Città Nuova

Economia Civile

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A rinascere si impara/8 - Le comunità carismatiche hanno senso finché il vangelo prende un tono e una veste diversi da quelli degli altri ‘fiori’ del giardino della Chiesa e dell’umanità

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 03/10/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 5/2024

L’episodio biblico del vitello d’oro alle pendici del monte Sinai, ha qualcosa di importante da dire anche alle comunità carismatiche nella fase che segue la scomparsa dei fondatori. Il suo messaggio principale riguarda la riduzione della complessità del carisma originario in qualcosa di più gestibile, semplice, ordinario. Il Dio-YHWH che si era rivelato a Mosè non si vedeva, non si toccava, non appagava i sensi, lo udivano solo i profeti: «E c’era soltanto una voce» (Dt 4,11). Tutti gli altri popoli avevano dèi semplici, statue che tutti vedevano e capivano. Il Dio di Israele era diverso, astratto, altissimo: il popolo non riuscì a restare a quell’altezza e fabbricò il vitello, un dio visibile e semplice, un dio della fertilità (toro) per diventare un popolo come tutti gli altri. Mosè era assente, e in quella assenza il popolo ridusse YHWH a vitello.

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Nelle comunità carismatiche e ideali, dopo che il fondatore – ‘Mosè’ – scompare o è assente, è forte il fascino di ridimensionare e normalizzare la prima promessa, di trasformare il carisma originale in qualcosa di comprensibile da tutti e dalla comunità stessa. Un movimento carismatico nasce, infatti, attorno ad una vera innovazione spirituale e sociale. Questa novità è qualcosa di evidente al fondatore e alla prima generazione, nessuno la mette in discussione: è la sua novità assoluta che attrae e converte. E così, quando arriva un carisma, con essa giunge anche una critica, esplicita o implicita, a molte pratiche e idee religiose preesistenti, che il nuovo movimento sente di dover cambiare e abbandonare, come parte della sua missione profetica.

Nella generazione successiva, però, c’è sempre una grande difficoltà a mantenere fede a quella innovazione che inizia ad apparire difficile, lontana, troppo diversa da quello che fanno tutti gli altri. Ed ecco allora in questa fase emergere una tipica tendenza-tentazione: tornare a quelle pratiche, esperienze, attività tradizionali che quella comunità carismatica voleva all’inizio superare. Si fa fatica a restare nella novità del carisma che ora appare astratta, lontana, impraticabile perché troppo alta e impegnativa; e così invece di lavorare per capire le ragioni delle difficoltà emerse nel mettere in pratica il carisma, progressivamente si torna a quelle antiche forme che il carisma aveva intenzionalmente voluto superare. Le novità carismatiche sembrano irrealizzabili, ingenue, infantili, e si imita quello che la Chiesa e la società facevano da secoli e che ai membri della comunità appaiono invece come novità, e vengono persino presentate come la terapia per superare la crisi. Qualcuno inizia a dire: «Basta il vangelo: perché complicarlo con tutta la complessità di una spiritualità complicata?!». Una tesi che sembra perfetta, ma che porterebbe alla fine delle comunità carismatiche che hanno senso finché il vangelo prende un tono e una veste diversi da quelli degli altri ‘fiori’ del giardino della Chiesa e dell’umanità.

Ma c’è di più. Per capirlo torniamo all’episodio biblico del vitello. Lì c’è un dettaglio molto importante, racchiuso nel nome che gli israeliti danno al vitello: il nome è YHWH, cioè l’identità speciale del loro Dio diverso: «Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: ‘Domani sarà festa in onore di YHWH’» (Esodo 32,4-5). Che cosa significa? Il nome della Bibbia dice la natura profonda di una realtà. Chiamare il vitello aureo con il nome di YHWH significa cambiare Dio, sostituirlo con un dio più semplice perché banale. Finché abbiamo chiara la distinzione tra Dio e il vitello d’oro, se per fragilità iniziamo ad adorare l’idolo potremo sempre convertirci e tornare a casa. Ma il giorno in cui chiamiamo il vitello con il nome di YHWH, non si torna più a casa perché non c’è più nessuna casa dove tornare: la cattedrale è ormai diventata una casetta popolare. Il danno più grave è quindi cancellare la distanza tra il carisma e i suoi surrogati, fino a farli coincidere.

In genere, queste trasformazioni sono amate e applaudite dalle comunità nei tempi del post-fondatore, perché in una fase che è quasi sempre di disorientamento, stanchezza, pessimismo, calo di desiderio, depressione spirituale e accidia collettiva, qualsiasi attività nuova è vista come preferibile all’immobilismo – e lo è. Il futuro dei movimenti carismatici, però, sta nel riuscire ad evitare che la prassi comunità si trasformi in qualcosa di molto, troppo diverso dalla prassi specifica del suo carisma, perché se lo fa non è più capace di attrarre vocazioni e giovani, e si estingue. Tutto evolve, anche nella vita dello spirito, ma non tutte le evoluzioni sono capaci di futuro buono. Prenderne coscienza è già l’inizio della cura.

Credits foto: © Jed Villejo su Unsplash

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pubblicato su Città Nuova il 03/10/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 5/2024

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Attenti alla seduzione del vitello d’oro!

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A rinascere si impara/8 - Le comunità carismatiche hanno senso finché il vangelo prende un tono e una veste diversi da quelli degli altri ‘fiori’ del giardino della Chiesa e dell’umanità di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova il 03/10/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 5/2024 L’episodio bibl...
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A rinascere si impara/8 - Le quattro tendenze che possono prendere gli appartenenti a una comunità o un movimento religioso dopo la morte del fondatore.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 07/09/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 4/2024

Quando una comunità o un movimento spirituale passa dalla prima generazione dei fondatori a quella successiva, questo passaggio decisivo assume varie forme nelle persone che ne fanno parte. In genere, sono (almeno) 4 le principali tendenze, presenti in gradi diversi nelle persone, e a volte anche nella stessa persona.

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La prima tendenza è quella che si ritrova soprattutto in coloro che possiamo chiamare gli irriducibili. È la tendenza che porta a vivere dopo la morte dei fondatori esattamente come si viveva prima, come se nulla d’importante fosse successo. Lo stesso stile di vita, le stesse letture spirituali, gli stessi impegni, lo stesso linguaggio. Questa continuità ha anche delle dimensioni positive (la serietà, ad esempio), mescolate con altre più problematiche. Vedono diminuire l’impatto esterno di quanto fanno, sentono una fatica fisica e spirituale crescente, ma vanno avanti come ieri. Fanno come quel mio amico che di fronte all’aumento del prezzo della benzina, mi disse: «Per me non cambia nulla: metto sempre 20 euro». In genere, quando questa tendenza prevale, porta con sé una certa nostalgia del passato, la lode dei tempi andati, l’idea che tutti i guai del presente dipendano dall’aver perso la purezza dei primi giorni. Una tendenza molto comprensibile, ma che non va incoraggiata.

La seconda tendenza è quella che potremmo chiamare delusione. È tipica in coloro che ad un certo punto si sono convinti che la fase della fondazione sia stata un lungo auto-inganno, una illusione collettiva e individuale svoltasi in perfetta buona fede di tutti, che li ha trattenuti per troppo tempo in una adolescenza o infanzia spirituale e psicologica. Alcune persone che si ritrovano dentro questa seconda tendenza sviluppano anche rabbia e ribellione, soprattutto se hanno investito molto nella prima stagione della comunità. Una rabbia nei confronti di loro stessi e, qualche volta, anche verso la comunità. Una delusione che comunque è preferita all’illusione e che quindi può diventare una vera rinascita spirituale in una nuova maturità.

C’è poi la terza tendenza alla depressione spirituale, una specie di accidia individuale e collettiva, fatta di mancanza di desiderio e di eros. È la tendenza più pericolosa, che va subito individuata nei suoi sintomi (pessimismo cosmico, cinismo, critica di chiunque faccia qualcosa di costruttivo…). Chi coltiva questa tendenza non fa l’esperienza della delusione oltre l’illusione, anche perché non ha né energie né voglia per fare grandi auto-analisi. Sperimenta semplicemente un calo progressivo della gioia nel fare le cose di prima, crede sempre meno in quello che fa, e non annuncia più nulla a nessuno. Attribuisce il calo di desiderio all’avanzare dell’età, ai tempi che sono cambiati, ai giovani che non sono più quelli di una volta. Quando questa tendenza prende piede nelle comunità, ci si ritira a vita privata, e ci si ritrova in una condizione simile ai due discepoli di Emmaus prima che il “viandante anonimo” si unisse a loro.

Infine, c’è anche una buona quarta tendenza, diversa e molto importante. È la speranza. Questa scatta in chi di fronte alle stesse difficoltà che vedono tutti, e ben consapevole che nella comunità alcune dimensioni sono cambiate davvero e la vita è più dura, invece di coltivare le tre tendenze precedenti (che vede ben presenti in sé e attorno) cerca di impegnarsi in nuovi progetti, di usare la sua creatività in cerca di nuovi codici narrativi, e insieme ad altri dà vita a processi collettivi di cambiamento, nella semplicità della vita di tutti i giorni: non aspetta il grande momento, ma fa grandi i piccoli momenti che ha a disposizione. La speranza, questa speranza, non ha nulla a che fare con una nuova auto-illusione né con l’ingenuità. Nasce quando un giorno, dopo aver magari sperimentato tutte e tre le tendenze, si capisce che a rinascere si impara, che si può scegliere di rinascere, che una resurrezione è possibile a 30, 60, 90 anni. Non sarà la grande resurrezione di tutti e di tutto il movimento, ma può essere la tua resurrezione e quella delle persone con cui vivi. E poi si parte, con qualche amico, verso una nuova terra promessa. Le persone che scelgono di coltivare questa tendenza si riconoscono da una particolare mitezza e per una tipica bellezza delicata. Ci attraggono e, anche se siamo stati già dominati dalle altre tre tendenze, ci sentiamo coinvolti nella loro rinascita. È nel cuore di queste persone di speranza che sta germogliando il futuro: il terzo viandante si è già aggiunto nel cammino verso Emmaus.

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A rinascere si impara/8 - Le quattro tendenze che possono prendere gli appartenenti a una comunità o un movimento religioso dopo la morte del fondatore.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 07/09/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 4/2024

Quando una comunità o un movimento spirituale passa dalla prima generazione dei fondatori a quella successiva, questo passaggio decisivo assume varie forme nelle persone che ne fanno parte. In genere, sono (almeno) 4 le principali tendenze, presenti in gradi diversi nelle persone, e a volte anche nella stessa persona.

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Il tempo di una nuova speranza

Il tempo di una nuova speranza

A rinascere si impara/8 - Le quattro tendenze che possono prendere gli appartenenti a una comunità o un movimento religioso dopo la morte del fondatore. di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova il 07/09/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 4/2024 Quando una comunità o un movimento spirituale pas...
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A rinascere si impara/7 - Un tempo decisivo e fondamentale per ogni resurrezione di una comunità carismatica.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 12/08/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 3/2024

Le comunità carismatiche riescono a continuare a vivere dopo la morte del fondatore (che è anche morte mistica del primo corpo) se arriva una vera resurrezione.

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Ma le resurrezioni non sono contratti, non sono assicurazioni. Sono tutta gratuità, sorprendono, non possono essere programmate, non si scrivono negli obiettivi aziendali, non entrano nel business plan. Possono però essere desiderate, attese, sperate, pregate, e soprattutto le resurrezioni non vanno cancellate o rese impossibili dalla ricerca di finte resurrezioni, di rianimazioni dei cadaveri. Nella storia della Chiesa, la resurrezione arrivò, tutta dono, perché, innanzitutto, gli apostoli, le discepole e i discepoli prima credettero che Gesù fosse morto davvero sulla croce.

Non si fecero convincere dalle sette gnostiche che dicevano che a morire in Croce era stato Simone di Cirene. Per quei cristiani gnostici era impossibile accettare che il Figlio di Dio fosse morto veramente; quella morte era troppo umana per poter essere anche divina. E quindi negando la morte negarono anche la resurrezione, perché solo chi muore davvero può davvero risorgere.

Quando la prima fase della fondazione di una comunità termina, in genere con la morte del fondatore, il primo essenziale atto collettivo da fare consiste nel riconoscere e accettare la morte vera. Non credere alle tendenze gnostiche che si manifestano in molti modi, ma che spingono tutte verso il passato, il ricordo, la fantasia, e allontanano dal presente, dalla storia, dalla carne e quindi dal futuro. Poi, una volta accettata la morte, occorre abitare il Sabato, quel tempo che sta tra il venerdì del Golgota e l’alba della resurrezione. Il sabato è il tempo dell’attesa, degli aromi per onorare il corpo morto, veramente morto. È il tempo di Maria Maddalena e delle altre donne, delle discepole e discepoli che non sanno ancora della resurrezione ma, fedeli, si recano al sepolcro.

È il tempo del lutto, un tempo decisivo e fondamentale per ogni resurrezione di una comunità carismatica. Il lutto è essenziale non tanto per celebrare la morte, ma per dire a noi stessi che dobbiamo continuare a vivere oltre quella morte: è una celebrazione della vita. Nelle civiltà il lutto era il primo strumento per evitare il danno più grande dopo le morti: morire anche noi insieme al morto (Ernesto de Martino). Il lutto ben vissuto ed ‘elaborato’ consente quindi alle comunità di continuare la speranza oltre il trauma di una morte. È il linguaggio collettivo per dire: la vita è più grande, crediamo che nonostante il grande dolore dell’assenza noi avremo un futuro, vogliamo che i figli e i nipoti abbiano ancora la terra promessa.

Il lutto collettivo vissuto bene produce allora nella comunità frutti di vita, la capacità di innovare, di rischiare, e soprattutto scaccia via la paura di rovinare l’eredità lasciata dai fondatori. Un lutto non o mal elaborato porta invece le comunità a vivere nel terrore che i figli possano oggi distruggere il patrimonio di ieri (munus/dono dei padri), che si perda l’identità, che si contamini la purezza del carisma e degli ideali. Se una comunità è terrorizzata che tra i figli ci sia un Edipo che ucciderà suo padre, senza volerlo finisce per uccidere anche Isacco, che è invece il figlio della promessa. Il terrore del possibile tradimento dell’origine è un tipico segno di un lutto che non ha funzionato.

Un altro grande segnale di un lutto malamente vissuto o mai incominciato è l’assenza di gioia, che si manifesta in una mestizia collettiva, una forma di accidia comunitaria che impedisce di lanciare nuovi grandi progetti e di criticare chiunque ne pensa qualcuno, con il tipico cinismo di chi non crede più nel futuro.

Perché possa invece accadere il grande dono di una resurrezione vera c’è invece bisogno di intonare il ‘canto funebre’ di ieri, e poi subito ripetere con i profeti biblici: “Una storia è finita, ed è finita davvero, ma non è finita la nostra storia: perché un resto fedele la continuerà”. Nei carismi le storie da raccontare veramente importanti sono quelle nuove di oggi che faranno anche capire e “ricordare” nello spirito (non solo nei video e nei testi) le storie di ieri.

Queste sono autentiche operazioni spirituali, tutta grazia, tanto più difficili quanto più grande e straordinaria era stata la prima esperienza della fondazione. I lutti difficilissimi da elaborare sono quelli delle persone che abbiamo amato molto e che avremmo voluto morissero dopo di noi.

Il passato è capace di generare futuro se è interpretato come seme, come qualcosa di vivo che, perché vivo, deve morire per portare molto frutto domani.

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A rinascere si impara/7 - Un tempo decisivo e fondamentale per ogni resurrezione di una comunità carismatica.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 12/08/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 3/2024

Le comunità carismatiche riescono a continuare a vivere dopo la morte del fondatore (che è anche morte mistica del primo corpo) se arriva una vera resurrezione.

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Il tempo del lutto

Il tempo del lutto

A rinascere si impara/7 - Un tempo decisivo e fondamentale per ogni resurrezione di una comunità carismatica. di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova il 12/08/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 3/2024 Le comunità carismatiche riescono a continuare a vivere dopo la morte del fondatore (che è anch...
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A rinascere si impara/6 - Comunità e movimenti, tra le parole dei fondatori e la voce dei nuovi profeti.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 11/07/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 2/2024

Nelle comunità spirituali e nei movimenti carismatici (cioè che nascono da un carisma, religioso o laico) è importante la forma che assume l’esercizio della propria storia, della memoria, del ricordare. Il discernimento più prezioso e difficile non riguarda gli episodi negativi o le parole piccole del passato: l’arte cruciale è saper utilizzare le parole vere, gli episodi fondanti della storia di una comunità, incluse le parole grandi dei fondatori e dei primi testimoni amatissimi e venerati.

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Anche in questo esercizio essenziale, ci viene in aiuto un brano del Vangelo di Luca: «Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi… Essi li uccisero e voi costruite» (Lc 11,47-48). I contemporanei di Gesù avevano iniziato a celebrare e onorare i profeti del passato, gli uomini che avevano fondato la fede del popolo, riscoprendone e valorizzandone le tombe, che venivano trasformate in autentici santuari, mete di pellegrinaggi popolari. Per alcuni, questa nuova devozione profetica poteva essere interpretata come segno di una nuova stagione di stima e ascolto della parola dei profeti, una vera conversione: «Essi li uccisero, voi costruite».

E invece, anche qui, Gesù ci sorprende e smaschera una realtà che si mostra opposta a quella che appare – il Vangelo è un susseguirsi di realtà svelate che si mostrano opposte a quelle che sembrano evidenti a tutti. E ci dice che il celebrare i profeti del passato onorando le loro tombe e la loro memoria può non contenere nessuna novità: i profeti presenti (tra cui lui stesso e il Battista) continuavano ad essere perseguitati e uccisi mentre il popolo venerava le tombe dei profeti di ieri.

Onorare i profeti (i santi o i fondatori) di ieri non è allora un segnale credibile che una comunità stia ascoltando e stimando anche i suoi profeti di oggi. Anzi, la storia delle comunità cristiane, spirituali e ideali spesso mostra esattamente la tendenza opposta: più si venerano i santi del passato, meno si ascoltano i profeti del presente che, non di rado, vengono screditati e perseguitati proprio in nome della devozione ai grandi del passato.

Le comunità carismatiche hanno un bisogno vitale continuo di profezia, che si esprime certamente nel tener vivo e presente il carisma del fondatore nella sua interezza, ma si esprime anche nel riconoscere, incoraggiare e non combattere la profezia presente nelle persone che lo Spirito invia continuamente alle comunità, soprattutto nelle generazioni successive a quelle dei primi fondatori.

Una comunità carismatica non vive oggi semplicemente ricordando la profezia di ieri, né soltanto attualizzando oggi il carisma di ieri. Tutto ciò è necessario, ma non è sufficiente per una comunità che vuole mantenersi viva e vivificante e quindi continuare ad attrarre nuove vocazioni e giovani. La condizione sufficiente è l’ascolto della profezia presente, che presuppone che le persone di oggi che per dono e compito incorporano una dimensione profetica non vengano respinte né scoraggiate, ma accolte e valorizzate.

Il carisma non è un diamante arrivato sulla terra una volta per tutte e che va solo custodito in una cassa di vetro perché continui a brillare. Il carisma è un seme che continua in ogni stagione a dare i suoi fiori e frutti – i carismi sono sempre declinati nel tempo presente. Gesù è rimasto vivo nella Chiesa non solo perché custodito e venerato, non solo per la sua presenza vera nella comunità, ma perché lo Spirito ha inviato alla Chiesa molti carismi nel corso dei secoli.

Ma riconoscere i profeti di oggi non è affatto semplice, perché i profeti veri non sono in genere riconosciuti né ascoltati. Le comunità amano invece i falsi profeti perché essendo “profeti per mestiere” sono specialisti nel dire ai responsabili e alla sensibilità media della comunità solo ciò che amano sentirsi dire per rafforzare illusioni e auto-inganni (comunissimi nei tempi delle crisi).

Il brano di Luca poi ci dice qualcosa in più: che i profeti di oggi vengono zittiti ed emarginati proprio mentre cresce la celebrazione dei profeti di ieri. Un modo concreto di fare questo è usare le parole dei fondatori o dei grandi uomini e donne del passato per far tacere le parole profetiche vere di oggi, pensando, spesso in buona fede, che la nuova profezia che si esprime nella comunità di oggi entri in concorrenza, riduca o addirittura combatta la profezia dei fondatori di ieri. E così si usano testi, testimonianze orali, fioretti di ieri per contrastare parole e fioretti di oggi che sarebbero, invece, la sola cura vera della crisi che quella comunità vive.

 Credits foto: Immagine di Fauxels da Pexels

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A rinascere si impara/6 - Comunità e movimenti, tra le parole dei fondatori e la voce dei nuovi profeti.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 11/07/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 2/2024

Nelle comunità spirituali e nei movimenti carismatici (cioè che nascono da un carisma, religioso o laico) è importante la forma che assume l’esercizio della propria storia, della memoria, del ricordare. Il discernimento più prezioso e difficile non riguarda gli episodi negativi o le parole piccole del passato: l’arte cruciale è saper utilizzare le parole vere, gli episodi fondanti della storia di una comunità, incluse le parole grandi dei fondatori e dei primi testimoni amatissimi e venerati.

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La profezia vive solo nell’oggi

La profezia vive solo nell’oggi

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A rinascere si impara/5 - Con gli anni tante cose cambiano, anche all'interno delle comunità religiose e dei movimenti spirituali. Guardare al passato non sempre è la strada giusta per superare le crisi dei nuovi tempi

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 13/06/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 1/2024

Nella vita delle comunità e dei movimenti spirituali, indovinare il giusto rapporto col passato gioca un ruolo decisivo, soprattutto nei momenti di grande cambiamento e quindi di crisi, quando non è affatto ovvio come far sì che il carisma continui la sua corsa, e quali forme assumerà affinché la continuazione sia buona, porti sviluppo e vita.

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Nella Genesi abbiamo l’episodio della moglie di Lot (Gn 19, 26) trasformata in una statua di sale perché voltatasi a guardare indietro, ripreso anche dal Vangelo di Luca (Lc 17, 31-32). Guardare indietro fu l’errore fatale commesso da quella donna, un errore che può ripetersi anche nelle comunità spirituali e carismatiche. Esso consiste nel cercare nel passato la diagnosi e la terapia di una crisi presente, pensando che la sua soluzione si trovi tornando all’origine. Molte volte il passato è risorsa utile e necessaria, nelle crisi ordinarie, quando ciò che è accaduto ieri, e si è poi ripetuto per molte volte, crea dei pattern e delle leggi che aiutano a capire ciò che sta accadendo nel presente. È questo il senso vero della frase: la storia è maestra di vita.

Ma quando i tempi cambiano veramente e velocemente, quando il cambiamento del tempo è qualitativo (kairos), perché ci si trova di fronte ad una fase davvero inedita – come la morte del fondatore –, il passato non solo serve poco, ma può facilmente diventare zavorra e un cattivo consigliere per capire il presente e immaginare un buon futuro. Se, infatti, nei momenti decisivi di cambiamento d’epoca si rivolge lo sguardo all’indietro, il triste esito capitato alla moglie di Lot è comune e altamente probabile.

Ci si ritrova dentro situazioni molto note e studiate nella storia economica. Se, ad esempio, a fine ’800 gli inventori delle automobili avessero chiesto ai loro concittadini di cosa avevano bisogno per i loro trasporti, quelli avrebbero risposto: una carrozza più veloce. Nessuna analisi del mercato di ieri poteva far emergere il bisogno di automobile, perché, semplicemente, non esisteva ancora. Quando, nei momenti di grande cambiamento, si guarda nel passato, si trovano carrozze, non automobili.

Tornando alle comunità, i fondatori lasciano alle loro comunità delle carrozze, spesso carrozze bellissime e all’avanguardia del loro tempo, ma – e qui sta il punto – le comunità vivono nel tempo delle automobili. E quando, nella crisi, si va a guardare indietro in cerca di soluzioni, si trovano manuali di costruzione di carrozze, manutenzione di cavalli, di ruote, ammortizzatori; tutte cose utilissime per la costruzione e la manutenzione delle carrozze di ieri, ma inutili per creare automobili oggi e domani.

Nel momento di crisi che fa seguito al passaggio dalla generazione del fondatore a quella successiva, nello smarrimento naturale che si vive, l’errore più comune è pensare che la salvezza si trovi cercando e trovando nel passato le risorse per quella “radicalità” di vita che non si vede più, per quella fedeltà totale al carisma che oggi appare annebbiata. Si investono così molte energie per studiare bene le radici, per formare i nuovi membri con quei materiali di ieri presentati come la cura unica e migliore per la crisi di oggi.

Succede naturalmente perché nei tempi di grande incertezza e di grave disorientamento, l’unica risorsa disponibile a portata di mano sembra davvero essere il passato. E così ci si illude che il dato di fatto di avere una sola risorsa renda questa unica risorsa anche una buona risorsa. Si va in cerca delle parole del fondatore, degli episodi e dei fioretti di ieri, si cerca anche di spiegarne l’interpretazione autentica smarrita, inseguendo l’illusione che quei testi siano il mezzo per rinascere oggi. Si prendono così quegli antichi stupendi manuali di carrozze, quei disegni colorati di carrozze bellissime, e magari si riesce anche, in qualche luogo, a costruire ancora qualche buona carrozza, ma intanto attorno a noi sfrecciano automobili sempre più veloci.

Una buona strategia in questi tempi di passaggio dovrebbe invece immaginare e tentare due operazioni. La prima è un lavoro sul carisma, capendo – per restare dentro la metafora – che il dono ricevuto tramite il fondatore non è legato alla costruzione delle carrozze ma al trasporto; e quindi comprendere che quel carisma che ieri si è espresso nel costruire carrozze oggi può produrre anche automobili (magari elettriche). E poi, lasciare i manuali di istruzioni di ieri e usare lo spirito del carisma per scrivere nuovi manuali per la costruzione di nuovi mezzi di trasporto. E infine mettersi al lavoro con lo stesso entusiasmo dei primi tempi.

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A rinascere si impara/5 - Con gli anni tante cose cambiano, anche all'interno delle comunità religiose e dei movimenti spirituali. Guardare al passato non sempre è la strada giusta per superare le crisi dei nuovi tempi

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 13/06/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 1/2024

Nella vita delle comunità e dei movimenti spirituali, indovinare il giusto rapporto col passato gioca un ruolo decisivo, soprattutto nei momenti di grande cambiamento e quindi di crisi, quando non è affatto ovvio come far sì che il carisma continui la sua corsa, e quali forme assumerà affinché la continuazione sia buona, porti sviluppo e vita.

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Tempi di passaggio

Tempi di passaggio

A rinascere si impara/5 - Con gli anni tante cose cambiano, anche all'interno delle comunità religiose e dei movimenti spirituali. Guardare al passato non sempre è la strada giusta per superare le crisi dei nuovi tempi di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova il 13/06/2024 - Dalla rivista Città Nu...
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A rinascere si impara/4 - Come mantenere vive e fresche le comunità carismatiche, nella generazione successiva a quella dei fondatori

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 30/04/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 12/2023

Le comunità vivono dentro una tensione dinamica tra il “dentro” e il “fuori”. Senza una certa intimità collettiva fatta di relazione dense, forti, calde, non si crea nessuna comunità. Quindi la forza centripeta che spinge tutti verso un’unica anima è essenziale per generare vita comunitaria vera. Queste relazioni forti e intime sono molto amate dai membri delle comunità. Generano una gioia tipica e grandissima: mentre diciamo “noi”, sentiamo risuonare il nostro nome più vero, e mentre diciamo “io”, tutto ci parla di “noi”, al punto da (quasi) non poter più distinguere l’anima individuale da quella collettiva.

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Questo tipico bene relazionale è il primo nutrimento delle comunità. Sta in questa intimità, tutta individuale e tutta collettiva, il segreto, la bellezza insieme alle criticità della vita comunitaria, soprattutto quando le comunità attraggono e coltivano vocazioni, cioè sono composte da persone chiamate per nome dal carisma della comunità, che sentono come la parte migliore e più vera di sé. L’immedesimazione del soggetto con il gruppo diventa un gioco spirituale di specchi, una empatia mutua e generalizzata, e le singole persone non percepiscono, in genere, nessuna forzatura nel sentire gli stessi sentimenti di tutti – “il naufragar m’è dolce in questo mare” della comunità.

Inevitabilmente, questa dinamica interna crea dei confini, delle frontiere, delle zone di delimitazione tra il dentro e il fuori, al fine di custodire questa intimità preziosa. L’intensa vita interna crea negli anni poi anche un linguaggio comune, uno stile di vita, un modo di pregare e di celebrare, ammiccamenti e gesti che fanno riconoscere immediatamente dall’esterno chi fa parte di quel dato gruppo. Chi è dentro non si accorge di mutare giorno dopo giorno, ma a chi guarda da fuori appare chiarissimo ed è anche visto con una certa preoccupazione. Se, infatti, dopo la prima fase le comunità non abbassano i ponti levatoi e rendono molto più porosa e semplice l’entrata (e l’uscita), iniziano a decadere per perdita di biodiversità e di aria.

Interessante è a questo riguardo un episodio del vangelo di Luca: «Giovanni prese la parola dicendo: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non ti segue insieme con noi”. Ma Gesù gli rispose: “Non lo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi”» (Lc 9,49-50). I compagni di Gesù si comportano come molti membri di una comunità nei confronti di persone fuori del “cerchio magico” che operano come se fossero dentro. Sono molti i modi in cui si esprimono queste dinamiche.

Un primo riguarda quelle persone che dopo aver passato un periodo con la comunità, sentono una seconda vocazione, la lasciano e danno vita ad una loro nuova comunità. Soprattutto all’inizio, queste persone di “seconda vocazione” usano linguaggi e categorie spirituali molto simili, se non identiche, a quelle che avevano appreso e vissuto nella prima comunità di origine. Questa somiglianza a volte appare ai vecchi compagni eccessiva, disturba, somiglia al plagio, e si lamentano per la mancanza di riconoscimento della prima sorgente, che può tradursi in vera ostilità. Un errore comune e comprensibile, che però va combattuto come una tentazione.

Una seconda forma è l’arrivo nella comunità di persone con propri talenti e carismi in parte diversi da quello del fondatore, che comunque si sentono autentici figli di quel carisma. È l’esperienza di san Paolo che, pur non avendo conosciuto il Signore, si sentiva apostolo come i dodici. E come Paolo non ebbe vita semplice con Pietro, Giacomo e i dodici, così i nuovi Paolo non hanno vita semplice nelle comunità carismatiche, dove vengono spesso osteggiati, ignorando, magari in buona fede, che la salvezza e il futuro buono dipendono molto dalla presenza di questi riformatori esterni-interni.

Nella generazione successiva a quella dei fondatori la “gestione dei confini” spirituali della comunità diventa fondamentale e vitale. Occorre far di tutto affinché la comunità di ieri sia vivificata e sfidata da nuovi arrivi, che sono a volte molto diversi dal profilo dei membri della prima generazione, ma che operano gli stessi miracoli “nel nome” del carisma. Tra quelli che operano nello stesso nome ci saranno senz’altro dei falsi profeti e persino degli opportunisti, un rischio inevitabile, perché una comunità che non generasse anche falsi profeti non avrebbe abbastanza forza vitale per generare nessun profeta vero.

Quando invece prevale la paura di perdere l’identità e la purezza del carisma (tipica tentazione “gnostica”), le comunità appassiscono, invecchiano e scompare la gioia di vivere che insieme alla presenza dei giovani sono i due “sacramenti” delle comunità capaci di futuro.

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A rinascere si impara/4 - Come mantenere vive e fresche le comunità carismatiche, nella generazione successiva a quella dei fondatori

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 30/04/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 12/2023

Le comunità vivono dentro una tensione dinamica tra il “dentro” e il “fuori”. Senza una certa intimità collettiva fatta di relazione dense, forti, calde, non si crea nessuna comunità. Quindi la forza centripeta che spinge tutti verso un’unica anima è essenziale per generare vita comunitaria vera. Queste relazioni forti e intime sono molto amate dai membri delle comunità. Generano una gioia tipica e grandissima: mentre diciamo “noi”, sentiamo risuonare il nostro nome più vero, e mentre diciamo “io”, tutto ci parla di “noi”, al punto da (quasi) non poter più distinguere l’anima individuale da quella collettiva.

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Carismi: la gestione dei confini

Carismi: la gestione dei confini

A rinascere si impara/4 - Come mantenere vive e fresche le comunità carismatiche, nella generazione successiva a quella dei fondatori di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova il 30/04/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 12/2023 Le comunità vivono dentro una tensione dinamica tra il “dentro” e il “...
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A rinascere si impara/3 - Cosa ci dice oggi la metafora evangelica del vino novello? Nei tempi nuovi occorre avere il coraggio di intonare il canto funebre, ringraziare il passato e poi credere di più al presente e al futuro: credere di più ai figli di oggi che ai padri di ieri. Occorre il coraggio di cambiare quasi tutto per non perdere tutto.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 12/03/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 11/2023

Le comunità fanno una grande fatica a capire quando un mondo è finito e ne è cominciato uno nuovo. Sono molte le ragioni di questa fatica collettiva, e in genere poco studiate soprattutto nell’ambito delle comunità di natura religiosa e spirituale, dove i vari livelli dei problemi (economico, organizzativo, carismatico…) si intrecciano e si confondono.

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Su alcuni dei rischi e degli errori ci può ispirare un noto brano del Vangelo di Luca ‒ la Bibbia è anche una preziosa mappa per orientarsi nei passaggi alti e impervi. Eccolo: «Diceva loro anche una parabola: “Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio; altrimenti il nuovo lo strappa e al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti. Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi”». (Luca 5, 36-38).

Gli otri e il vino in essi contenuto sono ottime parabole per comprendere le realtà collettive nate da un carisma. Queste vivono di uno spirito che le ha generate, che possiamo chiamare “carisma”, e anche di strutture, pratiche, organizzazioni, norme, statuti nati per conservare, custodire e accudire il carisma stesso: gli otri. Nel contesto del Vangelo gli otri erano la Legge e le istituzioni mosaiche, mentre il vino era lo spirito, l’avvento del Regno dei cieli. Qualcosa era accaduto, la vigna di YHWH aveva prodotto un vino nuovo, e gli otri di ieri dovevano essere cambiati. Gli otri non erano sbagliati né cattivi: erano semplicemente inadatti (unfit) per contenere un vino nuovo, e se non si cambiavano presto i contenitori si sarebbe disperso anche il contenuto.

La metafora del vino nuovo può indicare oggi molte cose diverse.

Quando un carisma arriva sulla terra, è un vino nuovissimo, frutto di un vitigno mai visto prima, sebbene frutto di innesti di vitigni della stessa grande vigna della Chiesa e dell’umanità. Tutti capiscono, all’inizio, che quel vino nuovo ha bisogno di nuovi otri: ed ecco che la comunità dà vita a istituzioni, statuti, norme, linguaggi inediti che siano capaci di contenere e custodire quella novità. A nessun francescano veniva in mente, nel XIII secolo, di vivere lo spirito di Francesco restando nelle bellissime abbazie benedettine: nacque qualcosa di nuovo, i conventi, fu scritta una nuova regola per contenere quella novità. E nessuno pensava di riadattare lo Statuto Albertino per scrivere la Costituzione italiana dopo il Fascismo.

Molto più difficile è capire quando nella storia di una comunità gli otri vanno ancora rinnovati perché c’è un vino novello. È difficile capirlo perché ormai il vitigno esiste, e molti pensano che gli otri saranno per sempre, che non arriverà più vino nuovo. La morte del fondatore, in genere, è invece uno di questi momenti, quando il vino torna nuovo e gli otri invecchiano.

Il problema decisivo nasce dal fatto che gli otri che vanno cambiati sono quelli costruiti dal fondatore. E così strutture, pratiche, regole, parole, fioretti, statuti e costituzioni sono diventati negli anni molto importanti e amati. Sono eredità, sono patrimonio (cioè patres-munus: dono dei padri), sono una parte bellissima dell’arredo e della ricchezza della casa comunitaria, fino ad amare gli otri quasi più del vino. Ma se ci si affeziona agli otri di ieri, le comunità invecchiano insieme alle loro botti, perché credono più ai contenitori che al vino, e presto assisteranno, inerti, al disfacimento degli otri e del vino.

C’è poi un altro dettaglio alla fine della parabola di Luca: «E nessuno che abbia bevuto del vin vecchio, ne desidera del nuovo, perché dice: Il vecchio è buono» (5, 39). A molti piaceva più il vino vecchio, e non vogliono il nuovo: e i problemi crescono. Altri, poi, cercavano compromessi, provavano a combinare vecchio e nuovo, mettendo pezze di panno nuovo su un vestito vecchio. No: nei tempi nuovi occorre avere il coraggio di intonare il canto funebre, ringraziare il passato e poi credere di più al presente e al futuro: credere di più ai figli di oggi che ai padri di ieri.

C’è un giorno quando gli otri che per “mille anni” hanno contenuto lo spirito del carisma diventano improvvisamente obsoleti, perché un turno di guardia nella notte è stato più lungo di mille anni. Non è cambiata la vite del carisma, è solo arrivato il vino novello di una nuova annata, nelle stesse vigna e viti di ieri. E qui occorre il coraggio di cambiare quasi tutto per non perdere tutto.

Credits foto: © Makalu su Pixabay

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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 12/03/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 11/2023

Le comunità fanno una grande fatica a capire quando un mondo è finito e ne è cominciato uno nuovo. Sono molte le ragioni di questa fatica collettiva, e in genere poco studiate soprattutto nell’ambito delle comunità di natura religiosa e spirituale, dove i vari livelli dei problemi (economico, organizzativo, carismatico…) si intrecciano e si confondono.

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L’essenziale coraggio di cambiare

L’essenziale coraggio di cambiare

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A rinascere si impara/2 - I grandi cambiamenti non sempre avvengono a piccoli passi, e la necessità di procedere per gradi non deve diventare di ostacolo all'intraprendere iniziative urgenti

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 24/01/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 10/2023

Abbiamo da poco ricordato i sessant’anni dal grande discorso profetico di Martin Luther King, I have a dream, pronunciato a Washington il 28 agosto del 1963. Rimeditando quel discorso mi ha colpito un passaggio: «Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che si trangugi il tranquillante del gradualismo». Era molto critico del gradualismo, dell’idea, molto radicata, che i grandi cambiamenti non possono avvenire subito perché la grande complessità della realtà da cambiare richiede un processo graduale e una politica dei piccoli passi. Il gradualismo trova molto consenso, perché sottolinea un valore vero, quello dell’inclusione, della necessità di coinvolgere i vari protagonisti che hanno un ruolo nella creazione dei problemi e quindi anche nella loro soluzione. Da qui i grandi processi di consultazione della base, dei questionari, delle molte commissioni per garantire la sinodalità dell’intero processo di cambiamento.

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Non voglio affermare che il metodo gradualista non sia mai da adottare o sia sempre sbagliato. La domanda è un’altra: perché Martin Luther King era molto contrario al gradualismo? Perché, semplicemente, lui vedeva in chi invocava la politica dei piccoli passi un alibi per continuare a rimandare riforme e cambiamenti urgenti ed evidenti (l’apartheid, ad esempio), e perché svolgeva per i potenti la funzione di ‘tranquillante’ della coscienza. Appellarsi ad un valore, in sé anche valido, diventava solo una giustificazione dello status quo – quasi sempre chi osteggia un processo necessario lo fa in nome di una buona ragione.

Non tutti i cambiamenti avvengono per piccoli passi. In fisica l’acqua si trasforma da liquida in solida in un attimo, le rivoluzioni non avvengono gradualmente, perché certi processi esplodono quando si supera una soglia critica. Oggi, ad esempio, chi continua ad invocare la politica gradualista nell’ambito dei cambiamenti climatici e della transizione ecologica (la stessa parola transizione incorpora l’idea dei piccoli passi), quasi sempre usa questa bella parola per rallentare un cambiamento che era urgentissimo già venti anni fa. L’inclusione di tutti i governi e i vari portatori di interesse economico (stakeholders) è parte essenziale del problema ambientale, è la prima causa del perché stiamo assistendo inerti ad un declino veloce ed inesorabile del clima. Quando la nave affonda, o quando la casa brucia, nessuno pensa di convocare un’assemblea per decidere con complesse procedure il da farsi: ci sarebbe bisogno di un capitano che si prendesse le responsabilità delle scelte e scegliesse. Il mondo non ha un capitano (ed è bene così) e infatti stiamo affondando; ma questo ‘capitano’ può e deve emergere dal basso, dalla popolazione mondiale, da processi civili che possono portare a decisioni veloci ed efficaci sostitutive della mancanza dei ‘capitani’ – e speriamo solo che siano pacifici e non-violenti.

Ma ciò che stupisce è che il gradualismo prende piede anche nelle comunità ideali e nei movimenti dove invece i ‘capitani’ ci sono, dove esiste un governo che le decisione urgenti potrebbe e dovrebbe prenderle. E invece, troppo spesso, anche qui di fronte a crisi generali e serie che richiederebbero un cambiamento veloce, si preferisce il metodo gradualista, la creazione di commissioni che poi un giorno riporteranno le esigenze emerse con la speranza (un po’ ingenua) che alla fine si riesca a fare la sintesi tra tutta la quantità di informazione che si sarà raccolta. E così passano gli anni, i governi, le patologie si aggravano, e mentre i medici discutono sul da farsi il paziente inizia a morire.

Un errore tipico di questi metodi gradualisti, poi, riguarda l’economia. Gli aspetti economici sono i primi che emergono durante una crisi, ma sono gli ultimi che vanno affrontati, perché l’economia è un indicatore di fenomeni molto più vasti e profondi della sola economia. Gli indicatori economici sono la spia rossa che, nell’auto, segnala un guasto al motore: ti dice di sistemare il motore e poi, una volta riparato, la spia si spegnerà da sola. E invece si inizia a sistemare per prima l’economia senza capire le malattie strutturali che hanno generato la crisi economica, e più si ripara l’economia più la malattia cresce nel profondo.

La qualità di un governo nei tempi di crisi dipende molto dalla capacità dei responsabili di intuire, per istinto, dove siano i problemi del ‘motore’, e da lì partire. Riceveranno critiche, accuse di dirigismo, ma forse salveranno il corpo che soffre.

Credits foto: © Unseen Histories su Unsplash

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Contro il gradualismo

Contro il gradualismo

A rinascere si impara/2 - I grandi cambiamenti non sempre avvengono a piccoli passi, e la necessità di procedere per gradi non deve diventare di ostacolo all'intraprendere iniziative urgenti di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova il 24/01/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 10/2023 Abbiamo da po...
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A rinascere si impara/1 - Perché molte riforme di comunità partono coi migliori auspici e poi si bloccano?

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 20/12/2023 - Dalla rivista Città Nuova n. 9/2023

L’arte più preziosa e rara da imparare quando si inizia una riforma di una comunità, è riuscire ad arrivare fino in fondo al processo. La prima fase di una riforma è quasi sempre accompagnata da consensi, incoraggiamenti e applausi, perché, in genere, i movimenti e le comunità iniziano le riforme troppo tardi, quando ormai è evidente (quasi) a tutti che bisogna cambiare molto per non morire; e così il nuovo governo che pone mano a questo lavoro riformatore è salutato come si saluta un salvatore. In pochi sono coscienti che quella riforma necessaria era da fare molti anni prima, quando ancora i sintomi della malattia collettiva erano quasi invisibili e tutto parlava di salute e di successo.

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Per questa ragione, i primi tempi di un processo di rinnovamento, di qualsiasi rinnovamento di un corpo che soffre, scorrono lisci, veloci, accompagnati da soddisfazione e dal grande sollievo tipico di ogni inizio di una cura necessaria. I riformatori si sentono sostenuti dalla comunità intera, e tutto è corredato da un clima di ottimismo e di nuova primavera. Si comprende quindi che nelle riforme i momenti più importanti e decisivi sono i secondi, non i primi, quel “secondo tempo” quando si riduce e poi esaurisce l’apertura di credito quasi infinita dell’inizio.

Molte riforme si bloccano, si impantanano in questa seconda fase e non raggiungono la terza, quella essenziale dell’implementazione vera e concreta della riforma, quando gli annunci si sarebbero dovuti trasformare in grandi cambiamenti di governance. Accade così come a quei giovani che si immergono con la sola maschera perché sanno che dopo 10 metri si arriverà in una grotta emersa dai colori bellissimi: dopo i primi metri sentono diminuire l’ossigeno, si impauriscono, tornano indietro e riemergono in superficie. Se avessero resistito ancora per qualche altro secondo sarebbero arrivati all’aria della grotta stupenda, e invece si sono fermati a metà del cammino.

Perché ci si ferma? Che cosa accade nella fase intermedia che blocca le riforme necessarie e che (quasi) tutti vorrebbero? Un indizio sulle ragioni del fallimento della seconda fase ce lo suggerisce il filosofo francese De Tocqueville (Democrazia in America), con il suo famoso “paradosso”. Studiando le rivoluzioni e le trasformazioni sociali dei popoli, Tocqueville aveva capito qualcosa di importante: non appena i membri di una comunità iniziano a vedere i tanto agognati primi segni di cambiamento, di nuova partecipazione e di democrazia, cominciano a chiedere sempre di più, molto più di quanto i riformatori possono concretamente fare in quella prima fase.

L’appetito di riforma cresce molto più velocemente dei suoi primi risultati. E così, quei riformatori apprezzati, lodati e incoraggiati nel momento dell’annuncio della riforma, appena incominciano a compiere i primi atti riformatori, vedono la stima originale trasformarsi in critiche e insoddisfazione, perché quei primi cambiamenti appaiono troppo timidi, lenti e insufficienti. Al tempo stesso, questo malcontento proveniente oggi dagli stessi entusiasti di ieri, genera delusione e scoraggiamento nei riformatori perché considerano le critiche ingiuste e ingrate. Questo “effetto a tenaglia” – critiche dalla comunità e scoraggiamento nel governo – può bloccare l’esplorazione in apnea per una veloce marcia indietro.

Tante mancate riforme sono quelle “abortite” nella seconda fase, non quelle mai iniziate. Una riforma incominciata e non portata a termine è però peggiore di una mancata riforma. Perché mentre una comunità che non ha mai tentato una riforma necessaria può sempre iniziarne una; quando una comunità ha fallito una prima riforma, diventa molto difficile, se non impossibile, avviarne una seconda, perché la gestione di quel primo fallimento ha consumato molte delle energie disponibili, e quel primo entusiasmo collettivo, necessario per iniziare, nella seconda eventuale riforma sarà molto ridotto se non addirittura inesistente. Nelle riforme delle comunità carismatiche solo “la prima è buona”, la seconda possibilità, che c’è sempre, è (facilmente) inefficace.

Quando allora il governo di una comunità mette mano a una riforma, deve essere consapevole che arriverà la seconda fase delle critiche e dello scoraggiamento. Deve metterlo in conto, non farsi cogliere di sorpresa dal suo arrivo. E così, quando ci mancherà il fiato, continueremo fiduciosi l’immersione, in cerca del nuovo arcobaleno.

 

Credits foto: © 14578371 da Pixabay

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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 20/12/2023 - Dalla rivista Città Nuova n. 9/2023

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Quel nuovo arcobaleno che c’è

Quel nuovo arcobaleno che c’è

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 Economia è vita - Una riflessione sullo Smart working pubblicata su Città Nuova di Agosto, tutt'ora molto attuale

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova di Agosto 2021

Mentre tutto il mondo della scuola, e ancor più le famiglie, hanno capito che la Didattica a distanza è stata una scialuppa di salvataggio durante il naufragio e nessuno vuole fare il resto della traversata dell’oceano sulla scialuppa, i pareri sono diversi e controversi quando si parla di tornare a lavoro negli uffici. Questo anno e mezzo ci ha insegnato che ci sono alcune attività che è bene continuare a fare online – alcune riunioni, alcuni meeting di gruppi di lavoro internazionali o inter-regionali, alcuni consigli di dipartimento... –, ma anche che per la maggior parte delle azioni di cui si compongono i nostri lavori, se dovessimo continuare a svolgerle da remoto, porteremo le nostre imprese e organizzazioni in sentieri di grossa difficoltà.

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La co-presenza off-line nello stesso luogo non è essenziale solo per le riunioni veramente importanti o per gli incontri veramente delicati; no: è essenziale quasi sempre, perché le imprese e le organizzazioni vivono soprattutto grazie a quel lavoro quotidiano, a quella intelligenza feriale e ordinaria, che unita a quella degli altri ci consente di andare avanti, innovare, crescere. Queste innovazioni e queste scelte veramente importanti sono quelle che nascono perché, non più di un secolo e mezzo fa, decidemmo di chiedere agli uomini, poi alle donne, di lasciare la loro gestione naturale della vita e lavorare, artificialmente, in luoghi strani come fabbriche e uffici. Di prendere 8 ore al giorno per 6 giorni – poi passati a 5, e speriamo presto a 4 –, lasciare le loro case e le occupazioni private per occuparsi degli affari della loro azienda. Queste molte ore passate insieme hanno generato i nostri miracoli economici, e la nostra società complessissima e ricca.

Se con il lavoro smart riportiamo i lavoratori dentro casa, tutto cambia, e cambia molto, per il 99% dei lavori che si svolgono collettivamente. Perché, da una parte, se il lavoro ce lo portiamo a casa, per tutti noi, nonostante tutta la serietà e la buona volontà, quelle 8 ore vengono in certa (e non piccola) parte occupate dalla vita della casa e delle sue relazioni. E perché, ancora più seriamente, i prodotti di lavori svolti da ciascuno stando a casa e che alla fine si sommano e si uniscono, non equivalgono al lavoro fatto insieme mentre si lavora insieme. Sono cose diverse, la seconda di qualità e sapore superiori. Il lavoro è azione collettiva, non molto diversa da quella che generiamo quando cantiamo in un coro o giochiamo a calcetto; certo, possiamo anche cantare registrando ciascuno da casa, e poi affidando al computer l’assemblaggio finale. Ma sappiamo che quel che accade in questi “cori” non è quel che accade mentre ci ritroviamo e cantiamo gomito a gomito, e nascono le nuove canzoni e i nuovi progetti. Per non parlare del calcetto.

A me sono mancati molto i colleghi, moltissimo i miei studenti. E non vedo l’ora di ritrovarli, di rivederli, di lavorare con loro. E a voi?

Foto di Sam Lion da Pexels

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 Economia è vita - Una riflessione sullo Smart working pubblicata su Città Nuova di Agosto, tutt'ora molto attuale

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova di Agosto 2021

Mentre tutto il mondo della scuola, e ancor più le famiglie, hanno capito che la Didattica a distanza è stata una scialuppa di salvataggio durante il naufragio e nessuno vuole fare il resto della traversata dell’oceano sulla scialuppa, i pareri sono diversi e controversi quando si parla di tornare a lavoro negli uffici. Questo anno e mezzo ci ha insegnato che ci sono alcune attività che è bene continuare a fare online – alcune riunioni, alcuni meeting di gruppi di lavoro internazionali o inter-regionali, alcuni consigli di dipartimento... –, ma anche che per la maggior parte delle azioni di cui si compongono i nostri lavori, se dovessimo continuare a svolgerle da remoto, porteremo le nostre imprese e organizzazioni in sentieri di grossa difficoltà.

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Lavorare insieme o da casa, cosa perdiamo

Lavorare insieme o da casa, cosa perdiamo

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L’Economia di Comunione è ancora nella sua aurora, perché in questa epoca di insostenibilità del capitalismo, dal punto di vista ambientale ma anche sociale e spirituale, la comunione in economia diventa sempre un ideale.  Anteprima dal numero di giugno della rivista Città Nuova

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 01/06/2021

Il 29 maggio l’Economia di comunione (EdC) ha compiuto 30 anni. Un arco temporale significativo per un progetto sociale, un tempo brevissimo per una profezia.

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Mi ero appena laureato in Economia, e non potevo sapere che quella nascita mi avrebbe cambiato la vita. Chiara Lubich mi chiamò a lavorare con altri economisti e imprenditori per dare “dignità scientifica” alla sua EdC. Non so se ci siamo riusciti, ma di certo la vita dell’EdC ha dato dignità e senso al mio lavoro di studioso e a quello di molti altri. L’EdC nacque come un progetto sociale di ridistribuzione di ricchezza: imprenditori donavano una parte significativa dei loro profitti per persone in difficoltà e per diffondere quella cultura nuova di condivisione che fu chiamata “cultura del dare”.

Questa espressione fu proposta dalla sociologa Vera Araujo, e il nome del progetto, Economia di comunione, fu suggerito a Chiara da Tommaso Sorgi. Questi contributi dicono che l’EdC è nata sinfonica: con una compositrice, Chiara Lubich, che per scrivere il suo spartito ebbe bisogno dell’apporto creativo di molte persone, a partire dai focolarini brasiliani.

L’EdC vivrà finché resterà sinfonica e creativa. Il dono degli utili da parte degli imprenditori fu all’inizio talmente importante che la prima immagine dell’EdC fu “un terzo, un terzo, un terzo”. Da subito, però, si intuì che dietro quei tre terzi dei profitti c’era molto di più. Chiara aveva intuito che l’impresa era l’istituzione-chiave del capitalismo, un capitalismo che andava riformato. Siamo all’indomani del crollo dei muri del socialismo reale, nel mondo tutto parlava di fiducia nelle sorti progressive del capitalismo e Chiara lancia un’iniziativa che ne mette in discussione il primo dogma: l’appropriazione privata degli utili.

Si capiva che l’EdC non era tanto un’operazione solidale di distribuzione di ricchezza. Ma nelle profezie i segni si svelano solo col tempo. I giovani soprattutto (ero tra quelli) vi vedevano un’altra economia, fraterna, inclusiva, giusta. E così è cresciuta. Negli anni imprenditori e poveri hanno conservato un loro protagonismo, ma insieme è cresciuta la dimensione culturale e teorica dell’EdC. Molti giovani l’hanno fatta oggetto di tesi di laurea e di dottorato, in molte università si è iniziato a studiare questa economia che senza rinnegare il ruolo dell’impresa e degli imprenditori li chiama a diventare “sviluppatori di comunità”, come dicono i membri del Banco Kabajan nelle Filippine.

Cosa abbiamo festeggiato il 29 maggio? Come in tutte le feste delle comunità, abbiamo ringraziato Chiara e i pionieri, molti ormai scomparsi. Poi, come nella Bibbia, abbiamo ricordato i “miracoli” per guardare avanti alla terra promessa. L’EdC è ancora nella sua aurora, perché in questa epoca di insostenibilità del capitalismo, dal punto di vista ambientale ma anche sociale e spirituale, la comunione in economia diventa sempre un ideale. Ringraziare, ricordare, continuare a credere nella profezia di Chiara.

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L’Economia di Comunione è ancora nella sua aurora, perché in questa epoca di insostenibilità del capitalismo, dal punto di vista ambientale ma anche sociale e spirituale, la comunione in economia diventa sempre un ideale.  Anteprima dal numero di giugno della rivista Città Nuova

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 01/06/2021

Il 29 maggio l’Economia di comunione (EdC) ha compiuto 30 anni. Un arco temporale significativo per un progetto sociale, un tempo brevissimo per una profezia.

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30 anni di Economia e di Comunione

30 anni di Economia e di Comunione

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La generatività in tutti gli ambiti ha un bisogno vitale di libertà, di fiducia, di rischio, tutti elementi che rendono vulnerabile chi concede queste libertà e questa fiducia

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova Nuova il 06/10/2020

La vulnerabilità è anche una parola buona della vita. La vulnerabilità (da vulnus: ferita), come molte altre parole vere dell’umano, è infatti ambivalente, perché la buona vulnerabilità convive accanto a quella cattiva, e spesso le due sono intrecciate tra loro.

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La vulnerabilità buona è quella iscritta in tutte le relazioni umane generative, dove se non metto l’altro nella possibilità di “ferirmi”, la relazione non raggiunge la profondità per essere feconda. Questa buona vulnerabilità è anche l’antidoto per proteggersi dalla cattiva vulnerabilità, perché un mondo che aspira all’ideale della vulnerabilità zero è un mondo altamente vulnerabile. Perciò la fiducia è una relazione radicalmente vulnerabile. Quando una persona si fida di un’altra, mette nelle sue mani qualcosa di proprio di cui l’altro può disporre e persino abusare. La radice di quella gioia speciale che proviamo quando qualcuno ripone in noi la sua fiducia sta proprio in questa esposizione di colui che ci dona la sua fiducia, perché sentiamo che ci ha chiesto di custodire qualcosa di prezioso che riguarda la sua persona, la sua intimità, il suo mistero. Questa condizione di vulnerabilità cresce con il valore di quel “qualcosa” che mettiamo nelle mani dell’altro. La vulnerabilità ha anche il suo valore e delle proprietà tipiche che cambiano la natura di un rapporto, in genere migliorandolo. Quando chi compie un atto di affidamento, fa di tutto per ridurre, e possibilmente annullare, il rischio di abuso e tradimento intrinseco alla fiducia, finisce per ridurre e azzerare il valore di quel bene relazionale. Molti rapporti si interrompono sul nascere, perché la volontà di escludere futuri abusi crea un contesto di diffidenza che impedisce al rapporto di iniziare. La fiducia invulnerabile non è un bene ma un male.

Lo vediamo nei confronti del coniuge, dei figli, dei colleghi, degli amici, che amiamo e dai quali siamo amati finché siamo capaci di fidarci di loro – e loro di noi – senza avere garanzie assolute sulla loro reciprocità, sebbene da essa dipendiamo per la nostra felicità. In molti rapporti la fiducia è un incontro di beni relazionali, non necessariamente simmetrici. La generatività in tutti gli ambiti ha un bisogno vitale di libertà, di fiducia, di rischio, tutti elementi che rendono vulnerabile chi concede queste libertà e questa fiducia. La vita è generata da rapporti aperti alla possibilità della ferita relazionale. Non aiuteremmo nessun bambino a diventare una persona libera senza concedergli una fiducia vulnerabile, nelle famiglie, nelle scuole, nei molti luoghi educativi. E da adulti non riusciamo a fiorire nei luoghi di lavoro e della vita senza ricevere e dare fiducia rischiosa e vulnerabile. Generiamo gli altri donando loro fiducia vulnerabile, e gli altri ci generano ogni giorno fidandosi di noi ed esponendosi al rischio della ferita. In mezzo a queste due fiducie vulnerabili c’è tutta l’arte della vita in comune.

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La generatività in tutti gli ambiti ha un bisogno vitale di libertà, di fiducia, di rischio, tutti elementi che rendono vulnerabile chi concede queste libertà e questa fiducia

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova Nuova il 06/10/2020

La vulnerabilità è anche una parola buona della vita. La vulnerabilità (da vulnus: ferita), come molte altre parole vere dell’umano, è infatti ambivalente, perché la buona vulnerabilità convive accanto a quella cattiva, e spesso le due sono intrecciate tra loro.

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La buona vulnerabilità della vita

La buona vulnerabilità della vita

La generatività in tutti gli ambiti ha un bisogno vitale di libertà, di fiducia, di rischio, tutti elementi che rendono vulnerabile chi concede queste libertà e questa fiducia di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova Nuova il 06/10/2020 La vulnerabilità è anche una parola buona della vita. La vuln...
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In questo momento di pandemia da coronavirus, abbiamo visto che l’economia vive e non crolla grazie soprattutto ai lavoratori che svolgono lavori più semplici. C’è un amore diverso ma essenziale in chi va a lavorare ogni giorno per noi, con le mascherine e con i guanti.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova l'11/04/2020 (da pdf Città Nuova (34 KB) n.04/2020 di aprile 2020)

Questa inedita e grave crisi collettiva ci sta dando, tra l’altro, anche alcune lezioni sulla natura profonda dell’economia e dei mercati. Innanzitutto ci sta mostrando la differenza tra capitalismi. Lo avevamo sempre saputo che lo spirito del capitalismo del Nord Europa è diverso da quello del Sud. Oggi però questa differenza si sta manifestando in aspetti nuovi, (in parte) insospettati e, tutto sommato, tristi per tutti.

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La visione del lavoro come vocazione (beruf, in tedesco) che, come ci ha mostrato già Max Weber, ha caratterizzato la visione protestante del lavoro e del capitalismo, e che ha prodotto frutti straordinari, oggi mostra il suo lato buio. Le ragioni del lavoro e dell’economia sono talmente importanti da poter diventare assolute e “sacre” e così divenire le prime ragioni anche di fronte a una crisi tanto grave. Le frasi che abbiamo sentito dire da premier o ministri dei Paesi del Nord Europa e del Regno Unito, sull’imperativo di evitare a tutti i costi la recessione economica, non le abbiamo sentite pronunciare dai leader dei Paesi di cultura cattolica (Italia, Spagna, Portogallo); non perché siano più altruisti dei loro colleghi, ma perché sotto le Alpi l’economia non è mai stata la parola più importante della vita civile.

In questi ultimi anni lo stava diventando anche da noi (e in certe regioni di più, e lo abbiamo visto), ma questa crisi, inaspettatamente, ci ha fatto scoprire anche la vocazione economica diversa e specifica dei Paesi latini e cattolici. Siamo cresciuti di meno, abbiamo grandi debiti pubblici, abbiamo corruzione diffusa e alta disoccupazione e bassa produttività; ma facciamo di tutto, e un po’ di più, per salvare gli anziani, ad ogni costo. Il familismo non è solo e sempre amorale. E non perché siamo più buoni o più etici, ma perché siamo, semplicemente, diversi, nelle ombre e nelle luci. Forse, per una volta, il Nord Europa avrebbe potuto prendere una lezione dal suo Sud, e sarebbe stato meglio per tutti, avremmo risparmiato tutti morti e dolore.

C’è poi un secondo aspetto. Abbiamo visto che l’economia vive e non crolla grazie soprattutto ai lavoratori che svolgono lavori più semplici e umili. Perché se dietro e accanto ai medici e agli infermieri non ci fossero stati le e gli Oss, gli addetti alle pulizie negli ospedali, e poi gli autisti dei camion della logistica, gli spazzini nelle città, i manutentori dell’energia elettrica e delle reti Internet, i commessi nei supermercati, i vigili urbani… questa crisi ci avrebbe travolto molto di più e in modo molto più devastante e forse insostenibile. Abbiamo, improvvisamente, visto quanto amore civile e implicito ci sia attorno a noi.

Molti di noi cerchiamo e vediamo l’amore nei luoghi sbagliati o troppo piccoli: ci siamo accorti che c’è un amore diverso ma essenziale in chi va a lavorare ogni giorno per noi, con le mascherine e con i guanti, che rischia di contagiare genitori e figli solo per fare il proprio dovere.

Anche questo lavoro è vocazione, anche quando è duro, quando sfinisce, quando ci porta sul punto di rischiare molto, a volte quasi tutto. Tanta gente, ne sono certo, si è ricollegata con la parte più profonda e vera del proprio lavoro e della propria vita proprio in questi giorni tremendi e difficili: nella drammaticità e nel dolore hanno rivisto, o visto per la prima volta, la dignità e l’onore del loro lavoro.

Che passi presto il virus: ma non passi questa grande lezione.

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In questo momento di pandemia da coronavirus, abbiamo visto che l’economia vive e non crolla grazie soprattutto ai lavoratori che svolgono lavori più semplici. C’è un amore diverso ma essenziale in chi va a lavorare ogni giorno per noi, con le mascherine e con i guanti.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova l'11/04/2020 (da pdf Città Nuova (34 KB) n.04/2020 di aprile 2020)

Questa inedita e grave crisi collettiva ci sta dando, tra l’altro, anche alcune lezioni sulla natura profonda dell’economia e dei mercati. Innanzitutto ci sta mostrando la differenza tra capitalismi. Lo avevamo sempre saputo che lo spirito del capitalismo del Nord Europa è diverso da quello del Sud. Oggi però questa differenza si sta manifestando in aspetti nuovi, (in parte) insospettati e, tutto sommato, tristi per tutti.

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La natura imprevista dell’economia

La natura imprevista dell’economia

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Ci sono poi imprenditori e imprenditrici che nascono per una vocazione. Perché un giorno, magari dentro una crisi, una malattia, una depressione,  hanno sentito il loro nome pronunciato da una voce buona.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 12/02/2020 (da pdf Città Nuova (56 KB) n.01/2020 di Gennaio 2020)

«Un giorno, da bambino, mio padre arrivò in fabbrica 20 minuti in ritardo per avermi accompagnato in ospedale per una crisi asmatica. Quel ritardo gli costò 4 ore di stipendio in meno. In quel momento nacque dentro di me “qualcosa” di nuovo, che nel tempo è maturato. Non so cosa esattamente fosse: forse rabbia, forse dolore; so comunque che quel giorno è stato decisivo nella mia scelta che molti anni dopo feci di fondare una mia impresa dove quel “qualcosa” che avevo visto e vissuto non ci doveva essere più, nei genitori e nei bambini». Questo episodio, raccontato da Francesco, un giovane imprenditore, ci dice molte cose su che cosa abbiano vissuto molti imprenditori veri.

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Se andiamo a leggere con attenzione le storie di molti imprenditori, ritroviamo molte vicende simili a quelle di Francesco. Hanno fatto nascere un’impresa in seguito a un’esperienza speciale, a un dolore. Lo hanno fatto forse solo per non lasciar morire l’azienda di famiglia dove erano cresciuti da bambini, dove facevano i compiti mentre i genitori trascorrevano in quel negozio, in quel ristorante o fabbrica i loro anni migliori.

Magari li avevano visti lottare per non chiudere in momenti difficili, per non licenziare un padre di famiglia, li avevano visti piangere, litigare e fare pace. Perché in quella ditta avevano visto soltanto carne e sangue, avevano visto solo vita. E crescendo hanno continuato l’impresa come si continua a vivere. All’origine di queste imprese di seconda o terza vocazione non c’è sempre una “vocazione”, perché nella terra ci sono cose meravigliose fatte anche da chi non ha mai sentito una voce interiore che lo/la chiamava; magari hanno sentito soltanto la voce di un genitore, di un amico o del dolore dei poveri, e hanno detto “eccomi”.

Non hanno fatto l’esperienza del profeta Isaia, ma gli somigliano molto, anche perché, qualche volta, la chiamata arriva dopo, non prima, la nascita dell’impresa.

Altre volte l’impresa nasce per un incontro, per cogliere un’opportunità, senza che, neanche qui, ci sia una specifica vocazione. Qualche volte anche queste imprese-opportunità possono essere cose buone, e generare autentiche esperienze umane, creare beni, posti di lavoro, salari e ricchezza per tanti. Molte imprese reali nascono così, e alcune nascono o diventano cose belle.

Altre imprese nascono, invece, per una rivincita, per una sfida, persino per una forma di vendetta, per far vedere a un padrone che non si stimava che siamo bravi almeno quanto lui, se non di più. Queste imprese, però, raramente hanno successo, perché questi sentimenti negativi (molto comuni) non sono adatti ai mercati e all’economia. L’imprenditore che cresce bene deve guardare il mondo con positività, deve guardare la ricchezza e i talenti degli altri come opportunità per la sua propria crescita e ricchezza futura. L’invidia non è mai una virtù, tanto meno non è una virtù del mercato.

Ma ci sono poi imprenditori e imprenditrici che nascono per una vocazione, per una chiamata. Perché un giorno, magari dentro una crisi, una malattia, una depressione, un lutto, dentro un’inquietudine nel lavoro che tanti gli invidiavano ma che lui/lei sentiva come una gabbia, hanno sentito il loro nome pronunciato da una voce buona. Lo hanno sentito pronunciare in modo chiaro, anche quando non avevano una fede religiosa per chiamare l’autore di quella voce: “Dio” – nel mondo ci sono più persone chiamate delle persone religiose.

Hanno sentito che il loro posto al mondo passava nel dar vita a una cooperativa, a un’associazione, a un’impresa; che quell’economia non era solo economia: era anche un’economia della salvezza, loro e di altri. Hanno capito che se non avessero risposto: “eccomi”, la loro vita sarebbe sfiorita. E hanno risposto.

L’economia ha bisogno di tutte queste forme di imprenditori, di questa tipica biodiversità. Ma senza l’economia per vocazione manca il lievito, e il pane nel mercato è sempre azzimo. La bella notizia è che ogni mattino la voce continua a chiamare nuovi imprenditori. E quando li incontriamo e li riconosciamo, è sempre un giorno di festa – per noi, per loro, per tutti. Perché non c’è bene comune senza santi, artisti e imprenditori.

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«Un giorno, da bambino, mio padre arrivò in fabbrica 20 minuti in ritardo per avermi accompagnato in ospedale per una crisi asmatica. Quel ritardo gli costò 4 ore di stipendio in meno. In quel momento nacque dentro di me “qualcosa” di nuovo, che nel tempo è maturato. Non so cosa esattamente fosse: forse rabbia, forse dolore; so comunque che quel giorno è stato decisivo nella mia scelta che molti anni dopo feci di fondare una mia impresa dove quel “qualcosa” che avevo visto e vissuto non ci doveva essere più, nei genitori e nei bambini». Questo episodio, raccontato da Francesco, un giovane imprenditore, ci dice molte cose su che cosa abbiano vissuto molti imprenditori veri.

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Economia e vocazione

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