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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.2/2013 del 25/01/2013
Nei giorni scorsi, molti (non tutti) hanno gioito per il raggiunto accordo fiscale negli Usa, che non ha solo aumentato di poco la tassazione dei super-ricchi, ma ha innalzata l’imposta sulle rendite fi nanziarie dal 15 al 20 per cento.
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Buona notizia, ma la domanda cruciale è un’altra: come mai la tassazione delle rendite è così bassa? Anche in Italia siamo attorno al 20 per cento per le rendite finanziarie, che è molto meno della tassazione del reddito d’impresa (ben oltre il 30 per cento), per non parlare del lavoro (oltre il 40 per cento). Si tassano soprattutto i lavoratori (cioè le famiglie, e il ceto medio-basso), poi gli imprenditori, e infine i percettori di rendite.
Perché? Dal punto di vista etico questa domanda non trova nessuna risposta; per cercarla dobbiamo parlare del potere. Anche se non si dice più, nelle nostre società esistono ancora le classi dominanti, che hanno il controllo delle regole del gioco, che scrivono a proprio vantaggio.
Ma c’è di più. Se guardiamo i nostri sistemi fiscali, ci accorgiamo che il vero conflitto sociale oggi non si trova più tra lavoro e capitale, tra operai e padroni, come siamo stati abituati a pensare per oltre un secolo. Non è più la fabbrica il luogo dove guardare per capire la dinamica sociale e i veri potenti. Il vero conflitto è tra le rendite e l’intero mondo del lavoro, lavoratori e imprenditori assieme, anche perché la fi nanza e le banche hanno in mano le stesse imprese. La sostituzione degli imprenditori tradizionali con nuovi speculatori e top manager superpagati è una delle più gravi malattie del nostro tempo.
Chi oggi ha veramente a cuore le ragioni del bene comune deve dunque leggere il mondo con occhi diversi. Innanzitutto comprendere che è
l’intero mondo del lavoro che sta soffrendo, schiacciato dalle troppe rendite di pochi. Di questo mondo del lavoro non fanno parte gli speculatori e i redditieri, mentre vi appartiene il vero imprenditore, che soffre come – e a volte più – degli operai. Supereremo questa profonda crisi solo con una nuova lettura della realtà, e poi con un nuovo impegno per cambiarla, nella giusta direzione.
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pubblicato su Città Nuova n.2/2013 del 25/01/2013
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Il 2012 è stato soprattutto l’anno della crisi economica e dell’invasione dell’economia nelle nostre vite. Parole come spread, spending review, fiscal compact (tutte parole inglesi, e non a caso, essendo questa la lingua dell’economia globalizzata), sono diventate consuete nei pasti delle famiglie e hanno determinato preoccupazioni e speranze. La crisi non solo non è finita ma è solo all’inizio, come è solo l’inizio la centralità dell’economia nelle nostre vite, una economia che è diventata la nuova grammatica della società. La crisi sarà lunga perché il mondo è cambiato e ha reso velocemente obsoleto il sistema economico italiano, anche per istituzioni che non hanno fatto le scelte giuste negli anni giusti (Ottanta e Novanta).
Il rapporto tra economia e politica è una delle direttrici su cui su sta snodando la campagna elettorale per le prossime elezioni. E non potrebbe essere diversamente, dato il peso che sta prendendo la vita economica, incluso il lavoro, nel benessere e malessere delle nostre famiglie, soprattutto di quelle giovani con bambini.
Nelle settimane scorse si è molto discusso della sentenza di condanna degli scienziati che hanno sbagliato a prevedere il terremoto de L'aquila. Non è invece mai stato fatto un processo, nè abbiamo mai discusso pubblicamente e seriamente, per quegli scienziati sociali, gli economisti, che hanno totalmente sbagliato le previsioni di questa crisi, e hanno dato consigli pessimi alla popolazione.
Qualche giorno fa una mia amica e lettrice di Città Nuova mi esprimeva alcuni dubbi su un fenomeno che sembrerebbe tutto e solo positivo. Mi raccontava infatti delle varie iniziative spontanee in aumento in questi tempi di crisi di chi si offre a fare torte per compleanni o matrimoni, il parrucchiere per amici e amiche, come forma di (quasi) volontariato per tutte quelle persone che oggi fanno fatica a permettersi i prezzi di mercato per questi beni e servizi.
C’è una branca della scienza economica che studia le cosiddette “scelte tragiche”. Le più classiche e quasi epiche sono quelle che si trova di fronte il comandante della scialuppa di salvataggio troppo affollata (uno fuori o il rischio di affondare tutti?), o l’imprenditore che deve decidere tra il licenziamento di qualche operaio (che per il vero imprenditore è sempre scelta molto dolorosa) o il rischio di fallimento dell’intera impresa.
Per capire la cultura di un popolo, con le sue luci e le sue ombre, occorre stare in mezzo alla gente. «Quanto costa arrivare al centro di Roma?», ho chiesto qualche giorno fa a Fiumicino. «50 euro», ha risposto il tassista. «Ma – ha aggiunto – se condividi il viaggio con questo signore, posso fare 40 ciascuno». Per lui 80, per noi lo sconto di 10 euro. Peccato che il regolamento dica 50 euro a corsa, non a persona. Quando ho espresso il mio disappunto, il tassista ha replicato: «Ma scusa: che te interessa se io guadagno de più, tu pensa al tuo risparmio».
All’ombra della crisi finanziaria, economica e sempre più politica, si cela una grande domanda sul tipo di democrazia che stiamo costruendo. La democrazia moderna nasce profondamente legata agli Stati nazione, e alla subordinazione di mercati, banche e finanza al potere politico. Questo primato del politico sull’economico-finanziario è stata la pietra angolare dell’edificio civile moderno, una costruzione che è entrata in crisi, negli ultimi tre decenni, dalla globalizzazione dei mercati e la conseguenza anarchia della finanza speculativa, che hanno fatto saltare il primato della politica sui mercati.
«L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Così apre la Costituzione italiana. A distanza di quasi settant’anni da quando quelle parole furono scritte, sono ancora vere, reali? Non credo, o lo sono molto, troppo, meno. Nel fondare la nuova Italia sul lavoro, i padri costituenti volevano sottolineare che la Repubblica non era più fondata sui privilegi del sangue né sui titoli nobiliari, ma sul lavoro e sul lavorare, che è la prima e vera base di ogni democrazia.
È la famiglia il cuore pulsante del sistema economico ed è sempre lei l'aspetto sofferente con le sue maternità e paternità precarie, le sue fragilità ed incertezze in questo duro tempo di crisi economico-finanziaria. Ma è sempre alla stessa famiglia che si chiede "inopportunamente" di consumare di più per rilanciare la crescita e di lavorare poco e male.
L’economia ha un estremo bisogno di resurrezione. Ogni resurrezione è preceduta e preparata da una crisi, da un passaggio o cambiamento: non si risorge se prima, in qualche modo, non si muore. Nel sistema economico che abbiamo prodotto in questo ultimo secolo c’è, infatti, qualcosa che sta chiaramente morendo, ma c’è anche qualcosa di nuovo che sta arrivando all’orizzonte, sebbene occorrano “occhi di resurrezione” per riuscire a vederlo, e poi a riconoscerlo per quello che veramente è, cioè l’alba di un nuovo giorno.
Quando, dieci anni fa, entrammo nell’era dell’euro, l’evento fu accolto con grande entusiasmo, come l’inizio di una nuova stagione dell’Europa e del mondo. Un’unica moneta era un segno forte ed eloquente della volontà di unità. La scommessa era però che le economie degli Stati europei nel tempo avrebbero mostrato una convergenza, precondizione fondamentale perché la moneta unica esprimesse una economia sempre più una. A distanza di dieci anni, di fronte alla prima grande crisi della globalizzazione, ci siamo accorti che le istituzioni economiche create attorno all’euro erano troppo fragili, e così l’onda anomala dello tsunami partito dagli Usa nel 2008 ha travolto le troppo fragili istituzioni economiche e finanziarie. 