Ed economiche. Papa Ratzinger non ha solo detto che l'amore-charitas è il principio dell'autentica socialità, ha anche scritto e detto tante volte in molti modi che questo amore (e non un altro) è anche principio economico. Una rivoluzione culturale di enorme portata che si comprenderà solo in futuro.

Da economista, e da economista di comunione, non posso che dire un grande e profondo grazie a Papa Benedetto, che ponendovi a cuore la charitasha dato all'economia una dignità nuova e altissima. E proprio mentre stava esplodendo questa crisi che mostrava dell'economia il suo volto più distante dall'amore, il successore di Pietro ha richiamato l'economia, il lavoro, l'impresa, la banca, alla loro vocazione più alta e più vera, per salvarle. Tutti coloro che ogni giorno vivono lavoro ed economia come amore, e sono tanti, debbono ringraziare questo Papa teologo che ha avuto il coraggio di accostare mercato a amore, contratto a dono, giustizia a gratuità, economia a comunione.

E chiamare economia amore è il modo più bello per dire laicità, quella vera, che, sulla scia di un altro grande Benedetto, dà lo stesso valore etico all’“ora” e al “labora”, un messaggio di grande speranza in questa crisi che si mostra sempre più crisi del lavoro e dei lavoratori. Il passaggio di Benedetto XVI attraverso i territori dell'economia l'ha allora cambiata per sempre. E l'ha cambiata per tutti, anche per tutti quelli che le sue encicliche non l'hanno lette, perché magari l’abbiamo presentata con modi e linguaggi sbagliati. È anche a nome loro che ti voglio dire grazie, Papa Joseph, perché le tue parole hanno reso più degno e bello il nostro mestiere, il quotidiano, la ferialità della vita. E così hai composto un canto d'amore per l'uomo, che è fatto di pane e di sale (salario), e lo è anche quando ama, pensa, prega. Quando prega, e quando lavora.

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pubblicato su Città Nuova n.5/2013, 10/03/2013

Benedetto XVI 01 ridAmore è forse la parola più abusata e logora nella nostra cultura dei consumi, della finanza e dell'edonismo. Amore è stata invece la parola che Benedetto XVI ha messo al centro della sua dottrina sociale. Deus Caritas est, la sua prima enciclica, Caritas in Veritate, l'ultima.

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L'impatto delle encicliche sull'economia

L'impatto delle encicliche sull'economia

di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.5/2013, 10/03/2013 Amore è forse la parola più abusata e logora nella nostra cultura dei consumi, della finanza e dell'edonismo. Amore è stata invece la parola che Benedetto XVI ha messo al centro della sua dottrina sociale. Deus Caritas est, la sua pri...
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Ripubblichiamo un breve articolo del 2011, che può offrire qualche indicazione utile per gli scenari che si apriranno dopo le elezioni

di Luigino Bruni

Cinema-Pirati-dei-CaraibiUn gruppo di 5 pirati trova un tesoro di 100 lingotti d’oro in un’isola deserta. Tra loro vige questa regola: il più anziano deve fare per primo un’offerta di accordo per ripartire il tesoro trovato, ma se non raccoglie la maggioranza dei voti (il voto del più anziano vale doppio in caso di parità) viene eliminato dagli altri quattro compagni (gettato fuori dalla nave), e sarà il secondo più anziano a fare la sua offerta di ripartizione con la stessa regola, e così via.

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Se i pirati sono razionali e auto-interessati, l’offerta ottima che il più anziano deve fare per ottenere il consenso è la seguente: offrire un solo lingotto al terzo e uno al quinto, e tenere per sé i restanti 98.

(La dimostrazione non è banale ma può essere intuita ragionando a ritroso partendo dalla fine: perché il 3° e il 5° pirata – gli unici ai quali il primo chiede il voto – dovrebbero rifiutare l’offerta? Se infatti non la accettano eliminando il primo, il “pallino” passa al secondo, che offrirà ai tre rimanenti che cosa? Offrirà 1 al quarto (il penultimo), e zero agli altri due, che sono esattamente il 3° e il 5° ai quali l’anziano aveva offerto 1: ed essendo il loro un confronto tra 1 e 0, accetteranno l’offerta del più anziano).

Questa storiella è una buona rappresentazione di come si raggiungono gli accordi tra individui razionali e auto-interessati in contesti di scelte non ripetute o tragiche, quando esiste un’asimmetria di potere tra le parti, e quando c’è qualcuno che ha il potere di fare la prima mossa, sapendo però che se non passa esce dal gioco, e il potere passa al secondo, e così via. Il messaggio che proviene da questo gioco è il seguente: non si cerca mai l’accordo con il secondo, ma con l’ultimo, se si vuole evitare di essere eliminato, pur avendo un ampio potere.

Ora, immaginiamo che i gruppi siano 5, ordinati in numero di voti ricevuti al primo turno. Che cosa consiglia in questo caso la logica di questo gioco? Il primo dei cinque, se non vuole sbagliare offerta e lasciare il campo al secondo, deve allearsi con due gruppi minori, il terzo e soprattutto il quinto, il più debole. Non deve cercare il terzo e il quarto, ma il terzo e l’ultimo, poiché il quarto non accetterebbe l’offerta, o la accetterebbe con minor probabilità rispetto a 1 e 3 (ma vorrebbe più di 1 lingotto, poiché otterrebbe almeno la stessa offerta di 1 dal secondo). Cioè le alleanze tendono a divenire: 1-3-5 da una parte, 2-4 dall’altra. 

Altri due corollari:

1.    Il primo proponente si può salvare (non venire gettato giù dalla nave, o vincere) non se offre una divisione equa (20 ciascuno), ma se offre una distribuzione fortemente iniqua: se, infatti, avesse offerto distribuzione diversa da (98, 1, 1), sarebbe stato gettato giù dalla nave da una ciurma razionale (non avrebbe trovato l’accordo, poiché i giocatori avrebbero potuto offrire al secondo turno la stessa allocazione, ma con uno in meno (25 ciascuno, 100/4), e così via.

2.    Il gioco cambia radicalmente quando i pirati sono tanti e superano una soglia. Se ad esempio con un tesoro di 100 i giocatori fossero più di 200, il primo proponente si salverebbe la vita (o eviterebbe un bagno nell’oceano) solo se propone una divisione del denaro dove non tiene niente per sé (dovrebbe dare un lingotto ad ogni pirata numerato pari, fino al 198°).

Possono queste riflessioni servire a qualcosa di pratico? Chissà!

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I pirati e le elezioni

I pirati e le elezioni

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Uno studioso che cita Dante e capovolge il pensiero dominante. Intervista esclusiva con il Premio Nobel.

a cura di Luigino Bruni

Pubblicato su Città Nuova n.3/2013 il 10/02/2012

Sen_YunusPer capire chi è Amartya Sen, un buon punto di partenza sono le ultime parole del suo libro del 2010, L’idea di giustizia (Mondadori): «La filosofia può esercitarsi con esiti di straordinario interesse su una varietà di questioni che non hanno nulla a che fare con le miserie, le iniquità e la mancanza di libertà che affliggono la vita umana.

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La filosofia, però, può anche contribuire a dare maggiore rilevanza alle riflessioni sui valori e sulle priorità, nonché a quelle sulle privazioni, le angherie e le umiliazioni cui in tutto il mondo gli esseri umani sono soggetti». Sen è soprattutto per il secondo esercizio della filosofia, e dell’economia, e chiunque oggi voglia fare altrettanto, deve incontrare il magistero di Sen su questi e altri temi. 

Sen (ottant’anni) è uno degli intellettuali globali più influenti oggi in circolazione, ed è anche un grande economista (premio Nobel nel 1998), perché è più grande della scienza economica, incarnando così con la sua vita e opera una frase cara a molti economisti del passato: «Un economista che è solo economista è un cattivo economista».

Sen è stato uno studioso che non solo ha portato contributi rilevanti in temi classici dell’economia e ormai della filosofi a politica, rispondendo meglio ad alcune domande di sempre su povertà, diseguaglianza, scelte collettive. Sen ha anche cambiato le domande della scienza economica
inserendo fra i temi di cui anche l’economia deve occuparsi il tema dei diritti, della libertà e quindi delle ormai note capabilities (la reale capacità di fare ed essere). Da queste nuove e antiche domande, Sen è arrivato ad occuparsi di well-being (ben-essere), altra sua parola chiave, un concetto che egli ha voluto distinguere da happiness (felicità).

Per Sen il well-being si misura sulla base di che cosa una persona fa, non di quanto sente (happiness): quindi è faccenda di libertà, diritti, capacità e funzionamenti. Per capire, allora, il messaggio di Sen occorre accostare la sua opera, molto vasta, ai classici del pensiero, Adam Smith, J.S. Mill, Karl Marx, o J.M. Keynes; economisti che avevano posto al centro delle loro riflessioni i grandi temi dello sviluppo, la ricchezza delle nazioni e la pubblica felicità, e quindi il grande tema della distribuzione del reddito, della povertà e della ricchezza, la disuguaglianza e l’equità.

Nomi che si incontrano sempre nei testi e nelle lezioni di Sen, compresa l’ultima tenuta a Roma il 18 gennaio 2013, in occasione del Festival
delle scienze, quest’anno dedicato alla “Felicità”, dove ha parlato di felicità, diseguaglianza, Europa.

Sen ha parlato di happiness, in particolare, all’interno di un ricco dibattito che va avanti da almeno 40 anni. L’economista indiano ha iniziato ad occuparsi di benessere, o well-being, come ama dire, all’inizio degli anni Ottanta. Il periodo in cui è iniziato il filone di ricerca sull’“Economia della felicità”: studiavano la felicità delle persone sulla base dell’ipotesi di poter misurare la felicità soggettiva grazie a dei questionari. La domanda principale nei formulari è la seguente: «Pensa alla peggiore situazione nella quale potresti trovarti: assegnale zero punti; ora pensa alla situazione migliore in assoluto, e assegnale 10. Valuta, infi ne, la tua situazione presente con un voto tra 0 e 10». Secondo tali studiosi questi numeri possono essere confrontati anche tra persone diverse e in differenti Paesi. A partire da questa forte tesi si è giunti a mostrare soprattutto che il reddito pro capite (e il Pil) conta poco, o certamente meno di quanto gli economisti pensino, nella felicità delle persone.

Sen ha, quindi, un suo modo di accostarsi al tema della felicità, e ce lo ha detto anche nella conferenza romana. Ho avuto la gioia e l’onore di introdurre Sen in questa conferenza, e di stare con lui l’intera giornata. Lo avevo conosciuto da studente, nel 1988, in un convegno a Roma, e non
l’ho più perso di vista, poiché lo considero come uno dei miei maestri di pensiero. Al Festival delle scienze abbiamo avuto modo di parlare di molte
cose, in un dialogo ricco, tra economia, politica, filosofi a e vita.

Professor Sen, lei ha una sua posizione originale riguardo gli studi sulla felicità. In generale sembra essere critico nei confronti del modo con cui oggi economisti e sociologi misurano la felicità. È così?

«Sì e no. Se per felicità, o meglio happiness, poiché il significato della parola inglese non è esattamente quello dell’italiana “felicità”, intendiamo
quanto il pensiero utilitarista di J. Bentham evidenziava con questa espressione, allora non posso che essere critico, come tutta la mia critica
all’utilitarismo di questi decenni dice. Ma dobbiamo intenderci su cosa intendiamo con happiness, e che posto occupa nella vita delle persone».

E come cambia?

«Non ci sono dubbi sul fatto che la felicità sia qualcosa di grande da ottenere. Ma non è la sola cosa per la quale abbiamo ragioni per attribuirle
valore. Il problema allora si pone quando costruiamo una teoria etica, come fanno gli utilitaristi (Bentham in particolare), basata soltanto sulla felicità, misurata come differenza tra i piaceri e le pene, una prospettiva, questa, che sta avendo un grande revival in questi ultimi anni. Questa visione ristretta del benessere basato sulla felicità (happiness) è molto problematica e pericolosa quando la usiamo per confronti tra diverse condizioni di deprivazione e miseria delle persone. In effetti, le valutazioni della propria felicità sono soggette a effetti di adattamento, poiché le persone si adattano a circostanze anche molto sfavorevoli, pur di sopravvivere. Ma la capacità di adattamento delle persone può portare a trarre conclusioni, anche di politiche sociali ed economiche, sbagliate».

Questo tema, noto come “lo schiavo felice”, è una delle costanti del pensiero di Amartya Sen sulla felicità. Andrebbe stampato e affisso alle pareti di ogni istituzione e organizzazione che si occupa di sviluppo umano o di lotta alla indigenza. Così scriveva l’economista nativo del Bengala, nel 1993: «Si prenda in considerazione una persona molto svantaggiata che sia povera, sfruttata, di cui si abusi lavorativamente e che sia malata, ma che le condizioni sociali hanno reso soddisfatta della propria sorte (per mezzo ad esempio della religione, della propaganda politica o dell’atmosfera culturale dominante). Possiamo forse credere che se la cavi bene perché è felice e soddisfatta?».

Mi sembra una critica molto importante e totalmente condivisibile. La coautrice di Sen, la filosofa Martha Nussbaum, dice che esistono delle “buone pene” e “cattivi piaceri”, come le buone sofferenze legate alle lotte per la conquista dei diritti per sé e per gli altri, o i cattivi piaceri di chi cerca nell’abusare di altre persone. Quindi il semplice criterio di massimizzare i piaceri e minimizzare le pene non dice nulla, o troppo poco, sulla qualità della vita di una comunità o società.

Il lavoro con altri economisti (Stiglitz e Fitoussi) per l’ individuazione di nuovi indicatori di benessere, che superino il Pil, si basa sulla impossibilità di affidarsi alla sola misurazione della felicità soggettiva?

«È proprio così. Infatti ho molti dubbi che la felicità individuale sia un buon indicatore del benessere (well-being) delle persone. Come detto, la metrica utilitaria basata esclusivamente sulla felicità può essere molto ingiusta nei confronti di coloro che sono sistematicamente deprivati. Ad esempio, per coloro che si trovano agli ultimi posti delle nostre società stratificate, minoranze oppresse in comunità intolleranti, e cioè i disoccupati e i precari che vivono in un mondo con grandi incertezze, lavoratori sfruttati in contesti industriali, o casalinghe sottomesse in culture sessiste. Certo, grazie alla loro capacità di adeguarsi alle condizioni di vita, riescono a sopravvivere, ma questi adattamenti distorcono le valutazioni soggettive della felicità di queste persone. Nella valutazione delle condizioni di vita e di benessere delle persone più povere della società, gli indicatori di felicità ci dicono molto meno di altri indicatori sulle condizioni oggettive di deprivazione e mancanza di libertà. Essere riconciliati e contenti con i propri svantaggi, è cosa ben diversa dal non avere questi svantaggi».

Per lei, professor Sen, in linea con Aristotele e tutta la tradizione classica dell’etica delle virtù, la “vita buona” si misura dunque sulla base di quanto la gente “fa e può fare”, non in base a che cosa “sente”. Come a dire che le moderne democrazie hanno bisogno di più indicatori di benessere (incluso il Pil), poiché qualunque riduzione ad un solo indicatore, compreso un indicatore di felicità, mette sempre in pericolo la democrazia e la libertà.

«Sì, credo che anche gli indicatori basati sulla felicità siano molto problematici, perché fanno commettere errori gravi a danno delle persone più
svantaggiate della società. E come ho avuto modo di scrivere nel mio ultimo libro, L’idea di giustizia: “Non c’è bisogno di essere Gandhy (o Martin
Luther King o Nelson Mandela o Aung San Suu Kyi) per comprendere che gli obiettivi e le priorità di una persona possono andare ben al di là
degli angusti confini del ben-essere e della felicità individuale”».

Vorrei chiudere con la frase di Dante con cui ha aperto la sua conferenza all’Auditorium della musica di Roma alla presenza di oltre 700 persone (quelli che hanno trovato i biglietti): «O gente umana, per volar su nata, perché a poco vento così cadi?» (Purgatorio, XII).

«In effetti, la domanda di Dante è molto importante. È grande il contrasto tra le grandi cose che gli esseri umani possono raggiungere, e le esistenze così povere e limitate che molti uomini e donne finiscono per vivere. Le potenzialità degli esseri umani – di condurre una vita buona, di essere contenti e felici, di essere liberi – sono molto maggiori di quanto riusciamo, concretamente a realizzare».

Se il compito dell’economista, almeno di quelli come Sen, fosse quello di studiare per contribuire a ridurre gli ostacoli oggettivi e soggettivi che ci
impediscono di esprimere al meglio le nostre potenzialità, allora fare l’economista sarebbe un buon mestiere.

 

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Uno studioso che cita Dante e capovolge il pensiero dominante. Intervista esclusiva con il Premio Nobel.

a cura di Luigino Bruni

Pubblicato su Città Nuova n.3/2013 il 10/02/2012

Sen_YunusPer capire chi è Amartya Sen, un buon punto di partenza sono le ultime parole del suo libro del 2010, L’idea di giustizia (Mondadori): «La filosofia può esercitarsi con esiti di straordinario interesse su una varietà di questioni che non hanno nulla a che fare con le miserie, le iniquità e la mancanza di libertà che affliggono la vita umana.

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Amartya Sen. Cambiamo l'economia

Amartya Sen. Cambiamo l'economia

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Editoriali - Finanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.2/2013 del 25/01/2013

Euro_ridNei giorni scorsi, molti (non tutti) hanno gioito per il raggiunto accordo fiscale negli Usa, che non ha solo aumentato di poco la tassazione dei super-ricchi, ma ha innalzata l’imposta sulle rendite fi nanziarie dal 15 al 20 per cento.

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Buona notizia, ma la domanda cruciale è un’altra: come mai la tassazione delle rendite è così bassa? Anche in Italia siamo attorno al 20 per cento per le rendite finanziarie, che è molto meno della tassazione del reddito d’impresa (ben oltre il 30 per cento), per non parlare del lavoro (oltre il 40 per cento). Si tassano soprattutto i lavoratori (cioè le famiglie, e il ceto medio-basso), poi gli imprenditori, e infine i percettori di rendite.

Perché? Dal punto di vista etico questa domanda non trova nessuna risposta; per cercarla dobbiamo parlare del potere. Anche se non si dice più, nelle nostre società esistono ancora le classi dominanti, che hanno il controllo delle regole del gioco, che scrivono a proprio vantaggio.

Ma c’è di più. Se guardiamo i nostri sistemi fiscali, ci accorgiamo che il vero conflitto sociale oggi non si trova più tra lavoro e capitale, tra operai e padroni, come siamo stati abituati a pensare per oltre un secolo. Non è più la fabbrica il luogo dove guardare per capire la dinamica sociale e i veri potenti. Il vero conflitto è tra le rendite e l’intero mondo del lavoro, lavoratori e imprenditori assieme, anche perché la fi nanza e le banche hanno in mano le stesse imprese. La sostituzione degli imprenditori tradizionali con nuovi speculatori e top manager superpagati è una delle più gravi malattie del nostro tempo.

Chi oggi ha veramente a cuore le ragioni del bene comune deve dunque leggere il mondo con occhi diversi. Innanzitutto comprendere che è
l’intero mondo del lavoro che sta soffrendo, schiacciato dalle troppe rendite di pochi. Di questo mondo del lavoro non fanno parte gli speculatori e i redditieri, mentre vi appartiene il vero imprenditore, che soffre come – e a volte più – degli operai. Supereremo questa profonda crisi solo con una nuova lettura della realtà, e poi con un nuovo impegno per cambiarla, nella giusta direzione.

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Editoriali - Finanza

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Conflitto fra lavoro e rendite

Conflitto fra lavoro e rendite

Editoriali - Finanza di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.2/2013 del 25/01/2013 Nei giorni scorsi, molti (non tutti) hanno gioito per il raggiunto accordo fiscale negli Usa, che non ha solo aumentato di poco la tassazione dei super-ricchi, ma ha innalzata l’imposta sulle rendite fi nanzia...
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L'augurio di Luigino Bruni, docente di Economia politica all’università Lumsa di Roma è che nascano scuole popolari che si occupino non solo di parole economiche come spread, fiscal compact e spending review ma che aiutino a governare la democrazia

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova.it il 01/01/2013

Operatore_borsa_ridIl 2012 è stato soprattutto l’anno della crisi economica e dell’invasione dell’economia nelle nostre vite. Parole come spread, spending review, fiscal compact (tutte parole inglesi, e non a caso, essendo questa la lingua dell’economia globalizzata), sono diventate consuete nei pasti delle famiglie e hanno determinato preoccupazioni e speranze. La crisi non solo non è finita ma è solo all’inizio, come è solo l’inizio la centralità dell’economia nelle nostre vite, una economia che è diventata la nuova grammatica della società. La crisi sarà lunga perché il mondo è cambiato e ha reso velocemente obsoleto il sistema economico italiano, anche per istituzioni che non hanno fatto le scelte giuste negli anni giusti (Ottanta e Novanta).

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È stata e sarà crisi del lavoro, e quindi della vita. Altra lezione di questo anno è l’importanza dell’economia per la vita della gente, e quindi l’invito ad occuparcene di più tutti, senza lasciarlo agli addetti ai lavori. Non aspettare che il lavoro arrivi, ma inventarlo, e possibilmente assieme. Infine, per poter gestire e governare l’economia occorre studiarla e capirla. Mi auguro che nascano scuole popolari di (buona) economia, nelle parrocchie, associazioni e movimenti, perché senza capire oggi le parole dell’economia non si capisce e non si governa la democrazia, piombata in una profonda crisi. Da questa lunga e profonda notte usciremo lavorando di più e diversamente, studiando meglio, giovani e tutti.

 

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L’economia è la nuova grammatica

L’economia è la nuova grammatica

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Verso le elezioni

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 22/2012 del 25/11/2012

J_M_KeynesIl rapporto tra economia e politica è una delle direttrici su cui su sta snodando la campagna elettorale per le prossime elezioni. E non potrebbe essere diversamente, dato il peso che sta prendendo la vita economica, incluso il lavoro, nel benessere e malessere delle nostre famiglie, soprattutto di quelle giovani con bambini.

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Ma, e qui sta il punto, l’economia negli ultimi decenni si è tremendamente complicata, per un cambiamento radicale della natura dei rapporti economici e sociali (la globalizzazione), e la formazione economica dei leader dei partiti politici è spesso obsoleta per capire finanza e mercati contemporanei.

Questa difficoltà di comprensione di che cosa sta accadendo nell’economia e nella finanza, sta avendo due conseguenze, entrambi cruciali per la nostra democrazia. Il grande economista inglese J.M. Keynes diceva quasi un secolo fa che normalmente i policy makers sono spesso “schiavi” ideologici di "scribacchini". Questi scribacchini una volta erano gli economisti teorici; oggi sono brillanti giornalisti che si stanno trasformando in teorici economici senza teoria, che dalle loro cattedre impartiscono quotidianamente lezioni e ricette. Nel Novecento alcuni grandi economisti furono anche ottimi giornalisti e politici (pensiamo allo stesso Keynes, e in Italia a Luigi Einaudi).

Oggi assistiamo al processo inverso, anche a causa della assenza di bravi economisti che vogliano e sappiano parlare alla gente. E molti pensano di risolvere la complessità della economia attuale rimuovendola, offrendo slogan e battute mediatiche che hanno solo il neo di essere quasi sempre sbagliate. Oppure, seconda conseguenza non meno grave, di fronte alla complessità della sfera economica, e alla sua grande rilevanza in tempi di crisi, i politici rinunciano alla loro vocazione di sintesi, e si affidano interamente agli economisti, perché capaci di decifrare la complessa trama dei mercati, dimenticando così che l’economia è sempre un particolare, non è mai sintesi.

C’è bisogno di un forte investimento in cultura economica, a partire dalle scuole dove è di fatto assente qualsiasi formazione economica. Oggi la democrazia passa anche nella capacità di capire che cosa sta accadendo nei mercati sopra le nostre teste, e poi poter scegliere liberamente, anche i nostri governanti. 

 

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Verso le elezioni

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 22/2012 del 25/11/2012

J_M_KeynesIl rapporto tra economia e politica è una delle direttrici su cui su sta snodando la campagna elettorale per le prossime elezioni. E non potrebbe essere diversamente, dato il peso che sta prendendo la vita economica, incluso il lavoro, nel benessere e malessere delle nostre famiglie, soprattutto di quelle giovani con bambini.

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Politici ed economisti

Politici ed economisti

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Editoriali - Crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.21/2012 del 10/11/2012

Giochi_in_borsa_ridNelle settimane scorse si è molto discusso della sentenza di condanna degli scienziati che hanno sbagliato a prevedere il terremoto de L'aquila. Non è invece mai stato fatto un processo, nè abbiamo mai discusso pubblicamente e seriamente, per quegli scienziati sociali, gli economisti, che hanno totalmente sbagliato le previsioni di questa crisi, e hanno dato consigli pessimi alla popolazione.

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Eppure le vittime non sono mancate neanche in questo secondo caso (si pensi solo ai tanti suicidi di imprenditori), le case continuano a crollare, e le macerie continuano ad accumuaccesi nelle nostre famiglie e comunità. In questa crisi c'è infatti una diretta e grave responsabilità di molti economisti, alcuni dei quali hanno ricevuto il premio nobel, che hanno teorizzato che la totale liberalizzazione e anarchia dei mercati finanziari avrebbe portato a maggiore efficienza e a più ricchezza per tutti, senza alcun serio rischio di sistema.

In realtà si sono sbagliati e di grosso: la grande ricchezza creata dalla finanziarizzazione dell'economia è stata ricchezza che non solo non ha creato vero sviluppo economico, ma ha distratto risorse dall'economia produttiva. Molti, troppi, imprenditori e banche hanno trovato troppo più conveniente investire nella finanza che nelle imprese, e così anche in Italia ci ritroviamo oggi con imprese sottocapitalizzate, che non riescono più a creare lavoro vero.

Ma c'è ancora un ulteriore elemento che aumenta la responsabilità di noi economisti: le errate previsioni dei sismologi non hanno causato il terremoto, che era ignaro dei dibattiti tra scienziati. Le errate ipotesi e previsioni dei modelli economici, invece, influenzano anche i comportamenti effettivi delle persone, perchè a forza di formare studenti di economia e manager sulla base di teorie che oggi possiamo chiamare errate, sono aumentati in questi decenni azioni imprudenti e dannose per il bene comune. Questa crisi deve allora essere una occasione per una nuova stagione di responsabilità morale e civile degli economisti, che dobbiamo rivedere le ipotesi base delle nostre teorie, per uscire da questa crisi, e non causarne di nuove

 

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Editoriali - Crisi

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pubblicato su Città Nuova n.21/2012 del 10/11/2012

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Un processo agli economisti

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Lavoratori volontari

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 20/2012 del 25/10/2012

Antichi_mestieriQualche giorno fa una mia amica e lettrice di Città Nuova mi esprimeva alcuni dubbi su un fenomeno che sembrerebbe tutto e solo positivo. Mi raccontava infatti delle varie iniziative spontanee in aumento in questi tempi di crisi di chi si offre a fare torte per compleanni o matrimoni, il parrucchiere per amici e amiche, come forma di (quasi) volontariato per tutte quelle persone che oggi fanno fatica a permettersi i prezzi di mercato per questi beni e servizi.

Il problema è che queste attività sono anche una forma di non voluta concorrenza sleale nei confronti di parrucchieri e pasticceri che in questi anni faticano a portare avanti correttamente le loro attività e a pagare i loro dipendenti.

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Se infatti allarghiamo lo sguardo e passiamo da questi fenomeni, che potrebbero sembrare tutto sommato di poco conto, all’economia sociale e civile (che in Italia occupa circa il 10 per cento dei lavoratori), ci accorgiamo subito che il problema sollevato dalla mia amica tocca un punto delicato e importante del nostro sistema economico e civile.

Si sta infatti creando una strana guerra fra poveri, quella fra molte cooperative sociali che debbono stare sul mercato e alcune forme di volontariato le quali, potendo utilizzare lavoratori volontari (un volontariato dove spesso il rimborso spese è una forma di salario-ombra molto più basso di quello di mercato), partecipano a bandi pubblici e li vincono grazie ai prezzi stracciati che riescono a offrire. E questo è grave, perché oggi più che mai il vero volontariato deve essere sussidiario all’impresa civile e al lavoro regolarmente remunerato, e non un suo sostituto, altrimenti si verifi cherebbe il paradosso di volontari che, grazie all’attenzione che ricevono, fi niscono di fatto, ovviamente senza volerlo, ad aumentare la disoccupazione e la recessione nel nostro Paese.

La gratuità è l’energia vitale di tutta l’economia, non solo di quella sociale e civile, ma la gratuità vera è sempre alleata del lavoro vero, dei contratti, dei diritti. E, quando ciò non si verifi ca, si ammalano l’economia e anche il vero volontariato.

 

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Lavoratori volontari

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pubblicato su Città Nuova n. 20/2012 del 25/10/2012

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Una guerra tra poveri

Una guerra tra poveri

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Un esempio di scelta tragica tra due beni: il diritto-dovere al lavoro e il diritto-dovere alla salvaguardia della salute e del creato.

di Luigino Bruni

Pubblicato su: Città Nuova n.17/2012 - 10/09/2012

120817_Manifestazione_ILVA_Taranto_02_ridC’è una branca della scienza economica che studia le cosiddette “scelte tragiche”. Le più classiche e quasi epiche sono quelle che si trova di fronte il comandante della scialuppa di salvataggio troppo affollata (uno fuori o il rischio di affondare tutti?), o l’imprenditore che deve decidere tra il licenziamento di qualche operaio (che per il vero imprenditore è sempre scelta molto dolorosa) o il rischio di fallimento dell’intera impresa.

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La scelta tragica è quella tra due cose “cattive”, mentre la scelta drammatica è quella tra un male e un bene, dove è chiara la direzione da prendere, anche se dolorosa. Esiste però un’altra versione delle scelte tragiche, sempre più frequente nel nostro mondo: quella tra due beni, tra due cose buone. Quanto sta avvenendo con l’Ilva di Taranto (e con la Sulcis di NuraxiFigus, che presenta tratti analoghi), è un esempio di scelta tragica tra due beni: il diritto-dovere al lavoro e il diritto-dovere alla salvaguardia della salute e del creato).

Quando la vita civile porta le persone a scelte tragiche tra due beni, ciò è un segnale di una crisi profonda, e inedita nella nostra storia. E quando ciò accade, il conflitto sociale non è più dentro la fabbrica tra padroni e operai, o tra rendite e profitti e salari, ma dentro delle stesse famiglie e all’interno delle stesse persone. Il conflitto viene ad abitare dentro casa e dentro di noi, perché sono le stesse famiglie che debbono lavorare e che non vogliono morire di inquinamento. E questo fatto nuovo ci pone domande nuove alle quali non sappiamo rispondere, perché non è possibile rinunciare a nessuno di queste due cose buone, e se lo facciamo ci laceriamo, individualmente e come società. Ciò che è certo che in queste nuove forme di tragedie, il classico confronto sociale (sindacati da una parte e il capitale dall’altro) non funziona più, perché operai, sindacalisti, managers, amministratori locali, magistrati, hanno tutti il conflitto dentro casa e dentro di loro.

Ecco perché a Taranto, e in Sardegna, si sta giocando una partita molto più grande di quei territori, e non possiamo darci pace finché non trasformiamo la tragedia in dramma, perché dietro quelle imprese si nasconde una sfida decisiva per la nostra civiltà.

 

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Un esempio di scelta tragica tra due beni: il diritto-dovere al lavoro e il diritto-dovere alla salvaguardia della salute e del creato.

di Luigino Bruni

Pubblicato su: Città Nuova n.17/2012 - 10/09/2012

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Ilva di Taranto, domande inedite

Ilva di Taranto, domande inedite

Un esempio di scelta tragica tra due beni: il diritto-dovere al lavoro e il diritto-dovere alla salvaguardia della salute e del creato. di Luigino Bruni Pubblicato su: Città Nuova n.17/2012 - 10/09/2012 C’è una branca della scienza economica che studia le cosiddette “scelte tragiche”. Le più clas...
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Accettai di pagare 100 euro in più non solo per il valore della legalità, ma anche per sdegno. Le persone sono disposte a sostenere dei costi quando percepiscono comportamenti iniqui.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.15-16, 10/08/2012

Taxi_ridPer capire la cultura di un popolo, con le sue luci e le sue ombre, occorre stare in mezzo alla gente. «Quanto costa arrivare al centro di Roma?», ho chiesto qualche giorno fa a Fiumicino. «50 euro», ha risposto il tassista. «Ma – ha aggiunto – se condividi il viaggio con questo signore, posso fare 40 ciascuno». Per lui 80, per noi lo sconto di 10 euro. Peccato che il regolamento dica 50 euro a corsa, non a persona. Quando ho espresso il mio disappunto, il tassista ha replicato: «Ma scusa: che te interessa se io guadagno de più, tu pensa al tuo risparmio».

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Pessimo tassista, perché non sa che la gente non è interessata in uno scambio di mercato solo al proprio guadagno, ma anche all’equità. La stessa equità che, qualche mese fa, mi fece “punire” il meccanico, che dopo aver ripulito i filtri della mia auto nella quale un benzinaio aveva messo benzina al posto del diesel, mi disse: «400 euro senza, o 500 con fattura». Accettai di pagare 100 euro in più non solo per il valore della legalità, ma anche per sdegno. Ormai molti studi fanno vedere, con dati empirici e sperimentali, che le persone sono disposte a sostenere dei costi quando percepiscono negli altri comportamenti iniqui.

Oggi in Italia si sta deteriorando un patrimonio di virtù civili costruito nei secoli. La virtù civile non è solo pagare le proprie tasse e adempiere alle leggi, ma anche sostenere dei costi per rimproverare gli altri concittadini. Per uscire dalla crisi c’è bisogno di una rinascita civile, insieme alla riduzione di spread e debito pubblico. Ma per ricreare il tessuto civile ormai troppo deteriorato non è sufficiente che ciascuno faccia il proprio dovere: è necessario prendersi cura degli altri concittadini, rimproverandoli quando c’è bisogno, e premiandoli, anche con un grazie, quando si può. Ci sono troppi pochi rimproveri civili, ma ci sono anche troppi pochi “grazie” e “buongiorno” lungo le strade. L’altro giorno a Milano ho provato a dire buongiorno a uno sconosciuto: si è preso paura, non più abituato a queste parole. Ma senza queste parole, antiche e nuove, non si ricrea quel tessuto civile indispensabile per uscire da ogni crisi, individuale collettiva ed economica.

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Accettai di pagare 100 euro in più non solo per il valore della legalità, ma anche per sdegno. Le persone sono disposte a sostenere dei costi quando percepiscono comportamenti iniqui.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.15-16, 10/08/2012

Taxi_ridPer capire la cultura di un popolo, con le sue luci e le sue ombre, occorre stare in mezzo alla gente. «Quanto costa arrivare al centro di Roma?», ho chiesto qualche giorno fa a Fiumicino. «50 euro», ha risposto il tassista. «Ma – ha aggiunto – se condividi il viaggio con questo signore, posso fare 40 ciascuno». Per lui 80, per noi lo sconto di 10 euro. Peccato che il regolamento dica 50 euro a corsa, non a persona. Quando ho espresso il mio disappunto, il tassista ha replicato: «Ma scusa: che te interessa se io guadagno de più, tu pensa al tuo risparmio».

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€ 400 senza, € 500 con fattura

€ 400 senza, € 500 con fattura

Accettai di pagare 100 euro in più non solo per il valore della legalità, ma anche per sdegno. Le persone sono disposte a sostenere dei costi quando percepiscono comportamenti iniqui. di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.15-16, 10/08/2012 Per capire la cultura di un popolo, con le sue luc...
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Acepté pagar 100 euros más no sólo por el valor de la legalidad, sino también por desdén. Las personas están dispuestas a asumir un coste cuando perciben comportamientos inicuos.

por Luigino Bruni

publicado en Città Nuova n.15-16, 10/08/2012

Taxi_ridPara comprender la cultura de un pueblo, con sus luces y sus sombras, hay que estar entre la gente. «¿Cuánto cuesta llegar al centro de Roma?», pregunté hace unos días en el aeropuerto de Fiumicino. «50 euros», respondió el taxista. «Pero –  agregó – si comparte el viaje con este señor, puedo cobrarles 40 a cada uno». Para él 80, para nosotros un descuento de 10 euros. Lástima que el reglamento diga 50 euros por carrera y no por persona. Cuando expresé mi desacuerdo, el taxista replicó: «Pero disculpa: ¿a ti qué te importa si yo gano más? tú piensa en lo que te ahorras».

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Pésimo taxista, porque no sabe que a la gente, cuando realiza un intercambio de mercado, no le importa sólo su propia ganancia, sino también la justicia. La misma justicia que, hace unos meses, me llevó a “castigar” al mecánico que, después de limpiar los filtros de mi automóvil en el que me pusieron gasolina en lugar de diesel, me dijo: «son 500 con factura o 400 sin ella». Acepté pagar 100 euros más no sólo por el valor de la legalidad, sino también por indignación. Ya hay muchos estudios que muestran con datos empíricos y experimentales que las personas están dispuestas a asumir un costo cuando perciben que los demás se comportan de modo injusto.

Hoy en Italia se está deteriorando un patrimonio de virtudes cívicas construido durante siglos. La virtud cívica no consiste sólo en pagar los impuestos y cumplir las leyes, sino también en asumir el coste de un reproche dirigido a otros conciudadanos. Para salir de la crisis hae falta una regeneración cívica, además de la reducción de la prima de riesgo y la deuda pública. Pero para recrear el tejido civil, demasiado deteriorado ya, no es suficiente que cada uno haga sus deberes: es necesario hacerse cargo de los otros conciudadanos, reprochándoles cuando hay necesidad, y premiándoles, a veces con un “gracias”, cuando se puede. Los reproches cívicos son demasiado escasos, pero hoy también se dice pocas veces “gracias” y “buenos días” por la calle. El otro día en Milán le dije “buenos días” a un desconocido; le dio miedo, no estaba acostumbrado ya a estas palabras. Pero sin estas palabras, antiguas y nuevas, no se recrea aquel tejido civil indispensable para salir de toda crisis, individual colectiva y económica.

 

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Acepté pagar 100 euros más no sólo por el valor de la legalidad, sino también por desdén. Las personas están dispuestas a asumir un coste cuando perciben comportamientos inicuos.

por Luigino Bruni

publicado en Città Nuova n.15-16, 10/08/2012

Taxi_ridPara comprender la cultura de un pueblo, con sus luces y sus sombras, hay que estar entre la gente. «¿Cuánto cuesta llegar al centro de Roma?», pregunté hace unos días en el aeropuerto de Fiumicino. «50 euros», respondió el taxista. «Pero –  agregó – si comparte el viaje con este señor, puedo cobrarles 40 a cada uno». Para él 80, para nosotros un descuento de 10 euros. Lástima que el reglamento diga 50 euros por carrera y no por persona. Cuando expresé mi desacuerdo, el taxista replicó: «Pero disculpa: ¿a ti qué te importa si yo gano más? tú piensa en lo que te ahorras».

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500 euros con factura, 400 sin factura

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Editoriale - Economia

pubblicato su Citta Nuova n.12, 25 giugno 2012

Agora_Atene_ridAll’ombra della crisi finanziaria, economica e sempre più politica, si cela una grande domanda sul tipo di democrazia che stiamo costruendo. La democrazia moderna nasce profondamente legata agli Stati nazione, e alla subordinazione di mercati, banche e finanza al potere politico. Questo primato del politico sull’economico-finanziario è stata la pietra angolare dell’edificio civile moderno, una costruzione che è entrata in crisi, negli ultimi tre decenni, dalla globalizzazione dei mercati e la conseguenza anarchia della finanza speculativa, che hanno fatto saltare il primato della politica sui mercati.

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Quale democrazia stiamo allora realizzando e sperimentando in Europa e nel capitalismo? È ancora presto per dirlo, ma ciò che è certo è che la situazione che si sta determinando è qualcosa di diverso e di distante dalla democrazia che conoscevamo. Gli indici di borsa e gli spread determinano nascite e fine di governi, le agende politiche e le riforme (anche la riforma dell’articolo 18, che non era certamente la priorità per l’Italia, è parte di questa agenda imposta dalle istituzioni finanziarie). Le dinamiche che sono dietro indici di borsa e spread non hanno a che fare con la democrazia: rappresentano invece gruppi esigui di popolazione che detengono titoli finanziari e che non subiscono, perché ricchi, le conseguenze delle crisi, e non perdono per essa il posto di lavoro.

Il premio Nobel Amartya Sen ha recentemente rimproverato Italia e Grecia di aver abdicato, sotto la pressione della finanza, alla democrazia che loro hanno inventato, quella democrazia che è soprattutto “governare discutendo” (government by discussion). La democrazia non la si custodisce con governi mondiali, anche perché oggi un governo mondiale – lo stiamo assaggiando in Europa,nella gestione della crisi greca – rispecchierebbe necessariamente i rapporti di forza tra gli Stati, mentre sarebbero necessarie authority mondiali, la prima per la finanza. La democrazia si protegge, e si ricrea, discutendo, partecipando e protestando, a tutti i livelli, anche, e soprattutto, quelli della finanza.

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