Città Nuova

Economia Civile

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Oltre il mercato - Il sorprendente incontro con una Associazione che ha fatto proprio uno dei sogni di Chiara Lubich, l'Economia di comunione

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova di Agosto 2018

Costruttori di pace ridFirenze, 28 Giugno, Chiesa di San Lorenzo. Nei locali sotto la chiesa, l’Associazione Costruttori di pace presenta ad una quarantina di persone la loro nascente impresa di ‘cibo di strada’. Li avevo conosciuti pochi mesi prima, quando mi  invitarono per raccontarmi il loro interesse, o ‘passione’ (come  amano  dire), per l’Economia di comunione  (EdC).  Una associazione nata da giovani per rispondere alle esigenze di altri giovani migranti che, una volta compiuti i 18 anni di età,  si  trovano in una situazione di grave vulnerabilità. Hanno iniziato dapprima ad accoglierli dentro casa di alcuni di loro, poi hanno affittato un appartamento, e ora hanno creato una struttura di accoglienza nei locali della parrocchia.

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I membri dell’associazione sono operai, commessi, studenti. Il presidente, Emmanuel, è un giovane italiano di genitori africani. «Abbiamo trovato l’EdC per caso, cercando su internet economie diverse, -mi dice Mauro, uno di loro-  E da lìsiamo arrivati Chiara Lubich. L’abbiamo ascoltata in video in alcuni incontri di formazione; poi, in una notte, alcuni di noi l’abbiamo sognata insieme. A uno Chiara l’ha abbracciato, senza dire nulla; ad un’altra le ha dato risposte a domande su Dio e la fede; e a me - continua un po’ commosso -  ha detto una frase che non ho ancora capito: "tenete sempre Gesù in mezzo’’».

L’incontro con i Costruttori di pace è uno degli eventi più forti e veri di questi anni. Un gruppo di giovani, che si mettono a lavoro concretamente per accogliere nelle loro case altri giovani in difficoltà, che trovano da soli l’EdC e poi sognano, insieme, Chiara nella stessa notte, e lei le dice cose  bellissime,  le  cose che ha detto molte volte a molti di noi, ma le stiamo dimenticando, perché stiamo dimenticando il desiderio di cambiare il mondo. L’economia di comunione rinasce oggi (penso al Congo, l’America Latina, e anche l’Europa) laddove ci sono persone come Emmanuel, Mauro e i loro amici e amiche.  Dove ci sono persone che si mettono di nuovo ad accogliere poveri dentro le loro case. Il primo ‘mito fondativo’ dell’EdC è la Trento del dopoguerra, quando nel primo focolare spesso a pranzo si ritrovavano sulla stessa tavola ‘una focolarina, un povero, una focolarina, un povero’  -  Chiara e le sue prime compagne ce lo hanno raccontato molte volte. E in quelle occasioni, dicevano, mettevano le tovaglie e le posate più belle, a dire con quel gesto semplice la dignità e il valore di quegli ospiti.

Oggi l’EdC vive e rinasce dove persone e imprenditori continuano ad accogliere persone in difficoltà  ‘dentro  casa’, anche se la tavola imbandita a festa sono i banconi delle officine e le mense delle imprese. L’inclusione comunitaria e produttiva è ancora il primo passo di ogni nuova esperienza  di  comunione,  in  ogni  parte del mondo. «Sono andato a vivere con i nostri ragazzi ospitati», mi ha raccontato Emmanuel, perché «non potevo dire che siamo una famiglia se non andavo a vivere con loro. La vita rinasce dalla vita, quando qualcuno lascia il caldo degli incontri e del consumo di spiritualità, e si mette a camminare incontro all’altro che ci aspetta».

L’ospitalità è una virtù oggi molto minacciata in una stagione dell’Occidente che ha dimenticato i suoi valori fondativi, che non ricorda più che Isacco, il figlio della Promessa, fu annunciato da tre ospiti occolti da Abramo e Sara sotto la loro tenda nomade.

La nuova impresa EdC che sta nascendo a Firenze creerà lavoro per questi ospiti venuti dal mare, perché finché un giovane non lavora non è stato ancora veramente accolto. Ma il lavoro non nasce dal governo né dalle burocrazie, ma da chi decide di diventare imprenditore per rispondere al grido della gente della propria città. Saranno mille Emmanuel e Mauro che terranno viva l’EdC, e se noi continueremo a restare comodi nel confort delle nostre comunità, saranno gli angeli a visitarli e chiamarli in sogno.

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Costruttori di pace per l'Edc

Costruttori di pace per l'Edc

Oltre il mercato - Il sorprendente incontro con una Associazione che ha fatto proprio uno dei sogni di Chiara Lubich, l'Economia di comunione di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova di Agosto 2018 Firenze, 28 Giugno, Chiesa di San Lorenzo. Nei locali sotto la chiesa, l’Associazione Costruttori...
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Il Movimento dei Focolari, 10 anni dopo la partenza di Chiara Lubich, ha preso maggiore coscienza dei suoi limiti. Aurora Nicosia ne parla con l'economista Luigino Bruni.

a cura di Aurora Nicosia

dal CN Extra di Marzo 2018 di Città Nuova

Movimento dei Focolari CN ridDa esperto conoscitore delle Organizzazioni a movente ideale ravvisa nel Movimento dei Focolari elementi che possono far pensare ad una crisi del Movimento stesso?

La crisi è la condizione normale dei movimenti e delle realtà umane ideali collettive, perché essendo in continua evoluzione, la “veste” di ieri diventa presto stretta crescendo. Tutto, o molto, dipende dalla gestione della crisi. Un’immagine efficace della crisi è il seme che nella terra vuole diventare pianticella: forza il suolo, lo crepa, spinge. Ma è solo un segnale che il seme è ancora vivo, e cresce. Il Movimento dei Focolari, con una fondatrice con un talento spirituale e umano enorme, che lo ha guidato con le sue prime compagne e compagni per circa sessant’anni, con una spiritualità cresciuta e sviluppatasi prima del Concilio e del Sessantotto, inevitabilmente deve gestire diverse crisi. La storia e il buon senso ce lo dicono.

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Su che cosa si dovrebbe far leva perché la crisi diventi un’opportunità di crescita?

Le crisi principali sono di tipo narrativo, come ho cercato di esprimere in una recente serie di articoli per il quotidiano Avvenire. Anche i Focolari sono stati fondati e hanno vissuto di un patrimonio di racconti, storie, fioretti, canti, che hanno convertito e alimentato le generazioni precedenti. Bastava nominare alcuni di questi racconti per incantare e rinnovare l’incanto nei narratori (“Erano i tempi di guerra, e tutto crollava …”). Come tutti i capitali, però, anche quello narrativo conosce l’obsolescenza, nel linguaggio, nelle categorie, negli interlocutori. Occorre essere coscienti che il messaggio del carisma non si esaurisce con le sue narrazioni. Oggi ci sarebbe bisogno di artisti, intellettuali, giovani, e di persone di ogni età ed estrazione, che osino provare ad aggiornare quel primo capitale narrativo, che fa molta fatica oggi a continuare ad “incantare” come ai tempi di Chiara, e quando una storia che raccontiamo non incanta più gli altri, il primo a scoraggiarsi e a disincantarsi è il narratore.

Ripartire dalle prime storie fondative e tentare di aggiungerne di nuove, e raccontare, un pò diversamente, le stesse storie. La storia della Chiesa ci dice che senza la forza narrativa di Paolo, e poi dei tanti Padri e Dottori, avremmo perso per strada le categorie per comprendere correttamente i Vangeli. In queste operazioni narrative i rischi sono molti. Si può sbagliare a scegliere quali parti delle prime storie salvare come nucleo portante del carisma e magari conservare soltanto le narrazioni meno generative, o quelle più sensazionali (i francescani non hanno “salvato” la storia di Francesco tanto con i racconti delle stigmate, ma con la fedeltà al Vangelo sine glossa, a Madonna povertà, e continuando a baciare i lebbrosi). Oppure qualcuno può pensare che non occorra nessun aggiornamento delle narrazioni ma solo insistere con le antiche storie. Infine un errore molto comune e probabile è pensare di aggiornare il capitale narrativo ma, in realtà, scrivere un’altra storia, più moderna e accattivante, che però non ha nulla a che fare con il Dna del carisma originario. In genere questo errore si manifesta nell’eliminazione delle parte più “difficili” della prima storia, che sono quelle che più risentono del tempo. E così, ad esempio, prima si voleva annunciare il Vangelo ai non credenti e alle altre religioni, e dopo si torna a fare catechismo in parrocchia. Oppure si riduce il carisma a pratiche semplici e popolari – cene, gite, incontri di auto-aiuto – che hanno sempre un certo successo perché rispondono ai bisogni primari della socialità, ma che riducono molto l’originalità e la novità del carisma. Tutti capiscono, ma capiscono “altro”. Per evitare questo errore, che in parte è già operativo, bisognerebbe monitorare che cosa accade, ad esempio, nell’auto-gestione delle comunità locali oggi che i focolarini “consacrati” sono pochi e delegano la gestione concreta delle comunità: e capire se si sta tornando ad assomigliare troppo a gruppi parrocchiali, di preghiera o di assistenza, e sempre meno alle comunità profetiche dei primi tempi. Nell’Economia di Comunione, che seguo più da vicino, il rischio è reale: diventare un gruppo di imprenditori che cercano di seguire pratiche di gestione etica e un po’ di filantropia: tutti li capiscono, ma con il “sogno” di Chiara il rapporto è troppo tenue.

Lei parla spesso del ruolo delle minoranze creative. Da che tipo di persone sono composte e cosa possono fare nel caso specifico?

Il Vangelo e la Bibbia parlano spesso, forse soltanto, di piccoli gruppi che hanno una funzione di salvare tutti. Noè era uno solo, i profeti non-falsi pochissimi; e poi il “piccolo gregge”, il lievito, il sale. Tutta la teologia biblica è informata dall’immagine del “resto fedele”, che tornerà e potrà salvare l’intero popolo. Il problema dei movimenti carismatici è una specifica difficoltà a riconoscere e a dare spazio a queste minoranze profetiche e in genere ai riformatori. Identificandosi interamente con la dimensione carismatica della società e della Chiesa, il movimento fa fatica a capire che in quanto organizzazione è anche una istituzione (e non solo carisma), e se non dà spazio alla voce carismatica interna, perde profezia. Ma ci sono, qua e là, segnali di speranza, anche nei Focolari.

Cosa c’è, a suo avviso, di inespresso del carisma che Dio ha dato a Chiara Lubich e che bisognerebbe invece sviluppare?

C’è una forte laicità e una grande universalità, affiorati ogni tanto durante la vita di Chiara, ma che oggi rischiano di non esprimersi fino in fondo. I Focolari sono un movimento approvato dalla Chiesa cattolica, dove è nato e si è sviluppato. Ma non è soltanto un movimento cattolico: al suo interno hanno avuto un ruolo da protagonisti anche cristiani di altri chiese, non cristiani, non credenti. Anche Gesù era ebreo, e anche Lutero all’inizio era cattolico: ma poi abbiamo capito che erano anche altro, e i loro “movimenti” sono diventati qualcosa di nuovo e di diverso rispetto alle loro comunità di provenienza. C’è un immenso potenziale da sviluppare. Il carisma avrebbe la forza di raccontare diversamente e più laicamente la fede, il cristianesimo, la religione e lo stesso Dio, se avessimo la forza di osare di più, ed essere più profetici. Ma siamo ancora in tempo per provarci.

Quali consigli darebbe ad una persona che ha investito le migliori energie della sua vita credendo nell’”utopia” di Chiara e che adesso vive una fase di delusione o quantomeno di ripensamento?

Di continuare a credere alla promessa. Non cedere allo scoraggiamento, al pessimismo, alla malinconia, all’accidia individuale e collettiva, tentazioni molto forti in queste età di passaggio epocale. Mosè, il liberatore, non entrò nella terra promessa. La vide dal Monte Nebo, ma ci vide entrare soltanto i figli. Ogni vocazione, se è autentica, si ferma prima di attraversare il Giordano. La terra promessa è la terra dei figli. Nessuna vita adulta è l’avveramento delle promesse della gioventù, perché se lo fosse le promesse sarebbero state troppo piccole – come nessun figlio libero è l’avveramento delle speranze dei genitori. Al tempo stesso, è necessario capire che il linguaggio, le forme e i modi di quella “utopia” della giovinezza devono necessariamente “morire” per risorgere. Solo ciò che muore può risorgere. La crisi della prima utopia è la crisi del diventare adulti: tanti identificano l’infanzia con la prima promessa, e per diventare adulti lasciano. Altri non riescono o non vogliono diventare adulti per paura di perdere l’incanto del primo amore, e restano adolescenti tutta la vita, anche quando (e perché) sono felici e comodi. Qualcuno – ne conosco alcuni -sta tentando in questa età di passaggio di diventare adulto portando con sé le speranze e le utopie della giovinezza. È difficile, ma chi ci riesce inizia la fase più bella della vita, di quella propria e di quella della sua comunità.

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a cura di Aurora Nicosia

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Bruni: Focolari, cercare nuove narrazioni

Bruni: Focolari, cercare nuove narrazioni

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In questo tempo di nuove e grandi migrazioni, dobbiamo imparare, tutti, a leggere questi fenomeni con le categorie giuste e poi agire di conseguenza.

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (76 KB) n.11/2017

Cooperazione CN ridIn questo tempo di nuove e grandi migrazioni, dobbiamo imparare, tutti, a leggere questi fenomeni con le categorie giuste e poi agire di conseguenza. In genere, le persone ben disposte verso il grande valore dell’accoglienza, si fermano troppo presto e in superficie. Si fa riferimento, ad esempio, all’esperienza di migranti dei nostri nonni in Europa o in America, e si dice: dobbiamo essere accoglienti con i migranti perché in un passato recente siamo stati migranti anche noi. Si cita, poi, l’accoglienza del forestiero come un principio di tutte le grandi civiltà del passato, scritto nei libri sacri delle religioni. L’ospite è sacro, va accolto e onorato.

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Polifemo è condannato dalla cultura mitica greca perché invece di accogliere i suoi ospiti li divora. Nella Bibbia Abramo e Sarah accolgono i tre uomini nelle querce di Manre, questi gli annunciano l’arrivo di Isacco, figlio della promessa. Quei tre uomini, poi, continuano il viaggio e arrivano a Sodoma, dove invece dell’accoglienza trovano la morte, e per questo quella città diventa maledetta. E nella lettera agli Ebrei, un culmine del Nuovo testamento, troviamo una delle frasi più belle: «Siate accoglienti con gli ospiti, alcuni hanno accolto degli angeli senza saperlo».

Altre volte, poi, si attivano i registri della compassione e della pietas umana, e il nostro cuore è colpito e commosso dalle scene di sofferenza che circondano molte esperienze di migranti. Valori, principi e sentimenti nobili e buoni, che però non sono sufficienti per creare una cultura condivisa e sostenibile dell’accoglienza. Le emozioni, il ricordo, l’invocare antichi principi, sono troppo fragili, e manipolabili dalla pubblica opinione, oggi più che mai aggressiva, ideologica, e miope. Cosa manca allora alla nostra narrativa delle migrazioni? Il grande principio di reciprocità e del mutuo vantaggio.

Quando i nostri nonni giunsero in America o in Belgio, arricchirono quei Paesi e, al tempo stesso, fecero migliori sé stessi e le loro famiglie. Non c’erano grandi associazioni di accoglienza, ma quei migranti operarono autentici miracoli civili ed economici semplicemente lavorando, facendo imprese, cooperando con la gente del luogo per un mutuo vantaggio. Senza vedere le persone che giungono da noi come potenziali partner di lavoro e di vita civile, i sentimenti, seppur buoni, non producono un legame abbastanza robusto per reggere di fronte alle inevitabili difficoltà di ogni accoglienza vera. Perché la corda della reciprocità e del mutuo vantaggio, oltre ad essere più dignitosa e rispettosa per tutti, è molto più forte delle corde dei sentimenti, dei ricordi e dell’emotività. Non dovremmo sentirci generosi o più buoni di chi accogliamo, dovremmo solo leggere nel volto dell’altro i segni di un alleato che può aiutare anche noi. Tra l’altro, il principio di accoglienza delle società passate era basato anche sulla razionalità e sull’interesse di lungo periodo: in società ancora in parte nobili e migranti, tutti potevano trovarsi nella condizioni di migrante, e quindi porre la legge di accoglienza del forestiero a pietra angolare “conveniva” a tutti: all’altro, a noi, ai suoi figli, ai nostri figli. La cooperazione, poi, porta frutti se le persone che cooperano sono diverse: senza biodiversità la cooperazione civile e commerciale è piccola. In un mondo di persone troppo simili il mercato serve poco.

Nella Bibbia, poi, troviamo anche parole importanti rivolte alle comunità migranti, che si trovano a vivere in un altro Paese. Il profeta Geremia scrisse una splendida lettera ai deportati in Babilonia. Il contesto era molto diverso, ma le sue parole sembrano scritte anche per i migranti che arrivano in un altro Paese. Scriveva: «Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie… Lì moltiplicatevi e non diminuite» (29, 1-6).

Parole che ci lasciano ancora tramortiti per la loro forza e bellezza. Edificare case.

Sposarsi, fare figli, piantare orti. Quindi amare e lavorare. Nelle migrazioni, la paura del presente e del futuro e il dolore del passato iniziavano a svanire non appena cominciavano a lavorare. Lavorando fiorisce quella solidarietà-fraternità vera tra lavoratori parlanti lingue diverse, che però possono parlare tra di loro con le mani e con le lacrime e il sudore del lavoro.

L’amicizia con i nuovi immigrati può nascere e rinascere se e dove riusciamo a lavorare insieme.

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In questo tempo di nuove e grandi migrazioni, dobbiamo imparare, tutti, a leggere questi fenomeni con le categorie giuste e poi agire di conseguenza.

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pubblicato su pdf Città Nuova (76 KB) n.11/2017

Cooperazione CN ridIn questo tempo di nuove e grandi migrazioni, dobbiamo imparare, tutti, a leggere questi fenomeni con le categorie giuste e poi agire di conseguenza. In genere, le persone ben disposte verso il grande valore dell’accoglienza, si fermano troppo presto e in superficie. Si fa riferimento, ad esempio, all’esperienza di migranti dei nostri nonni in Europa o in America, e si dice: dobbiamo essere accoglienti con i migranti perché in un passato recente siamo stati migranti anche noi. Si cita, poi, l’accoglienza del forestiero come un principio di tutte le grandi civiltà del passato, scritto nei libri sacri delle religioni. L’ospite è sacro, va accolto e onorato.

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L’intelligenza vera della cooperazione

L’intelligenza vera della cooperazione

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Rubriche - Oltre il Mercato. Più ci inoltriamo nei sentieri dell’insaziabilità, più sentiamo la nostalgia per una vita più sostenibile, vera, solidale.

di Luigino Bruni

pubblicato su  pdf Città Nuova n.10/2017 (191 KB) di Ottobre 2017

Diamanti CN ridIn un mio recente viaggio in India, ho conosciuto un economista del Sud dell’India che mi ha spiegato una delle leggi fondamentali dell’economia gandhiana.

Secondo Mahatma Gandhi, quando una persona si trova di fronte a due panieri, contenenti il primo 5 unità e il secondo 4 unità della stessa merce, in genere la scelta migliore è quella del secondo paniere. La sua regola generale era: il meno va preferito al più. Poiché, quando è possibile, è più intelligente avere meno cose, svuotarsi invece di riempirsi, utilizzare l’essenziale e non il superfluo.

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Perché devo avere 5 cose se me ne bastano 4? Nell’umanesimo gandhiano (è impressionante quanto Gandhi sia ancora il cuore e il padre dell’India: nelle grandi città la strada principale è intitolata a lui), il di più non è segno di abbondanza ma di spreco, e quindi di irrazionalità, di stupidità. La sua prima legge economica, che pur esercita un certo fascino su di noi, è però esattamente l’opposto della legge che abbiamo posto a fondamento del capitalismo occidentale e della sua teoria economica. Il “più è preferito al meno”, il cosiddetto “assioma di non-sazietà”, è, infatti, la prima ipotesi dei libri di economia, perché corrisponde a quanto crediamo essere una semplice e innocua regola di buon senso. Mai sazi, sempre in cerca del di più, insaziabili. L’intero sistema commerciale e pubblicitario si basa esattamente sull’insaziabilità dei consumatori. È meglio prenderne tre e pagarne due. La crescita, il Pil, i mercati, sono il frutto e lo sviluppo di questo semplice assioma.

Ma mentre ascoltavo quell’economista, mi chiedevo: come sarebbe stata la nostra economia, il nostro mondo, il pianeta, il nostro benessere, se invece della regola di non-sazietà avessimo seguito quell’idea gandhiana? Se avessimo scelto la sobrietà invece del consumismo, il ridurre invece dell’aumentare, il diminuire invece del crescere? Avremmo prodotto di meno, avremmo corso meno velocemente, avremmo un pianeta meno inquinato.

Saremmo stati più simili alle piante e alle altre creature sulla terra, che non conoscono la legge del superfluo ma solo quella del necessario.

Se guardiamo bene, però, ci accorgiamo che quella intuizione di Gandhi non è così aliena neanche dalla nostra cultura. Le civiltà e le economie pre-capitalistiche erano più simili all’economia gandhiana che alla nostra. Erano fondate su poche e chiare leggi: accontentarsi dei beni che si avevano, la temperanza (grande virtù cardinale dimenticata), la condivisione del superfluo con chi non aveva il necessario.

Poi, ad un certo punto, nacque in Europa e poi negli Usa un nuovo spirito, che fu chiamato spirito del capitalismo, che iniziò a lodare l’accumulo di beni, l’insaziabilità, la non temperanza nei consumi e nel far quattrini. Questo spirito dell’economia moderna per qualche secolo (XVII-XX) è stato bilanciato da altri spiriti non economici ben presenti nella società (dalla religione alla scuola, alla politica). Così è rimasto per lungo tempo dentro il suo ambito, portando pure buoni frutti – anche perché l’idea del più e dell’abbondanza vista come benedizione era ben presente nella Bibbia. Fino a quando, molto più recentemente, lo spirito dell’economia e del business è uscito dal suo alveo e ha occupato totalmente la politica e la scuola, e ormai sta entrando anche nella religione, divenendo così l’unico spirito della intera vita sociale. E la distanza con Gandhi è diventata incolmabile. Ma è proprio l’enorme distanza tra l’economia gandhiana e la nostra che la rende particolarmente utile e preziosa, perché più ci inoltriamo nei sentieri dell’insaziabilità, più sentiamo la nostalgia per una vita più sostenibile, vera, solidale. Più ci riempiamo di merci, più sentiamo la nostalgia di altri beni; più siamo circondati da sprechi di cibo e di tutto, più sentiamo il grido di chi non ha ancora il necessario e vive, nuovo Lazzaro, cercando nella spazzatura le briciole fatte cadere dalle nostre tavole. Finché sentiamo questa nostalgia e, soprattutto, il dolore per queste grida, possiamo ancora sperare di cambiare. Se invece l’abbondanza e il comodo ottureranno per sempre l’orecchio dell’anima, ci convinceremo che i poveri non ci sono più, solo perché siamo troppo distanti da loro per vederli. E quello sarà il giorno più triste.

 

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Rubriche - Oltre il Mercato. Più ci inoltriamo nei sentieri dell’insaziabilità, più sentiamo la nostalgia per una vita più sostenibile, vera, solidale.

di Luigino Bruni

pubblicato su  pdf Città Nuova n.10/2017 (191 KB) di Ottobre 2017

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Secondo Mahatma Gandhi, quando una persona si trova di fronte a due panieri, contenenti il primo 5 unità e il secondo 4 unità della stessa merce, in genere la scelta migliore è quella del secondo paniere. La sua regola generale era: il meno va preferito al più. Poiché, quando è possibile, è più intelligente avere meno cose, svuotarsi invece di riempirsi, utilizzare l’essenziale e non il superfluo.

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I sentieri della non-sazietà

I sentieri della non-sazietà

Rubriche - Oltre il Mercato. Più ci inoltriamo nei sentieri dell’insaziabilità, più sentiamo la nostalgia per una vita più sostenibile, vera, solidale. di Luigino Bruni pubblicato su  pdf Città Nuova n.10/2017 (191 KB) di Ottobre 2017 In un mio recente viaggio in India, ho con...
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In Veneto il referendum per l’autonomia ha portato il 60% degli elettori alle urne, attirati dal messaggio del governatore Zaia di pagare meno tasse allo Stato. Una prospettiva che rende tutti più poveri e insicuri

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova.it il 23/10/2017

Referendum autonomia ridL’articolo 75 della nostra costituzione vieta il referendum abrogativo in materia tributaria e di bilancio. E la spiegazione è semplice e di normale buon senso: se chiedi alla gente di pagare meno tasse o di non pagarle affatto, avrai una alta percentuale di persone che dirà: certo! Non tutti, perché c’è sempre stata e c’è una minoranza che cerca anche gli interessi degli altri insieme ai propri, ma queste minoranze non riescono in genere a diventare maggioranza, tranne pochi momenti decisivi della storia, quando, dopo i grandi dolori, la gente diventa diversa, per un po’ di tempo, e scrive le grandi costituzione, e scopre la fraternità.

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Chiedere ai lombardi e ai veneti se vogliono pagare meno tasse “a Roma” – di fatto questo era il messaggio della sostanza della consultazione referendaria: tutte le altre finezze politiche non sono arrivate alla maggioranza della gente, o sono state molto secondarie – è una domanda ovvia, banale, stupida, perché tutti sapevamo come andava a finire.

Peccato che quei nostri concittadini non hanno colto la banalità di questa consultazione, hanno votato in molti, soprattutto in Veneto, e sono caduti nella trappola di chi usa questi giochini antichi per rafforzare il proprio potere, e poi dice pure: «Siamo entrati nei libri di storia». È vero, nella storia della banalità.

Dietro questi fatti, e quelli molto più seri e gravi in terra spagnola, si nascondono enormi sfide per il presente e il futuro dell’Europa. Le istituzioni sono dei beni comuni, che nascono quando una quota significativa di popolazione ha motivazioni ed energie per impegnarsi per qualcosa più grande dei propri interessi. Lo stato, le regioni, l’Europa … sono alte forme di beni comuni.

Ma come ci insegna la teoria della «Tragedia dei beni comuni», la somma di interessi privati può solo distruggere i beni comuni, mai crearli né mantenerli.

Se oggi prevale la politica di assecondare gli interessi più banali delle persone (sicurezza e denaro), ci ritroveremo presto in una nuova forma di medioevo, dove vivremo arroccati in piccoli castelli fortificati, circondati da ‘barbari’ che cercheranno di violare le mura, e prima o poi ci riusciranno. E saremo più poveri, insicuri, e certamente meno civili e intelligenti. Stiamo attenti a quanto sta accadendo nel mondo, e poi agiamo di conseguenza, se amiamo la democrazia e le sue istituzioni.

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In Veneto il referendum per l’autonomia ha portato il 60% degli elettori alle urne, attirati dal messaggio del governatore Zaia di pagare meno tasse allo Stato. Una prospettiva che rende tutti più poveri e insicuri

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova.it il 23/10/2017

Referendum autonomia ridL’articolo 75 della nostra costituzione vieta il referendum abrogativo in materia tributaria e di bilancio. E la spiegazione è semplice e di normale buon senso: se chiedi alla gente di pagare meno tasse o di non pagarle affatto, avrai una alta percentuale di persone che dirà: certo! Non tutti, perché c’è sempre stata e c’è una minoranza che cerca anche gli interessi degli altri insieme ai propri, ma queste minoranze non riescono in genere a diventare maggioranza, tranne pochi momenti decisivi della storia, quando, dopo i grandi dolori, la gente diventa diversa, per un po’ di tempo, e scrive le grandi costituzione, e scopre la fraternità.

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Il pericolo di un voto prevedibile

Il pericolo di un voto prevedibile

In Veneto il referendum per l’autonomia ha portato il 60% degli elettori alle urne, attirati dal messaggio del governatore Zaia di pagare meno tasse allo Stato. Una prospettiva che rende tutti più poveri e insicuri di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova.it il 23/10/2017 L’articolo 75 della no...
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Rubriche - Oltre il Mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.09/2017 di Settembre 2017

Antonio Genovesi ritratto ridQuest’anno sono i 250 anni dalla pubblicazione delle Lezioni di Economia Civile di Antonio Genovesi, il più importante trattato della tradizione dell’Economia civile. Gli anniversari sono utili se consentono di andare indietro per andare avanti, come nel gioco del rugby. Tornare a Genovesi potrebbe consentire all’Italia e all’Europa di oggi di andare davvero avanti, e nella direzione giusta.

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Antonio Genovesi nasce il 1° novembre 1713 a Castiglione (oggi Castiglione del Genovesi), piccolo paese a 8 miglia da Salerno, e muore a Napoli nel 1769. Nel 1736 fu ordinato prete, e l’anno seguente si spostò a Napoli, dove pochi anni dopo iniziò a insegnare metafisica nella Università dove insegnava Vico.

Per alcune accuse di eresia ebbe problemi con le autorità ecclesiastiche del tempo e con i teologi napoletani, e per questo dovette passare dapprima all’insegnamento della logica (disciplina teologicamente meno controversa), e, infine, nel 1754 all’economia, divenendo il primo cattedratico di economia in Europa, in cattedra privata, nei pressi di Napoli.

Riguardo la persona di Genovesi, il suo illustre allievo e primo biografo Galanti scrive: «La fautrice Natura, che destinato l’avea a gran cose, oltre all’averlo fatto grande della persona, e di corpo bellissimo, e quanto alcun altro esser potesse, di amabile e avvenente figura, conceduto ancora gli avea sanità robusta, maniere costumate ed eleganti, e il talento tanto prezioso quanto singolare di comunicare con nettezza e con grazia i suoi pensieri. A sì fortunate disposizioni accoppiò vasta memoria, dritto intendimento, animo grande; e ciò, ch’è più raro, genio elevato e diverso da quelli dei savi ordinari, i quali non pensano, e non ragionano, se non se sulle idee degli altri».

La lingua che Genovesi scelse per le sue lezioni fu l’italiano, perché, diceva, «scriverò dunque come penso, e parlerò come tra noi si parla, perché amo di essere inteso, non ammirato». Fu instancabile educatore, diffusore in mezzo al suo popolo della tecnica e delle scienze moderne, riformatore del sistema educativo, e grande docente. In uno dei suoi libri scritti “per gli giovinetti” – i destinatori dei suoi trattati –, scriveva: «Le scuole debbono servire a far teste per la Repubblica, non Grammatici, né Disputanti per gli Café: a far uomini pieni di senso di vera e soda pietà, di giustizia, di onestà, di amicizia, per istruire e reggere l’ignorante moltitudine».

Le difficoltà che Genovesi incontrò sul terreno teologico crearono un ostacolo al fiume delle sue idee, che deviò verso un letto meno controverso della teologia, l’economia, dove i riferimenti a Locke e Hume erano meno sospetti e meno importanti per la salvezza delle anime. Negli ultimi 15 anni della sua vita Genovesi si dedicò quasi esclusivamente alle materie economiche, dove eccelse e incontrò un riconoscimento universale. Al culmine della sua attività di studioso e di docente, scrisse le Lezioni, che sono una summa del suo pensiero e dell’intera Economia civile. In una lettera, così scriveva ad un amico: «Sto ora a far imprimere le mie Lezioni di commercio in due tometti. Raccomando l’opera alla Divina Provvidenza. Io sono oramai vecchio, né spero o pretendo nulla più dalla terra. Il mio fine sarebbe di vedere se potessi lasciare i miei Italiani un poco più illuminati che non gli ho trovati venendovi, e anche un poco meglio affetti alla virtù, la quale sola può essere la vera madre d’ogni bene. È inutile di pensare ad arte, commercio, a governo, se non si pensa di riformar la morale. Finché gli uomini troveranno il lor conto ad essere birbi, non bisogna aspettar gran cosa dalle fatiche metodiche. N’ho troppo esperienza». Sono molti i messaggi che Genovesi e le sue Lezioni lanciano all’Italia di oggi. Genovesi non ebbe paura di innovare rispetto alla tradizione, lo fece e ne subì anche i costi.

Ma aveva anche una chiara idea della vocazione della tradizione italiana: fu capace di innovare perché conosceva bene il genio della sua cultura. Anche oggi il bivio che abbiamo di fronte è chiaro: possiamo continuare a fare i “birbi” o diventare, finalmente, civili.

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Rubriche - Oltre il Mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.09/2017 di Settembre 2017

Antonio Genovesi ritratto ridQuest’anno sono i 250 anni dalla pubblicazione delle Lezioni di Economia Civile di Antonio Genovesi, il più importante trattato della tradizione dell’Economia civile. Gli anniversari sono utili se consentono di andare indietro per andare avanti, come nel gioco del rugby. Tornare a Genovesi potrebbe consentire all’Italia e all’Europa di oggi di andare davvero avanti, e nella direzione giusta.

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Abbiamo bisogno di una economia civile

Abbiamo bisogno di una economia civile

Rubriche - Oltre il Mercato di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.09/2017 di Settembre 2017 Quest’anno sono i 250 anni dalla pubblicazione delle Lezioni di Economia Civile di Antonio Genovesi, il più importante trattato della tradizione dell’Economia civile. Gli anniversari sono utili se c...
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In occasione del Premio Nobel per l'Economia a Richard H.Thaler, teorico del "Nudge", ripubblichiamo l'articolo di Luigino Bruni sul tema per la Rubrica "Oltre il mercato"

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.02/2016 di febbraio 2016

Mosca nel gabinetto ridPerché, nonostante tutta l’informazione sull’alimentazione, sugli stili di vita, sulle conseguenze dei nostri comportamenti per il presente e il futuro del pianeta, continuiamo ad inquinare molto con auto e riscaldamenti, ma anche a mangiare male, troppo, e a non fare abbastanza attività fisica? È, infatti, più  semplice capire perché non riusciamo a rinunciare all’aria condizionata e all’auto privata. È un tipico caso dove il beneficio privato (comfort) prevale sul beneficio pubblico (riscaldamento del pianeta).

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Molto più difficile è però comprendere perché mangiamo e beviamo cose che sappiamo farci male. In questo secondo caso non c’è nessun conflitto tra bene privato e bene comune, ma semplicemente un grande bene individuale e sociale (salute, aspettativa di vita, minori costi) cui viene preferito un piccolo bene individuale (cibi grassi e dolci) e un male sociale (aumento della spesa pubblica). In altre parole, è più ‘coerente’ il comportamento di un inquinatore informato di quello di un obeso informato.

Sappiamo sempre più dettagli sui danni certi di zuccheri e grassi, ma poi arriviamo stanchi a casa, vediamo un pezzo di torta sul tavolo e lo preferiamo alla mela che è lì accanto; siamo invitati a casa da un amico, e nel soggiorno tra una parola e un’altra svuotiamo la ciotola di pistacchi e arachidi.

Gli economisti hanno le loro spiegazioni a questi nostri comportamenti. Una delle più note è quella del ‘Nudge’, cioè ‘spintarella’. L’idea di fondo è semplice: la gente si comporta male perché pur sapendo che certe scelte sono sbagliate, quando sono posti di fronte ad una tentazione non riescono a resistere. Più in generale, è come se avessimo delle preferenze e dei gusti più ‘veri’ rispetto alle scelte che facciamo nelle condizioni concrete della nostra vita, dove le decisioni sono inquinate da stress, stanchezza, errori.

Ecco allora la soluzione: rendiamo, artificialmente, più complicata la scelta delle cose che ci fanno male. Chiediamo, ad esempio, ai supermercati di porre gli snack nei display più alti (e lontani dalla cassa), o ai ristoranti di nascondere i dolci nella carta del menu, scrivendoli con caratteri più piccoli, o mettendoli, magari, nelle note dell’ultima pagina. E chiediamo agli amici mettere i pistacchi lontani dal divano – in modo da aumentare il costo di chi li vuole consumare. Non si tratta quindi di proibire certi prodotti, ma solo di rendere più ‘costoso’ il processo di scelta per quei beni che sono più soggetti all’effetto ‘tentazione’. Di darci l’un l’altro una bonaria spintarella nelle scelte dove siamo più deboli. Oppure scegliere i ‘default’ in modo da rendere più semplice la scelta meno costosa - alcuni bancomat, seguendo questa teoria, per la stampa della ricevuta hanno spostato a destra la scelta ‘No’.

Queste pratiche di nudge dovrebbero essere applicate anche a settori eticamente sensibili come l’azzardo, dove invece si pratica invece il ‘nudge all’incontrario’: basta vedere dove sono esposti i gratta-e-vinci nelle edicole o negli autogrill. La prima difficoltà nel rendere operative le molte raccomandazioni del nudge sono gli incentivi delle imprese, che massimizzano i profitti vendendo i prodotti tentatori.

Gli studi presentati ad un convegno a Lugano (‘Economics, Health and Happiness’, 14-16 Gennaio) ci hanno offerto ancora altre spiegazioni. Una ha a che fare con l’errata stima del futuro, soprattutto da giovani. La rinuncia oggi ad un comportamento scorretto è molto evidente e concreta, la salute tra 20 anni è troppo lontana per poter condizionare seriamente il mio comportamento di oggi. Tendiamo, poi, a non prendere abbastanza sul serio le statistiche, perché pensiamo di essere migliori della media, che siamo unici e diversi da tutti. I geni dei nostri genitori e i primi anni di vita pesano molto nelle scelte da adulti. C’è poi il ruolo del lavoro e della solitudine. Quando si lavoro male e/o troppo, si mangia anche male, e la cura delle relazioni è correlata alla cura di sé. Senza rivedere la nostra cultura del lavoro, delle relazioni e della cura, continueremo a sapere che la verdura fa bene e a mangiare panini da soli.

N.d.R. - La foto ritrae un geniale esempio di "Nudge" ideato per l'aeroporto di Monaco di Baviera, che sortisce l'effetto di mantenere i bagni degli uomini puliti più a lungo. La foto è stata suggerita dall'autore dell'articolo, assiduo frequentatore di aeroporti

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In occasione del Premio Nobel per l'Economia a Richard H.Thaler, teorico del "Nudge", ripubblichiamo l'articolo di Luigino Bruni sul tema per la Rubrica "Oltre il mercato"

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.02/2016 di febbraio 2016

Mosca nel gabinetto ridPerché, nonostante tutta l’informazione sull’alimentazione, sugli stili di vita, sulle conseguenze dei nostri comportamenti per il presente e il futuro del pianeta, continuiamo ad inquinare molto con auto e riscaldamenti, ma anche a mangiare male, troppo, e a non fare abbastanza attività fisica? È, infatti, più  semplice capire perché non riusciamo a rinunciare all’aria condizionata e all’auto privata. È un tipico caso dove il beneficio privato (comfort) prevale sul beneficio pubblico (riscaldamento del pianeta).

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Perché  continuiamo a  farci del male?

Perché continuiamo a farci del male?

In occasione del Premio Nobel per l'Economia a Richard H.Thaler, teorico del "Nudge", ripubblichiamo l'articolo di Luigino Bruni sul tema per la Rubrica "Oltre il mercato" di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.02/2016 di febbraio 2016 Perché, nonostante tutta l’informazione sull’alimentaz...
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Rubriche - Vengono alla mente e al cuore nuove opere di misericordia leggendo e studiando il bel Rapporto annuale Istat 2017: la condizione del Paese

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (147 KB) n.08/2017 di Agosto 2017

Rapporto ISTAT CN rid«Ero giovane, e mi hai dato lavoro», «ero anziana sola e mi hai visitato». Vengono alla mente e al cuore nuove opere di misericordia leggendo e studiando il bel Rapporto annuale Istat 2017: la condizione del Paese. La disoccupazione giovanile, la solitudine e la vulnerabilità economica delle donne anziane, e poi il lavoro nel Sud e nelle Isole, il bassissimo tasso di natalità sono le grandi ferite del nostro Paese. Tra il «2008 e il 2017 la popolazione italiana residente di età compresa tra i 18 e i 34 anni è diminuita di 1,1 milioni» (p. 97), e se non avessimo avuto circa 400 mila giovani arrivati dall’estero, la perdita di giovani avrebbe superato il milione e mezzo.

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Un dato che dovrebbe lasciarci senza parole, perché se un Paese perde oltre un milione di giovani in 10 anni, questo Paese è in profonda crisi umana e morale, sintomo e causa di molte altre crisi. Soprattutto se lo leggiamo insieme ad altri due numeri: l’1,3 figli per donna, che ci pone agli ultimi posti assoluti nel mondo, e il 14,1% di bambini 1-14 anni. Se è vero, come diceva il monaco camaldolese ed economista Giammaria Ortes nel 1770, che «la ricchezza di un popolo è la sua gente», ancora più vero è che la ricchezza di un popolo sono i suoi giovani, i suoi ragazzi e ragazze, i suoi bambini. In puero spes, aveva voluto scrivere l’imprenditore Alessandro Rossi in cima al suo grande asilo di Schio del 1872.

La povertà delle anziane sole e quella dei giovani disoccupati sono state giustamente messe insieme dal rapporto, perché sono due gruppi sociali molto diversi ma accumunati dalle stesse gravi vulnerabilità: oltre il 50% di disoccupati e donne anziane sole sono a rischio di povertà e di esclusione sociale, e oltre il 20% in condizioni di grave deprivazione. Sono loro i nuovi scarti, giovani che non riescono a fiorire, e le “esodate delle cura”, donne che hanno speso la loro giovinezza per far fiorire figli, mariti e genitori, e che ora si ritrovano sole, anche perché in un mondo troppo cambiato i figli non possono restituire loro la cura che hanno ricevuto in abbondanza.

Ma anche in questo bel rapporto ci sono dei punti deboli e problematici, che vanno evidenziati per migliorarlo. Il primo è di carattere generale, e riguarda la povertà.

Da qualche decennio, grazie al lavoro di Amartya Sen e di molti altri studiosi, sappiamo che il reddito non è il migliore indicatore di povertà, perché le povertà sono carenze di capitali delle persone, che poi determinano carenze di flussi di reddito. Si è poveri perché non si hanno capacità (capabilities), capitali sanitari, educativi, relazionali, famigliari, sociali, una carenza di capitali che non consente di generare reddito. Di questo non si parla nel rapporto, nonostante l’Istat abbia lanciato il Bes (Benessere equo e sostenibile) che cerca proprio di misurare questi capitali.

Una persona che vive con 1000 euro in una città con molti “capitali pubblici”, cioè trasporti pubblici buoni ed economici, trasporti efficienti, asili, buona sanità, fa una esperienza di povertà molto diversa da un’altra che vive in una città dove questi beni pubblici non ci sono o sono minori. La nostra ricchezza è data dalla somma di beni privati e di beni pubblici.

Molto bella, poi, è l’immagine del condominio usata nel Rapporto: l’Italia è equiparata a un condominio di una nostra città dove vivono famiglie appartenenti ai 9 gruppi del Rapporto. Nei condomini, però, la qualità della vita delle famiglie dipende certamente dai redditi famigliari, ma anche, e a volte soprattutto, dalle relazioni sociali tra le persone abitanti nell’edificio. I beni relazionali, il capitale sociale e civile, però, non sono presenti nel Rapporto, mentre sarebbe bene che ci fossero. Tutti sappiamo che il Pil non basta per misurare il benessere, e l’Istat deve aiutare a dirlo a tutti.

Infine, nel Rapporto si parla di tempo libero e di gioco, ma non si specifica quale gioco: il gioco d’azzardo non è distinto dal buon gioco, e quindi non si capisce se quei giochi producano benessere o malessere, soprattutto tra gli anziani (p. 131). Perché, come ricordava Melchiorre Gioja nel suo trattato Filosofia della statistica del 1829, la statistica deve misurare «la ricchezza e la povertà, la scienza e l’ignoranza, la felicità e l’infelicità dei popoli».

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Rubriche - Vengono alla mente e al cuore nuove opere di misericordia leggendo e studiando il bel Rapporto annuale Istat 2017: la condizione del Paese

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (147 KB) n.08/2017 di Agosto 2017

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Luci e ombre dell’Italia

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Insegna economia politica all’università Lumsa di Roma, dopo 13 anni alla Bicocca di Milano. E ogni settimana commenta i libri biblici su “Avvenire”. Personalità sfaccettata, è membro fin da giovane del Movimento dei Focolari ed è il coordinatore del progetto per una Economia di Comunione

a cura di Giulio Meazzini

pubblicato su Città Nuova - n. 07/2017, luglio 2017

Chi è Luigino Bruni? Sono essenzialmente un economista, con una vocazione umanista. Mi sono sempre occupato, infatti, anche di storia, etica, filosofia. E in economia Luigino Bruni CN ridmi interessano soprattutto le idee, che sono però intrecciate con tutto il resto, come nella vita. Per questo da qualche tempo mi occupo anche di temi come felicità, dono, idealità, passioni, carismi e organizzazioni a movente ideale. Ogni tanto nella vita bisogna essere capaci di ricominciare. Ho appena pubblicato un libretto intitolato La felicità è troppo poco (Pacini Editore): questo vale anche per l’economia. Non si può pensare che la scienza economica sia sufficiente da sola per capire il mondo. La vita è bella perché esistono le soprese. Anche nel lavoro. 

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La felicità non basta? Vivendo si capisce che ci sono cose importanti almeno quanto la felicità, come la dignità e la verità su di sé. Oggi la felicità, intesa come piacere, è diventata la priorità, e quindi… siamo infelici. Gli esseri umani vogliono di più: dignità, libertà, fedeltà, verità.

Lei afferma che un’antropologia pessimistica è alla base del capitalismo. Quale futuro per l’economia? Nel ’900 avevamo due modelli di economia: quello anglosassone, basato sull’antropologia agostiniana, luterana e  calvinista, dove l’essere umano è visto essenzialmente orientato al proprio interesse personale, e il bene comune arriva come effetto  non   intenzionale (si pensi alla “mano invisibile” di Smith). Il secondo modello, invece, era il capitalismo di Italia, Francia, Spagna, Portogallo, cattolico e più comunitario, il quale proponeva un’antropologia più positiva, basata sulle virtù e sull’uomo sociale. Portava meno crescita, ma una maggior gioia di vivere, mentre al Nord si accumulava ricchezza e si sviluppava il capitalismo. Ora, con la globalizzazione, anche nel Sud Europa è stato importato questo stile di capitalismo più individualista e solitario, che sta intristendo il modo di concepire il lavoro e la società stessa. Nel mondo ha vinto il capitalismo nordamericano e il Sud Europa soffre.

Quindi? Bisogna intanto esserne coscienti, parlarne, perché ogni Paese ha la sua vocazione all’economia, un genius loci. Con le nostre poche risorse, stiamo cercando di sviluppare la Scuola di economia civile (Sec) e diversi laboratori culturali in tutto il mondo, soprattutto con giovani, ma non bisogna illuderci che il futuro sia luminoso.

Lei è stato uno dei fondatori dell’EdC. È soddisfatto dell’impatto che ha avuto in questi 25 anni? L’EdC l’ha fondata Chiara Lubich, io avevo 25 anni. L’idea che avevo allora, cioè che avremmo cambiato in poco tempo l’economia mondiale (insieme ad altri), non si è realizzata. Però era la molla che serviva per partire per un grande viaggio. Oggi il movimento di EdC cammina insieme a quello dell’Economia sociale e dell’Economia civile, iniziative meno legate al Movimento dei Focolari, anche se ne condividono molte idee e categorie culturali. 25 anni fa quelle dell’EdC sembravano proposte bizzarre o ingenue. Oggi ne parlano molti, non solo nella Chiesa cattolica. È un processo che va avanti sotto traccia. Certo, potevamo  incidere di più nel mondo della cultura, fare più dialogo, più rete, più alleanze.

E nel futuro? Ci sono zone del mondo, come Brasile, alcuni Paesi dell’Africa, Argentina, Balcani, Portogallo, Filippine, dove l’EdC ha una vita intensa e vivace, grazie a una nuova generazione di giovani che hanno preso in mano il movimento. In Italia, invece, non siamo ancora riusciti a fare il necessario ricambio generazionale, anche se la nascita dell’Aipec ha dato un forte impulso. E luglio è il mese della prima “Costituente Edc giovani” a Loppiano.

Dal punto di vista culturale? In questi anni abbiamo fatto ricerca insieme a Zamagni, Becchetti, Gui, Smerilli, Pelligra, Argiolas e molti altri, in vari Paesi del mondo: non credo che in Italia ci sia un gruppo di economisti coeso e impegnato come questo. Abbiamo lanciato temi come felicità, reciprocità, beni relazionali. In futuro dovremo cercare una maggiore mediazione  con  categorie  come i sindacati, Confindustria, gli imprenditori. Ma soprattutto dobbiamo rilanciare la dimensione profetica. L’EdC non è solo economia civile, è fortemente legata all’esperienza spirituale della fondazione che le ha dato Chiara. Questo vuol dire non dimenticare i poveri, stare di più nelle periferie, nelle fratture, in quei luoghi dove la vita e l’economia rinascono ogni giorno.

Lei si sente profeta? Dipende da cosa intendiamo con questa parola. Siccome ho incontrato un carisma, e ho ricevuto da giovane una vocazione, in un certo senso condivido la missione profetica, perché i carismi sono la continuazione dei profeti oggi. Per capire un carisma come quello di Chiara Lubich o di don Giussani, non bisogna pensare tanto ai santi, quanto ad Isaia, Geremia ed Ezechiele. La dimensione profetica attraversa tutta l’umanità, ed è fondamentalmente laica.

Ma cosa fa il profeta? Ha uno sguardo diverso sul mondo, è abitato da una luce che gli consente di vedere cose che gli altri non vedono, sempre dalla prospettiva dei poveri e degli oppressi. Quindi è critico verso i potenti. Infatti, se non è falso profeta, fa sempre una brutta fine: Isaia squartato, Giovanni Battista decapitato. Siccome mette in difficoltà i potenti, non è ascoltato, è un emarginato. L’altra cosa tipica dei profeti è la lotta contro l’idolatria. Gli uomini sono naturali portatori di idoli, il primo è l’io, il secondo è il dio fatto a immagine dell’uomo, l’opposto del Dio biblico. Il profeta svuota il mondo dagli idoli, lo libera dalle ideologie, dicendo: questo non è Dio. Poi ti dice: forse, se vuoi, c’è una voce nel mondo che parla. I profeti sono preziosi, non solo quelli biblici, ma anche tanti contemporanei. Il mondo è pieno di profezia e di profeti, ma non li riconosciamo, pensiamo che siano gente strampalata o fissata.

Citiamo qualche frase dal suo libro “Elogio ndell’autosovversione” (Città Nuova): «La motivazione più grande non è il profitto ma la fraternità». Sì, la fraternità e, in genere, le nostre grandi passioni. Le persone non lavorano mosse solo dal guadagno, ma anche per essere stimate e riconosciute, dagli altri e da  sé stessi. L’idea che per soddisfare l’essere umano basti promettergli qualcosa non funziona, siamo fatti per l’infinito. Ci sono studi che dimostrano che anche chi pensa al guadagno, interpreta spesso i soldi come un indicatore di stima e di successo. Nel passato la gente era stimata con molti linguaggi, mentre oggi l’unico modo è dare soldi; ma noi valiamo più del denaro. Anche l’imprenditore, quando inizia, ha sempre la passione per il suo lavoro: creare un’azienda, portare i profitti, confrontarsi con la gente che lavora con te. È bellissima la capacità degli uomini di compiere azioni collettive. L’imprenditore nasce così, poi però a volte diventa speculatore, si intristisce, dimentica la passione che l’ha fatto nascere. Dobbiamo partire da una visione positiva del mondo e dell’economia, e da lì guardare e correggerne i limiti.

«I nostri figli possono diventare migliori di noi, solo se doniamo loro la libertà di poter diventare peggiori di noi e tradire i nostri sogni». Quando i genitori, per preoccupa- zione, non mettono i figli in condi- zione di “tradirli”, li bloccano, non li fanno fiorire, li fanno diventare degli imbranati. La stessa cosa vale per tutti i rapporti umani, anche per l’economia e i carismi. Nei movimenti c’è sempre il timore che la gente possa “tradire” l’ideale genuino: ma questo crea persone poco fiorite, piccole, poco interessanti, perché non sono libere di crescere diversamente da come dovrebbero, e quindi contraddire le aspettative. A volte abbiamo una visione moralistica dei carismi, che blocca le persone dentro un’etica del “dover essere” che uccide il “poter diventare” qualcosa di imprevisto e sorprendente.

Le associazioni (religiose e non solo) impediscono la maturazione delle persone? Non necessariamente. Ma è vero che, quando un giovane sente una vocazione, è disposto a tutto, non pensa in genere al suo futuro, al suo lavoro, alla sua vita. Sono i suoi responsabili che devono pensare a queste cose: non devono consentirgli di arrivare a 50 anni svuotato, quando ha consumato le risorse morali della sua gioventù e si esaurisce. Non è semplice mettere insieme lo sviluppo umano e professionale di una persona con la dimensione religiosa. Il rischio è che gli appartenenti ai movimenti carismatici non superino mai l’adolescenza spirituale. Ci deve essere la crescita umana accanto a quella religiosa.

«La crisi dei carismi è mancanza di storie capaci di farci muovere dentro e insieme». Le comunità e i movimenti nascono con delle storie che convertono migliaia di persone. Ma poi ad un certo punto cominciano a vivere del passato, si bloccano, ad esempio perché muore il fondatore, e non sono più capaci di aggiungere nuove storie alle vecchie. Si raccontano sempre e solo quelle dei primi tempi, e si vive di rendita. L’errore è pensare che l’unica fonte di innovazione sia il fondatore; invece ogni persona che arriva in una comunità carismatica riceve lo stesso carisma del fondatore, lo ha dentro da sempre. Quindi va incoraggiata alla libertà creativa. Un movimento rimane vivo se le persone sanno ripetere i miracoli dei primi tempi, nuovi fatti e nuove parole.

Quale futuro per Luigino Bruni? La mia grande passione di sempre è il carisma dell’unità. Quello che ho capito vivendo, però, è che nessuna persona può essere contenuta da una sola realtà, perché c’è una dimensione di infinito dentro ognuno di noi. Oggi vorrei essere 100% focolarino, ma allo stesso tempo 100% cittadino, 100% appassionato dei carismi degli altri, 100% economista, 100% pacifista, 100% docente, 100% impegnato contro le povertà e l’azzardo. Uno dei rischi dei grandi carismi, infatti, è far diventare le persone esseri ad una sola dimensione, e quindi spegnerle. Dovremmo invece riuscire a far crescere persone a più dimensioni, a farle fiorire veramente.

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Insegna economia politica all’università Lumsa di Roma, dopo 13 anni alla Bicocca di Milano. E ogni settimana commenta i libri biblici su “Avvenire”. Personalità sfaccettata, è membro fin da giovane del Movimento dei Focolari ed è il coordinatore del progetto per una Economia di Comunione

a cura di Giulio Meazzini

pubblicato su Città Nuova - n. 07/2017, luglio 2017

Chi è Luigino Bruni? Sono essenzialmente un economista, con una vocazione umanista. Mi sono sempre occupato, infatti, anche di storia, etica, filosofia. E in economia Luigino Bruni CN ridmi interessano soprattutto le idee, che sono però intrecciate con tutto il resto, come nella vita. Per questo da qualche tempo mi occupo anche di temi come felicità, dono, idealità, passioni, carismi e organizzazioni a movente ideale. Ogni tanto nella vita bisogna essere capaci di ricominciare. Ho appena pubblicato un libretto intitolato La felicità è troppo poco (Pacini Editore): questo vale anche per l’economia. Non si può pensare che la scienza economica sia sufficiente da sola per capire il mondo. La vita è bella perché esistono le soprese. Anche nel lavoro. 

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Intervista a Luigino Bruni

Intervista a Luigino Bruni

Insegna economia politica all’università Lumsa di Roma, dopo 13 anni alla Bicocca di Milano. E ogni settimana commenta i libri biblici su “Avvenire”. Personalità sfaccettata, è membro fin da giovane del Movimento dei Focolari ed è il coordinatore del progetto per una Economia di Comunione a cura d...
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Rubriche - Niente più dell’ideologia del business sta dominando il nostro tempo. Una ideologia che conosce un enorme successo perché si presenta come una tecnica, di portata universale

di Luigino Bruni

pubblicato su  pdf Città Nuova (201 KB) di giugno 2017

Business religione CN ridLa dimensione religiosa del capitalismo non è cosa nuova. Prima che Max Weber o Carl Marx ce lo dicessero chiaramente, e ciascuno a modo suo, all’inizio dell’800 il francese Claude-Henri de Saint-Simon immaginò e realizzò una vera e propria religione degli imprenditori, dei capitalisti e della scienza, che ebbe un notevole successo e adepti in tutta Europa. In una sua famosa lettera scriveva: «La notte scorsa ho udito queste parole: “Roma rinuncerà alla pretesa di essere il centro della mia chiesa; il papa, i cardinali, i vescovi e i preti cesseranno di parlare in mio nome … Sappi che Io ho fatto sedere Newton al mio fianco e gli ho affidato la direzione dell’intelligenza umana e la guida degli abitanti di tutti i pianeti

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Ogni consiglio farà costruire un tempio che ospiterà un mausoleo in onore di Newton… Ogni fedele che risiede a meno di un giorno di cammino dal tempio scenderà una volta all’anno nel mausoleo di Newton. … Nei dintorni del tempio saranno costruiti laboratori, officine, e un collegio. Ogni lusso sarà riservato al tempio…”». (Lettere di un abitante di Ginevra ai suoi contemporanei, 1803). Saint-Simon fondò una vera e propria nuova religione universale e laica, nella quale i sommi sacerdoti erano gli scienziati, gli ingegneri, gli industriali. Da Marx fu annoverato tra gli autori utopici. Ma, in realtà, se leggiamo bene le sue idee e il suo movimento, dovremmo dire che più che di utopia si trattava di una sorta di profezia, se pensiamo a cosa è diventato oggi quel capitalismo che il filosofo francese osservava nella prima fase del suo sviluppo. Con alcune differenze però: l’alleanza tra tecnica e capitale, al tempo di Saint-Simon ancora incipiente, oggi si è potenziata e radicalizzata, ma non sono stati gli ingegneri e i produttori a diventarne i sacerdoti. Il loro posto lo hanno preso i finanzieri e soprattutto i manager, e al centro del tempio non c’è il dio-produttore ma il dio- consumatore.

Niente più dell’ideologia del business sta dominando il nostro tempo. Una ideologia prodotta e generata nelle business school di tutto il mondo, che conosce un enorme successo perché non si presenta come una ideologia o religione (quale è), ma come una tecnica, e quindi di portata universale.

Gli stessi strumenti del management si applicano a Dallas e a Nairobi, a Milano e in Siberia, perché le tecniche non sono dipendenti dalla cultura e dal carattere dei popoli: un’automobile o una lavastoviglie funzionano allo stesso modo in tutto il mondo, con qualche attenzione per le gomme e per il liquido anti-gelo. Così le multinazionali capitalistiche e le comunità di suore, perché, si dice, sono tutte aziende e in quanto tali sono tutte uguali. E così, sotto l’universalismo della tecnica, si veicola una visione del mondo, della persona (individuo), delle relazioni sociali. Una visione che, come tutte le religioni, ha i suoi dogmi. I principali si chiamano meritocrazia e incentivi. Con la meritocrazia si legittima la diseguaglianza, perché i talenti non sono interpretati come dono ma come merito individuale. Un dogma da cui deriva la sempre più pervasiva idea che i poveri sono demeritevoli e quindi colpevoli, e in quanto tali non abbiamo nessun obbligo morale di soccorrerli – al massimo possiamo pagare qualche Ong per occuparsene in modo che non ci diano fastidio. Il dogma dell’incentivo, poi, parte dall’assunto che gli esseri umani si impegnano solo se adeguatamente incentivati con contratti e denaro, perché incapaci di lavorare bene solo per virtù o dovere etico.

In nome della tecnica questa ideologia-religione-idolatria sta entrando nella politica, nella scuola, nella sanità, nelle chiese. E con essa sta avanzando una visione striminzita e rimpicciolita della persona, depotenziata di virtù e motivazioni intrinseche. Gli esseri umani hanno molti meriti, molti più di quelli che vedono e ricompensano le imprese.

Rispondono certamente agli incentivi, ma prima rispondono alla propria coscienza, all’onore, al rispetto, alla dignità, anche nel mondo del lavoro. Finché continueremo a produrre visioni riduttive degli uomini e delle donne, continueremo a generare luoghi del lavoro e del vivere troppo piccoli per quell’animale malato di infinito che si chiama homo sapiens.

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di Luigino Bruni

pubblicato su  pdf Città Nuova (201 KB) di giugno 2017

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La nuova religione del capitalismo

La nuova religione del capitalismo

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Rubriche - Oltre il mercato - In un mondo stracolmo di gratuità, gli esseri umani non riescono a resistere alla tendenza- tentazione di costruire sistemi idolatrici e quindi senza gratuità, dove ogni cosa ha il suo prezzo

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (90 KB) di aprile 2017

Denaro 300 ridIl nostro rapporto con la gratuità presenta un elemento paradossale. Siamo circondati dalla gratuità, siamo inondati da essa. La natura, il cielo, il sole, la pioggia, la neve, la primavera, i boschi, l’aria, l’arte, la bellezza delle città, dei palazzi e delle chiese che abitiamo senza averle costruite, l’irrompere dell’amore, la nostra stessa esistenza, un grembo materno, Dio. Ma in un mondo stracolmo di gratuità, gli esseri umani non riescono a resistere alla tendenza- tentazione di costruire sistemi idolatrici e quindi senza gratuità, dove ogni cosa ha il suo prezzo. Oggi più di ieri, molto di più, perché diversamente dal capitalismo del Novecento, che ancora presentava tratti dell’etica cristiana e biblica del lavoro e dell’impresa, il capitalismo finanziario e consumista del nostro tempo ha cancellato oltre due millenni di cultura per tornare ai riti e ai culti pagani e idolatrici dei popoli del Medio Oriente o del bacino del Mediterraneo. Lo vediamo nei nuovi templi del dio-consumo, lo vediamo nel culto meritocratico delle imprese, che non è altro che una riedizione degli antichi sacrifici pagani.

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La trasformazione del capitalismo in idolatria è stata possibile perché una dimensione  economico-mercantile è presente nel cuore dell’esperienza religiosa. Questa tendenza commerciale e sacrificale della religione è stata duramente combattuta dal profetismo biblico, da Giobbe, da alcuni Vangeli, da Paolo, da Lutero, ma nel nostro tempo sta di nuovo vivendo una fase di grande successo, senza incontrare resistenze robuste.

Il sacrificio è stato il primo linguaggio religioso dell’uomo. Forse anche prima di imparare a parlare, gli uomini sapevano vedere in una nuvola, su un monte alto, in un albero spezzato da un fulmine, in un vulcano, una presenza misteriosa e diversa dalla loro. E nasceva il senso del sacro. Sapevano di essere radicalmente e infinitamente vulnerabili, di non controllare il mondo che li circondava. Sentivano che la terra e il cielo erano abitati da altri esseri invisibili: li intravedevano ovunque, e soprattutto li temevano. L’uomo antico era un grande incantato e un grande pauroso, abitante di un mondo ostile e popolato di dèi. Da questa fragilità e precarietà nacquero il senso religioso e i sacrifici.

Di fronte all’incertezza, al mistero e alla paura del vivere, gli uomini hanno cercato (e cercano) con il sacrificio di accumulare crediti nei confronti della divinità, offrendole i beni più preziosi (animali, bambini, vergini), e così cercare di trasformare Dio in un “debitore.” E quando la dimensione sacrificale e quindi commerciale prende il sopravvento, la fede diventa idolatria, anche quando continua a chiamare i suoi idoli con i nomi di YHWH, Gesù, Allah.

Le fedi, ma anche il grande umanesimo laico, sono stati soprattutto una liberazione dagli idoli. Hanno svuotato i tempi e non li hanno riempiti. Se fossimo entrati in una antica città mediorientale, ma anche greca o romana, la prima cosa che ci avrebbe impressionato sarebbe stata il paesaggio popolato di segni sacri, di altari, e soprattutto di totem e infinite divinità. Forte fu la sorpresa di Gneo Pompeo quando, entrando nel tempio di Gerusalemme, lo trovò vuoto. Le fedi vere hanno svuotato lo spazio sacro, per crearci le precondizioni di libertà per vedere soprattutto gli altri, noi stessi, e magari, sulla linea dell’orizzonte dell’anima, anche Dio.

Il paradosso del nostro tempo sta soprattutto in questo: ci siamo voluti liberare di un Dio liberatore per imprigionarci in un culto idolatrico di massa delle merci feticcio.

Gli idoli del capitalismo continuano ogni giorno indefessi il loro lavoro di fidelizzazioni dei consumatori e dei lavoratori; ma, diversamente dai tempi dei profeti biblici, oggi mancano le voci diverse che combattono gli idoli, e quelle poche che ci sono non sono ascoltate, o perché parlano in luoghi non adatti e vuoti (i templi, ad es.), o perché usano linguaggi religiosi diventati ormai incomprensibili alla donna e all’uomo di oggi. Ci sono parole molto preziose che non raggiungono i destinatari solo perché pronunciate in lingue morte.

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Rubriche - Oltre il mercato - In un mondo stracolmo di gratuità, gli esseri umani non riescono a resistere alla tendenza- tentazione di costruire sistemi idolatrici e quindi senza gratuità, dove ogni cosa ha il suo prezzo

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (90 KB) di aprile 2017

Denaro 300 ridIl nostro rapporto con la gratuità presenta un elemento paradossale. Siamo circondati dalla gratuità, siamo inondati da essa. La natura, il cielo, il sole, la pioggia, la neve, la primavera, i boschi, l’aria, l’arte, la bellezza delle città, dei palazzi e delle chiese che abitiamo senza averle costruite, l’irrompere dell’amore, la nostra stessa esistenza, un grembo materno, Dio. Ma in un mondo stracolmo di gratuità, gli esseri umani non riescono a resistere alla tendenza- tentazione di costruire sistemi idolatrici e quindi senza gratuità, dove ogni cosa ha il suo prezzo. Oggi più di ieri, molto di più, perché diversamente dal capitalismo del Novecento, che ancora presentava tratti dell’etica cristiana e biblica del lavoro e dell’impresa, il capitalismo finanziario e consumista del nostro tempo ha cancellato oltre due millenni di cultura per tornare ai riti e ai culti pagani e idolatrici dei popoli del Medio Oriente o del bacino del Mediterraneo. Lo vediamo nei nuovi templi del dio-consumo, lo vediamo nel culto meritocratico delle imprese, che non è altro che una riedizione degli antichi sacrifici pagani.

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Il paradosso della gratuità

Il paradosso della gratuità

Rubriche - Oltre il mercato - In un mondo stracolmo di gratuità, gli esseri umani non riescono a resistere alla tendenza- tentazione di costruire sistemi idolatrici e quindi senza gratuità, dove ogni cosa ha il suo prezzo di Luigino Bruni pubblicato su pdf Città Nuova (90 KB) di apr...
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Rubriche - Oltre il mercato - La naturale diseguaglianza tipica del mercato capitalistico ad un certo punto è diventata una proprietà morale: la meritocrazia

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (80 KB) di marzo 2017

Disuguaglianza Lego ridLa diseguaglianza è la condizione naturale degli esseri umani (e di molti animali), perché i talenti che ciascuno riceve arrivando sulla terra sono diversi da quelli degli altri. Il grande economista italiano Vilfredo Pareto, alla fine dell’800 dimostrò che le diseguaglianze nei redditi rispondono a leggi distributive simili in tutte le società perché legate alle intelligenze diseguali, e, in quanto naturali, dovevamo semplicemente accettarle come un dato di natura.

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Il cristianesimo, invece, per il messaggio di radicale fraternità universale che lo anima, ha cercato di lottare contro questo dato di natura, provando a scardinare le diseguaglianze alla base delle strutture sacrali-gerarchiche delle società antiche. Le stagioni dell’uguaglianza sono però sempre state brevi e limitate a piccole comunità, mentre la grande storia dell’Europa cristiana ha continuato ad essere una storia di diseguaglianze e di caste, con poche, luminose eccezioni. La legge di movimento della storia dell’Occidente ha generato qualche isola di uguaglianza e fraternità in oceani di diseguaglianza. La modernità e gli illuminismi, al culmine di un lungo e (forse troppo) lento processo di maturazione culturale e religiosa, hanno lanciato una lotta campale alla diseguaglianza, dando vita a un’epoca di conquiste scientifiche, filosofiche, spirituali, civili, economiche impensate, straordinarie, immense.

Questi miracoli operati dall’Occidente moderno furono i frutti della battaglia alle diseguaglianze naturali, che non furono considerati un dato immodificabile ma soprattutto una costruzione sociale. Senza società più ugualitarie (non soltanto più democratiche: non tutte le democrazie sono ugualitarie) non avremmo incluso nella politica e nell’economia centinaia di milioni di uomini e donne che hanno poi innovato, inventato, cambiato il mondo. E i momenti civilmente, spiritualmente, economicamente più luminosi dell’Europa medioevale sono associati a fasi più ugualitarie nelle città e nei conventi.

Il XX secolo, poi, ha accelerato questa lotta. Ha prodotto i suoi mostri, ma la sua anima più profonda ha dato vita allo Stato sociale, ha consentito alle donne di poter studiare e di poter lavorare, ai bambini di non lavorare più per andare tutti a scuola, agli anziani di poter smettere di lavorare e avere una pensione per vivere con dignità l’ultima stagione della vita. Ha voluto investire una grande quota della propria ricchezza per creare questi meravigliosi beni comuni e così ridurre le diseguaglianze. La seconda metà del ’900 è stata per molti Paesi europei un’età dell’oro di una economia e di una società dove l’inclusione, l’uguaglianza, i diritti, la qualità del lavoro, le libertà crescevano, e si riducevano i servi, i poveri, le caste, i privilegi.

Ma mentre molti, quasi tutti, godevamo i frutti di questa felice congiuntura storica, nei retrobottega dell’economia, della finanza e della politica iniziava una contro-rivoluzione anti-egualitaria, voluta e pianificata dalle grandi imprese multinazionali e dalle scuole internazionali di business. Fin qui nulla di radicalmente nuovo, perché spiegabile dai corsi e ricorsi delle idee, delle reazioni e contro-reazioni. C’è però una novità radicale e assolutamente sottovalutata: il capitalismo per potersi affermare come culto universale, e poter quindi ottenere tutto dai suoi fedeli e così alimentare un treno lanciato a folle velocità, ha un bisogno assoluto di una legittimazione morale, possibilmente spirituale, degli assiomi sui quali si fonda. E ha compiuto il miracolo: la naturale diseguaglianza tipica del mercato capitalistico, che le civiltà avevano mitigato artificialmente con la politica e le Chiese perché considerata moralmente e socialmente non desiderabile, ad un certo punto è diventata una proprietà morale: la meritocrazia. È stato sufficiente cambiarle nome, per trasformare la diseguaglianza da un male in un bene, da vizio in virtù. La meritocrazia non è poi solo un nome più attraente per la vecchia lode della diseguaglianza, ma è un meccanismo perfetto che l’amplifica e la esaspera, perché le dà un contenuto di giustizia, considerando i talenti naturali non come dono ma come merito. Grazie alla meritocrazia le diseguaglianze naturali non vengono più contrastate ma lodate e premiate. Forse è giunta l’ora che iniziamo a prenderne almeno coscienza.

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Rubriche - Oltre il mercato - La naturale diseguaglianza tipica del mercato capitalistico ad un certo punto è diventata una proprietà morale: la meritocrazia

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (80 KB) di marzo 2017

Disuguaglianza Lego ridLa diseguaglianza è la condizione naturale degli esseri umani (e di molti animali), perché i talenti che ciascuno riceve arrivando sulla terra sono diversi da quelli degli altri. Il grande economista italiano Vilfredo Pareto, alla fine dell’800 dimostrò che le diseguaglianze nei redditi rispondono a leggi distributive simili in tutte le società perché legate alle intelligenze diseguali, e, in quanto naturali, dovevamo semplicemente accettarle come un dato di natura.

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Diseguaglianza e meritocrazia

Diseguaglianza e meritocrazia

Rubriche - Oltre il mercato - La naturale diseguaglianza tipica del mercato capitalistico ad un certo punto è diventata una proprietà morale: la meritocrazia di Luigino Bruni pubblicato su pdf Città Nuova (80 KB) di marzo 2017 La diseguaglianza è la condizione naturale degli esseri...
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Rubriche - Oltre il mercato - Non abbiamo ancora preso sul serio la distruzione di massa del capitale spirituale della nostra civiltà

di Luigino Bruni

pubblicato su   pdf Città Nuova n. 02/2017 (63 KB) (60 KB) di febbraio 2017

Preghiera ridSulla nostra terra ci sono capitali che stanno crescendo e ce ne sono altri che si stanno gravemente e seriamente deteriorando. Il consumo dei capitali ambientali è sempre più evidente e, sebbene con grande ritardo, stiamo iniziando a prenderne coscienza collettivamente. Non abbiamo, però, ancora preso sul serio la distruzione di massa del capitale spirituale della nostra civiltà. I nostri figli stanno crescendo più ricchi di inglese, di internet, di informazioni, ma si stanno drammaticamente impoverendo di vita interiore, di capitale spirituale. C’è un ‘effetto serra dell’anima’ che ci sta asfissiando, e l’aspetto più grave è la mancanza di consapevolezza pubblica. Ci stiamo progressivamente abituando a vivere dentro la serra, inserrati nell’anima, a confondere i teloni di plastica azzurra con il cielo.

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In un recente convegno in Corea, il rappresentante del governo dello stato del Buthan, ha presentato il loro progetto di puntare sulla ‘felicità pubblica’ invece che sul Pil. Al di là del progetto in sé (che presenta anche ombre), ciò che mi ha colpito è che tra le dodici dimensioni del benessere individuate da quel programma ci sia anche la meditazione. Per aumentare il benessere della gente, soprattutto dei giovani, quel popolo ha capito l’importanza della coltivazione della vita interiore.

Questo lo sapevamo molto bene anche noi occidentali, ma lo abbiamo dimenticato e cancellato nel giro di una generazione. Nel far di un mattino abbiamo fatto evaporare un immenso patrimonio etico e spirituale che avevano creato la pietà cristiana, i valori socialisti, quelli del risorgimento, eredi dell’umanesimo greco, romano, biblico. Ubriacati dal consumismo e dal benessere, non ci siamo accorti che mentre mandavamo un patrimonio spirituale costruito nei millenni e nel sangue, e il suo posto restava semplicemente vacante. E così i nostri adolescenti e giovani oggi si ritrovano con più scolarizzazione, con una infinita quantità di comunicazione e informazione, ma con una profondissima carestia di vita interiore, di capacità di affrontare le crisi, di resilienza al dolore proprio e a quello degli altri.

Pensiamo a quel capitale fondamentale per le persone e i popoli che si chiama gratitudine. Le generazioni precedenti avevano più possibilità di gratitudine. Ci si ringraziava di più nelle relazioni quotidiane, anche in quelle commerciali, quando, in un mercato ancora fatto di persone sapevano vedere nel lavoro degli altri qualcosa di più degli incentivi, e quindi ringraziare. Certo, c’erano anche le gratitudini obbligate e sbagliate verso i padroni, ma di più erano le gratitudini vere verso la natura, i campi, gli animali, i genitori, gli anziani – che venivano ringraziati dai figli soprattutto occupandosi di loro quando non erano più autosufficienti: ‘onora il padre e la madre’. Gratitudine verso Dio, che dava aria alla loro vita, donava una nuova dimensione al loro spazio, aumentava la larghezza e la profondità dell’orizzonte del loro cielo.

Questa carestia di capitale spirituale la vediamo tutti: dentro le famiglie, a scuola, nelle imprese. La nostra generazione di adulti è ancora capace di misurare questa povertà perché, pur essendo anche noi consumatori e produttori di questa nuova forma di miseria, siamo ancora capaci di confrontare la qualità della nostra vita interiore con quella dei nostri genitori e nonni. Forse siamo l’ultima generazione capace di fare questo confronto e ancora capire lo scarto. Ci ricordiamo che parlavano in dialetto, che non sapevano l’inglese, che spesso erano capaci di scrivere poche parole o nessuna, ma ci ricordiamo che avevano una grande capacità di gestire la sofferenza, di vivere i lutti, di coltivare e curare le amicizie. E soprattutto sapevano pregare, sapevano credere al paradiso e agli angeli, sapevano morire. E poi pensiamo alle nostre sofferenze, ai nostri lutti, ai nostri amici, alle nostre preghiere, al nostro paradiso svuotato - e ci sentiamo tremendamente impoveriti.

I patrimoni sono il ‘dono dei padri’ (patres munus). Stiamo sperperando molti capitali ricevuti in dono dai padri, come il figliol prodigo, mangiamo ghiande da anni, ma non ce ne siamo accorti. Il XX secolo è stato il secolo di Edipo, il figlio che (senza colpa) uccide il padre. Potrà il XXI secolo essere quello di Telemaco, il figlio che attende il ritorno di un padre che non c’è più, e lo va a cercare per il mare?

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Rubriche - Oltre il mercato - Non abbiamo ancora preso sul serio la distruzione di massa del capitale spirituale della nostra civiltà

di Luigino Bruni

pubblicato su   pdf Città Nuova n. 02/2017 (63 KB) (60 KB) di febbraio 2017

Preghiera ridSulla nostra terra ci sono capitali che stanno crescendo e ce ne sono altri che si stanno gravemente e seriamente deteriorando. Il consumo dei capitali ambientali è sempre più evidente e, sebbene con grande ritardo, stiamo iniziando a prenderne coscienza collettivamente. Non abbiamo, però, ancora preso sul serio la distruzione di massa del capitale spirituale della nostra civiltà. I nostri figli stanno crescendo più ricchi di inglese, di internet, di informazioni, ma si stanno drammaticamente impoverendo di vita interiore, di capitale spirituale. C’è un ‘effetto serra dell’anima’ che ci sta asfissiando, e l’aspetto più grave è la mancanza di consapevolezza pubblica. Ci stiamo progressivamente abituando a vivere dentro la serra, inserrati nell’anima, a confondere i teloni di plastica azzurra con il cielo.

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Edipo e Telemaco

Edipo e Telemaco

Rubriche - Oltre il mercato - Non abbiamo ancora preso sul serio la distruzione di massa del capitale spirituale della nostra civiltà di Luigino Bruni pubblicato su   pdf Città Nuova n. 02/2017 (63 KB) (60 KB) di febbraio 2017 Sulla nostra terra ci sono capitali che stanno...
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Rubriche - Oltre il mercato - Il nostro tempo soffre per mancanza di utopia. I carismi, però continuano a svolgere la stessa funzione dei profeti biblici, continuano a indicare una terra promessa, una città più bella

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n. 01/2017 (60 KB) di gennaio 2017

Utopia Carismi CN ridIl 2016 è stato il 500° anniversario de L’Utopia di Thomas More. Un libro scritto in un momento di grande crisi politica e spirituale dell’Europa, quando la scoperta del nuovo mondo iniziava a mandare in crisi il vecchio, che nel mezzo dello splendore del Rinascimento mostrava già i primi segni di decadenza – come sempre, la decadenza inizia nel momento del massimo successo. Non è raro che siano i tempi di crisi a produrre grandi speranze, i desideri più grandi (de-sidera, cioè mancanza delle stelle, e brama di tornare a rivederle al termine della notte).

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C’è un legame profondo tra utopia e profezia. Sono diverse, ma sono sorelle. L’utopia critica un presente che non ama indicando un luogo lontano e irraggiungibile, la cui descrizione è comunque sempre un progetto e un programma politico per il presente. I grandi utopisti hanno migliorato il mondo perché hanno spinto in avanti i “paletti” del possibile mentre indicavano l’impossibile.

I profeti, certamente quelli biblici (ma non solo quelli), quando parlano del futuro che attende il popolo (esilio, liberazione, terra promessa…), non ne parlano come di un non-luogo ma come il destino che, al tempo opportuno, si compirà. Il futuro profetico non è meno reale del presente storico, è semplicemente diverso.

Il nostro tempo soffre per mancanza di utopia. E ne avremmo un grande bisogno, proprio perché siamo in un momento di crisi e di passaggio, di cambiamento di paradigma e di “mondo”.

I carismi, però, continuano oggi a svolgere la stessa funzione dei profeti biblici. E quindi continuano a indicare una terra promessa, la liberazione di schiavi, l’alba di una società della gratuità possibile. Ma il discorso dei carismi è, nella nostra epoca, troppo confinato dentro i confini del “religioso” o dello “spirituale”, e così si dimentica che il primo dono dei carismi è stato ed è un dono civile, è un contributo essenziale per fare più bella la città di tutti. Il primo posto dei carismi sono le piazze, le fabbriche, i parlamenti, i ministeri, luoghi che invece lasciamo ai tecnici, che spesso non hanno mai incontrato né i poveri né le povertà vere. Ma troppo spesso sono gli stessi carismi che si auto-confinano nel sacro e nell’ecclesiale, diventano professionisti del culto, dimenticando la loro laicità, accettando la loro emarginazione economica e politica. E un mondo senza carismi civili non conosce la profezia né l’utopia buona, non indica più nessun “non ancora”, vive solo dentro tristi “già”.

Oggi molti carismi nati attorno al concilio Vaticano II stanno vivendo una fase delicata e cruciale, legata profondamente alla morte dei loro fondatori. I movimenti spirituali e carismatici, in un certo senso, “muoiono” con la morte del loro fondatore. Il loro corpo sociale è talmente legato alla persona del fondatore, che quel primo corpo muore insieme alla persona che ha incarnato il carisma. Molti movimenti entrano in crisi irreversibili perché non riescono a comprendere questa morte.

Oggi i movimenti spirituali del XX secolo stanno seguendo due strade diverse: una di declino, l’altra di futuro. La prima è quella imboccata da chi continua a vivere il tempo del dopo-fondatore come se non fosse avvenuta nessuna morte.

Il loro sguardo è tutto proiettato verso il passato, si crede di mantenere la fedeltà al carisma “congelando” o “imbalsamando” il suo corpo, perché si conservi più a lungo possibile. Non aggiornano radicalmente linguaggio e codici simbolici, fanno solo piccoli aggiustamenti al margine. Ma ci sono anche quelle comunità e movimenti che hanno imboccato una seconda via.

Capiscono che il solo modo per “ritrovare” il carisma morto col fondatore è accettare la sua morte e attendere una resurrezione. I Vangeli ci dicono che il corpo risorto non è la rianimazione del cadavere del venerdì santo. Il corpo è diverso, i discepoli e le donne lo riconoscono dalla voce e dalle ferite. I carismi dopo i fondatori risorgono se li riconosciamo nelle ferite del mondo. Solo da lì riescono di nuovo a parlarci e a richiamarci per nome.

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di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n. 01/2017 (60 KB) di gennaio 2017

Utopia Carismi CN ridIl 2016 è stato il 500° anniversario de L’Utopia di Thomas More. Un libro scritto in un momento di grande crisi politica e spirituale dell’Europa, quando la scoperta del nuovo mondo iniziava a mandare in crisi il vecchio, che nel mezzo dello splendore del Rinascimento mostrava già i primi segni di decadenza – come sempre, la decadenza inizia nel momento del massimo successo. Non è raro che siano i tempi di crisi a produrre grandi speranze, i desideri più grandi (de-sidera, cioè mancanza delle stelle, e brama di tornare a rivederle al termine della notte).

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L’utopia e i carismi

L’utopia e i carismi

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