Città Nuova

Economia Civile

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su  pdf Città Nuova n.12/2016 (104 KB) di dicembre 2016

Sharing Economy ridNon è facile capire che cosa sta avvenendo veramente nel crescente fenomeno della cosiddetta sharing economy, economia della condivisione. Anche perché sotto questa l’espressione si raccolgono esperienze molto varie, a volte troppo varie.

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Innanzitutto una premessa. Per chi guarda il processo di sviluppo dell’economia di mercato da una prospettiva di lungo periodo, la sharing economy di oggi è una tappa coerente con l’evoluzione del rapporto tra mercato e società. Fin dall’inizio il mercato è cresciuto in sinergia con il sociale. Un migliaio di anni fa, in Italia, sono iniziati i prodromi dell’economia di mercato con due operazioni: abbiamo preso pezzi di vita in comune fino ad allora retti da norme e strumenti comunitari e li abbiamo messi sotto il controllo della moneta, e poi abbiamo inventato nuove relazioni che nascevano grazie ai nuovi strumenti economici e monetari. Così, invece di continuare a filare i vestiti nella famiglia o nel clan per l’auto-consumo, abbiamo iniziati a venderli e ad acquistarli nella piazza. E abbiamo incontrato persone e popoli finora sconosciuti, o nemici, grazie ai commerci di seta e spezie. La via della seta è stata una grande via di condivisione, per molti secoli, che ha collegato mercanti e civiltà lontane. L’economia di mercato è sempre vissuta di questo intreccio tra socialità e contratti, di beni economici e beni relazionali, di moneta e gratuità. Negli ultimi due secoli gli spazi sociali intrecciati con i mercati sono cresciuti molto, e oggi sono davvero pochi quei luoghi non raggiunti dallo scambio monetario. Sempre più il mercato cresce dando un prezzo ad attività che fino ad allora facevamo gratuitamente, e inventando così sempre nuovi rapporti di mutuo vantaggio per rispondere ai nostri bisogni e desideri.

È dentro questo lungo cammino dell’Occidente, e dell’Europa in particolare, che va letto quanto oggi sta accadendo all’interno del pianeta sharing economy. Se vogliamo tentare di dare una definizione sostanziale della sharing economy, potremmo chiamare con questo nome quelle attività dove si ritrovano, in dosi diverse, queste tre caratteristiche: a) il mercato convive con una qualche dimensione di gratuità (di tempo, di energie, di denaro); b) i contratti si intrecciano con i beni relazionali; c) lo scambio nasce da un mutuo vantaggio esplicito e intenzionale. La novità sta nel tenere queste tre dimensioni assieme, perché esperienze con una o due delle caratteristiche elencate sono sempre esistite. Se guardiamo le esperienze concrete, è la prima dimensione (a) quella più difficile da ritrovare nelle prassi, perché quando il mercato si affianca alla gratuità tende a spiazzarla, ma non sempre, e non necessariamente.

Nel suo insieme, dobbiamo comunque essere molto contenti dello sviluppo della sharing economy, che sta aumentando le occasioni di incontro e di reciprocità nel nostro tempo, facendo crescere la biodiversità delle forme economiche e civili della società.

Ci sono, però, degli effetti collaterali poco visibili prodotti dallo sviluppo della crescita della sharing economy. Pensiamo, per un altro esempio, ai cosiddetti ‘home restaurant’, quelle famiglie che invitano persone sconosciute a cena a prezzi più bassi di quelli dei ristoranti. Se questo fenomeno cresce si potrà arrivare al giorno in cui nessuno ti inviterà a cena se non gli lasci almeno un’offerta. E chi non ha le possibilità economiche, sarà sempre più costretto a stare a casa propria. Ovviamente questi fenomeni diventano socialmente rivelanti quando superano ‘un punto critico’. Ma, purtroppo, i punti critici si superano quasi sempre senza esserne coscienti, e una volta superati rimangono dietro le spalle e non li vediamo più. E potremo presto ritrovarci in un mondo dove un amico ci chiederà 20 euro per ascoltarci un’ora, facendoci lo sconto del 50% rispetto al prezzo nel neo-nato mercato degli ascolti a pagamento. E avremo dimenticato l’antica verità che ascoltare un amico ha un valore infinito proprio perché non ha prezzo, perché è impagabile.

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

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Economia e condivisione

Economia e condivisione

Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su  pdf Città Nuova n.12/2016 (104 KB) di dicembre 2016 Non è facile capire che cosa sta avvenendo veramente nel crescente fenomeno della cosiddetta sharing economy, economia della condivisione. Anche perché sotto questa ...
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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n.11/2016 (116 KB) di novembre 2016

Emozioni a Firenze ridNelle grandi imprese del nostro tempo sta crescendo velocemente l’attenzione alla gestione delle emozioni. Le organizzazioni economiche iniziano ad avvertire d’istinto che stiamo dentro una profonda trasformazione antropologica, e cercano, come possono, di trovare le soluzioni. Il capitalismo, per la sua capacità di anticipare i bisogni e i desideri, sta comprendendo che nel nostro tempo c’è un oceano di solitudini, di carestie di attenzione e di tenerezza, di mancanza di stima e di riconoscimento, di bisogno di essere visti e amati, dalle dimensioni inedite e immense.  E si sta attrezzando per soddisfare anche questa ‘domanda’ dei nuovi mercati.

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Dall’altra parte, i protagonisti della nostra economia sanno che la fragilità emotiva dei lavoratori è un suo vulnus sempre più grande. Una fragilità dovuta alla scomparsa quasi improvvisa di tutto un patrimonio millenario di coltivazione e di educazione delle emozioni. Le generazioni passate avevano imparato a vivere insieme sofferenze, gioie, crisi, ad elaborare i lutti. La letteratura, la pietà popolare, le poesie, ci avevano insegnato come soffrire per il dolore degli altri, anche di chi non vedremo e non abbracceremo mai. Il lutto era un evento totale, che nel suo tempo limitato assorbiva tutto (a casa mia quando moriva un vicino non si accendeva la TV). Quella gestione delle emozioni ci aveva così insegnato a soffrire per gli sconosciuti; ma senza religioni, letteratura, arte si piange solo per la natura (parenti e amici intimi), non si piange per la cultura: per gli sconosciuti, che non sono mai così sconosciuti da non sentirli fratelli. Noi questa gestione delle emozioni l’abbiamo dimenticata, e ci troviamo in una specie di ‘sabato santo delle emozioni’, in attesa di una resurrezione.

Un segnale di questa emergenza emotiva del nostro capitalismo è la presenza sempre più massiccia nelle imprese di coach, counselor, psicologi aziendali, la crescita dell’offerta di nuovi master in “Gestione delle risorse emotive”, “Sviluppo dell’intelligenza emotiva”. Tutto ciò dice che la crisi emozionale grande, e che da essa originano tanti nuovi conflitti relazionali e il malessere dell’anima - a lavoro e a casa.

I risultati sono per ora nell’insieme piuttosto deludenti, e non potrebbe essere altrimenti, poiché nelle imprese si stanno sempre più concentrando le grandi contraddizioni del nostro tempo. La fabbrica non è più la ‘morfologia del capitalismo’. Non può allora essere l’impresa a curare la povertà emotiva dei suoi lavoratori, perché la malattia è molto più vasta di quella che si manifesta all’interno dei suoi confini.

Pensiamo, ad esempio, all’enorme cambiamento anche lavorativo che sta generando l’evoluzione di internet. Molte relazioni sociali vengono ormai vissute e gestite negli ambienti dei social media. Interazioni senza corpi, dove ci scambiamo milioni di parole diverse da quelle che ci diciamo o ci diremmo guardandoci in faccia e stringendo la mano dell’altro. Non vediamo il rossore delle guance, gli occhi inumiditi, il tremore della voce; e così con parole e simboli (emoticon) diciamo cose nuove e diverse, quasi sempre meno responsabili e vere.

Data l’importanza che questi nuovi ‘luoghi’ hanno per ragazzi e giovani (e ormai bambini), dovremmo investire molto di più nell’educazione alle emozioni nell’era di internet – e dovremmo riflettere di più sul fatto che questo ambiente è gestito da enormi multinazionali a scopo di lucro. Parlare di più, e approfondire la banalizzazione delle parole e dei segni. Il ‘cuore’ e i ‘baci’ sono cose serie, che vanno gestite con cura e parsimonia, per non farli diventare cuori e baci vuoti che poi non ci sono più quando un giorno dovremmo donarli davvero a qualcuno in carne e ossa, e a quello/a soltanto.

Anche nell’uso di questi strumenti, che sono anche una grande benedizione, dovrebbe valere il principio di sussidiarietà: una parola inviata sui social è buona solo se aiuta (sussidia) le parole buone che ci diremo quando ci incontreremo fuori dalla rete. Reimpareremo a lavorare se reimpareremo a stare insieme, coll’anima e col corpo.

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n.11/2016 (116 KB) di novembre 2016

Emozioni a Firenze ridNelle grandi imprese del nostro tempo sta crescendo velocemente l’attenzione alla gestione delle emozioni. Le organizzazioni economiche iniziano ad avvertire d’istinto che stiamo dentro una profonda trasformazione antropologica, e cercano, come possono, di trovare le soluzioni. Il capitalismo, per la sua capacità di anticipare i bisogni e i desideri, sta comprendendo che nel nostro tempo c’è un oceano di solitudini, di carestie di attenzione e di tenerezza, di mancanza di stima e di riconoscimento, di bisogno di essere visti e amati, dalle dimensioni inedite e immense.  E si sta attrezzando per soddisfare anche questa ‘domanda’ dei nuovi mercati.

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La sussidiarietà delle emozioni

La sussidiarietà delle emozioni

Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su pdf Città Nuova n.11/2016 (116 KB) di novembre 2016 Nelle grandi imprese del nostro tempo sta crescendo velocemente l’attenzione alla gestione delle emozioni. Le organizzazioni economiche iniziano ad avvertire d’istinto ch...
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Un contributo sul tempo della Terra e il senso della vita da Luigino Bruni che si trova sui luoghi, per lui familiari, del terremoto di stanotte in Centro Italia

di Luigino Bruni

pubblicato su: Città Nuova il 24/08/2016

Quel campanile della chiesa di Amatrice che segna le 3.36, è un’immagine forte per dire che cosa è accaduto questa notte. Quel minuto è stato l’ultimo minuto per le tante vittime, sarà un minuto ricordato per sempre perché inciso nella carne e nel cuore dei loro famigliari, e sarà ricordato dal nostro Paese, la cui storia recente è anche una serie di orologi fermati per sempre dalla violenza degli uomini o da quella della terra.

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Anch’io lo ricorderò per sempre, perché questo urlo della terra ha raggiunto anche la casa dei miei genitori di Roccafluvione, a una ventina di km da Arquata del Tronto, dove mi trovavo per visitarli. Una lunga notte di paura, di dolore, di pensieri per Amatrice, Arquata, Accumuli, paesi della mia infanzia, vicino ai paesi dei miei nonni, borghi dove nelle estati accompagnavo mio padre che lì lavorava come venditore ambulante di polli. E poi ancora pensieri, pensieri che non facciamo mai, perché si possono fare solo nelle notti tremende.

Pensavo che quel tempo misurato fino alle 3.36 dall’orologio del campanile, che era lì bloccato, morto, era solo una dimensione del tempo, quella che i greci chiamavano kronos, ma che era solo la superficie, il suolo del tempo.

Nel mondo c’è il nostro tempo gestito, addomesticato, costruito, usato per vivere.
Ma al di sotto c’è un altro tempo: è il tempo della terra. Questo tempo non-umano, a volte dis-umano, comanda il tempo degli uomini, delle mamme, dei bambini.
E pensavo che non siamo noi i padroni di questo tempo altro, più profondo, abissale, primitivo, che non segue il nostro passo, a volte è contro i passi di chi gli cammina sopra.
E quando queste notti tremende avvertiamo quel tempo diverso sul quale noi camminiamo e costruiamo la nostra casa, nasce tutta nuova la certezza di essere “erba del campo”, bagnata e nutrita dal cielo, ma anche inghiottita dalla terra. La terra, quella vera e non quella romantica e ingenua delle ideologie, è assieme madre e matrigna.
L’humus genera l’homo ma lo fa anche tornare polvere, a volte bene e nel momento propizio, ma altre volte male, troppo presto, con troppo dolore.

L’umanesimo biblico lo sa molto bene, e per questo ha lottato molto contro i culti pagani dei popoli vicini che volevano fare della terra e della natura una divinità: la forza della terra ha sempre affascinato gli uomini che hanno cercato di comprarla con magia e sacrifici.

E così, mentre cercavo, invano, di riprendere sonno, pensavo ai libri tremendi di Giobbe e di Qohelet, che si capiscono forse durante queste notti. Quei libri ci dicono che nessun Dio, nemmeno quello vero, può controllare la terra, perché anche Lui, una volta che entra nella storia umana, è vittima della misteriosa libertà della sua creazione.

Neanche Dio può spiegarci perché i bambini muoiono schiacciati dalle antiche pietre dei nostri paesi, e non può spiegarcelo perché non lo sa, perché se lo sapesse sarebbe un idolo mostruoso.

Dio, che oggi guarda la terra delle tre A (Arquata, Accumuli, Amatrice), può solo farsi le stesse nostre domande: può gridare, tacere, piangere insieme a noi.

E magari ricordarci con le parole della Bibbia che tutto è vanità delle vanità: tutto è vapore, soffio, vento, nebbia, spreco, nulla, effimero. Vanitàin ebraico si scrive hebel, la stessa parola di Abele, il fratello ucciso da Caino. Tutto è vanità, tutto è un infinito Abele: il mondo è pieno di vittime. Questo lo possiamo sapere. Lo sappiamo, lo dimentichiamo troppo spesso. Queste notti e questi giorni tremendi ce lo fanno ricordare.

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Un contributo sul tempo della Terra e il senso della vita da Luigino Bruni che si trova sui luoghi, per lui familiari, del terremoto di stanotte in Centro Italia

di Luigino Bruni

pubblicato su: Città Nuova il 24/08/2016

Quel campanile della chiesa di Amatrice che segna le 3.36, è un’immagine forte per dire che cosa è accaduto questa notte. Quel minuto è stato l’ultimo minuto per le tante vittime, sarà un minuto ricordato per sempre perché inciso nella carne e nel cuore dei loro famigliari, e sarà ricordato dal nostro Paese, la cui storia recente è anche una serie di orologi fermati per sempre dalla violenza degli uomini o da quella della terra.

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"Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto” (1 Re, 19)

"Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto” (1 Re, 19)

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.08/2016 di agosto 2016

Ascoli Piceno ridLa nostra civiltà ha raggiunto traguardi straordinari, pur in mezzo alle contraddizioni che ogni epoca storica ha conosciuto e conosce. Grazie a tante donne e uomini di genio, che con la loro intelligenza e creatività hanno spinto avanti la frontiera della tecnica, dell’innovazione, delle tecnologie. Grazie agli artisti, ai poeti, e ai maestri spirituali, che ci hanno insegnato a vivere, ad amare, a sognare.

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Ma anche lo sviluppo dell’economia di mercato ha dato il suo contributo. L’idea che il mercato sia un mezzo ed una espressione di civiltà non è comune nel nostro tempo (e neanche in quelli passati). In genere prevale il pensiero opposto, e cioè che il mercato sia essenzialmente uno strumento di sfruttamento dei forti sui deboli, un luogo di oppressioni dei più poveri. In realtà, anche se nei mercati e attraverso le imprese e le banche, tutti i giorni accadono cose pessime, fino a vendere il ‘povero per un paio di sandali’ (profeta Amos), per capire il rapporto tra mercato e civiltà occorre cercare di guardarlo bene, o almeno meglio. Pensiamo ad una qualsiasi giornata nelle nostre città. Mentre sto scrivendo questo articolo con il mio computer, in una scrivania dell’università di Lovanio (Belgio), non penso in genere a quanta gente sta cooperando con me affinché io possa fare il mio lavoro, sebbene sia da solo nel mio studio. In realtà sono dentro una grande cooperazione. Con i custodi dell’edificio, con gli addetti alle pulizie, con chi sta lavorando perché arrivi l’energia elettrica e il collegamento internet grazie al quale potrò spedire tra poco il risultato del mio lavoro alla redazione. Quando poi tra poco uscirò per tornare a casa, la cooperazione si estende a chi fa manutenzione delle strade, ai vigili del traffico, ai ferrovieri. Se poi entro a prendere in caffè in un bar (senza slot-machines), dietro quella tazzina ci sono decine di migliaia di persone che hanno lavorato e lavorano perché quel caffè arrivasse da un paese lontano sul bancone del bar. Moltissime persone stanno, qui ed ora, cooperando con me, consentendomi di lavorare, di scrivere, di esprimere la mia personalità. Certo possiamo anche interpretare i comportamenti di tutti i lavoratori che in vari modi si intrecciano con la mia vita, come azioni motivate soltanto dall’interesse, dalla ricerca di guadagno o di profitti. È anche possibile leggere il nostro mondo come la somma di tanti egoismi. Ma non è meno vero, e per me lo è di più, leggere il mosaico di relazioni che si compone ogni giorno come la più grande cooperazione che la storia umana abbia inventato. Anche questo è il mercato. Soprattutto questo è il mercato. È il frutto di migliaia di anni nei quali gli esseri umani hanno imparato a scambiare prima con persone della stessa comunità, poi con sconosciuti ma della stessa fede religiosa, poi con sconosciuti e basta. Tutto questo convive con enormi ingiustizie e diseguaglianze alle quali il mercato potrebbe solo in parte rimediare. E un po’ lo ha fatto, quando nel Novecento sono nate milioni di imprese che hanno assunto milioni di lavoratori, trasformandoli da ex semi-servi a persone con sempre più diritti e dignità. Grazie anche ad un grande movimento sindacale, che ha consentito che il ‘mercato del lavoro’ fosse un mercato particolare, dove non c’erano soltanto contratti di lavoro ma anche patti di lavoro – che oggi stiamo dimenticando. E grazie ad una presenza forte dello Stato, che ha impedito che il mercato diventasse tutto.

Il mercato resta un fattore civilizzante finché la ‘loggia dei mercanti’ insiste sulla stessa piazza del ‘palazzo dei capitani del popolo’ e della Chiesa di San Francesco, come nella piazza medievale della mia città di origine. Quando, invece, i mercanti occupano l’intera piazza della città, comprano il palazzo della politica, e magari anche la chiesa di fronte per trasformarla in un museo (a pagamento), la città si imbruttisce e i mercanti perdono l’anima e presto anche i profitti. Il mercato è civile, riempie la città di colori e di profumi, quando occupa la piazza un solo giorno alla settimana, e negli altri la lascia, gratuitamente, a tutti.

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.08/2016 di agosto 2016

Ascoli Piceno ridLa nostra civiltà ha raggiunto traguardi straordinari, pur in mezzo alle contraddizioni che ogni epoca storica ha conosciuto e conosce. Grazie a tante donne e uomini di genio, che con la loro intelligenza e creatività hanno spinto avanti la frontiera della tecnica, dell’innovazione, delle tecnologie. Grazie agli artisti, ai poeti, e ai maestri spirituali, che ci hanno insegnato a vivere, ad amare, a sognare.

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Il mercato e la piazza

Il mercato e la piazza

Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.08/2016 di agosto 2016 La nostra civiltà ha raggiunto traguardi straordinari, pur in mezzo alle contraddizioni che ogni epoca storica ha conosciuto e conosce. Grazie a tante donne e uomini di genio, che con la loro intellige...
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 Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.07/2016 di luglio 2016

Giovani musicisti ridL’arte, la musica, la letteratura, le scienze umane sono molto importanti per la felicità delle persone, soprattutto per gli anziani e per chi soffre di disturbi depressivi. Saper suonare uno strumento, gustare una sonata di Chopin, dipingere o farsi amare da un dipinto di Paul Klee, frequentare musei, scrivere e leggere poesia, aumentano il benessere, riducono le spese sanitarie, fanno vivere più a lungo. Sono questi i risultati di un convegno all’università del Wisconsin, al quale ho partecipato nel mese di maggio. 

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Perché, allora, un po’ tutti i governi  occidentali stanno riducendo lo spazio dell’educazione artistica, musicale e delle humanities in tutte le scuole di ordine e grado? Perché si continua a pensare che sia più importante l’informatica di saper suonare uno strumento, l’inglese più della letteratura? Poi, magari, veniamo a sapere che la Cina, che in passato aveva combattuto il confucianesimo come il primo male di un Paese feudale, ha da poco reintrodotto il confucianesimo nelle scuole; o che in Corea c’è una grande crescita di educazione musicale nei bambini e nei giovani. E la ragione è semplice: pragmaticamente, questi popoli asiatici stanno capendo che le persone senza una formazione etica e spirituale sono emotivamente molto fragili e non sono abbastanza creative.

La creatività, infatti. Se ne parla dappertutto. Insieme a “innovazione” è la parola d’ordine del nostro capitalismo. Ma si dimentica, drammaticamente, che la creatività di primo livello, diversamente da quella applicativa di secondo livello, non si impara a scuola, tanto meno nelle scuole per “creativi” o nelle business school. Fiorisce quando i bambini e i giovani crescono circondati dalla bellezza, dalla gratuità, dalla natura, immersi in valori alti non usati a “scopo di lucro”. La letteratura, l’arte e la poesia sono essenziali, poi, per formare nei giovani le emozioni e i sentimenti più profondi e grandi. Impariamo a indignarci per il male e a volere il bene, quando ci raccontano le prime favole nella culla, e poi con la letteratura, la storia, le poesie più belle. È con il codice dell’anima che scriviamo la grammatica delle azioni sociali più importanti.

Un popolo i cui bambini sono cresciuti da tv e videogiochi, dove le emozioni più grandi Varsavia Sinagoga Ghetto Esterno ridsono quelle di mostri a 4 teste o delle storielle banalissime delle nuove telenovele per pre-adolescenti, diventa presto un popolo senza anima civile e democratica, e può svegliarsi un giorno dentro una tecnocrazia meritocratica che governa un mondo senza democrazia. Senza che nessuno l’abbia voluto né cercato, cresciuto nella nostra distrazione, mentre ci intrattenevamo a imparare l’inglese e l’informatica. Cose utilissime, purché non sostituiscano Beethoven e Leopardi.

Eschilo con la tragedia I persiani riusciva a far commuovere gli ateniesi per il pianto di donne che loro stessi avevano reso vedove uccidendo in guerra i mariti. Senza questa specifica educazione delle emozioni non sappiamo piangere più per le vittime nostre e degli altri. Un giorno passeremo per il ghetto di Varsavia ascoltando musica mentre rispondiamo a qualche messaggio con lo smartphone, perché non avremo più il repertorio emotivo per riuscire a vedere i luoghi e la storia. Per “rivedere” il ghetto e i suoi 450 mila ebrei deportati e uccisi, c’è bisogno di un’anima coltivata, di un’interiorità ancora capace di soffrire per un mondo sbagliato, di entrare nella sinagoga e piangere per la vergogna e per il dolore per azioni fatte da sconosciuti ad altri sconosciuti. Per sentire le ferite di tutta l’umanità. Ma per vergognarsi e piangere così, c’è bisogno dell’anima – niente di più, niente di meno.

Nel passato erano la natura, con la sua vita e le sue leggi eterne, la pietà popolare degli anziani e delle mamme, la guerra dei nonni e dei padri, a formare negli uomini le emozioni giuste, che ci fecero capaci di inventare la democrazia e i diritti. Oggi ci resta quasi soltanto l’arte e la poesia: non priviamo i nostri giovani di questo immenso patrimonio che può ancora salvarli.

Tutti i regimi hanno cercato di eliminare la formazione umanistica (o l’hanno ridotta a propaganda). Anche l’impero capitalista sta compiendo la stessa operazione, ma è abilissimo a non farcene accorgercene. Sta in questa distrazione di massa molta della sua forza e la sua capacità di manipolare la politica, l’educazione, le nostre coscienze.

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 Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.07/2016 di luglio 2016

Giovani musicisti ridL’arte, la musica, la letteratura, le scienze umane sono molto importanti per la felicità delle persone, soprattutto per gli anziani e per chi soffre di disturbi depressivi. Saper suonare uno strumento, gustare una sonata di Chopin, dipingere o farsi amare da un dipinto di Paul Klee, frequentare musei, scrivere e leggere poesia, aumentano il benessere, riducono le spese sanitarie, fanno vivere più a lungo. Sono questi i risultati di un convegno all’università del Wisconsin, al quale ho partecipato nel mese di maggio. 

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La democrazia delle emozioni

La democrazia delle emozioni

 Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.07/2016 di luglio 2016 L’arte, la musica, la letteratura, le scienze umane sono molto importanti per la felicità delle persone, soprattutto per gli anziani e per chi soffre di disturbi depressivi. Saper suonare uno st...
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 Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su   pdf Città Nuova n.06/2016 (2.12 MB) di giugno 2016

Favelas San Paolo 01Sono passati 25 anni da quando, nel maggio del 1991 Chiara Lubìch gettò in Brasile il seme dell' Economia di Comunione (EdC). In quel tempo ero un giovane neo-laureato in economia, e sentii che quanto stava accadendo a San Paolo riguardava anche me. Non sapevo ancora come, ma intuivo che ero parte di quella storia che stava iniziando. Oggi so che aver accompagnato lo sviluppo di quel “sogno” è stato un evento decisivo nella mia vita, che sarebbe stata molto diversa se non ci fosse stato quell'incontro profetico tra uno sguardo di donna e il popolo brasiliano.

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Eravamo all'indomani del crollo del muro di Berlino, e in quel mondo e in quel tempo la proposta lanciata da Chiara agli imprenditori di condividere talenti, ricchezza e profitti per occuparsi direttamente di povertà, risuonò come una grande innovazione, che fece dell'EdC una novità economico-sociale importante e sulla frontiera della responsabilità sociale d'impresa, che viveva ancora i suoi primi tempi. Non era soltanto, come fu detto da qualche economista (Serge Latouche, ad esempio) una riedizione del “patronato cattolico”; nel Dna di quel seme vi era anche una diversa idea della natura dei profitti e quindi dell'impresa, intesa come bene comune, in una prospettiva globale e mondiale (non comune in quegli anni). Gli  imprenditori furono cosi coinvolti nella soluzione di un problema sociale di diseguaglianza.

Chiara fu colpita dal contrasto tra favelas e grattacieli nella città di San Paolo, ma invece di lanciare un progetto sociale nelle periferie delle città o un fund raising, rivolse il suo invito agli imprenditori, che, lo sappiamo, non hanno come primo scopo la creazione di profitti da donare fuori dall'impresa, perché, quando le imprese sono oneste, di extra-profitti ce ne sono pochi, e vengono spesso reinvestiti  nell'impresa.  Dentro l'EdC c'è quindi l'intuizione che per ridurre la povertà e la diseguaglianza occorre riformare il capitalismo, e quindi la sua principale istituzione: l'impresa. Il linguaggio e la prima mediazione culturale ed economica dell'intuizione di Chiara furono quelli che erano a disposizione nella società, nella Chiesa, nel popolo brasiliano e nel Movimento dei Focolari.

A 25 anni di distanza, però, la grande sfida collettiva che si para di fronte all'EdC è cercare di esprimere le intuizioni-cuore del 1991 in parole e categorie capaci di parlare e farsi capire in un mondo culturale e socio-economico che in questi 25 anni è radicalmente cambiato. Anche la frontiera della responsabilità sociale delle imprese e la comprensione delle povertà si sono spostate molto in avanti con il passaggio di millennio. Il social business è diventato un movimento variegato, dinamico e in costante crescita. La cosiddetta sharing economy sta dando vita, in tutto il mondo, ad esperienze molto innovative.

La riflessione sulla povertà e le azioni per alleviarla si sono arricchite, grazie al pensiero e all'azione di  economisti come Amartya Sen o Muhammad Yunus.

Alla fine del secondo millennio, condividere gli utili delle imprese a favore di poveri e giovani rappresentava di per sé un'innovazione. Ma se nel 2016 continuiamo a incarnare la proposta EdC con quelle stesse forme, la proposta appare non abbastanza attraente e obsoleta, soprattutto per i giovani. ln un mondo sociale ed economico radicalmente cambiato, l'EdC è chiamata a rigenerarsi, come sta già facendo e come ha sempre fatto per essere arrivata viva alle sue “nozze d'argento”. E di nozze si tratta, perché ogni volta che un carisma riesce a incarnarsi, c'è un incontro sponsale tra cielo e terra, tra ideale e storia. Nozze come quelle di Cana, quando l'acqua divenne vino perché una donna vide che la gente non aveva più vino, ha creduto, chiesto e ottenuto il miracolo. L'Economia di Comunione continuerà a vivere e raggiungerà il 50° compleanno e oltre, se ci saranno donne e uomini con “occhi diversi”, capaci di accorgersi cosa manca alla gente del proprio tempo, di chiedere il miracolo dell'acqua diventata vino, dei profitti che diventano cibo del corpo e del cuore.  Auguri EdC!

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 Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su   pdf Città Nuova n.06/2016 (2.12 MB) di giugno 2016

Favelas San Paolo 01Sono passati 25 anni da quando, nel maggio del 1991 Chiara Lubìch gettò in Brasile il seme dell' Economia di Comunione (EdC). In quel tempo ero un giovane neo-laureato in economia, e sentii che quanto stava accadendo a San Paolo riguardava anche me. Non sapevo ancora come, ma intuivo che ero parte di quella storia che stava iniziando. Oggi so che aver accompagnato lo sviluppo di quel “sogno” è stato un evento decisivo nella mia vita, che sarebbe stata molto diversa se non ci fosse stato quell'incontro profetico tra uno sguardo di donna e il popolo brasiliano.

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L'Economia di Comunione compie 25 anni

L'Economia di Comunione compie 25 anni

 Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su   pdf Città Nuova n.06/2016 (2.12 MB) di giugno 2016 Sono passati 25 anni da quando, nel maggio del 1991 Chiara Lubìch gettò in Brasile il seme dell' Economia di Comunione (EdC). In quel tempo ero un giovane neo-...
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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su  Città Nuova n.05/2016 di maggio 2016

Asparagi selvatici LB 03 ridFin dalla mia prima infanzia, la primavera è anche la stagione della raccolta degli asparagi selvatici. Una piccola passione ereditata da mio padre, che mia madre esaltava con ottime frittate e gustosi risotti.

La campagna della mia residenza attuale ne dona abbondanti e saporiti, alle pendici delle rovine di Tuscolo, dove la gioia della raccolta è amplificata dal paesaggio ricco di rovine romane, teatro, tombe e i resti della villa di Cicerone. Uno dei dilemmi pratici dei raccoglitori è individuare la misura minima che deve avere l’asparago giovane per essere colto.

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Non ci sono norme che lo stabiliscano, ma esiste una norma etica tacita di non cogliere gli asparagi appena spuntati dal suolo. Non esiste una quantificazione in centimetri, ma anche qui vale la regola dell’ “abbastanza”: per cogliere l’asparago cucciolo occorre che sia spuntato abbastanza dal suolo.

Quali sono le ragioni alla base di questa convenzione o norma etica, che dall’asparago possiamo estendere ai funghi, alla pesca, all’erba nei pascoli, e al consumo e uso dei beni comuni? Una prima giustificazione potrebbe trovarsi nel semplice interesse personale: se lascio crescere l’asparago, tra due giorni ripassando nello stesso luogo lo troverò cresciuto, e la mia raccolta sarà più ricca.

Ma nessuno mi può garantire che nel frattempo non passino altri (soprattutto nel Tuscolo, dove la popolazione dei raccoglitori eguaglia in numero quella degli asparagi) e si approprino di quanto io ho lasciato maturare. Quindi il solo egoismo non giustifica la non raccolta dei “boccioli”.

Per lasciare crescere i piccoli asparagi di oggi occorre introdurre qualche altra dimensione, più grande del solo interesse personale. La più naturale è la dimensione della comunità: se mi sento membro di una comunità alla quale attribuisco un valore, posso decidere di lasciar crescere i frutti perché l’altro che li raccoglierà e consumerà è qualcuno che mi interessa, perché rientra in un orizzonte di “noi” che include anche me. Se, ripassando di lì, mi accorgo che qualcun altro lo ha raccolto nel frattempo, non considero questo evento soltanto un danno o uno spreco, perché una parte del mio interesse dipende dal benessere dei membri della mia comunità.

Oggi saremo capaci di salvare il pianeta e tanti beni comuni che stiamo velocemente e decisamente deteriorando (dall’acqua potabile alla pesca degli oceani) se riscopriamo un interesse più grande di quello individuale, e ci sentiamo parte di un Bene comune più grande e concreto del solo bene privato. Proviamo poi ad allargare l’appartenenza alla comunità fino a farci rientrare ogni abitante presente e futuro del pianeta. Gli asparagi possono crescere finché restano vivi il bosco, il sottobosco, le preziose asparagine che li generano. La generatività di un bosco è una faccenda complessa e delicata, e richiede un atteggiamento custode e non predatorio da parte dell’uomo. Ci sono zone nelle quali da bambino andavo a cercare asparagi e funghi che oggi si sono inaridite a causa di incendi, avvelenamenti industriali, discariche a cielo aperto, incuria e saccheggiamenti.

Lo spuntare di un asparago è un’azione collettiva dell’intero bosco e dell’intera comunità che lo circonda, he lo cura o lo uccide. C’è bisogno di un accudimento non predatorio del bosco da parte di tutti che è la precondizione della possibilità della nascita e della raccolta individuale degli asparagi. Se non lasciamo crescere gli asparagi boccioli, un giorno non ce ne sarà più per nessuno. Il bosco non genererà più. Generare e generosità sono due parole gemelle: la vita ha bisogno di generosità, e quando il solo registro che ci muove resta quello del tornaconto personale, la generatività si spegne per carestia di generosità. Dobbiamo reimparare a lasciare crescere e maturare i boccioli, nei boschi e nelle città, educando il nostro istinto predatorio ad una logica di un interesse più alto, quello di tutti. E quando vediamo un bell’asparago maturo pronto ad essere raccolto, impariamo a vederlo come un bocciolo al quale qualcun altro ha dato la chance di poter crescere.

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su  Città Nuova n.05/2016 di maggio 2016

Asparagi selvatici LB 03 ridFin dalla mia prima infanzia, la primavera è anche la stagione della raccolta degli asparagi selvatici. Una piccola passione ereditata da mio padre, che mia madre esaltava con ottime frittate e gustosi risotti.

La campagna della mia residenza attuale ne dona abbondanti e saporiti, alle pendici delle rovine di Tuscolo, dove la gioia della raccolta è amplificata dal paesaggio ricco di rovine romane, teatro, tombe e i resti della villa di Cicerone. Uno dei dilemmi pratici dei raccoglitori è individuare la misura minima che deve avere l’asparago giovane per essere colto.

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L’economia dell’asparago selvatico

L’economia dell’asparago selvatico

Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su  Città Nuova n.05/2016 di maggio 2016 Fin dalla mia prima infanzia, la primavera è anche la stagione della raccolta degli asparagi selvatici. Una piccola passione ereditata da mio padre, che mia madre esaltava con ottime frittate e g...
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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su  Città Nuova n.04/2016 di aprile 2016

Slotmob 07L’economia è uno specchio delle virtù e dei vizi dei popoli, delle comunità, delle famiglie, delle persone. Per conoscere una persona veramente, occorre vederla mentre lavora, o mentre risparmia e consuma. Non conosciamo i nostri amici solo perché facciamo insieme feste e pranzi: non entriamo veramente negli altri se non li vediamo anche muoversi nella loro vita economica, che è uno dei luoghi primari degli esseri umani. Noi ci riveliamo a noi stessi e agli altri nell’amare, nel pregare, ma anche nel lavorare.

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Ecco perché quando un giovane resta fuori dal mondo del lavoro, non solo perde occasioni preziose per imparare un’attività (che si impara solo lavorando, non a scuola né all’università) e per guadagnarsi da vivere. Lo priviamo anche della possibilità di conoscere i suoi talenti, di scoprire chi è, di essere stimato e di stimare gli altri, di far emergere i suoi limiti e le virtù nascoste anche a lui stesso.

Non capiamo l’economia se non prendiamo sul serio tutti i vizi e tutte le virtù degli uomini, delle imprese, delle istituzioni, della nostra società. I vizi delle imprese e delle istituzioni diventano particolarmente gravi quando sono considerati virtù. Pensiamo al tema, molto caro a questa rivista, dell’azzardo – che non è un “gioco”: l’azzardo non va messo vicino alla bellissima parola “gioco” –. Esso è un tipico caso di un enorme male istituzionale, che viene presentato come virtù. Che sia un male lo dicono i frutti che porta: centinaia di migliaia di famiglie rovinate da uno o più familiari entrati nel giro delle slot-machine, poker online, gratta-e-vinci, al punto che è raro che in Italia non ci sia una famiglia dove un parente, magari lontano, non sia coinvolto da questa autentica piovra. I centri storici delle nostre città e borghi stanno via via perdendo artigiani e negozi, che contenevano e raccontavano decenni, a volte secoli, di storia buona; al loro posto arrivano come funghi sale gioco, nere ed esteticamente molto brutte, quasi sempre senza che le istituzioni facciano adeguata resistenza alle concessioni di licenze. Continuo ad aspettare il giorno in cui le associazioni familiari, molto sensibili alla vita, inizieranno a fare scioperi della fame a turno nei luoghi dove stanno per nascere nuove sale gioco o bingo, quando si renderanno conto che i loro figli sono avvelenati dalle scommesse e dall’azzardo almeno quanto lo sono dalle sigarette e dalla pornografia. Per non parlare delle decine di migliaia di persone in cura presso le Asl per dipendenze da azzardo, il cui costo morale ed economico per la collettività è difficilmente quantificabile, ma sempre troppo alto.

Alla testa della macchina dell’azzardo c’è lo Stato, che anche qui fa cassa con i poveri e con la disperazione delle persone. Le entrate dall’azzardo sono in Italia circa 8 miliardi l’anno, e nonostante le mille proteste che arrivano al governo dalla società civile, non si riesce a ottenere praticamente nulla di serio, da questo e dai governi precedenti.

Confindustria gioco, che rappresenta anche le lobbies dell’azzardo, protegge molto questoSlotmob FEST rid settore della nostra economia, al punto da non riuscire a cambiare nulla, o solo aspetti irrilevanti, riguardo la pubblicità nelle tv e nei giornali dell’azzardo. Come non si riesce a rendere illegali le slot-machine nei bar, luoghi frequentati dai nostri ragazzi e bambini, e che sono in molti paesi luoghi di socialità di giovani e anziani (i primi clienti di questo mercato di morte).

Noi del movimento Slot-mob continuiamo a lavorare e a sperare che i cittadini e le istituzioni si sveglino, e un giorno riusciremo a chiamare il male per nome, a combatterlo seriamente e insieme, e a togliere i dadi dalle tante scene di passione dei nostri poveri.

Per questo diamo appuntamento a tutti il 7 e 8 maggio, quando in molte piazze d’Italia diremo insieme, a voce e testa alte, il nostro no all’azzardo e il nostro sì a un Paese più civile. Ogni cittadino può diventare promotore di uno di questi eventi nella propria città. Vi aspettiamo.

facebook nsl Slotmob FEST in oltre 30 città italiane 07-08/05/2016

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su  Città Nuova n.04/2016 di aprile 2016

Slotmob 07L’economia è uno specchio delle virtù e dei vizi dei popoli, delle comunità, delle famiglie, delle persone. Per conoscere una persona veramente, occorre vederla mentre lavora, o mentre risparmia e consuma. Non conosciamo i nostri amici solo perché facciamo insieme feste e pranzi: non entriamo veramente negli altri se non li vediamo anche muoversi nella loro vita economica, che è uno dei luoghi primari degli esseri umani. Noi ci riveliamo a noi stessi e agli altri nell’amare, nel pregare, ma anche nel lavorare.

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Il 7 maggio in piazza con Slot mob

Il 7 maggio in piazza con Slot mob

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n.03/2016 (59 KB) di marzo 2016

Green Economy ridIl nostro capitalismo sta prendendo in prestito dalla società civile molte parole generative e le sta riciclando a scopo di lucro. Un fenomeno messo in luce da Luc Boltanski ed Eve Chiapello, che nel loro “Il nuovo spirito del capitalismo” (Mimesis) sostengono che il moderno “spirito del capitalismo” consiste nella sua capacità di “riciclare” e incorporare le maggiori critiche che ha incontrato lungo la sua storia recente, per farle diventare principali fattori di cambiamento e di innovazione, vagoni del suo treno.

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Le critiche “sociali” (socialiste, operaie, ambientaliste...) e quelle “estetiche” (degli intellettuali e degli artisti), che hanno rappresentato la principale reazione al capitalismo nella seconda metà del XX secolo, invece di provocare, come avrebbero potuto, il crollo del capitalismo, sono diventate le sue testate d’angolo, dando vita al nuovo capitalismo di oggi, dove i suoi maggiori attori sono imprese nate da giovani con culture e mentalità molto diverse da quelle dei capitalisti del secolo passato. Così nelle grandi imprese assistiamo sempre più allo sviluppo di bilanci sociali e ambientali, di “social business”, all’attenzione al benessere lavorativo, fino ai recenti concetti di “capitale simbolico” o persino “spirituale” dell’azienda. Parallelamente all’inclusione e trasformazione delle critiche sociali, questo capitalismo ha internalizzato anche le critiche “estetiche”, dando vita a una nuova stagione creativa. Il capitalismo, camaleonticamente, si trasforma, nutrendosi di tutto ciò che trova sulla strada. Come tutti gli imperi, che conquistavano popoli nemici e inglobavano la loro cultura, arte, religione.

Una principale novità di questo spirito sta nel suo aver adottato, più o meno consapevolmente, la metafora vegetale, abbandonando quella animale. Le piante, per la loro caratteristica fondamentale di ancoraggio al terreno, hanno sviluppato nel corso dell’evoluzione meccanismi per poter sopravvivere agli attacchi degli animali e ai cambiamenti dell’ambiente. Così riescono a sopravvivere anche in seguito alla distruzione dell’80% del loro corpo.

Non hanno una organizzazione gerarchica, si sviluppano a colonie, senza un centro da cui dipende la vita del tutto. Gli organismi animali, invece, vivono sulla base di organi specializzati, e la morte di un organo vitale comporta la morte dell’organismo. Le imprese tradizionali, che si sviluppavano in altezza e davano vita a una forte divisione funzionale del lavoro, erano simili agli animali, e quindi molto vulnerabili quando il “centro” (imprenditore, ad esempio) veniva meno. L’organizzazione “vegetale” e a rete delle nuove imprese riesce ad adattarsi meglio all’ambiente mutabile, è più piatta e più resistente all’avvicendarsi di manager e imprenditori. Un paradigma molto attraente e virale.

Anche per questo motivo, la cultura dell’economia e dell’impresa sta diventando la cultura della nostra vita civile. Sono infatti sempre più i linguaggi che gli ambiti non economici stanno prendendo in prestito dal mercato. Vincenti e perdenti, meritocrazia, efficienza, velocità, sono sempre più le parole della scuola, della sanità, della cultura, della politica, e ormai sono alle soglie della Chiesa e delle famiglie.

Stiamo assistendo a una progressiva e silenziosa occupazione del civile da parte dell’economico, senza che vi sia opposta alcuna resistenza culturale; anche perché il lessico economico si presenta come tecnica, eticamente neutrale e quindi di applicazione universale. La nostra capacità di discernimento morale sul nostro tempo si è appannata, e anche i migliori intellettuali ormai si muovono all’interno della cultura dominante, talmente avvolti dal suo liquido amniotico da non essere capaci di guardarla e criticarla come un “tu”. E intanto i grandi flussi finanziari dominano il mondo.

C’è bisogno di una nuova stagione di critica del capitalismo, ma non di quello del XX secolo. Per questo occorre prima capirlo, studiarlo, penetrare nelle sue logiche, e magari cercare di orientare le sue grandi potenzialità alla soluzione dei grandi problemi. Troppi poveri continuano ad abitare nelle nostre città, e la diseguaglianza cresce. Non dobbiamo stare tranquilli.

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n.03/2016 (59 KB) di marzo 2016

Green Economy ridIl nostro capitalismo sta prendendo in prestito dalla società civile molte parole generative e le sta riciclando a scopo di lucro. Un fenomeno messo in luce da Luc Boltanski ed Eve Chiapello, che nel loro “Il nuovo spirito del capitalismo” (Mimesis) sostengono che il moderno “spirito del capitalismo” consiste nella sua capacità di “riciclare” e incorporare le maggiori critiche che ha incontrato lungo la sua storia recente, per farle diventare principali fattori di cambiamento e di innovazione, vagoni del suo treno.

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Il nuovo spirito del capitalismo

Il nuovo spirito del capitalismo

Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su pdf Città Nuova n.03/2016 (59 KB) di marzo 2016 Il nostro capitalismo sta prendendo in prestito dalla società civile molte parole generative e le sta riciclando a scopo di lucro. Un fenomeno messo in luce da Luc Boltanski e...
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 Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.01/2016 del 10/01/2016

Democrazia economica ridL’economia di mercato ha generato autentici miracoli, ma oggi deve cambiare se vuole salvarsi. Ha permesso a persone sconosciute di incontrarsi in modi pacifici e costruttivi, di conoscerci e “parlarci” scambiando le nostre merci. Ha riempito il mondo di colori, di una infinità di beni. Ha amplificato la biodiversità culturale del pianeta. Potenziando al massimo la libertà e la creatività degli individui, ha moltiplicato la ricchezza dando vita alla più grande cooperazione della storia umana.

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Dietro l’atto più semplice che svolgiamo nelle nostre città – accendere la luce della stanza, acquistare un gelato – c’è la cooperazione implicita di migliaia, a volte milioni di persone che lavorano per noi senza saperlo né volerlo.

Per mesi ho visto venditori offrire per strada lunghi utensili ai turisti, un giorno ho capito che erano prolunghe per scattare “selfie”. Il mercato soddisfa i nostri bisogni il secondo dopo che li avvertiamo – a volte un secondo prima.

Questo lato solare dell’economia di mercato è visibile a tutti. Ma ci sono anche lati oscuri o neri. Basti pensare al business delle armi nelle tante guerre, alimentate e indotte dagli interessi economici dei governi e delle industrie occidentali. Non dobbiamo dimenticarlo, mentre continuiamo a piangere per Parigi, Beirut, Siria, per i bambini degli altri uccisi da armi prodotte accanto alle nostre case, nel nostro silenzio.

Il mercato non riesce a correggere i suoi effetti collaterali peggiori. Sa ormai correggere i suoi piccoli danni, non quelli grandi. Se non avessimo gli Stati, le istituzioni e la società civile a costringere le imprese a ridurre le emissioni nocive per l’ambiente, a riconoscere diritti ai lavoratori, a non nascondere difetti (quasi) invisibili dei loro prodotti, le imprese implementerebbero soltanto quelle pratiche immediatamente traducibili in maggiori profitti perché facilmente riconoscibili dai clienti, e utili alla loro reputazione. Nel mercato ci sono evidentemente alcuni imprenditori e manager che attribuiscono un valore intrinseco alla correttezza e all’etica; ma in una economia globalizzata dove i proprietari delle imprese sono sempre più fondi di investimento e grandi banche, è sempre più difficile cercare e trovare un volto umano e una coscienza dietro le scelte e le decisioni.

Ecco perché le moderne democrazie hanno sempre assegnato e assegnano alle istituzioni il compito di controllare e regolamentare l’agire delle imprese. Il mercato vero non è mai stato solo mercato, ma un intreccio di molti attori, di controllori e di controllati.

Questa divisione dei compiti su cui abbiamo costruito le democrazie nei due secoli passati, oggi però è in profonda crisi. Non possiamo più accettare che le imprese agiscano rispondendo solo a proprietari e ai consumatori e che la legge le regoli e controlli. Le imprese e ancor più le istituzioni finanziarie sono diventate troppo grandi, ricche, globali e potenti per pensare di poterle controllarle dal di fuori e alla fine.

C’è bisogno di un radicale cambiamento interno: le istituzioni devono usare la forza che ancora hanno per chiedere alle grandi imprese e banche globali di cambiare il loro governo. Non devono più essere gestite da consigli di amministrazione scelti soltanto dai loro proprietari. Sono diventate troppo importanti per la vita di tutti, e i lavoratori, la società civile, rappresentanti indipendenti degli interessi dei più poveri devono essere inseriti nei loro CDA e poter contare nelle scelte ordinarie di governo.

In tutte le grandi imprese e banche ci deve essere un “comitato etico” indipendente con poteri effettivi. L’economia è diventata troppo importante per lasciarla solo a economisti, finanzieri, azionisti. Nemmeno i consumatori col loro “voto del portafoglio” sono sufficienti: ci sono troppe persone condizionate dalle scelte delle imprese che non “votano” perché poveri o troppo lontani.

E perché ci sono industrie (armi o azzardo) dove chi protesta non può votare perché non compra. L’economia di mercato e la democrazia non si salveranno senza una vera democrazia economica.

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 Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.01/2016 del 10/01/2016

Democrazia economica ridL’economia di mercato ha generato autentici miracoli, ma oggi deve cambiare se vuole salvarsi. Ha permesso a persone sconosciute di incontrarsi in modi pacifici e costruttivi, di conoscerci e “parlarci” scambiando le nostre merci. Ha riempito il mondo di colori, di una infinità di beni. Ha amplificato la biodiversità culturale del pianeta. Potenziando al massimo la libertà e la creatività degli individui, ha moltiplicato la ricchezza dando vita alla più grande cooperazione della storia umana.

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Cambiamo il governo delle imprese e delle banche

Cambiamo il governo delle imprese e delle banche

 Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.01/2016 del 10/01/2016 L’economia di mercato ha generato autentici miracoli, ma oggi deve cambiare se vuole salvarsi. Ha permesso a persone sconosciute di incontrarsi in modi pacifici e costruttivi, di conoscerci e “pa...
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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (63 KB) n. 23/24 del 10-25/12/2015

Incentivi ridUna nota che segna l’inizio di questo  terzo millennio è l’allargamento, veloce e deciso, della sfera economica. Da un settore accanto agli altri, l’economia sta via via occupando politica, sanità, scuola e, tra poco, forse anche le chiese. I valori e le virtù dell’economia stanno così diventando i principali, se non gli unici, valori e virtù dell’intera vita sociale. Efficienza, merito, innovazione, la logica costi-benefici, sono ormai le uniche parole “serie” del nostro mondo.

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Nel ’900 era stata la politica a offrire il paradigma di vita buona a tutti gli altri ambiti. I valori e le virtù della democrazia erano i fari di civiltà cui guardare per gestire le fabbriche e la società civile. L’economia era essenzialmente il luogo della fatica e dello sfruttamento dei lavoratori, che doveva essere umanizzata grazie alla partecipazione, ai sindacati, ai diritti.

Nel giro di un paio di decenni, l’economia e l’impresa da immagini della lotta di classe sono diventate luoghi dell’eccellenza umana. Chiunque oggi voglia dar vita a buone organizzazioni, partiti, ospedali, scuole, guarda e importa i principi che guidano le grandi imprese. La famiglia, forse, riesce ancora a salvarsi, ma iniziano già ad intravvedersi corsi di gestione familiare affidati alle società di consulenza globali, mentre è ormai da tempo che le università (cattoliche e pontificie) organizzano corsi di management per parroci e per suore, affidati alle multinazionali della consulenza.

Dietro questa emigrazione dei valori economici si nascondono sfide particolarmente delicate e pericolose. Pensiamo all’ideologia degli incentivi. Ci stanno convincendo, senza trovare in noi resistenze, che gli esseri umani sono capaci di dare tutto se adeguatamente pagati e controllati. Se l’ufficio del personale è abbastanza bravo e ha consulenti sufficientemente preparati, può disegnare contratti e incentivi perfetti in grado di ottenere dalle persone tutto ciò che serve all’impresa. Se ben pagati e ben controllati, gli uomini e ormai anche le donne sono perfettamente addomesticabili. Questa idea è antica (ha almeno un secolo), ma finché gli ideali sociali erano vivi e attivi, era stata fortemente combattuta ed era rimasta confinata nel business più duro e puro (l’alta finanza, le grandi multinazionali…).

In questa nostra età di crepuscolo degli dei e degli ideali, l’ideologia dell’incentivo trova invece le porte spalancate e sta riempiendo il nostro vuoto di pensiero. Il trucco che rende questa ideologia neo-manageriale particolarmente simpatica e amica della gente, è il suo presentarsi sotto mentite spoglie di libertà e di positività: l’incentivo è un contratto, che si firma liberamente, si dice. In realtà, se guardiamo bene, sotto questa ideologia c’è una visione di individuo molto pessimista, secondo la quale l’uomo è incapace di bene se non è guidato dall’esterno, dalla carota e dal bastone.

L’invasione della logica economica sta producendo dei grandi cambiamenti culturali, quasi tutti deleteri. Pensiamo all’utero in affitto o al mercato degli organi. Se la logica degli incentivi e la razionalità del mercato diventano i soli valori buoni della vita sociale, perché criticare chi vende (e chi compra) un rene, o chi compra (e chi vende) il proprio grembo per “produrre” un bambino “proprietà” di altri? È il mercato, bellezza. È libertà, consenso, vantaggio reciproco. Peccato che dentro il cavallo di Troia degli incentivi si nasconde un ritorno alla schiavitù. Anche nella Genesi troviamo Agar che genera un figlio (Ismaele) per conto di Sara e Abramo. Agar, però, era una schiava, non dimentichiamolo. L’umanità ha superato l’età delle schiavitù, ed è stata capace, con immenso dolore, di iniziare l’era delle donne e degli uomini liberi. Non barattiamola con il “piatto di lenticchie” degli incentivi. La dignità umana non è in vendita, non tutti i beni sono merci, non esiste un mercato per tutti i beni, restiamo umani finché i bambini nostri e degli altri non avranno un prezzo di mercato. Le felicità promesse da questi “contratti” sono false. Dobbiamo cercare un’altra felicità.

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (63 KB) n. 23/24 del 10-25/12/2015

Incentivi ridUna nota che segna l’inizio di questo  terzo millennio è l’allargamento, veloce e deciso, della sfera economica. Da un settore accanto agli altri, l’economia sta via via occupando politica, sanità, scuola e, tra poco, forse anche le chiese. I valori e le virtù dell’economia stanno così diventando i principali, se non gli unici, valori e virtù dell’intera vita sociale. Efficienza, merito, innovazione, la logica costi-benefici, sono ormai le uniche parole “serie” del nostro mondo.

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L'ideologia degli incentivi

L'ideologia degli incentivi

Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su pdf Città Nuova (63 KB) n. 23/24 del 10-25/12/2015 Una nota che segna l’inizio di questo  terzo millennio è l’allargamento, veloce e deciso, della sfera economica. Da un settore accanto agli altri, l’economia sta via v...
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L’Economia e il mercato non bastano da soli a salvaguardare i beni comuni globali

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n. 17/2015 (413 KB) , 10/09/2015

Migrazioni BambiniIl mondo sta diventando un luogo poco sicuro nel quale vivere e far crescere i bambini e le bambine. Trent’anni fa le frontiere politiche e ideologiche erano ancora molto alte e robuste, e per viaggiare ‘all’estero’ erano necessari viste e molte carte. Ma una volta arrivati nel paese straniero si percepiva una sicurezza che oggi non conosciamo più. Ci si poteva recare in Medioriente, sul Sinai, visitare Damasco e Palmira, percorrere l’intera via della seta, e poi andare a Bagdad e rivivere nell’antica Persia l’incanto e il fascino dell’origine della nostra civiltà, posare i piedi nella terra di Abramo e da lì scendere verso il Giordano.

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Oggi molti di questi splendidi viaggi sono di fatto impossibili, perché troppi patrimoni dell’umanità sono diventati inaccessibili. Ci sono ormai intere generazioni di giovani che sono cresciute e continuano a crescere senza poter conoscere questi profondissimi pozzi di civiltà, che custodiscono un’acqua che non si trova in altri luoghi. E così crescono immensamente più poveri.

In questi ultimi decenni la dimensione economica della vita ha conosciuto un autentico trionfo. Si stima che nell’ultimo secolo la ricchezza economica mondiale sia cresciuta di oltre settanta volte. Anche se noi, giustamente, guardando questi ultimi anni possiamo avere l’impressione di una crisi o persino di un fallimento dell’economia, in realtà l’economia è la scienza e la prassi che hanno avuto un successo enorme, di fronte al quale tutte le altre discipline e pratiche impallidiscono. Questa iper-crescita economica, favorita da un’alleanza tra imprese, finanza e tecnica, è diventata via via l’obiettivo di tutti i governi, soprattutto di quelli delle vecchie e nuove grandi potenze, determinando naturalmente e progressivamente un’eclisse di altre dimensioni fondamentali della vita, soprattutto di quella dell’ambiente e della politica globali. L’ossessione per la crescita del PIL, del consumo, del comfort, ha prodotto, senza che ce ne accorgessimo, un oscuramento delle dimensioni collettive e pubbliche, che avevano caratterizzato la società europea ed occidentale fino agli anni settanta del secolo scorso. Il peso dell’economia in se stessa e dell’economia all’interno della vita sociale sono aumentati e stanno aumentando in modo esponenziale. Non solo siamo tutti concentrati sugli aumenti del PIL, ma il linguaggio e la logica dell’economia stanno emigrando dalle imprese e dalle banche verso nuovi ambiti della vita civile. I valori, il linguaggio e le virtù economiche (efficienza, meritocrazia, velocità …) stanno diventando i valori e le virtù di ogni ambito umano. I debiti, i crediti, la domanda e l’offerta sono entrati a scuola, nelle ferrovie i ‘signori passeggeri’ sono diventati ‘i clienti’, gli ospedali si sono trasformati in imprese, e nei santuari i “counselor” stanno ormai prendendo il posto dei confessori.

Per capire dove si trovi il ‘problema’ in questo fenomeno che per qualcuno non presenta nulla di problematico, occorre tener ben presente che puntare sulle dimensioni economiche della vita (soprattutto sul consumo e sulla finanza) produce inevitabilmente un spostamento dello sguardo dalle dimensioni collettive e pubbliche verso quelle individuali e private. E così l’ambiente, la pace, il progetto europeo, la sicurezza di tutti, restano sempre più sullo sfondo, per lasciare tutta la scena al giardino di casa, alla pace dei centri benessere, agli interessi dei singoli paesi, alla sicurezza blindata del mio appartamento e della mia crociera e non di quella dei barconi dei poveri (e quindi di tutti: quando i poveri sono più insicuri e fragili è tutta la società che diventa più fragile e insicura). Ma, come ci dice la migliore teoria economica, quando la nostra attenzione è concentrata sui nostri beni privati, succede che quelli pubblici e sociali escono dal nostro orizzonte visivo, e così vengono semplicemente distrutti, senza che nessuno individualmente avrebbe voluto farlo. I beni comuni – come l’ambiente, la scala del condominio, l’integrazione dei popoli, la pace globale … - se non sono accuditi intenzionalmente da ciascuno di noi, non durano. E poi, come dice sempre la teoria, una volta che i beni comuni vengono distrutti per distrazione e ‘deficit di accudimento’ non riusciamo più a ricostruirli.

Per la salvaguardia e la cura dei beni comuni globali, l’economia non può far nulla. Perché il mercato cresce con la pace, ma cresce anche con la guerra. La storia umana ha sempre alternato economie di pace ad economie di guerra, crescite economiche dovute agli incontri pacifici tra popoli e crescite del PIL dovute alle guerre e alle ricostruzioni dopo le macerie.  Da questo punto di vista, il mercato è radicalmente ‘laico’. L’economia cresce quando andiamo in vacanza in Siria e scambiamo nella pace beni e servizi, quando andiamo con amici in pizzeria, ma cresce anche quando istalliamo l’allarme dentro casa, quando assumiamo vigilantes, quando costruiamo muri, e produciamo mine anti-uomo e anti-bambino. L’economia non è capace di produrre essa stessa gli anticorpi per proteggersi dai trafficanti di morte. Devono esserle iniettati da fuori.

Ridaremo ai nostri bambini la chance di poter visitare i patrimoni dell’umanità oggi inaccessibili, se saremo capaci di guardare meno ai nostri comfort e sicurezze individuali e di più al benessere e alla sicurezza di tutti, se ci distrarremo dai beni economici privati per guardare, di nuovo insieme, ai beni civili, ambientali, pubblici. Altrimenti arriverà presto il giorno in cui non potremo più goderci neanche la pace della piscina di casa, perché non c’è nessun muro, nessuna porta blindata, nessuna società di vigilanza privata che può veramente proteggerci. Se non ci prendiamo cura del bosco che circonda la nostra casa e lo facciamo diventare una discarica, presto infesterà la nostra cucina e la camera dei nostri figli. La sicurezza più grande è quella di tutti, il benessere più vero è quello condiviso.

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L’Economia e il mercato non bastano da soli a salvaguardare i beni comuni globali

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n. 17/2015 (413 KB) , 10/09/2015

Migrazioni BambiniIl mondo sta diventando un luogo poco sicuro nel quale vivere e far crescere i bambini e le bambine. Trent’anni fa le frontiere politiche e ideologiche erano ancora molto alte e robuste, e per viaggiare ‘all’estero’ erano necessari viste e molte carte. Ma una volta arrivati nel paese straniero si percepiva una sicurezza che oggi non conosciamo più. Ci si poteva recare in Medioriente, sul Sinai, visitare Damasco e Palmira, percorrere l’intera via della seta, e poi andare a Bagdad e rivivere nell’antica Persia l’incanto e il fascino dell’origine della nostra civiltà, posare i piedi nella terra di Abramo e da lì scendere verso il Giordano.

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Non è un mondo per bambini

Non è un mondo per bambini

L’Economia e il mercato non bastano da soli a salvaguardare i beni comuni globali di Luigino Bruni pubblicato su pdf Città Nuova n. 17/2015 (413 KB) , 10/09/2015 Il mondo sta diventando un luogo poco sicuro nel quale vivere e far crescere i bambini e le bambine. Trent’anni fa le fro...
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Attualità - Crisi greca. La tempesta che ha colpito Atene fa pensare al patto europeo ridotto a contratto

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n. 15-16/2015 (386 KB) , 10/08/2015

L’Unione Europa sta attraversando la più grande crisi dalla sua fondazione. Lo stress-test Tsipras Merkelrappresentato dalla crisi greca non ha solo evidenziato quanto grave fosse e sia ancora la situazione dell’economia e del popolo greci, ma ha messo in luce anche, e soprattutto, la fragilità di una Europa costruita decenni fa sui registri relazionali, sociali e simbolici del patto che si sta progressivamente trasformando in un club di paesi tenuti assieme dal solo registro del contratto.

Il patto, categoria di origine biblica (l’Alleanza), include, tra l’altro, il perdono come sua categoria fondativa: nei patti ci si può perdonare, si può e ci deve ricominciare dopo i fallimenti, i debiti si possono, qualche volta, cancellare.

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E se c’è il per-dono c’è anche, per natura, il dono, una parola che nessuno ha avuto il coraggio di invocare nei tavoli dove si prendevano nelle settimane passate le decisioni importanti. E non deve stupirci, solo rattristarci. Il nostro capitalismo ha infatti confinato il dono nella sfera strettamente privata, perché ha forse capito la natura sovversiva del dono vero, che, non a caso, ha come suo icona prima un uomo-Dio crocifisso. Il dono, quello vero, è una ferita, ma è anche la feritoia principale attraverso il quale passa la vita. La vita individuale e quella dei popoli.

E quando una comunità (una parola che proviene da munus, cioè dal dono e dall’obbligo, i due significati di munus) perde contatto con il dono, quando i suoi responsabili sono incapaci di evocare questa categoria anche nei momenti più drammatici, il patto è morto e resta solo il contratto con le sue sole regole. Restiamo dentro l’orizzonte dell’umano finché siamo capaci di lubrificare le nostre regole con l’olio del dono.

Questa co-essenzialità di regole e dono la vediamo nella grande storia dello sviluppo dell’Alleanza biblica, la vediamo ancora in quelle comunità fondate da patti come le famiglie, ma anche molte comunità e in qualche, residua, impresa (nell’imprese di comunione, cooperative, …). Il contratto, invece, non conosce la parola perdono: quando in un contratto si sbaglia occorre pagare, fino all’ultimo spicciolo. Tanto che nell’antichità per debiti si diventava schiavi, e a volte si perdeva anche la vita.

Nell’Alleanza tra YHWH e il popolo ebraico, la Legge del Sinai (la Torah) aveva anche introdotto, come unicum in tutta la storia umana, anche l’anno sabbatico, grazie al quale ogni sette anni gli schiavi per debiti venivano riscattati e liberati: “Egli ti servirà per sei anni e nel settimo potrà andarsene libero, senza riscatto” (Esodo 21,2). Questi schiavi erano persone ‘acquistate’ (qnh, è un verbo usato per gli acquisti in moneta), dei debitori insolventi che perdevano la libertà perché non riuscivano a restituire i prestiti ricevuti. E con loro spesso finivano schiavi anche moglie, figli, e soprattutto figlie (21,3-5). Il debitore diventava quindi proprietà del suo creditore: come una merce, una casa, un vestito. Ad un certo punto, la civiltà ha inventato l’istituto giuridico del fallimento, che – Comunità Clubnon dimentichiamolo – fu creato soprattutto a garanzia del debitore, per impedirgli, appunto, di diventare schiavo per i suoi debiti.

Questa forma di schiavitù per debiti è ancora ben presente e in crescita nel nostro capitalismo, dove imprenditori, cittadini, quasi sempre poveri, precipitano nella condizione di schiavo solo perché non riescono a ripagare i debiti. E così perdono, ancora oggi, la libertà, la casa, i beni, la dignità, e non di rado anche la vita. Tra gli schiavi per debiti ci sono senz’altro, ieri e oggi, sprovveduti, speculatori maldestri, creduloni; ma ci sono anche imprenditori, lavoratori e cittadini giusti caduti semplicemente in sventura – la Bibbia ci ricorda, basterebbe pensare a Giobbe, che anche il giusto può cadere in sventura, senza avere nessuna colpa. Non tutti i debitori insolventi sono colpevoli, anche se in alcune lingue debito e colpa hanno la stessa radice etimologica. Il capitalismo, sebbene sia nato dentro l’umanesimo ebraico-cristiano, non conosce alcuna legge che libera i debitori dalla schiavitù alla scadenza del settimo anno. Eppure quella antica legge continua a ripeterci anche oggi che nessuna schiavitù deve essere per sempre, perché prima di essere debitori siamo abitanti della stessa terra, siamo figli dello stesso cielo, e quindi, veramente, fratelli e sorelle.

Quando, invece, noi pensiamo che la nostra ricchezza sia solo nostra conquista e merito, allora i debiti non vengono mai rimessi, gli schiavi non vengono liberati mai, la giustizia si eclissa. Il dominio assoluto dell’individuo sulle sue cose è invenzione tipica della nostra civiltà, ma non è la logica biblica né la legge vera della vita. L’Europa, poteva cogliere l’occasione data da questa grande crisi, generata prima dalla crisi finanziaria esplosa negli USA e poi dalla crisi del debito pubblico di alcuni Paesi e tra questi della Grecia, per rilanciare il patto fondativo che l’ha generata, immaginando e osando soluzioni più creative, coraggiose, rischiose, solidali. E invece per ora continuiamo a vedere il logoramento di un sogno europeo, che per essere mantenuto vivo avrebbe bisogno di simboli più ricchi di quelli della finanza, di atti umani più grandi dei contratti, di parole più ricche di quelle della colpa e del debito. Di perderci lungo la strada la Comunità, per accontentarci del club.

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Attualità - Crisi greca. La tempesta che ha colpito Atene fa pensare al patto europeo ridotto a contratto

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n. 15-16/2015 (386 KB) , 10/08/2015

L’Unione Europa sta attraversando la più grande crisi dalla sua fondazione. Lo stress-test Tsipras Merkelrappresentato dalla crisi greca non ha solo evidenziato quanto grave fosse e sia ancora la situazione dell’economia e del popolo greci, ma ha messo in luce anche, e soprattutto, la fragilità di una Europa costruita decenni fa sui registri relazionali, sociali e simbolici del patto che si sta progressivamente trasformando in un club di paesi tenuti assieme dal solo registro del contratto.

Il patto, categoria di origine biblica (l’Alleanza), include, tra l’altro, il perdono come sua categoria fondativa: nei patti ci si può perdonare, si può e ci deve ricominciare dopo i fallimenti, i debiti si possono, qualche volta, cancellare.

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La comunità e il club

La comunità e il club

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Una proposta provocatoria ma stimolante: dare 12 ore alla settimana per la cura di chi ha bisogno d'aiuto

di Luigino Bruni

pubblicato su  pdf Città Nuova n.10/2015 (391 KB) del 25/05/2015

La cura dei bambini e degli anziani è uno dei temi decisivi delle nostre democrazie, che Curaperò è troppo trascurato dal dibattito pubblico, culturale e politico. Esiste una crescente domanda di cura e di accudimento  che non può essere più soddisfatta dalle ‘agenzie’ che l’hanno fatto nelle generazioni passate (famiglie, chiese, stato). Persone più sole che vivono molto più a lungo, bambini con famiglie sempre più fragili e frammentate, chiedono molta più cura di qualche decennio fa ma non trovano risposte adeguate.

Questo vuoto sta attirando un quarto ‘offerente’ di cura, il mercato, che in molti paesi sta occupando questi spazi. Lo vediamo tutti i giorni.

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Quando però il mercato entra nei mondi della cura, tende inevitabilmente a trasformare la cura, che per sua natura è un bene relazionale (e che quindi richiede gratuità), in merci, soggette alle regole dell’economia di mercato. Nei decenni passati l’Italia aveva tentato una sua via alla cura, intrecciando comunità e mercato, tramite la cosiddetta cooperazione sociale. Sono così fiorite migliaia di cooperative che, in sinergia con la pubblica amministrazione e con le famiglie, hanno dato vita ad un’alleanza molto felice, nella quale si utilizzavano alcuni criteri e strumenti del mercato (efficienza, talenti imprenditoriali) al servizio delle comunità e delle famiglie.

Questo mercato civile ha svolto bene il suo mestiere, ma oggi sta vivendo una crisi profonda, dovuta ai tagli delle pubbliche amministrazioni e ad un calo di capacità innovativa dei mondi vitali che avevano generato in passato questa economia diversa. C’è inoltre un incalzante avanzare di pensiero economico unico, che sta convincendo politica e anche parte della società civile che il mercato capitalistico può gestire scuole, asili, case di riposo come fa con tutte le altre merci, perché – dicono - la cura è un business come tutti gli altri. Anche la recente riforma del terzo settore è influenzata da questa ideologia mono-mercatista.

Sono invece convinto che serva una riflessione profonda sul tema della cura in rapporto al mercato e in rapporto al lavoro. Affidare la cura al solo mercato non funziona per diversi motivi. Il principale si chiama democrazia. I nostri avi hanno lottato per secoli per superare una società feudale nella quale i ricchi e i potenti possedevano servi e schiavi che svolgevano per loro servizi e attività che loro stessi non volevano fare. Camerieri, cuochi, sarti, servitù di vario genere che accudivano e curavano i loro padroni. La democrazia ha detto che gli esseri umani nascono e restano uguali, e che non devono esistere persone costrette a servire altri più potenti. Oggi, sotto un velo ideologico che impedisce di vedere con chiarezza i veri rapporti e valori in gioco, stiamo tornando ad un sorta di nuovo feudalesimo, dove chi possiede denaro compra non solo servizi ma persone che si prendono cura di loro, costrette dalla loro povertà e indigenza. Sono contratti, certo, non più stati giuridici di servitù o schiavitù; ma siamo sempre in presenza di persone ricche e potenti che dispongono di persone povere e deboli che pur di sopravvivere sono disposte a tutto: a lasciare i propri figli e genitori in patria per occuparsi dei nostri, ad affittare l’utero, a vendere un organo o magari bambini e figlie. Ieri si diventava schiavi per guerre o per debiti: oggi si continua a diventare di fatto schiavi per povertà.

Che fare allora? La filosofa canadese Jennifer Nedeslky ha una proposta radicale, ma estremamente affascinante: ridurre le ore di lavoro per aumentare quelle gratuite di cura. Secondo questa filosofa (e secondo me) la nostra civiltà dei consumi sta conoscendo un grave paradosso: da una parte abbiamo elite che lavorano troppo e che soffrono di ansia e burn-out per eccessivo lavoro e che non sono capaci, in genere, di cura; dall’altra una quantità crescente di disoccupati che vengono espulsi dal mondo del lavoro e che per sopravvivere devono occuparsi della propria cura (che non possono comprare sul mercato) e di quella dei ricchi. Ecco allora la sua proposta: ridurre la settimana lavorativa di tutti a trenta ore settimanali, e chiedere a ciascuna persona adulta di donare gratuitamente alla propria famiglia o comunità non meno di dodici ore di cura alla settimana.  Una persona matura e eccellente deve avere nel pacchetto di ore che offre alla società una parte di ore di lavoro retribuito e una parte di ore di cura non retribuite.

Quali sarebbero i grandi vantaggi se una tale riforma si attuasse? Innanzitutto si opererebbe naturalmente una ridistribuzione del lavoro. Non è più sostenibile che ci siano persone che lavorano fino a settant’anni, in un’età della vita dove è bene occuparsi d’altro, e che giovani di 25 o 30 anni restino a casa ad assistere, tristi, al deterioramento del loro capitale umano e motivazionale. ‘Lavorare meno lavorare tutti’ non è un slogan da applicare soltanto alle singole imprese in tempo di crisi: deve diventare un progetto politico ed economico (e previdenziale) per la società tutta intera.
In secondo luogo di renderebbe più sostenibile e buona la vita delle donne. I dati dicono che oggi in tutto il mondo le donne continuano ad offrire molta più cura degli uomini. In Italia una donna lavoratrice, sommando il lavoro fuori con quello dentro casa, lavora in media quasi due ore di più degli uomini della sua stessa età – un divario che può arrivare fino a tre ore se questa donna ha bambini piccoli. Se, invece, queste donne (chiamate ‘generazione sandwich’) oltre ad avere bambini piccoli hanno anche genitori anziani (ancora abili) da curare, i dati dicono che sono avvantaggiate nel mercato del lavoro rispetto alle donne che hanno solo bambini senza genitori. Come a dire che i benefici di cura offerti dai nonni superano i costi che i figli sostengono per il loro accudimento – occuparsi di un genitore non è mai solo un costo.

C’è bisogno di redistribuire il lavoro ma non è meno urgente redistribuire la cura. Se ciascun adulto, donna e uomo, indipendentemente dal proprio stipendio donasse 12 ore di cura la settimana alla propria famiglia e alla propria comunità, avremmo una significativa redistribuzione di reddito e applicheremmo in concreto quel principio di fraternità che la modernità volle porre a proprio fondamento, e che questo nostro capitalismo relega sempre più sullo sfondo del proprio paesaggio, dominato dai consumi e dalla finanza.

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Una proposta provocatoria ma stimolante: dare 12 ore alla settimana per la cura di chi ha bisogno d'aiuto

di Luigino Bruni

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La cura dei bambini e degli anziani è uno dei temi decisivi delle nostre democrazie, che Curaperò è troppo trascurato dal dibattito pubblico, culturale e politico. Esiste una crescente domanda di cura e di accudimento  che non può essere più soddisfatta dalle ‘agenzie’ che l’hanno fatto nelle generazioni passate (famiglie, chiese, stato). Persone più sole che vivono molto più a lungo, bambini con famiglie sempre più fragili e frammentate, chiedono molta più cura di qualche decennio fa ma non trovano risposte adeguate.

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Lavorare meno, lavorare tutti

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