Editoriali Avvenire

Economia Civile

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Commenti - Di fronte al dolore che percorre i nostri giorni

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/07/2016

La nostra capacità di soffrire per le sofferenze degli altri e di gioire per le loro gioie, ha subito in pochi decenni un declino rapidissimo. La civiltà dei consumi e del confort confonde il benessere con la riduzione di ogni forma di sofferenza, dimenticando così una delle verità più profonde e antiche: che nella vita umana ci sono molte buone sofferenze, come ci sono molti cattivi piaceri.

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E così le tv, i nuovi totem postmoderni, ci promettono una vita più felice facendoci passare nel giro di pochi secondi dall’ultima strage in Francia all’ultimo gioco di 'pacchi', dando vita a un appiattimento degli eventi che genera un livellamento verso il basso delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti.

Le grandi conquiste della democrazia, dei diritti e delle libertà, sono il frutto maturo di millenni di civiltà e di fede, dove abbiamo imparato a soffrire e a sdegnarci per cose nuove e diverse: per le libertà degli altri negate, per i loro diritti schiacciati, per le ingiustizie verso persone che non erano nostri parenti né amici. Senza queste nuove sofferenze non saremmo usciti dai regimi, non ci saremmo liberati dai faraoni né dalle tante forme di schiavitù e di servitù.

Questo tipo di emozioni sociali sono in parte naturali, ma la loro intensità e qualità sono frutto della cultura e dell’educazione del carattere. Sentiamo naturalmente un senso di malessere quando entriamo in contatto con chi soffre attorno a noi, ma per sentire fino al punto di agire, di muoverci, di andare in loro aiuto c’è bisogno di qualcosa di più della natura. Provare disagio per una vittima che incontriamo lungo la strada è naturale, prendersene cura si chiama cultura.

L’empatia è naturale, la compassione no, perché nasce dalla coltivazione, individuale e Varsavia Sinagoga Ghetto Esterno ridcollettiva, di alcuni particolari emozioni e sentimenti più alti. Le norme sociali, ce lo ricordava già Adam Smith a metà Settecento, sono generate dalla capacità che gli esseri umani hanno sviluppato di approvare e biasimare le azioni e i sentimenti degli altri (e i propri), tramite quella facoltà che lui chiama 'simpatia'. L’equilibrio sociale è il risultato dell’ordine spontaneo della dinamica dei sentimenti, come il mercato lo è della dinamica degli interessi.

Questo equilibrio dei sentimenti può però assestarsi a livelli bassi (per esempio, nelle società di banditi) o a livelli alti, quando i popoli sviluppano religioni, arte, filosofia, bellezza, pietas. Ma anche l’ordine morale 'alto' dei sentimenti, come tutte le realtà fragili perché delicate, può andare in frantumi nel far di un mattino per mancanza di cura e di accudimento. E come accade per quasi tutte le abilità e virtù, se la compassione e lo sdegno non sono coltivati e praticati si atrofizzano, e regrediamo a stadi morali inferiori.

L'esposizione costante alla ideologia economica e del consumo ci sta trasformando in animali sempre meno capaci di compatire e di sdegnarci: soltanto venti anni fa lo sapevamo fare molto meglio. Ci attende un mondo dove saremo sempre più capaci delle emozioni naturali e facili verso gattini e cagnolini, ma non sapremo più solidarizzare e soffrire per le povertà e per le ingiustizie attorno a noi. La globalizzazione non ha potenziato questi sentimenti, li ha frantumati e ridotti d’intensità e efficacia, rendendoci più capaci di emozioni semplici e a basso costo ma meno capaci di quelle complesse e costose, che in Occidente erano il risultato di un processo articolato, dove il cristianesimo e l’umanesimo biblico hanno svolto un ruolo fondamentale.

Abbiamo imparato a sentire diversamente con l’anima osservando e meditando nelle chiese i quadri e gli affreschi del presepe, delle parabole, delle croci e delle resurrezioni, guardando le statue e le storie dei martiri e dei santi. Durante le Messe i nostri nonni non capivano tutte le parole, ma capivano molto bene il vangelo delle immagini – lo possiamo vedere ancora oggi quando i bambini vengono in chiesa, e sono molto più capaci di noi di dialogare con i dipinti e i volti attorno a loro.

Se vogliamo rispondere seriamente a questa crisi della nostra capacità di sentire e soffrire per cose grandi e alte, dobbiamo lavorare di più e diversamente con i giovani e con i bambini e le bambine di oggi, riconoscendo un ruolo speciale alla scuola, che è uno dei pochi beni pubblici globali ancora rimasti. La letteratura, l’arte e la musica sono essenziali per formare le emozioni e i sentimenti più profondi e grandi, in tutti ma soprattutto nei ragazzi e nei giovani. Le prime fiabe, La cavallina storna, Don Rodrigo, il figliol prodigo, San Martino, ci hanno donato gratuitamente le lettere con cui abbiamo scritto le prime frasi della nostra coscienza e del nostro sdegno, con cui abbiamo imparato a piangere per dolori e gioie di altri, a soffrire e a gioire per persone che non avremmo mai incontrato e che non sono mai esistite (ma più reali e veri di tanti vicini di casa). Se da giovani non si incontra almeno un poeta amante della nuda verità (Giacomo Leopardi, per esempio), da adulti non riusciamo a liberarci dalle ideologie, e ci asserviamo a qualche idolo dalle risposte semplici alle nostre domande ancora più semplici.

Varsavia Sinagoga Ghetto Interno ridOggi i nostri bambini crescono educati principalmente da tv e telefonini, in compagnia delle nuove telenovelas per ragazzi, che rappresentano sullo schermo niente più di quanto i ragazzi vivono tutti i giorni, senza alcuna capacità di far sognare e desiderare loro cose più grandi del loro cuore. Le storie televisive della mia infanzia erano il 'Pinocchio' di Collodi interpretato da Comencini e il 'Michele Strogoff' di Decourt, tratto da Jules Verne. Ho riascoltato poco tempo fa le colonne sonore di quei film e si sono improvvisamente riaccesi quei giorni e le mie prime emozioni sul bene e sul male degli altri, quando senza maestri imparai che un padre può vendere anche la sua unica giacca per far studiare un figlio, e che un contadino povero può donare il suo unico cavallo per un ideale più grande.

C'è poco da sperare in un cambiamento di rotta delle tv, pubbliche e private, sempre più nelle mani di sponsor mercanti di profitti. Ma la scuola? I governi occidentali stanno riducendo lo spazio dell’educazione artistica e umanistica, in tutte le scuole di ordine e grado. In una cultura dove le fedi e le grandi narrative collettive hanno perso spazio, se priviamo sistematicamente i giovani anche della letteratura, dell’arte, della musica alta e della poesia produrremo persone senza le passioni e i sentimenti più importanti per vivere insieme nella pace e nella libertà. Se non reagiamo a questa anoressia di compassione, i nostri figli passeranno presto per il centro di Varsavia e non sapranno più 'rivedere' il ghetto e i suoi 450mila ebrei deportati e uccisi, non sapranno più entrare in quella sinagoga e lì piangere per la vergogna. E questo sarebbe un giorno troppo triste. La capacità di compassione della sua gente è una risorsa immensa dei popoli. Non meno preziosa del petrolio e della tecnologia. Iniziare a parlare del suo deterioramento è il primo passo per provare a ricostituire questo patrimonio in rovina.

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Commenti - Di fronte al dolore che percorre i nostri giorni

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/07/2016

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Anoressia di compassione. Nuova cura dei sentimenti

Anoressia di compassione. Nuova cura dei sentimenti

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Questione assente e urgente

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 14/07/2016

BancheC’è un aspetto troppo assente dai dibattiti di questi giorni su banche e tentativi di soluzione della crisi. È la governance delle banche e del sistema finanziario, che è evidentemente obsoleta se la rapportiamo con i cambiamenti rapidissimi e profondi di questi ultimi tre decenni. Tra il Seicento e la seconda metà del Novecento la logica del rapporto tra finanza e politica era rimasto sostanzialmente immutato: le banche e le finanze erano considerate attività troppo strategiche e delicate per lasciarle nelle mani del libero gioco della domanda e offerta di denaro.

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La banca, con alcune specificità regionali e culturali, era sempre rimasta una istituzione ibrida di (molto) pubblico e (poco) privato. Troppi gli interessi in gioco nella gestione del risparmio delle famiglie e delle imprese, da poter considerare la banca una impresa come tutte le altre.

In particolare nei Paesi latini di cultura cattolico-comunitaria, la dimensione pubblica e statale della finanza era particolarmente forte. Un controllo svolto soprattutto ex-ante ed ex-post, meno durante lo svolgimento dell’attività bancaria-finanziaria ordinaria: i governi e le autorità bancarie e finanziarie intervenivano all’inizio (concessioni, autorizzazioni) e alla fine (in caso di crisi, fallimenti, denunce).

Lo scenario è iniziato a cambiare radicalmente con la fine del millennio. Innanzitutto è aumentata la velocità della finanza, se confrontata con quella dell’economia reale e soprattutto con la "lentezza" della politica: le operazioni finanziarie sono talmente veloci che controllarle "prima" o "dopo" è molto difficile, e soprattutto è quasi del tutto inutile. In secondo luogo, la globalizzazione ha ridotto in generale la forza della politica e dei governi in rapporto a quella dei mercati. Ancor di più è diminuita la forza di gestire e regolare i mercati finanziari, che si spostano come vogliono, cercando paradisi (o almeno purgatori) fiscali – il quasi totale e globale fallimento dei vari tentativi di introduzione di serie Tobin Tax et similia, dice anche di questa debolezza. Da ultimo (ma potremmo anche continuare), l’ideologia del mono-mercato, intrecciata con l’ideologia neo-manageriale, ha progressivamente creato in questi anni la convinzione che la banca non è altro che una impresa come tutte le altre (solo con qualche vincolo in più), perché il suo scopo è massimizzare profitti, come tutte le imprese in tutti i mercati. Sono organizzazioni economiche, si sente dire sempre più spesso, che vanno gestite con la stessa cultura, le stesse tecniche, strumenti e cultura di tutte le imprese in tutti i Paesi, da Tokyo a Duala.

Questa "triplice alleanza" è alla radice della crisi finanziaria globale degli anni passati, e anche della crisi del nostro sistema finanziario. Qualcuno continua a ripetere che la crisi delle banche italiane dipenda principalmente se non soltanto dal nostro "familismo amorale" e dalle troppe filiali, facendo come chi di fronte a un malato di tumore, per la terapia si basasse sulla diagnosi dell’artrosi di cui il paziente soffre da trent’anni. E, sbagliando diagnosi, si sente sempre più dire che la guarigione delle banche italiane si trova nell’imitare le grandi banche internazionali, viste come l’immagine della salute e del futuro della buona finanza. Il mondo finanziario continua a soffrire per mancanza di pensiero – e con esso soffre anche quello politico.

Riusciremo a curare il nostro sistema bancario, nazionale e globale, se riporteremo più democrazia finanziaria dentro le banche, una democrazia che invece dai patron della finanza è vista soltanto come attrito, costo, inefficienza. Dobbiamo ricordare, dire e scrivere due princìpi generali della buona finanza di domani. La governance ordinaria delle banche non può e non deve essere affidata soltanto agli azionisti, ai "padroni" – almeno che non si riesca a separare di nuovo le banche d’affari da quelle che gestiscono i risparmi delle famiglie e delle imprese, operazione ormai molto complessa se non impossibile, poiché oggi quasi tutte le banche sono di fatto banche d’affari.

Bisogna allora immaginare i Cda con una quota non piccola di membri indicati dai cittadini, con meccanismi partecipativi tutti da studiare, ma non impossibili (qualcuno li sta già studiando). E – lo ripetiamo – è urgente affiancare in tutte le banche un comitato etico al Cda, che abbia poteri reali, che accompagni e controlli la gestione ordinaria degli affari. I controlli ex-ante ed ex-post non sono più efficaci nel mondo vorticoso della fast-finance. Alcune banche lo stanno già sperimentando, ma noi cittadini dobbiamo chiedere che questi cambiamenti nella governance avvengano subito e decisamente. In gioco non c’è soltanto il futuro dei nostri risparmi (e sarebbe già molto), ma la sostenibilità delle nostre democrazie.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 14/07/2016

BancheC’è un aspetto troppo assente dai dibattiti di questi giorni su banche e tentativi di soluzione della crisi. È la governance delle banche e del sistema finanziario, che è evidentemente obsoleta se la rapportiamo con i cambiamenti rapidissimi e profondi di questi ultimi tre decenni. Tra il Seicento e la seconda metà del Novecento la logica del rapporto tra finanza e politica era rimasto sostanzialmente immutato: le banche e le finanze erano considerate attività troppo strategiche e delicate per lasciarle nelle mani del libero gioco della domanda e offerta di denaro.

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Democrazia bancaria

Democrazia bancaria

Questione assente e urgente di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 14/07/2016 C’è un aspetto troppo assente dai dibattiti di questi giorni su banche e tentativi di soluzione della crisi. È la governance delle banche e del sistema finanziario, che è evidentemente obsoleta se la rapportiamo con...
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Commenti - Il lavoro, i suoi non-luoghi, il valore

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il: 01/05/2016

Falegname ridUna grande utopia del nostro capitalismo è la costruzione di una società dove non ci sia più bisogno del lavoro umano. C’è sempre stata un’anima dell’economia che ha sognato imprese e mercati "perfetti" al punto da poter fare a meno degli esseri umani. Gestire e controllare uomini e donne è molto più difficile che gestire docili macchine e ubbidienti algoritmi. Le persone concrete attraversano crisi, protestano, entrano in conflitto tra di loro, fanno sempre cose diverse da quelle che dovrebbero fare secondo i mansionari, spesso le fanno migliori.

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Perché siamo semplicemente liberi, esseri spirituali, e quindi sempre eccedenti rispetto ai compiti, ai contratti, agli incentivi. Il mercato veramente perfetto sarebbe allora quel sistema di tecniche, controlli, incentivi, strumenti, finalmente capace di garantire la massima efficienza e la massima produzione di ricchezza, riducendo fino ad eliminare la presenza umana dalle nuove città della nuova economia.

Oggi, grazie ai traguardi straordinari raggiunti dall’automazione e dalla digitalizzazione, quell’antica utopia rischia seriamente di avverarsi. Se, infatti, guardiamo bene al clima che si respira dentro le grandi imprese, ci possiamo accorgere che l’obiettivo che si cela dietro la retorica di una certa cultura manageriale (che afferma esattamente l’opposto) è la standardizzazione, la prevedibilità e la formattazione dei comportamenti dei lavoratori, per depotenziarne quella carica di libertà che non può rientrare nella razionalità della tecnica. Si vorrebbero prestazioni lavorative senza i lavoratori, lavoro senza persone, estraendo dall’azione umana solo la sua componente perfettamente orientata agli obiettivi della proprietà. Ridotta alla sua essenza più nuda, è questa la natura della sempre più sofisticata ideologia dell’incentivo, che è la nuova religione del capitalismo post-moderno.

Ma quando il lavoro viene ridotto a tecnica e prestazione, quando le organizzazioni diventano così razionali da "costruire" lavoratori che imitano la logica delle macchine, non resta più nulla di quell’attività antropologica primaria che è il lavoro umano, e del suo mistero. E se gli uomini e le donne perdono la loro capacità di lavorare perdono molto, troppo, quasi tutto della loro dignità, del loro essere stati fatti "poco meno di Elohim" (Salmo 8). La realizzazione dell’utopia del lavoro-senza-umani sarebbe allora soltanto l’attualizzazione della perfetta disumanizzazione della vita in comune. E per continuare a vivere, saremmo costretti ad emigrare in massa verso altri terre e altri pianeti dove sia ancora possibile lavorare veramente.

Questa festa del lavoro può essere allora un momento propizio per ricordarci e ricordare che cosa sono il lavoro e i lavoratori. Dovremmo ricordarci, ad esempio, che se vogliamo conoscere veramente una persona dobbiamo guardarla mentre lavora. È lì che si rivela con tutta la sua umanità, è lì che si trovano la sua ambivalenza, i suoi limiti ma anche, e soprattutto, la sua capacità di dono e di eccedenza. Possiamo far festa insieme, uscire a cena, giocare a calcetto con gli amici, ma niente come il lavoro è una finestra antropologica e spirituale che ci svela chi ci sta vicino. Non è raro che pensavamo di conoscere un amico, un genitore, un figlio, finché un giorno ci capita di vederlo lavorare e improvvisamente scopriamo di non averlo mai conosciuto veramente, perché ci era rimasta velata una dimensione essenziale della sua persona, che ci si è aperta solo mentre lo guardavamo lavorare: mentre ripara un’auto, pulisce un bagno, fa una lezione, prepara un pranzo. Siamo tutti noi presenti nella mano che stringe la vite, nella penna che scrive, nello straccio che asciuga: è qui che incontriamo l’umanità nostra e quella degli altri. E, quasi sempre, nasce una nuova stima e una nuova gratitudine per il lavoro che vediamo e scopriamo come dono. Poche realtà danno gioia più del lavoro ben fatto, e quindi pochissime cose (se ce ne sono) danno più infelicità di lavorare male, anche quando non riusciamo a fare diversamente. Siamo diventati grandi guardando i grandi lavorare.

Ho "conosciuto" mio nonno Domenico quando, bambino, l’ho visto nella sua officina costruire con le sue mani un banchetto, per me. Solo lì ho capito cosa fossero veramente le sue grandi mani callose e sapienti, e a partire da lì l’ho conosciuto. Di lui mi resta oggi solo quel banchetto, custodito nel mio studio accanto ai libri, e in quei legni non manca nulla della sua anima, perché un giorno l’ho vista incarnarsi quell’oggetto, costruito come dono, per me.

Una grave forma di povertà dei nostri bambini è non poter guardare più il lavoro degli adulti, perché troppi lavori stanno diventando astratti, invisibili, confinati in non-luoghi lontani e inaccessibili, soprattutto ai bambini e ai giovani. Quale lavoro potranno creare domani se oggi vivono immersi in mille spettacoli, ma privati dello spettacolo del lavorare, il più grande della terra? Un dono grande per i figli è dare loro la possibilità di vedere il lavoro vero e concreto, e da lì iniziare a vedere il mondo.

Ci sono poche esperienze umane e spirituali più vere di passare per le città e guardare la gente mentre lavora. Non c’è allora modo migliore di festeggiare il lavoro che tornare a guardarlo, vederlo, riconoscerlo, e poi ritornare riconoscenti. È la nostra stima, personale e collettiva, per il lavoro e per i lavoratori la prima e vera riforma di cui ha bisogno il mondo del lavoro. E magari, in questo giorno di non-lavoro, torniamo a leggere qualche pagina sul lavoro dei classici della tradizione civile italiana: "Non v’è lavoro, non v’è capitale - ha scritto Carlo Cattaneo - che non cominci con un atto d’intelligenza. Prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in essa per la prima volta il carattere di ricchezza".

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Commenti - Il lavoro, i suoi non-luoghi, il valore

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il: 01/05/2016

Falegname ridUna grande utopia del nostro capitalismo è la costruzione di una società dove non ci sia più bisogno del lavoro umano. C’è sempre stata un’anima dell’economia che ha sognato imprese e mercati "perfetti" al punto da poter fare a meno degli esseri umani. Gestire e controllare uomini e donne è molto più difficile che gestire docili macchine e ubbidienti algoritmi. Le persone concrete attraversano crisi, protestano, entrano in conflitto tra di loro, fanno sempre cose diverse da quelle che dovrebbero fare secondo i mansionari, spesso le fanno migliori.

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L'umana ricchezza

L'umana ricchezza

Commenti - Il lavoro, i suoi non-luoghi, il valore di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il: 01/05/2016 Una grande utopia del nostro capitalismo è la costruzione di una società dove non ci sia più bisogno del lavoro umano. C’è sempre stata un’anima dell’economia che ha sognato imprese e mercati...
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Commenti - Così piaghe e crisi diventano benedizioni

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 27/03/2016

Gesù Risorto Pochet 01 ridResurrezione è una grande parola della terra. La vita che rinasce dalla morte è la prima legge della natura, delle piante e dei fiori, che riempiono di colori e di bellezza il mondo perché ci dicono che la vita è più grande della morte che la nutre. Le donne e gli uomini rinascono molte volte nel corso dell’esistenza, ritrovandosi risorti dopo lutti, abbandoni, depressioni, malattie che li avevano prima crocifissi. Qualche volta siamo risorti resuscitando qualcun altro dal suo sepolcro, e sono state queste le resurrezioni più belle e vere. Se la resurrezione non fosse stata una parola umana, amica e di casa, quelle donne e quegli uomini di Galilea non sarebbero stati capaci di intuire qualcosa del mistero, unico, che si era compiuto tra la croce e il giorno dopo il sabato.

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Se resurrezione è parola umana, allora è anche una parola dell’economia. C’è molta resurrezione nell’economia, nelle imprese, nel mondo del lavoro. La possiamo vedere tutte le mattine, anche in questi tempi di crisi, soprattutto in questi tempi di crisi. Ma dobbiamo imparare a vederla, riconoscerla, guardando il mondo con “occhi di resurrezione”. Non è facile vedere e riconoscere i risorti e le risurrezioni, per molte ragioni, ma soprattutto perché nei corpi dei risorti ci sono le stigmate della passione. E le ferite nostre e degli altri ci fanno paura, fuggiamo da esse e non riusciamo a viverle come l’inizio della resurrezione e il sacramento che l’accompagna sempre. E cercando la resurrezione nell’assenza delle piaghe e del dolore, non la troviamo, o magari la confondiamo con il successo. Non vediamo la resurrezione perché pensiamo che sia l’anti-croce o l’opposto della passione, e non il suo compimento. Fuggiamo dai crocifissi e dagli abbondonati, e non incontriamo i risorti che si trovano soltanto lì. La resurrezione comincia sulla croce, e i suoi segni sono per sempre.

Il Cristo risorto è la resurrezione del suo corpo ferito. La novità di questa resurrezione sta anche nella sua corporeità. Il corpo risorto non è però un ritorno al corpo del giovedì, la resurrezione non è un evento che cancella i segni della flagellazione e della Via Crucis. Il Cristo appare con le sue piaghe, la luce della resurrezione non aveva eliminato le stigmate del venerdì santo. La gloria del risorto non è allora la gloria dell’eroe antico: la sua è una gloria ferita, umile, debole. I risorti che appaiono senza piaghe sono fantasmi, illusioni, sogni, o ideologie, e quindi la loro luce è finta. Le nostre resurrezioni iniziano mentre gridano gli abbandoni sulle croci. E se non impariamo a gridare, non impariamo neanche a risorgere. Non capiamo la logica delle beatitudini se non la guardiamo dalla prospettiva di un risorto con le stigmate.

Le piaghe che restano dopo la resurrezione sono un elemento fondamentale per capire l’economia della salvezza, ma anche la salvezza dell’economia. Se le ferite restano nei corpi risorti, allora non esiste una economia dei crocifissi e una economia dei risorti. La croce e la resurrezione sono dentro la stessa economia, dentro la stessa vita. Per trovare le vere resurrezioni nella nostra società ed economia, dovremmo allora andarle a cercare dove nessuno le cerca più. Tra le tante imprese che stanno nascendo dagli immigrati e dalle loro ferite, nelle molte cooperative che fioriscono dentro le carceri, tra quei giovani che decidono di non lasciare la loro terra e imparano umilmente gli antichi saperi delle mani, in mezzo a quei lavoratori che non si arrendono di fronte alle molte ragioni della proprietà e del mercato e fanno risorgere la loro azienda. Senza commettere l’errore di pensare che le ferite che hanno generato la resurrezione un giorno spariranno, e sarà tutto e solo luce.

Quando nascondiamo i segni delle piaghe, le nostre storie di resurrezione, anche quelle autentiche, non diventano luoghi credibili di speranza per chi si trova ancora nella stagione della croce. Nella nostra economia ci sono troppi sfiduciati che aspettano solo di poter mettere le mani nelle piaghe delle resurrezioni, per poter capire e amare diversamente anche le proprie piaghe non ancora risorte. Le resurrezioni non si trovano al termine delle ferite, ma dentro di esse.

Tra i molti significati della parola pèsach, la prima pasqua, c’è anche il verbo zoppicare (psh). Quando il lettore della Bibbia legge “zoppicare” pensa a Giacobbe, il grande zoppicatore. Nel guado notturno del fiume Yabbok, Elohim lo ferì al nervo sciatico, lo rese zoppo, gli cambiò il nome in Israele. Secondo una tradizione rabbinica Giacobbe zoppicò per il resto della sua vita. Nel combattimento notturno, nel guado del Mar Rosso rinacque il nuovo popolo, ma il segno-ricordo della schiavitù d’Egitto non è mai scomparso dal suo corpo. Dal grande combattimento del Golgota fiorì un corpo risorto con le stigmate. Le resurrezioni sono ferite trasformate in benedizioni, e mai cancellate. Quando si risorge, le ferite restano, ma diventano luminose. Le vere resurrezioni si riconoscono dalla luce che irradia dalle loro piaghe.

Ndr - L'immagine di "Gesù Risorto" di Michel Pochet (CentroMaria) si trova presso la Mariapoli Faro (Križevci, Croazia)

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Commenti - Così piaghe e crisi diventano benedizioni

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 27/03/2016

Gesù Risorto Pochet 01 ridResurrezione è una grande parola della terra. La vita che rinasce dalla morte è la prima legge della natura, delle piante e dei fiori, che riempiono di colori e di bellezza il mondo perché ci dicono che la vita è più grande della morte che la nutre. Le donne e gli uomini rinascono molte volte nel corso dell’esistenza, ritrovandosi risorti dopo lutti, abbandoni, depressioni, malattie che li avevano prima crocifissi. Qualche volta siamo risorti resuscitando qualcun altro dal suo sepolcro, e sono state queste le resurrezioni più belle e vere. Se la resurrezione non fosse stata una parola umana, amica e di casa, quelle donne e quegli uomini di Galilea non sarebbero stati capaci di intuire qualcosa del mistero, unico, che si era compiuto tra la croce e il giorno dopo il sabato.

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Con occhi risorti

Con occhi risorti

Commenti - Così piaghe e crisi diventano benedizioni di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 27/03/2016 Resurrezione è una grande parola della terra. La vita che rinasce dalla morte è la prima legge della natura, delle piante e dei fiori, che riempiono di colori e di bellezza il mondo perché c...
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Commenti - Qualità della vita nelle nostre città: dove sono le relazioni umane?

di Luigino Bruni e Alessandra Smerilli

pubblicato su Avvenire il 22/12/2015

Qualità della vita ridAnche quest’anno è arrivata puntuale la classifica della "qualità della vita delle città italiane" curata dal "Sole24Ore". E anche quest’anno le città del nord si confermano ai primi posti (con Bolzano in testa) e quelle sud in coda (chiude Reggio Calabria). Le aree tematiche sono sempre le stesse, con qualche leggero cambiamento di indicatori all’interno di ciascuna area. Anno dopo anno, però, questa analisi sta diventando "vecchia". Nel frattempo sono nati altri indicatori di qualità della vita, capaci di cogliere più dimensioni del benessere e del malessere nella società italiana che negli ultimi decenni è cambiata rapidamente e profondamente.

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Sono poi sorti studi sulla felicità soggettiva delle persone, che stanno evidenziando molti paradossi, dicendoci che gli aspetti immateriali e la qualità delle relazioni sono sempre più decisivi nel benessere del XXI secolo, soprattutto nei Paesi europei.

Le misurazioni non sono mai neutrali. Esse dipendono dalle ipotesi etiche e antropologiche di chi misura e costruisce modelli statistici. Questa del "Sole" risente molto, troppo, di una visione economicista e quindi riduzionista della vita e del benessere umano.

Qualche esempio. Prendiamo l’indicatore che mette in rapporto la qualità della vita con la popolazione. Molte provincie della Sardegna sono ai primi posti in questo indice, e la ragione è semplice ma sconvolgente: hanno una bassa "densità di popolazione". Bassa densità di popolazione per il "Sole24Ore" è un indicatore di qualità della vita. «La Sardegna sbaraglia tutti in demografia», dice il rapporto. Ma la bassa densità dipende anche dal basso tasso di natalità. In Sardegna il tasso di natalità è, infatti, il più basso d’Italia: non generare figli è un segno di qualità della vita?

Roma, poi, è al sedicesimo posto (su 110) nella classifica, ma chi vive e lavora a Roma non fa l’esperienza di una città con qualità della vita medio-alta. L’esperienza di chi esce al mattino di casa con mezzi pubblici o privati è quella di chi sa a quale ora esce, ma non a quale ora arriverà a lavoro, di chi sa che trascorrerà molto tempo in coda nelle strade e che quando finalmente cammina inciampa in un’infinita quantità di buche. Indicatori, questi, che non entrano tra quelli proposti, così come non entrano i tempi di attesa per la sanità. Per non parlare in questi giorni della qualità dell’aria e dei poveri che continuano a dormire per strada. Questi "indicatori" non dicono nulla sulla qualità della vita di Roma o di Milano (che si piazza al secondo posto)? La povertà degli altri non dice nulla al nostro benessere?

Se, poi, andiamo a guardare alla misurazione del tempo libero in rapporto alla qualità della vita, ci accorgiamo che il tempo libero che entra nella classifica è solo il tempo libero che passa per il mercato. Quindi se in una città i bambini giocano di più nelle piazze o negli oratori, se la gente che pedala corre ancora per le spiagge o nei boschi (e non in palestra), se la sera le persone vanno a cena da amici e da parenti, lì, per il "Sole24 ore", c’è una minore qualità della vita rispetto a una città dove sono presenti più palestre, ristoranti, e bar (magari pieni di slot machine). E così Roma si trova più in alto di Ascoli Piceno, un ranking che nessun essere umano cosciente che vive veramente nelle due città potrebbe mai condividere. Nel Bes (benessere equo e sostenibile), invece, nell’area "relazioni sociali" ci sono indicatori che rilevano la percentuale di bambini che giocano tutti i giorni con i genitori, o quella delle persone che si ritengono soddisfatte delle loro relazioni, o l’indice di fiducia.

Non c’è nulla di strano che il "Sole" faccia la sua classifica della qualità della vita, con i suoi metodi, le sue ipotesi antropologiche e la sua visione del benessere e della vita buona. Più problematico è affidare a un giornale economico-finanziario che è espressione del mondo industriale il compito di stilare la classifica della qualità della vita in Italia, e poi trarne indicazioni generali. La tradizione italiana di economia e di statistica, nata dalla tradizione dell’economia civile (si pensi a Melchiorre Gioja, nei primi dell’Ottocento), ci ha offerto una visione molto più articolata e plurale della qualità della vita. Più recentemente economisti come Giorgio Fuà e Giacomo Becattini hanno scritto pagine splendide sul bisogno di allargare lo sguardo del benessere dal reddito alle relazioni umane e all’ecologia. Autori troppi distanti dalla cultura (prevalentemente) anglosassone del "Sole24ore", che continua a produrre dati che dicono troppo poco della qualità della vita vera della gente vera delle nostre città.

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Ma quale visione antropologica si cela sotto ai criteri di questa classifica? Davvero si vive meglio a Milano o Roma rispetto che ad Ascoli Piceno? Il parere di Luigino Bruni e Alessandra Smerilli, oggi su Avvenire. 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Commenti - Qualità della vita nelle nostre città: dove sono le relazioni umane?

di Luigino Bruni e Alessandra Smerilli

pubblicato su Avvenire il 22/12/2015

Qualità della vita ridAnche quest’anno è arrivata puntuale la classifica della "qualità della vita delle città italiane" curata dal "Sole24Ore". E anche quest’anno le città del nord si confermano ai primi posti (con Bolzano in testa) e quelle sud in coda (chiude Reggio Calabria). Le aree tematiche sono sempre le stesse, con qualche leggero cambiamento di indicatori all’interno di ciascuna area. Anno dopo anno, però, questa analisi sta diventando "vecchia". Nel frattempo sono nati altri indicatori di qualità della vita, capaci di cogliere più dimensioni del benessere e del malessere nella società italiana che negli ultimi decenni è cambiata rapidamente e profondamente.

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Niente di nuovo sotto al Sole(24Ore) delle città

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Editoriale - Democrazia economica e finanza etica

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/12/2015

Proteste Banche ridSe non vogliamo disperdere l’indignazione e la sofferenza che sta procurando il “crac delle quattro banche”, e magari anche quelle generate dai crac che l’hanno preceduto in questi ultimi anni e che abbiamo presto dimenticato (le memorie collettive delle disgrazie sono sempre troppe corte), dobbiamo riformare seriamente il governo interno delle banche e dar vita a una vera educazione economico-finanziaria popolare, nelle scuole e nella società civile.

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Le banche non sono mai state soltanto imprese. Tutti noi continuiamo a vederle come dei “luoghi della fiducia”, e così affidiamo loro i nostri risparmi e i nostri investimenti. Sono tra le istituzioni dei nostri paesi e delle nostre città, insieme alla Scuola, all’Ospedale, al Comune. Gestendo i risparmi amministrano il rapporto tra le generazioni, e sono la prima cinghia di trasmissione tra famiglie e imprese. In altre parole, sono chiamate a svolgere funzioni di bene comune e di interesse generale. Per queste ragioni, fino a pochi decenni fa, le banche non erano soltanto delle imprese come quelle che producono scarpe o vestiti. E quindi non erano, né potevano essere, aziende a solo scopo di lucro.

Ma l’ondata di ideologia mono-mercatista che da qualche decennio sta invadendo il pianeta, ci ha via via convinto che tra una banca e una impresa di automobili non ci fosse alcuna vera differenza. Perché l’obiettivo è diventato lo stesso: massimizzare il valore per gli azionisti. E così è radicalmente cambiata anche la cultura dei banchieri e dei bancari, che oggi escono dalle stesse business school che formano i manager delle grandi multinazionali. Si è persa qualsiasi specificità del funzionario di banca rispetto al lavoratore e al dirigente di ogni grande impresa privata (o pubblica). Gli stessi consulenti globali, gli stessi strumenti di gestione, la stessa logica dell’incentivo – non a caso dietro all’offerta drogata e sconsiderata di obbligazioni subordinate c’era una precisa politica di incentivazione dei dipendenti.

Le banche nel Novecento erano anche imprese: ora sono soltanto imprese, una trasformazione avvenuta nel silenzio complice della politica, delle banche centrali e dei sindacati. E nella distrazione di troppi di noi.

Se vogliamo veramente invertire questa rotta (operazione ormai durissima), occorrerebbero due grandi riforme. La prima riguarda scuola e società civile. È diventato, infatti, troppo grande il divario tra l’importanza della finanza e dell’economia e la cultura finanziaria ed economica media della popolazione. Non possiamo più continuare a vivere da analfabeti in un mondo che “parla” sempre più finanza ed economia. Qualche anno fa, in piena crisi del debito, su queste colonne lanciammo l’idea di dar vita a scuole popolari di economia e finanza – un invito raccolto solo da qualche città, tra queste Catania. Chi oggi ha a cuore la democrazia e il bene dei più fragili deve occuparsi anche di cultura economica e finanziaria.

C’è bisogno di una nuova stagione di scuole popolari nelle parrocchie, negli oratori, nelle associazioni, nei circoli. E alla scuola spetta un ruolo cruciale: dobbiamo inserire elementi di economia e di finanza negli ultimi anni di tutte le scuole superiori. Se non si vogliono appesantire i già pesanti programmi curriculari, si possono immaginare, con creatività, laboratori pomeridiani o durante l’estate, attività svolte da volontari e dalle tante associazioni che hanno una mission di economia e finanza sociale e civile.

La seconda riforma riguarda direttamente il governo delle banche: il peso e la responsabilità delle banche e delle istituzioni finanziarie sono ormai troppo grandi per lasciarlo in mano soltanto agli azionisti. Le banche non rispondono fino in fondo dei loro comportamenti. Una legge etica fondamentale del mercato dice che alla libertà di scelta deve corrispondere la responsabilità patrimoniale, civile e penale di chi sceglie.

Questa regola, già in crisi per tutte le imprese molto grandi, è quasi inapplicabile alle banche, i cui interessi sono troppo intrecciati con quelli delle famiglie, delle imprese, e del sistema in generale per essere isolati e chiamati a rispondere per i danni che generano. Se allora la responsabilità per le conseguenze delle azioni delle banche è condivisa con l’intera società civile, occorre che sia condiviso anche il governo delle banche. Dobbiamo trovare meccanismi (non facili, ma non impossibili) perché nei Consigli di amministrazione delle banche non ci siano solo rappresentanti scelti dagli azionisti, ma pure quelli designati dalla società civile. Inoltre, in tutte le banche sarebbe opportuna l’istituzione di un “comitato etico” indipendente (come accade in Banca Etica), con potere di veto. Una tale riforma non verrà mai dall’interno del mondo finanziario: dovremmo essere noi cittadini ad avere la volontà e la forza di chiederla dal di fuori e con gli strumenti che abbiamo. Sarebbe il primo inizio di una sostanziale democrazia economica.

Non è più possibile pensare al rapporto tra banche e società come nel passato, quando le istituzioni e la politica controllavano economia e finanza solo dopo, a valle. Oggi, con la velocità dell’economia e con il cambiamento della cultura bancaria, c’è bisogno che il controllo etico e di legittimità venga esercitato dall’interno e durante l’esercizio dell’attività ordinaria. Perché quando le acque dei fiumi avvelenati a monte giungono a valle, hanno già prodotto molti danni, ed è sempre troppo tardi. Le acque non risalgono la corrente. Gli inquinamenti della fiducia vanno evitati alla fonte e lungo il corso del fiume, perché sono le persone, non le banche, a essere “troppo grandi per fallire”.

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Editoriale - Democrazia economica e finanza etica

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/12/2015

Proteste Banche ridSe non vogliamo disperdere l’indignazione e la sofferenza che sta procurando il “crac delle quattro banche”, e magari anche quelle generate dai crac che l’hanno preceduto in questi ultimi anni e che abbiamo presto dimenticato (le memorie collettive delle disgrazie sono sempre troppe corte), dobbiamo riformare seriamente il governo interno delle banche e dar vita a una vera educazione economico-finanziaria popolare, nelle scuole e nella società civile.

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La cura che serve

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Editoriale - Democrazia economica e finanza etica di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 15/12/2015 Se non vogliamo disperdere l’indignazione e la sofferenza che sta procurando il “crac delle quattro banche”, e magari anche quelle generate dai crac che l’hanno preceduto in questi ultimi anni ...
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Commenti - Quelle campagne per l’«azzardo buono»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/12/2015

Moige lottomatica ridSe vedessimo imprese produttrici di tabacco fare campagne contro il fumo, produttori di superalcoolici finanziare campagne contro il consumo di alcool, aziende fabbricanti di mine anti-uomo lanciare campagne contro le guerre, resteremmo molto perplessi. Quantomeno ci sfiorerebbe il dubbio che sotto queste iniziative ci sia qualche imbroglio o strumentalizzazione. Invece ci stupiamo poco, o nulla, quando leggiamo che Lottomatica – uno dei ’campioni’ nostrani del settore e, ormai, prima multinazionale dell’azzardo nel mondo – sta finanziando la campagna "Facciamo girare la voce" per educare i cittadini, soprattutto i minorenni, al «gioco responsabile».

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Oggi, sabato 5 dicembre, la campagna arriverà contemporaneamente a Genova (Centro commerciale l’Aquilone) e a Perugia (Gherlinda), ed entro un anno raggiungerà 24 città. Una iniziativa per sensibilizzare i "giocatori" contro i rischi del gioco, e soprattutto per ricordare a tutti che il "gioco" è vietato ai minorenni. La parola azzardo è naturalmente bandita.

E, cosa che sarebbe comica se non fosse tragicissima, accanto a Lottomatica e ai tabaccai italiani (Fit) dal 2010 troviamo il Moige, storico movimento dei genitori (www.moige.it). Quali possono essere le motivazioni di genitori che si alleano con i gestori dell’azzardo per educare i loro figli? Forse pensano che Lottomatica, impresa for profit che ha come obiettivo la massimizzazione dei profitti, i cui manager hanno avuto il mandato dai loro proprietari (tra questi la De Agostini, che una volta faceva gli atlanti per i nostri ragazzi) di aumentare ricavi e profitti, possa veramente sponsorizzare una campagna per ridurre i propri clienti e profitti.

O forse credono che i loro figli minorenni non scommetteranno nei tabaccai compiacenti (che sono pieni di ragazzi all’uscita della scuola) o non si butteranno sulle slot machine se la Fit e Lottomatica ricordano loro che la legge vieta che giochino d’azzardo – come se i ragazzi non sapessero di essere "minorenni" proprio perché non possono fare le cose vietate ai -18. Non volendo pensare né scrivere che il Moige fa queste campagne per ricevere qualche euro, occorre allora avere una grande immaginazione per riuscire a capire le motivazioni di questo tour. Se poi andiamo in uno di questi "appuntamenti" nei centri commerciali, e vediamo l’ambiente, i colori, le immagini dei luoghi nei quali si svolge questa "educazione", i test che i giovani fanno per riconoscere i primi sintomi di dipendenza, l’immaginazione finisce, e restano soltanto la tristezza, la delusione, lo sdegno.

Si tratta di un’iniziativa molto pericolosa, e da ogni punto di vista, tranne quello dei profitti di Lottomatica e dei tabaccai. Trovo, infatti, eticamente gravissimo vedere una associazione di genitori alleata dell’azzardo. E per almeno tre ragioni. Innanzitutto una campagna di prevenzione contro un prodotto (azzardo) che viene finanziata dai suoi produttori è evidentemente una campagna pubblicitaria del prodotto stesso. È l’azzardo il protagonista di questi ’luoghi’: si parla sempre e solo di azzardo (naturalmente con i suoi nomi addomesticati).

Parlando dei divieti e delle patologie, si aumenta soprattutto la conoscenza dell’azzardo, si diffonde la malattia mentre se ne parla. E questo perché si alimenta l’idea – molto cara al sistema azzardo – che esista un azzardo buono (bello, positivo, controllabile, divertente) e uno cattivo, cioè quello patologico. Quindi occorre combattere il gioco d’azzardo cattivo e promuovere quello buono. Questa distinzione è una operazione grave, che negli ultimi anni ha riempito l’Italia di nere "salegioco", di slot nei bar, e di gratta-e-vinci ovunque. Ogni euro che mettiamo dentro una slot alimenta un sistema – quello dell’azzardo – che con la complicità dei governi sta impoverendo la nostra economia e "mangiando" i poveri e i ragazzi.

I capi delle associazioni dei genitori entrino in una salaslot o in una sala bingo per vedere che cosa veramente produce l’azzardo responsabile dei maggiorenni, quello a cui i loro figli potranno finalmente accedere il giorno del loro 18° compleanno! Infine, la ragione più grave di tutte, sono i ragazzi e le ragazze.

Non dobbiamo permettere che le aziende e le multinazionali dell’azzardo entrino in contatto con i nostri adolescenti: sono troppo preziosi per metterli nelle mani dei mercanti di profitto a ogni costo. Che i minorenni non devono giocare questo non-gioco occorre dirlo alle multinazionali dell’azzardo non ai nostri ragazzi che lo sanno già e molto bene. Se vogliamo fare veramente educazione, facciamola con le Asl nelle scuole, nelle parrocchie, e affidiamola a chi combatte l’azzardo, non a chi aumenta i propri profitti solo aumentando i clienti di oggi, e di domani. E continuiamo la battaglia, anche in Parlamento, contro la pubblicità nei media – esplicita e implicita. "Nessuno tocchi il bambino". Giù le mani dai nostri figli.

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Commenti - Quelle campagne per l’«azzardo buono»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/12/2015

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Giù le mani dai bambini

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Commenti -  Il male che anche noi nutriamo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/11/2015

Siria LapresseFo 48406984 300 ridLe guerre sono sempre state combattute da molti poveri, giovani e innocenti inviati a morire da pochi ricchi, potenti, colpevoli, che non morivano in quelle guerre da loro stessi volute e alimentate dai loro interessi. Questa verità, antica e profonda, oggi è meno evidente ma non meno vera. Siamo realmente dentro una guerra mondiale, diversa dalle guerre del Novecento ma non meno drammatica. Una guerra che non si sa bene quando e dove sia iniziata, quando, dove e come finirà. È una guerra liquida in una società liquida. Sono (quasi) invisibili gli interessi in gioco, non sappiamo bene chi la vuole, chi ci guadagna, chi non vuole che finisca.

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Questa incapacità di capire, presente in tutte le guerre complesse, è particolarmente forte in questa guerra, che non deve però esimerci dallo sforzo di pensare, e poi combattere soprattutto le tesi false e ideologiche che ci stanno inondando all’indomani della strage di Parigi.

Una tesi molto popolare è quella che individua nella religione, e in particolare nella natura intrinsecamente violenta dell’Islam, la principale, se non unica, ragione di questa guerra. Una tesi, questa, tanto diffusa quanto sbagliata. Il corano ha una sua ambivalenza riguardo alla violenza, lo sappiamo. Ci sono passaggi dove invita alla guerra santa. Ma c’è anche una versione del fratricidio tra Caino e Abele che più della Bibbia ebraico-cristiana, parla forte di non violenza. Nel racconto coranico i due fratelli parlano nei campi. Abele intuisce che Caino sta levando la sua mano contro di lui per ucciderlo, e gli dice: «Anche se userai la tua mano per uccidermi, io non userò la mia mano per ucciderti» (Il sacro Corano, al-Ma’idah: Sura 5,28). Abele presentato come il primo non-violento della storia, che muore per non diventare esso stesso assassino. Nel Corano c’è anche questo. Come nella Bibbia ci sono i beniaminiti, la figlia di Jefte, le pagine dove si loda Dio perché ha fracassato sulle rocce le teste dei bambini dei nemici, c’è il Signore degli eserciti, Gesù che dice di essere venuto a portare “la spada e non la pace” (Matteo 10). I libri sacri delle religioni sono stati scritti in epoche dove la guerra era parte ordinaria della vita (“Al tempo in cui i re sogliono andare in guerra”, 2 Samuele, 11). Al tempo stesso, le grandi religioni – e l’Islam è tra queste poche – hanno sviluppato una letteratura sapienziale (si pensi a tutta la tradizione Sufi) che ha offerto letture simboliche e allegoriche anche delle pagine più dure e arcaiche. In alcune epoche le pagine più luminose del corano (e ce ne sono) hanno emanato una tale luce da oscurare quelle buie. In altre epoche i passi violenti sono stati strumentalizzati da chi, in nome della religione, cercava semplicemente potere e denaro. Oggi l’Islam vive una stagione difficile. Sette fondamentaliste usano pezzi del corano per plagiare giovani, vittime e carnefici di un sogno-incubo folle nel quale sono caduti. Prede finite nella trappola del cacciatore di ‘martiri’ da usare per scopi dove il corano è semplicemente il laccio della trappola. Per combattere questa malattia che oggi si è insidiata nel cuore dell’Islam e che lo sta minando dal di dentro, è necessario rafforzare le difese immunitarie per sostenere l’organismo, che nel suo insieme è sano ma sta soffrendo. È lo stesso corpo che deve espellere con maggiore decisione il virus che è entrato, resistere contro quelle cellule impazzite che lo stanno indebolendo, infliggendogli molto dolore. Ma tutti gli amanti della vita devono aiutare l’Islam a farcela. Nell’epoca della globalizzazione, non può farcela da solo.

Al tempo stesso, non dobbiamo essere così ingenui da dimenticare che in questa guerra gli aspetti economici in gioco sono enormi. Non a caso i terroristi belgi di Parigi venivano dalla cittadina più povera del Belgio, con una disoccupazione giovanile attorno al 50%. La prima guerra del Golfo del 1991 non fu certo originata dalla prevenzione del fondamentalismo.

In questi mesi si parla molto delle armi che alimentano questa guerra. Occorre parlarne ancora di più, perché è un elemento decisivo. Proprio pochi giorni fa da Cagliari sono partiti missili verso il medio oriente in guerra, prodotti e venduti da imprese italiane. La Francia insieme all’Italia è tra i maggiori esportatori di armi da guerra nelle regioni arabe, nonostante ci sia nel nostro Paese una legge del 1990 che vieterebbe la vendita di armi a Paesi in guerra. I politici che piangono, magari sinceramente, e dichiarano lotta senza quartiere al terrorismo, sono gli stessi che non fanno nulla per ridurre l’export di armi, e che difendono queste industrie nazionali che muovono grosse quote di Pil e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Una moratoria internazionale seria che imponesse un divieto assoluto di vendita di armi ai Paesi in guerra, non segnerebbe certo la fine del califfato, Isis e terrorismo, ma sarebbe una mossa decisiva nella direzione giusta. Non si può nutrire il male che si vorrebbe combattere. Noi lo stiamo facendo, e da molti anni. Non ce ne accorgiamo finché qualche scheggia di quelle guerre non arriva dentro le nostre case e uccide i nostri figli. In realtà sappiamo che finché l’economia e il profitto saranno le parole ultime delle scelte politiche, poteri così forti che nessuna politica riesce a frenare, continueremo a piangere per lutti che contribuiamo a provocare.

Hollande ha sbagliato a parlare di “vendetta” all’indomani della strage, e poi a perpetrarla bombardando domenica la Siria, rispondendo col sangue ad altro sangue. Questa è soltanto la legge di Lamek, precedente la stessa ‘legge del taglione’. La vendetta non deve mai essere la reazione dei popoli civili, neanche dopo una delle notti più buie della storia recente dell’Europa. La sconfitta più grande sarebbe far tornare parole come ‘vendetta’ nel lessico delle nostre democrazie, che le hanno eliminate dopo millenni di civiltà, di sangue, dolore.

Infine dobbiamo sostenere, seriamente e decisamente, chi sta osando la pace e il dialogo in questi tempi così difficili. In primis papa Francesco, che non può restare solo né l’unica voce a chiedere la pace e la non-violenza. Se gridassimo in milioni che l’unica risposta alla morte è la vita, e lo dicessimo insieme ai tanti musulmani feriti e straziati come noi, se facessimo sentire nelle strade, nei social, davanti ai parlamenti, il nostro ‘no’ alla produzione e vendita delle nostre armi a chi le usa per uccidere e ucciderci, allora forse le parole profetiche di Francesco troverebbero un’eco più grande. Potrebbero avere la forza di muovere persino i bassi interessi economici, che sempre più controllano e dominano il mondo, le religioni, la vita.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/11/2015

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Basta armare la guerra

Basta armare la guerra

Commenti -  Il male che anche noi nutriamo di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 17/11/2015 Le guerre sono sempre state combattute da molti poveri, giovani e innocenti inviati a morire da pochi ricchi, potenti, colpevoli, che non morivano in quelle guerre da loro stessi volute e aliment...
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Avvenire Cultura - Dibattito

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/09/2015

Il nesso tra cristianesimo e capitalismo è uno dei luoghi classici della storiografia, a partire almeno dalla seconda metà dell’Ottocento. E sebbene sia stata al centro di innumerevoli critiche, smentite e rivisitazioni, la classica tesi di Max Weber sullo "spirito protestante" del capitalismo continua ancora ad occupare il centro della scena. Anche l’interessante e originale libro di Max Engammare, L’ordine del tempo. L’invenzione della puntualità nel secolo XVI secolo (Claudiana, 2015, pagg. 220, euro 28), ruota attorno all’antico tema weberiano, andando a rintracciare l’origine dell’idea moderna di puntualità nella Riforma, in particolare nella persona, nel pensiero e nella teologia di Giovanni Calvino, e nella vita religiosa e civile della sua Ginevra di metà Cinquecento.

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Anche se Engammare, storico dell’università della città di Calvino, ne mostra una certa consapevolezza, il suo libro appartiene a quel genere storiografico (molto comune in Italia: vedi i lavori di Prosperi e Firpo sulla Controriforma) che ama concentrarsi sull’elemento religioso o confessionale, e poggiandosi solo su di questo sollevare un pezzo di mondo.

Dimenticando, o quanto meno sottovalutando, che il nesso casuale tra religione e un determinato tratto socio-culturale è tra i più complessi che l’analisi storica e antropologica conoscano.

Decisivo è il problema dell’endogeneità (come la chiamano gli statistici), cioè l’analisi del nesso causale nella correlazione tra gli eventi che osserviamo: è utile sapere nel fatto empirico "quando piove ci sono molti ombrelli aperti" se è la pioggia a determinare l’apertura dell’ombrello, o, magari, viceversa. Infatti sono cattolici i messicani e i veneziani, gli irlandesi e i filippini, i siciliani e i torinesi, eppure gli spiriti civili, economici ed etici sono sostanzialmente diversi. Ritroviamo più affinità culturale tra Milano e Amsterdam che tra Parigi e Lisbona, non ci spieghiamo perché i luterani paesi nordici abbiamo più stato sociale dei cattolici e "comunitari" italiani e spagnoli, e non riusciamo a dir nulla o poco del rapporto col tempo e la puntualità nella Germania dove cattolici e luterani sono indistricabilmente intrecciati.

Gli spiriti dei popoli sono faccende molto antiche, hanno radici millenarie: quanto ha pesato la cultura italica arcaica e quanto la Chiesa cattolica nella formazione del culto dei santi in Campania, o delle processioni nelle feste dei Paesi latini? La tesi del libro è invece troppo semplice e chiara: «Da un punto di vista sociale, l’organizzazione razionale del tempo ecclesiale non è una invenzione della Riforma. Basta evocare le regole monastiche, le ore canoniche, i Libri delle ore. L’approccio sistematico, la volontà di includere la totalità della vita nell’ordine divino, la ricerca della santificazione permanente del laico, l’attenzione continua sulla suddivisione delle ore: è questo insieme di elementi a esprimere la specificità del tempo riformato» (pag. 198).

Lo spirito della Riforma avrebbe avuto, secondo lo storico ginevrino, un ruolo decisivo per un cambiamento soggettivo e pubblico, avvenuto nei Paesi riformati, nei confronti del tempo in rapporto allo spazio, alla sua razionalizzazione da parte di predicatori, mercanti, politici, padri di famiglia, al cambiamento nella forma e nella funzione dei calendari, degli appunti di viaggio, dell’educazione dei bambini, e in molto altro, di cui il libro dà uno più o meno ampio resoconto.

Il tempo passa sotto il controllo degli uomini, pur continuando ad appartenere a Dio, e così diventa protagonista cruciale nella rivoluzione culturale ed economica della modernità, una componente decisiva dello spirito del capitalismo.

In realtà, questa tesi suggestiva del libro non è del tutto convincente. Innanzitutto non è messa sufficientemente in evidenza la radice medioevale dell’invenzione del tempo razionale. L’accenno al monachesimo nella frase appena citata, è di fatto l’unica dell’intero libro. La prima razionalizzazione del tempo avviene dentro le abbazie e i monasteri, e già a partire con i benedettini, quindi mille anni prima di Calvino. La visione liturgica della giornata e della vita, la razionalizzazione e gestione del tempo, che Engammare attribuisce a Calvino e al mondo riformato, era stata generata e sviluppata dall’umanesimo monastico, fino a farne un muro maestro di quella visione della vita e della religione.

La storicità del cristianesimo, dell’incarnazione e quindi del tempo, e ancor prima l’intera visione del mondo come storia e cammino contenuta nell’Antico Testamento, rappresentavano già una rivoluzione della visione del tempo.

Ponzio Pilato sta dentro il credo di Nicea a indicare questa rivoluzione nella visione storica del tempo. L’accidia, malattia morale assunta alla dignità di vizio capitale, discussa e presa molto sul serio dalla tradizione monastica, non è altro che il medesimo atteggiamento che secoli dopo ritroviamo nella condanna dell’ozio e dello spreco di tempo, presente in Calvino e in altri riformati, ma anche in molti padri della Chiesa e in mistici e teologi monaci e monache. Senza una disciplina e una razionalizzazione del tempo non avremmo poi avuto la civiltà commerciale tra i duecento e il trecento, Borgo San Sepolcro e Monterchi, il duomo di Firenze e l’arsenale di Venezia, i commerci, le monete e le bilance medioevali. Per non parlare dell’arte e la musica del rinascimento, che sono anche e forse soltanto ritmo e dominio razionale del tempo e dello spazio. La dominazione del tempo e dello spazio è stata poi anche all’origine della cartografia e delle mappe moderne, e quindi delle grandi scoperte e navigazioni all’inizio della prima modernità.

Ciò che in tutto questo processo di riforma fu veramente decisivo fu l’estensione della "liturgia delle ore" dai monasteri (non più voluti dai riformati) all’intera vita civile laica, ma questa bella cosa ce l’aveva già detta Max Weber cento anni fa.

I riformati e i cattolici cristiani sono molto più simili di quanto una certa storiografia voglia affermare, e dove sono diversi lo sono per mille ragioni. Questo lo sapeva molto bene (e lo sa ancora) la scuola storica di Amintore Fanfani e della scuola storica della cattolica, un insegnamento che abbiamo dimenticato, che sarebbe invece molto utile per una nuova fase ecumenica e laica di studi sull’origine degli spiriti del capitalismo.

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Avvenire Cultura - Dibattito

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/09/2015

Il nesso tra cristianesimo e capitalismo è uno dei luoghi classici della storiografia, a partire almeno dalla seconda metà dell’Ottocento. E sebbene sia stata al centro di innumerevoli critiche, smentite e rivisitazioni, la classica tesi di Max Weber sullo "spirito protestante" del capitalismo continua ancora ad occupare il centro della scena. Anche l’interessante e originale libro di Max Engammare, L’ordine del tempo. L’invenzione della puntualità nel secolo XVI secolo (Claudiana, 2015, pagg. 220, euro 28), ruota attorno all’antico tema weberiano, andando a rintracciare l’origine dell’idea moderna di puntualità nella Riforma, in particolare nella persona, nel pensiero e nella teologia di Giovanni Calvino, e nella vita religiosa e civile della sua Ginevra di metà Cinquecento.

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E la fede «inventò» il tempo

E la fede «inventò» il tempo

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Commenti - Alta finanza, alto rischio

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/08/2015

Su quanto sta veramente accadendo nei mercati e nella borsa di Shanghai sappiamo tutti molto poco. E questa è già una cattiva notizia, perché se c’è qualcosa che preoccupa i mercati – e tutti noi - è proprio la mancanza di trasparenza, che più di ogni cosa produce paura, incertezza, e quindi vendite e fuga di capitali, che hanno prodotto ieri la maggiore perdita dal 2007 (-8,49%), che ha trascinato le borse europee nel peggior crollo dal 2011. Qualcosa, però, lo sappiamo.

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Il mercato finanziario cinese è senza dubbi cresciuto troppo e troppo velocemente negli ultimissimi anni, e proprio mentre rallentava la crescita dell’economia reale e della manifattura. E soprattutto sappiamo dell’intreccio, misterioso e unico nella storia, di capitalismo e controllo statale del colosso asiatico. Nel giro di pochi anni l’economia cinese ha subito una radicale evoluzione. Da paese della cuccagna degli imprenditori occidentali che delocalizzavano le industrie attratti dal bassissimo costo del lavoro, la Cina oggi è uno dei principali mercati mondiali di consumo, anche di beni di lusso (non a caso i titoli italiani che sprofondano a Milano sono quelli dell’alta moda). Il settore finanziario ha subito una crescita esponenziale, anche grazie alla svolta normativa, avvenuta nell’Ottobre del 2014, che ha aperto il mercato borsistico agli investitori internazionali, trasformando così le borse cinesi da piazze periferiche a secondo mercato al mondo (dietro solo a Wall Street). E quando la finanza cresce a tassi molto elevati mentre l’economia reale rallenta, certamente si sta formando una bolla speculativa che, ce lo dice la storia economica, prima o poi scoppia.  

È ancora troppo presto per dire se siamo alla vigilia di un altro tsunami finanziario mondiale con baricentro in Cina, o se si tratta soltanto di un rimbalzo e di un aggiustamento di un ciclo dei rendimenti finanziari cinesi che dopo essere cresciuti molto nell’ultimo anno ora stanno restituendo quanto guadagnato (ad oggi le perdite estive hanno ‘soltanto’ azzerato i guadagni degli ultimi dodici mesi).
Ma se guardiamo bene a quanto sta accadendo nel mondo (alla politica monetaria della Federal Reserve, al crollo del prezzo del petrolio, o alle incertezze sul presente e futuro della Grecia e dell’Europa), possiamo tentare alcune considerazioni di carattere generale sullo stato di salute del sistema economico-finanziario globale.  

Innanzitutto, questa crisi cinese ci sta dicendo che, nonostante gli effetti devastanti della ultima grande crisi finanziaria US ed europea, la speculazione non si è mai fermata in nessun paese, e si è più orientata alle economie emergenti, Cina in primis. Le istituzioni politiche, economiche e finanziarie non hanno tratto nessuna lezione dalle lacrime di questi otto anni. Non appena l’economia US e quella degli stati europei più forti hanno riiniziato a crescere, le politiche, le leggi e soprattutto l’atteggiamento culturale delle istituzioni nei confronti della finanza sono tornati, nella sostanza, quelli di prima il 2007. In materia di economia e finanza la storia è una maestra che ha soltanto pessimi alunni. La crisi dell’euro e della Grecia ha poi di nuovo distratto l’opinione pubblica che ha dimenticato di seguire, con opportuno senso critico, il mondo della grande finanza che, nella nostra disattenzione, ha continuato indisturbato a fare il suo mestiere.

Un primo messaggio che allora ci arriva da queste turbolenze cinesi è forte e chiaro: l’alta finanza è oggi il vero unico potere mondiale, e non possiamo permetterci di ignorarlo o di lasciarlo solo agli specialisti (che, tra l’altro, da diversi mesi lanciavano allarmi sulle borse cinesi), anche perché quando le grandi bolle finanziarie esplodono è sempre troppo tardi.
Il secondo messaggio riguarda le sorti del capitalismo globale. Anche se la retorica delle grandi potenze sottolinea la salute delle economie occidentali, in realtà il nostro sistema globale è estremamente vulnerabile, perché lo stiamo allontanando progressivamente dal lavoro umano e dall’economia reale, per fondarlo su ricchezze troppo astratte e virtuali. Domandiamoci: quale valore aveva creato l’economia cinese in quest’ultimo anno, se è stato distrutto in poche sedute di borsa? Su quale valore e su quali valori si poggia il nostro nuovo mondo?   

Anche su queste colonne, mentre infuriavano le nostre crisi economiche e finanziarie, abbiamo più volte e a più voci ricordato che le grandi bolle speculative sarebbero diventate la regola, non l’eccezione, del nuovo capitalismo finanziario. Se infatti le nostre economie producono benessere sganciato dal nostro lavoro, è probabile che quella cinese di oggi o una mega-bolla finanziaria domani distruggano in pochi giorni la pseudo-ricchezza che credevamo fondasse i nostri consumi e i nostri mutui. Per evitare questi tristi scenari, non troppo improbabili, occorre un nuovo protagonismo della politica, locale e globale. In fondo i tentativi, maldestri, del governo cinese di governare una finanza che è diventata ingovernabile, ci dicono anche che una economia e una finanza totalmente fuori dalle dinamiche democratiche, si trasformano in macchine incontrollabili, che oggi ci fanno esultare per guadagni gratis e domani piangere per perdite che ricadono in massima parte su chi non aveva goduto dei primi facili guadagni.

Allora mentre siamo tutti col fiato sospeso in attesa degli sviluppi dei prossimi giorni, ritorniamo a seguire la finanza, studiamola di più, esercitiamo la nostra sovranità di cittadini, chiediamo più democrazia economica e finanziaria, se non vogliamo rassegnarci a diventare sempre più sudditi di un impero invisibile.

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Commenti - Alta finanza, alto rischio

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/08/2015

Su quanto sta veramente accadendo nei mercati e nella borsa di Shanghai sappiamo tutti molto poco. E questa è già una cattiva notizia, perché se c’è qualcosa che preoccupa i mercati – e tutti noi - è proprio la mancanza di trasparenza, che più di ogni cosa produce paura, incertezza, e quindi vendite e fuga di capitali, che hanno prodotto ieri la maggiore perdita dal 2007 (-8,49%), che ha trascinato le borse europee nel peggior crollo dal 2011. Qualcosa, però, lo sappiamo.

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L’invisibile Impero

L’invisibile Impero

Commenti - Alta finanza, alto rischio di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 25/08/2015 Su quanto sta veramente accadendo nei mercati e nella borsa di Shanghai sappiamo tutti molto poco. E questa è già una cattiva notizia, perché se c’è qualcosa che preoccupa i mercati – e tutti noi - è propr...
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Commenti - L'ospitalità fonda la nostra civiltà

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/08/2015

Immigrazione 02 ridIl dovere di ospitalità è il muro maestro della civiltà occidentale, e l’abc dell’umanità buona. Nel mondo greco il forestiero era portatore di una presenza divina. Sono molti i miti dove gli dèi assumono le sembianze di stranieri di passaggio. L’Odissea è anche un grande insegnamento sul valore dell’ospitalità (Nausicaa, Circe, …) e sulla gravità della sua profanazione (Polifemo, Antinoo). L’ospitalità era regolata nell’antichità da veri e propri riti sacri, espressione della reciprocità di doni. L’ospite ospitante era tenuto al primo gesto di accoglienza e, nel congedarlo, consegnava un "regalo d’addio" all’ospite ospitato, il quale dal canto suo doveva essere discreto e soprattutto riconoscente.

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L’ospitalità è un rapporto (ed è bello che in italiano ci sia un’unica parola, ospite, per dire colui che ospita e colui che è ospitato). Al forestiero che si accoglieva a casa non veniva chiesto né il nome né l’identità, perché era sufficiente trovarsi di fronte a uno straniero in condizione di bisogno affinché scattasse la grammatica dell’ospitalità. La reciprocità delle relazioni d’accoglienza era alla base delle alleanze tra persone e comunità, che componevano la grammatica fondamentale della convivenza pacifica tra i popoli.

La guerra di Troia, l’icona mitica di tutte le guerre, nacque da una violazione dell’ospitalità (da parte di Paride). La civiltà romana continuò a riconoscere la sacralità dell’ospitalità, che veniva anche regolata giuridicamente. La Bibbia, poi, è un continuo canto al valore assoluto dell’ospitalità e dell’accoglienza dei forestieri, che, non di rado, vengono chiamati "angeli". Il primo grande peccato di Sodoma fu rinnegare l’ospitalità a due degli uomini che erano stati ospiti di Abramo e Sara alle Querce di Mamre (Genesi, 18-19), e uno degli episodi biblici più raccapriccianti è una profanazione dell’ospitalità - lo stupro omicida dei beniaminiti di Gabaa (Libro dei Giudici, 19). Il cristianesimo raccolse queste tradizioni sull’ospitalità, e le interpretò come una declinazione del comandamento dell’agape ed espressione diretta della predilezione di Gesù per gli ultimi e i poveri: “Ero straniero e mi avete accolto” (Matteo 25,35).

In quelle culture antiche, dove vigeva ancora la "legge del taglione", dove non era riconosciuto quasi nessuno dei diritti dell’uomo che l’Occidente ha conquistato e proclamato in questi ultimi secoli, l’ospitalità fu scelta come prima pietra di civiltà dalla quale è poi fiorita la nostra. In un mondo molto più insicuro, indigente e violento del nostro, quegli antichi uomini capirono che l’obbligo di ospitalità è essenziale per uscire dalla barbarie. I popoli barbari e incivili sono quelli che non conoscono e non riconoscono l’ospite. Polifemo è l’immagine perfetta dell’inciviltà e della disumanità perché divora i suoi ospiti invece di accoglierli. L’ospitalità è la prima parola civile perché dove non si pratica l’ospitalità si pratica la guerra, e si impedisce lo shalom, cioè la pace e il benessere.

Smettiamo allora di essere civili, umani e intelligenti quando interrompiamo la pratica antichissima dell’ospitalità. E se l’ospitalità è il primo passo per entrare nel territorio della civiltà, la sua negazione diventa automaticamente il primo passo per tornare indietro verso il mondo dei ciclopi, dove regnano solo la forza fisica e l’altezza.

I popoli saggi sapevano che l’ospitalità conviene a tutti, anche se individualmente costa a ciascuno. Per questo occorre proteggerla e parlarne molto bene, se vogliamo che resista nei tempi degli alti costi. La reciprocità dell’ospitalità non è un contratto, perché non c’è equivalenza fra il dare e il ricevere, e soprattutto perché il mio essere accogliente oggi non genera nessuna garanzia di trovare accoglienza domani quando ne avrò bisogno. Non esiste un contratto di assicurazione per la non accoglienza domani di chi è stato accogliente oggi. Per questo l’ospitalità è un bene comune, e quindi fragile. Come tutti i beni comuni viene distrutto se non è sostenuto da una intelligenza collettiva più grande degli interessi individuali e di parte. Ma come tutti i beni comuni, una volta distrutto il bene non c’è più per nessuno ed è quasi impossibile ricostruirlo.

L’Europa è nata dall’incontro tra umanesimo giudaico-cristiano e quello greco e romano fondati sull’ospitalità. Ma in Occidente è sempre rimasta viva anche l’anima beniaminita e polifemica, dominante per lunghi periodi, sempre bui. È l’anima che vede gli ospiti solo come minacce o prede. Oggi questo spirito buio, incivile e non-intelligente sta riaffiorando, ed è urgente esercitare il prezioso esercizio del discernimento degli spiriti. Evitando, ad esempio, di credere a chi ci racconta che Polifemo ha divorato i compagni di Ulisse perché sarebbero stati in troppi a bordo e la nave poteva affondare nel ritorno verso Itaca, o che i beniaminiti volevano incontrare gli ospiti di Lot solo per controllarne i documenti. Il riconoscimento del valore e del diritto dell’ospitalità viene prima di tutte le politiche e le tecniche per gestirla e renderla sostenibile.

L’ospitalità è uno spirito, uno spirito buono. Quando non c’è si vede, si sente. Gli spiriti vanno conosciuti, riconosciuti e chiamati per nome, e quelli cattivi vanno semplicemente cacciati via.

Nella casa degli umani se non c’è posto per l’altro non c’è posto neanche per me. Sta scritto: "Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo" (Lettera agli Ebrei).

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Commenti - L'ospitalità fonda la nostra civiltà

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/08/2015

Immigrazione 02 ridIl dovere di ospitalità è il muro maestro della civiltà occidentale, e l’abc dell’umanità buona. Nel mondo greco il forestiero era portatore di una presenza divina. Sono molti i miti dove gli dèi assumono le sembianze di stranieri di passaggio. L’Odissea è anche un grande insegnamento sul valore dell’ospitalità (Nausicaa, Circe, …) e sulla gravità della sua profanazione (Polifemo, Antinoo). L’ospitalità era regolata nell’antichità da veri e propri riti sacri, espressione della reciprocità di doni. L’ospite ospitante era tenuto al primo gesto di accoglienza e, nel congedarlo, consegnava un "regalo d’addio" all’ospite ospitato, il quale dal canto suo doveva essere discreto e soprattutto riconoscente.

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Non siamo Ciclopi

Non siamo Ciclopi

Commenti - L'ospitalità fonda la nostra civiltà di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 19/08/2015 Il dovere di ospitalità è il muro maestro della civiltà occidentale, e l’abc dell’umanità buona. Nel mondo greco il forestiero era portatore di una presenza divina. Sono molti i miti dove gli dèi...
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Inchiesta Bes/26 - Quella ricchezza relazionale nascosta a fianco del Pil. Nell'era dei beni comuni sono gli stock (ambientali, relazionali, spirituali e sociali) che devono ritornare al centro della scena

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Avvenire (49 KB) l'11/08/2015

BESIl tema del benessere, del benestare, della felicità pubblica, o del ben vivere sociale è stato, ed è ancora, al centro della tradizione italiana dell’Economia civile. Negli ultimi anni è cresciuto significativamente il dibattito attorno alla necessità di superare il Pil o, secondo alcuni, di affiancargli altri indicatori che dicano altre dimensioni del benessere.

In questo affiancamento del PIL con altri indicatori non-economici, si sta però correndo seriamente un rischio. Lo scenario che si sta profilando assomiglia molto a quanto accade nel mondo del calcio.

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Al termine della partita compaiono sui nostri schermi statistiche con più indicatori: le percentuali del possesso palla delle due squadre, i falli fatti e subiti, il numero dei tiri in porta ecc. Ma, in cima al quadro delle statistiche, domina solitario il numero dei goal, che è l’unico dato che veramente conta, e che nessun’altra statistica che lo affianca può neanche lontanamente modificare. L’indice di sviluppo umano, l’impronta ecologica, il Bes (benessere equo e sostenibile), e altri indicatori analoghi, ad oggi assomigliano ancora molto al possesso palla e al numero di tiri in porta, che fanno da ‘contorno’ al numero dei goal realizzati (cioè il Pil). Come fare per prendere veramente sul serio altri indicatori di benessere e superare l’idea che il PIL sia il sono numero importante nella partita economica della nostra società?

Innanzitutto un po’ di storia. Il Pil, come lo conosciamo oggi, è un concetto relativamente recente, poiché è legato allo sviluppo della contabilità nazionale a partire dagli anni Trenta del XX secolo. I suoi veri padri (o nonni) fondatori sono stati i cosiddetti Fisiocratici, studiosi francesi della metà del Settecento, i quali erano convinti che la forza economica di un paese non fosse misurata da capitali, o da valori stock (come si pensava fino ad allora, quando si misurava la ricchezza di una nazione prevalentemente sulla base dell’oro da essa posseduto); ma dissero che ciò che veramente contava per la ricchezza erano i flussi, cioè il reddito. Da allora abbiamo iniziato un po’ tutti a pensare che non è la misurazione della ricchezza in termini di terreni, di materie prime, di coste, di musei, di cattedrali, di capitali culturali né umani, che fa un popolo «ricco», ma la capacità che ha quel popolo di «far girare» quei capitali in modo da ‘metterli a reddito’ e generare nuovi flussi.

Oggi sappiamo, e in Italia lo vediamo sempre di più, che se un popolo non è capace di far sì che i suoi capitali siano impiegati in modi produttivi, resta indigente pur se i suoi cittadini sono seduti su miniere d’oro. Dai fisiocratici in poi, è dunque il flusso annuo di nuova ricchezza che ci dice quanto una comunità nazionale è ricca. Prima di liquidare il Pil, allora, facciamo tesoro di questo valore presente nel suo DNA: una persona, una comunità, una regione resta economicamente povera se non è nelle condizioni (istituzionali, culturali, politiche) di trasformare i suoi capitali in reddito. Quando invece un paese nonostante i capitali non riesce più a produrre redditi, le rendite uccidono i profitti, e le società iniziano il declino. Benvengano allora altri indicatori o indicatori economici più sofisticati, ma non dimentichiamo che senza un indicatore di flusso, non sappiamo misurare la nostra capacità di valorizzare i nostri capitali, per capire se li stiamo nel tempo potenziando o impoverendo.

Per questa ragione, credo che un’operazione importante in tema di misurazioni più sofisticate dello stato economico e sociale di un Paese consista nell’affiancare, con pari dignità e rilevanza, al PIL indicatore capaci di cogliere anno dopo anno lo stato di salute dei nostri capitali, soprattutto di quelli sociali, ambientali, culturali, relazionali, spirituali. Nonostante la lezione importante dei Fisiocratici, resta vero che i redditi (flussi) nascono dai capitali (stock), e se i capitali si deteriorano o si estinguono, i redditi diminuiscono fino a scomparire.

Nell’era dei beni comuni nella quale siamo drammaticamente entrati con il terzo millennio, sono gli stock che devono ritornare ad occupare il centro della scena economica, sociale e politica. Il tema ambientale, ma anche quello relazionale e sociale (flussi migratori, inclusione sociale, terrorismo...), e altri temi che sono tornati centrali nell’era dei beni comuni, sono faccende di stock, perché sono legate a forme di capitali, presenti o assenti – sappiamo ormai da molti studi quanto l’intolleranza e razzismo siano legati alla carenza di ‘capitali’ culturali e artistici nelle persone. Ma c’è di più. L’eccessiva enfasi sulla creazione di flussi, inclusi i grandi flussi finanziari che oggi dominano di gran lunga i flussi di beni e servizi reali, stanno producendo effetti molti seri sugli stock delle nostre economie e del nostro pianeta. Dobbiamo imparare a misurare adeguatamente i patrimoni, che al pari delle energie non rinnovabili stanno subendo forti depauperamenti proprio a causa della grande invadenza dei flussi di reddito (misurati dal Pil).

Infine, alla radice di qualsiasi sviluppo di nuove misurazioni, c’è una questione più generale di carattere culturale e politico, che coinvolge direttamente il mondo delle imprese. Finché gli unici indicatori di successo delle imprese (soprattutto di quelle grandi) sono i profitti raggiunti e gli indici prettamente economici, e finché i «bilanci sociali» saranno pubblicazioni patinate donate agli stakeholder durante le feste aziendali, senza che i dati ‘sociali’ abbiamo alcuna rilevanza per le scelte importanti (rinnovo dei manager, dei membri del Cda ecc.), sarà impossibile che la nostra società giunga a valorizzare indicatori diversi dal Pil.

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Inchiesta Bes/26 - Quella ricchezza relazionale nascosta a fianco del Pil. Nell'era dei beni comuni sono gli stock (ambientali, relazionali, spirituali e sociali) che devono ritornare al centro della scena

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Avvenire (49 KB) l'11/08/2015

BESIl tema del benessere, del benestare, della felicità pubblica, o del ben vivere sociale è stato, ed è ancora, al centro della tradizione italiana dell’Economia civile. Negli ultimi anni è cresciuto significativamente il dibattito attorno alla necessità di superare il Pil o, secondo alcuni, di affiancargli altri indicatori che dicano altre dimensioni del benessere.

In questo affiancamento del PIL con altri indicatori non-economici, si sta però correndo seriamente un rischio. Lo scenario che si sta profilando assomiglia molto a quanto accade nel mondo del calcio.

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Accanto al Pil c’è una ricchezza che non si misura come «flusso»

Accanto al Pil c’è una ricchezza che non si misura come «flusso»

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Non c'è perdono per i popoli, ma per le istituzioni finanziare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/07/2015

Comunità europeaLa comunità europea, come ogni comunità, è una forma di bene comune. E come ci insegna la scienza economica, i beni comuni sono per natura soggetti alla possibilità della loro distruzione. Nota è infatti la cosiddetta ‘Tragedia dei beni comuni’ (Garrett Hardin, 1968), che si verifica quando i fruitori di un bene comune cercano di massimizzare gli interessi individuali, dimenticandosi, o lasciando troppo sullo sfondo, il deterioramento del bene comune dovuto al loro consumo. Se – nell’esempio più famoso - gli utilizzatori del pascolo comune guardano solo i costi e benefici soggettivi, hanno l’incentivo a portare al pascolo sempre più mucche, e così l’esito finale del processo sarà la distruzione del pascolo.

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Il principale messaggio della teoria dei beni comuni è la distruzione del bene come effetto non intenzionale: nessuno lo vorrebbe, ma tutti contribuiscono a distruggerlo.

La crisi della Grecia ci sta mostrando che oggi i vari Paesi che hanno dato vita all’Unione rischiano di distruggere il bene comune da loro costruito nei decenni passati. Ogni tragedia dei beni comuni, ce lo ricorda la premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom, si può evitare solo cambiando la prospettiva culturale: occorre passare dalla logica dell’io a quella del noi, iniziando a guardare il bene comune come ‘bene di tutti’ e non come ‘bene di nessuno’.

Le comunità, come ci dice anche la sua radice etimologica (cum-munus), sono un intreccio essenziale di doni e di obblighi - la parola latina munus significa, infatti, dono e obbligo. Non bastano i doni, lo sappiamo, ma non bastano neanche gli obblighi, perchè sono entrambi co-essenziali. I contratti e le regole sono solo una faccia della moneta delle comunità. Se manca il volto del dono le comunità implodono, collassano, si auto-distruggono. È la faccia del dono che manca nell’Europa di oggi, un dono che fu invece fondamentale per la sua creazione nel dopo-guerra. Le regole hanno occupato tutti gli spazi. E così il patto di fondazione si sta riducendo a solo contratto, e nei contratti, diversamente dai patti, non c’è spazio per il dono, scompaiono le comunità e nascono i club.

La vera soluzione possibile e sostenibile della crisi greca sarebbe stata una soluzione di con-dono parziale del debito, perché nelle condizioni economiche, psicologiche, sociali nelle quali si trova la Grecia, è impensabile che si possano restituire debiti di quelle dimensioni generando altri debiti con nuovi prestiti spietati. In realtà, il paradosso più sconvolgente di questi anni di crisi finanziaria ed economica, è vedere applicato il registro del dono ai debiti della finanza, mentre viene negato ai popoli e ai cittadini – quante migliaia di miliardi di debiti sono stati di fatto condonati alle istituzioni finanziarie?

Il grave errore dell’Europa di oggi, o meglio di alcuni dei suoi governanti più potenti, è pensare di risolvere una crisi del patto ricorrendo soltanto al registro del contratto. Da ogni grande crisi si esce con una buona combinazione di regole e di doni, mai con il solo inasprimento delle regole. I doni si rafforzano con l’educazione alla responsabilità delle regole, e le regole si umanizzano quando sono accompagnate dalla gratuità del dono. Ma per poter donare a chi ha commesso errori (e anche i greci ne hanno commessi) c’è prima bisogno della stima e della fiducia che quel popolo e quei cittadini abbiano le energie morali per ricominciare e tornare degni di nuova fiducia. Ogni vera fiducia è soprattutto dono, perché quando la fiducia si basa sui soli contratti, il contratto finisce per distruggere quella fiducia che vorrebbe ricreare.

Le regole senza perdono, gli obblighi senza i doni, non sono capaci di manutenere i beni comuni, soprattutto quei beni comuni primari su cui poggia la nostra fragile democrazia.
Abbiamo raggiunto Plutone, abbiamo fatto progressi straordinari e meravigliosi nella scienza e nelle tecnologie. Questa crisi ci sta mostrando che nella capacità relazionale ed etica di gestire grandi crisi collettive siamo ancora troppo simili agli uomini del neolitico, e probabilmente abbiamo perso alcune delle abilità e delle saggezze che il medioevo cristiano e la modernità ci avevano lasciato in eredità.

L’oikonomia, cioè le regole della casa, non è sufficiente per edificare una buona polis. In Europa oggi ci sarebbe bisogno di dono e di per-dono, una parola aliena all’economia capitalistica, che nessuno ha il coraggio di evocare nei tavoli che contano, anche perché l’abbiamo logorata, depotenziata, ridotta ai gadget e alla filantropia dei privati. Ma senza recuperare questa grande parola fondativa delle comunità, siamo destinati ad assistere ad un inesorabile declino di quella terra comune che avrebbe ancora le risorse per nutrirci.

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Non c'è perdono per i popoli, ma per le istituzioni finanziare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/07/2015

Comunità europeaLa comunità europea, come ogni comunità, è una forma di bene comune. E come ci insegna la scienza economica, i beni comuni sono per natura soggetti alla possibilità della loro distruzione. Nota è infatti la cosiddetta ‘Tragedia dei beni comuni’ (Garrett Hardin, 1968), che si verifica quando i fruitori di un bene comune cercano di massimizzare gli interessi individuali, dimenticandosi, o lasciando troppo sullo sfondo, il deterioramento del bene comune dovuto al loro consumo. Se – nell’esempio più famoso - gli utilizzatori del pascolo comune guardano solo i costi e benefici soggettivi, hanno l’incentivo a portare al pascolo sempre più mucche, e così l’esito finale del processo sarà la distruzione del pascolo.

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 Le (il)logiche insidie al bene comune Europa

Le (il)logiche insidie al bene comune Europa

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Commenti - Genesi di una crisi e suoi possibili esiti

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 2/07/2015

Crisi greca ridYanis Varufakis prima di diventare ministro dell’economia nell’attuale governo greco, era ben noto alla comunità degli economisti per i suoi lavori in ‘Teoria dei giochi’. Varufakis è uno studioso di scelte razionali in situazioni nelle quali sono coinvolti due o più agenti e ciascuno agisce obbedendo ad una logica strategica, anticipando cioè le mosse e contromosse reciproche. Il ministro greco conosce quindi molto bene il cosiddetto “gioco del pollo” (o del coniglio), che descrive una situazione molto simile ad una nota scena del film Gioventù bruciata.

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Jim (James Dean) sfida Buzz in una gara folle: entrambi spingono le loro auto a tutta velocità verso un precipizio, e vincerà colui che si getterà dalla propria auto in corsa per ultimo, appena prima che precipiti nel burrone. L’esito peggiore del “gioco del pollo” è che entrambi i piloti precipitino nel precipizio, se per voler vincere la gara aspettano troppo prima di saltare fuori dall’auto.

Immaginare oggi che il governo greco e le sue controparti stiano giocando a un gioco simile a quello del ‘pollo’, è una lettura che può far sperare che i giochi non siano ancora chiusi e che i giocatori siano ancora in corsa - augurandoci che l’esito sia quello dettato dalla razionalità e non dalle emozioni e dalle passioni.

L’uscita della Grecia dall’euro non conviene a nessuno, in tutte le possibili declinazioni della parola convenienza. Staremmo solo tutti peggio e nessuno starebbe meglio. <Siamo tra l'incudine e il martello>, mi ha appena scritto un collega economista dell’università di Atene. E starebbero molto peggio i poveri, i giovani, i bambini greci, che non hanno mai firmato nessun contratto e magari non hanno mai avuto nessun beneficio dai soldi sperperati in passato dai loro governanti.

È uno scenario fosco e tremendamente confuso, da cui dovrebbe derivare una raccomandazione generale di metodo a chi in questi giorni parla e scrive: non immaginare soluzioni semplici ad una situazione estremamente complessa, dividendo la scena in buoni e cattivi, pro o contro la Grecia.

Un primo elemento di complessità ce lo offrono i dati storici. L’economia greca è stata tra quelle più colpite dalla crisi finanziaria del 2007. Fino a quella data la Grecia cresceva, e aveva attratto molti investitori internazionali. Il suo debito pubblico è raddoppiato tra il 2007 e il 2012. Il suo rapporto debito/Pil nel 2007 era solo del 95,59%, ma è diventato del 130.2% nel 2010 e quindi del 143.5% nel 2012. Il suo debito verso UE e FMI è nato tra il 2010 e il 2012, costretta da una situazione economico-finanziaria del Paese resa insostenibile dalla crisi. Le onde anomale dello tzunami finanziario partito dagli USA sono arrivate sulle coste greche e hanno provocato danni molto ingenti. Senza la crisi del 2007 oggi avremmo uno scenario completamente diverso.

I dati, tutti i numeri, non aiutano a trovare soluzioni se non vengono letti e interpretati dentro un contesto relazionale idoneo – sono innumerevoli i conflitti generati e alimentati da letture opposte degli stessi dati. L’ambiente umano dentro il quale si stanno svolgendo da anni le trattative sul caso greco è molto negativo, per non dire pessimo. Le crisi – ogni crisi – è uno ‘stress test’ della qualità delle relazioni tra persone e istituzioni. Ci sarebbe bisogno, ad esempio, di una radicale purificazione del linguaggio usato a tutti i livelli. È urgente che Unione Europea, FMI e anche Governo greco smettano di colpevolizzare la controparte.

Soprattutto è fondamentale cambiare linguaggio sulle ‘colpe’ dei greci. Lo sappiamo e lo abbiamo visto molte volte lungo la storia: la prima soluzione facile a problemi complessi è stata creare qualche teoria che dimostri che l’altro si merita la sua sventura perché è colpevole. Il libro di Giobbe, ad esempio, combatte soprattutto contro questa ideologia. Sono troppi e molto pericolosi i ragionamenti che si odono e leggono sulle colpe dei greci. ‘Si meritano la loro sventura, perché hanno avuto governi corrotti, e perché anche i cittadini sono pigri, assistiti, grandi evasori fiscali’. Commenti e discorsi ideologici che sono gravi sia quando provengono da paesi, come l’Italia, che su questi temi non può dare lezioni morali a nessuno, sia quando arrivano da giornalisti o politici tedeschi e francesi, perché dimenticano le grandi e gravi lezioni della storia e perché eclissano le altre ragioni della crisi, ragioni che pesano, anche quantitativamente, molto di più. Attribuire le cause dei problemi da risolvere al ‘carattere’ nazionale o alla ‘mentalità’ dei popoli, non fa altro che allontanare le soluzioni, perché ‘caratteri’ e ‘mentalità’ sono variabili sulle quali chi oggi deve decidere non ha nessun controllo. Ma a chi vuole ridurre il costo etico di scelte difficili, evocare colpe, carattere e mentalità aiuta sempre, e ogni tanto funziona.

Debito e colpa, in alcune lingue, hanno la stessa radice. Una volta per debiti si diventava schiavi, e non di rado si veniva condannati a morte. Generazioni intere hanno donato vita e sangue perché la democrazia mettesse la parola fine alla schiavitù per debiti, affermando che nessun debito, per quanto grande, deve ridurre anche una sola persona in schiavitù. Figuriamoci un popolo intero.

Un vero piano responsabile di rilancio della Grecia deve allora svilupparsi in un arco di tempo quinquennale o decennale, durante il quale sospendere il rimborso dei debiti esteri, e lavorare tutti e a tutti i livelli per creare gli investimenti e le condizioni perché i debiti degli Stati non diventino una via post-moderna a nuove forme di schiavitù dei popoli – anche la Laudato si’ ce lo chiede. La soluzione deve arrivare, e scongiurare che questa ‘gara’ abbia lo stesso epilogo da quello di Gioventù bruciata.

Infine, sono tante le prospettive possibili per giudicare la moralità e la giustizia di una scelta tragica. Una delle migliori è guardare ai suoi costi e benefici dalla prospettiva dei bambini. È un esercizio che aiuta sempre, e a volte può essere decisivo.

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Commenti - Genesi di una crisi e suoi possibili esiti

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 2/07/2015

Crisi greca ridYanis Varufakis prima di diventare ministro dell’economia nell’attuale governo greco, era ben noto alla comunità degli economisti per i suoi lavori in ‘Teoria dei giochi’. Varufakis è uno studioso di scelte razionali in situazioni nelle quali sono coinvolti due o più agenti e ciascuno agisce obbedendo ad una logica strategica, anticipando cioè le mosse e contromosse reciproche. Il ministro greco conosce quindi molto bene il cosiddetto “gioco del pollo” (o del coniglio), che descrive una situazione molto simile ad una nota scena del film Gioventù bruciata.

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Non è tempo di giochi

Non è tempo di giochi

Commenti - Genesi di una crisi e suoi possibili esiti di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 2/07/2015 Yanis Varufakis prima di diventare ministro dell’economia nell’attuale governo greco, era ben noto alla comunità degli economisti per i suoi lavori in ‘Teoria dei giochi’. Varufakis è uno st...