Editoriali Avvenire

Economia Civile

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Due saggi di Canfora e Liverani portano l’attenzione sulle vicende di perdita, ricostruzione e di nuovo perdita dell'edificio: costituiscono il “luogo” della presa di coscienza del popolo giudaico

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 25/08/2021

Il tempio di Gerusalemme è uno dei protagonisti della Bibbia. Il primo tempio, quello di Salomone, il secondo, quello ricostruito dopo il ritorno da Babilonia e distrutto da Tito nel 70 d.C., e il “tempio” durante l’esilio, quando non c’era più. Accompagna tutta la storia della salvezza, Antico e Nuovo Testamento. Molte delle cose più importanti il tempio le ha dette durante e dopo le sue distruzioni e profanazioni. I libri di Luciano Canfora, Il tesoro degli ebrei: Roma e Gerusalemme( Laterza, pagine 304, euro 22,00), e quello di Mario Liverani, Oriente e Occidente (Laterza, 2021), sebbene molto diversi tra loro, hanno nel tempio di Gerusalemme un importante punto di contatto.

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Il centro del saggio di Canfora è una puntuale indagine storico-filologica attorno all’occupazione romana del tempio di Gerusalemme, avvenuta per mano di Gneo Pompeo nel 63 a.C. Noto è il racconto di Tacito: «Tra i Romani, Gneo Pompeo fu il primo a sconfiggere i Giudei e a entrare nel loro tempio col diritto del vincitore: da ciò si seppe che dentro non vi era nessuna immagine di divinità: la sede era vuota e vuoti i loro misteri» (Historiae, V, 9). Dunque “la sede era vacante”. Stesso concetto ribadito da Dione Cassio, nella sua Storia Romana (XXXVII): «Gli ebrei non avevano nessuna statua nel tempio in Gerusalemme; e poiché sono i più superstiziosi tra gli uomini ritengono che il Dio debba essere indicibile e non rappresentabile. Il tempio innalzato in onore di un tale Dio era grandissimo e veramente splendido». Questo vuoto, che Tacito e Dione non capiscono e riferiscono con un certo malcelato sarcasmo, continua a essere il vuoto più pieno della storia delle religioni.

Gli ebrei hanno saputo custodire per circa mille anni un tempio vuoto, e con esso un’immagine di Dio senza immagini, un Dio più alto di ogni costruzione umana. Da Canfora apprendiamo che l’antisemitismo a Roma era precedente ai cristiani: «Quella gente [gli ebrei] aborrisce lo splendore del nostro impero, la gravitas del nostro nome, le usanze e le leggi dei nostri avi» (Cicerone, Pro Flacco). La loro religione senza statue era sinonimo di senza Dio. Per Filostrato: «Gli ebrei non si sono ribellati soltanto ai romani ma all’intero genere umano». Nel 139 a.C. furono cacciati da Roma con l’accusa, assurda, che fossero adoratori del dio Giove Sabazio (o Bacco-Dioniso). E lo stesso Tacito riporta la diceria che nel segreto del loro tempio gli ebrei adorassero una testa d’asino.

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Due saggi di Canfora e Liverani portano l’attenzione sulle vicende di perdita, ricostruzione e di nuovo perdita dell'edificio: costituiscono il “luogo” della presa di coscienza del popolo giudaico

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 25/08/2021

Il tempio di Gerusalemme è uno dei protagonisti della Bibbia. Il primo tempio, quello di Salomone, il secondo, quello ricostruito dopo il ritorno da Babilonia e distrutto da Tito nel 70 d.C., e il “tempio” durante l’esilio, quando non c’era più. Accompagna tutta la storia della salvezza, Antico e Nuovo Testamento. Molte delle cose più importanti il tempio le ha dette durante e dopo le sue distruzioni e profanazioni. I libri di Luciano Canfora, Il tesoro degli ebrei: Roma e Gerusalemme( Laterza, pagine 304, euro 22,00), e quello di Mario Liverani, Oriente e Occidente (Laterza, 2021), sebbene molto diversi tra loro, hanno nel tempio di Gerusalemme un importante punto di contatto.

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Gerusalemme: dentro il tempio violato c'è il mistero di Israele

Gerusalemme: dentro il tempio violato c'è il mistero di Israele

Due saggi di Canfora e Liverani portano l’attenzione sulle vicende di perdita, ricostruzione e di nuovo perdita dell'edificio: costituiscono il “luogo” della presa di coscienza del popolo giudaico di Luigino Bruni pubblicato su Agorà di Avvenire il 25/08/2021 Il tempio di Gerusalemme è uno dei pr...
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Commenti - Tokio 2020

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 31/07/2021

Dal cuore del grande spettacolo delle Olimpiadi stanno emergendo alcuni segnali deboli eppure importanti, provenienti soprattutto dalle atlete. La crisi di Simone Biles, le tute integrali delle ginnaste tedesche per protestare contro la sessualizzazione del corpo femminile, che fanno seguito alla multa nei recenti campionati europei delle giocatrici norvegesi di pallamano da spiaggia per aver indossato pantaloncini al posto dei bikini, sono tutti fatti da prendere molto sul serio.

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È innegabile che le Olimpiadi, e in generale il mondo dello sport, sia pensato da maschi per maschi. Le donne sono state ospitate e si sono adattate. Se si eccettuano la ginnastica, il nuoto sincronizzato e pochissimo altro, le gare femminili sono repliche di quelle maschili, eseguite con una efficienza quantitativa inferiore del 10-15%. Fanno tutti e tutte le stesse cose, ma le donne le fanno un po’ più piano, con ostacoli più bassi, saltano e sollevano un po’ meno, lanciano sfere metalliche e giavellotti meno pesanti. La competizione, l’anima dello sport, è disegnata sul paradigma maschile, come se il competere fosse vissuto allo stesso modo dai maschi e dalle femmine.

Nelle Olimpiadi, nonostante l’auspicio fondativo di De Coubertin, la dimensione competitiva e posizionale è esasperata. Basti pensare alla logica del medagliere. Ha un ordine assolutamente lessicografico: una nazione può vincere cento medaglie, ma se ha vinto solo argento e bronzo sarà sempre dietro ad un’altra che ha vinto una sola medaglia ma d’oro. Una misurazione analoga alla dittatura del Pil (tra l’altro, le prime venti nazioni del medagliere non differiscono molto dal G20).

Dalla ricerca sappiamo che le donne, in media, hanno un rapporto diverso con la competizione. Alcuni esperimenti hanno mostrato che quando per accedere a un livello più alto di remunerazione occorre passare attraverso un torneo, le donne molto più degli uomini rinunciano a quell’aumento di stipendio (Vittorio Pelligra, "L’economia alle prese con la questione di genere", Lavoce.info). Le donne mostrano una maggiore avversione per il rischio, e, soprattutto, una maggiore avversione per la diseguaglianza, che le portano a preferire assetti più simmetrici ("Gender differences in social risk taking", Journal of Economic Psychology). Le ragazze poi tendono più dei ragazzi a empatizzare con i non-vincenti, a preferire l’allineamento delle emozioni con le altre atlete, sono più sensibili alle lacrime di chi perde. Sarà cultura, sarà natura, ma i dati dicono questo. L’esperienza soggettiva del gareggiare e del competere non può essere la stessa, non è la stessa.

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Commenti - Tokio 2020

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 31/07/2021

Dal cuore del grande spettacolo delle Olimpiadi stanno emergendo alcuni segnali deboli eppure importanti, provenienti soprattutto dalle atlete. La crisi di Simone Biles, le tute integrali delle ginnaste tedesche per protestare contro la sessualizzazione del corpo femminile, che fanno seguito alla multa nei recenti campionati europei delle giocatrici norvegesi di pallamano da spiaggia per aver indossato pantaloncini al posto dei bikini, sono tutti fatti da prendere molto sul serio.

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Donne, Olimpiadi e giuste virtù civili. Segnali deboli (e scomodi)

Donne, Olimpiadi e giuste virtù civili. Segnali deboli (e scomodi)

Commenti - Tokio 2020 di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 31/07/2021 Dal cuore del grande spettacolo delle Olimpiadi stanno emergendo alcuni segnali deboli eppure importanti, provenienti soprattutto dalle atlete. La crisi di Simone Biles, le tute integrali delle ginnaste tedesche per protesta...
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Recensioni - Nel suo ultimo saggio Mauro Gallegati attacca quello che ritiene essere il pensiero economico dominante, ma senza definirlo né tener conto di tante acquisizioni da parte della disciplina

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 08/06/2021

Il cosiddetto Vangelo di Marcione, andato smarrito, è stato recentemente ricostruito quasi interamente sulla base delle citazioni del suo testo che si trovano nei libri degli autori che lo hanno duramente criticato nei primi secoli cristiani. Autore fortunato, Marcione, “salvato” dai suoi molti critici. Un’operazione analoga non la si potrebbe fare con il capitalismo. Se, infatti, qualche storico futuro volesse capire che cosa fosse il capitalismo sulla base dei soli testi dei suoi molti critici, farebbe una gran fatica; e se riuscisse a mettere assieme le citazioni dei suoi detrattori ne uscirebbe un ritratto molto diverso dalla persona ritratta, perché spesso i critici hanno prima creato un capitalismo-fantoccio e poi hanno avuto gioco facile nel criticarlo.

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Qualcosa di analogo è l’operazione fatta da Mauro Gallegati nel suo ultimo saggio rispetto al neoliberismo e al mercato. Il mercato rende liberi. E altre bugie del neoliberismo (Luiss University Press, pagine 126, euro 16,00). Un saggio vivace, brillante, a tratti spiritoso, con alcune belle pagine; ma se un lettore volesse capire perché il mercato non rende liberi, giunto alla fine del libro resterebbe frustrato. Gallegati non sembra proporre un mondo ipoteticamente più libero perché senza mercati, né ci spiega perché l’esistenza dei mercati ridurrebbe la nostra libertà (una tesi veramente ardua da dimostrare, che neanche i più severi critici dell’economia di mercato hanno tentato). Anzi, di mercati non si parla proprio, né di quelli reali né della teoria economica contemporanea dei mercati e del mercato.

Inoltre, il famigerato neoliberismo è una sorta di animale mitologico, di cui molti parlano nelle fiabe ma nessuno ha mai visto. Infatti, pur essendo il protagonista del saggio di Gallegati, nel libro non troviamo nessuna definizione di neoliberismo (né del liberismo tout court), che viene assunto come un concetto primitivo non meritevole di definizione in quanto, per l’autore, ovvio ed auto-evidente. E invece, purtroppo, non è così. Forse una specie di proto-definizione la potremmo trovare nell’introduzione: «L’economia neo-liberista ha, in una delle sue forme più estreme, una raccomandazione di politica economica assai semplice: lasciar fare al mercato e che lo Stato si occupi dei più fragilicome scriveva Marshall, di “orfani e vedove”».

Non stupisce che Gallegati per definire il neoliberismo citi anche A. Marshall, un autore di fine Ottocento, che di “neo” ha davvero poco. Una tale definizione poteva averla scritta F. Bastiat, a metà Ottocento, o magari D. Ricardo nel 1815, e quindi la scuola di Manchester. Dove sia il “neo” di questo liberismo è davvero difficile da dire. Se poi prendiamo questa definizione per buona e andiamo a guardare come funziona davvero la politica economica della Germania, della Francia, del Giappone, della Ue, per non parlare della Cina, ci accorgiamo che di questi popoli che lasciano tutti ai mercati tranne le vedove e gli orfani non ce n’è neppure l’ombra.

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Recensioni - Nel suo ultimo saggio Mauro Gallegati attacca quello che ritiene essere il pensiero economico dominante, ma senza definirlo né tener conto di tante acquisizioni da parte della disciplina

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 08/06/2021

Il cosiddetto Vangelo di Marcione, andato smarrito, è stato recentemente ricostruito quasi interamente sulla base delle citazioni del suo testo che si trovano nei libri degli autori che lo hanno duramente criticato nei primi secoli cristiani. Autore fortunato, Marcione, “salvato” dai suoi molti critici. Un’operazione analoga non la si potrebbe fare con il capitalismo. Se, infatti, qualche storico futuro volesse capire che cosa fosse il capitalismo sulla base dei soli testi dei suoi molti critici, farebbe una gran fatica; e se riuscisse a mettere assieme le citazioni dei suoi detrattori ne uscirebbe un ritratto molto diverso dalla persona ritratta, perché spesso i critici hanno prima creato un capitalismo-fantoccio e poi hanno avuto gioco facile nel criticarlo.

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Neoliberismo, quali basi per la critica?

Neoliberismo, quali basi per la critica?

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Recensioni - L’ultimo saggio di Recalcati offre nuove domande e nuovi sguardi sul grande racconto biblico: centrale la critica alla teologia economico-retributiva

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 29/05/2021

«Facendosi uomo e indossando la nostra sofferenza ben oltre il limite stesso patito da Giobbe, il Dio assente si è fatto Dio presente, ha rimediato all’assurdo della sua inaccessibilità, si è giustificato, si è insomma riscattato. In Cristo si redime Dio: ovvero, il Signore ha potuto pronunziare il suo perdono solo dopo che sulla croce si è fatto perdonare».

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Così Mario Pomilio, nel suo romanzo Il Natale del 1833, immagina le riflessioni sulla fede che Alessandro Manzoni avrebbe maturato in seguito alla morte di sua moglie Enrichetta Blondel, avvenuta il 25 dicembre del 1833. Il libro di Giobbe è un libro che ha molto ispirato scrittori, filosofi e artisti, forse perché è il libro dove la poesia raggiunge vette molto alte, e forse perché è un libro aperto, ambivalente, quindi generativo. Per me il passaggio attraverso Giobbe ha rappresentato un salto etico nel modo di intendere il mio mestiere di studioso e di uomo. E ogni volta che torno su Giobbe - capita spesso, perché Giobbe è un amico che una volta fatto entrare dentro casa non esce più - ne colgo dimensioni nuove, rettifico idee. Giobbe si rilegge, e le seconde e terze battute sono quelle più buone.

Anche la lettura del breve e appassionante saggio di Massimo Recalcati ( Il grido di Giobbe; Einaudi, pagine 96, euro 15,00) ha offerto nuove domande e nuovi sguardi attorno al grande racconto di Giobbe. Un libro che merita di essere letto e discusso da tutti gli “amici” di Giobbe: «Di fronte al destino che si accanisce contro la sua vita, egli non sceglie però la via del sacrificio rassegnato di se stesso, quanto quella del grido. Egli desidera incontrare il Dio che ha rotto il patto per chiedere le ragioni di questa disdetta drammatica». Per Recalcati, però, «quando finalmente, al termine del libro, avviene l’incontro con Dio in persona, […] Giobbe deve così rettificare la sua posizione convertendosi a una nuova versione della fede». Questo è il muro maestro dell’interpretazione che Recalcati ci dà del libro di Giobbe.

La nuova visione della fede alla quale Giobbe si convertirebbe sarebbe una fede dove è cambiata «la sua idea della Legge. Egli stesso è stato, in fondo, il primo prigioniero dell’illusione della teologia retributiva. L’estrema rettitudine della sua esistenza era stata ripagata da altrettanta soddisfazione e fortuna. L’incontro con Dio, rivelandogli l’illimitatezza della sua potenza che non può essere ingabbiata in nessun calcolo […] costringe Giobbe a sovvertire la vecchia rappresentazione della Legge». Così allora «Giobbe può ritornare al mondo avendo visto insieme a Dio il limite del suo stesso sguardo». Ma siamo sicuri che Giobbe si convertirà con l’arrivo di Dio dentro il suo dramma? Recalcati coglie una linea ermeneutica centrale del libro di Giobbe, forse quella decisiva: la critica alla teologia economico- retributiva dominante dentro e fuori la Bibbia, oggi tornata sotto forma di meritocrazia e di povertà come colpa. Immaginare un Dio che retribuisce i giusti con beni e felicità e punisce i colpevoli con il dolore e la sventura è sempre stata una fondazione solida delle civiltà, perché semplice.

La troviamo anche in un’anima della Bibbia, che giungerà fin dentro i vangeli. Nella sua essenzialità, i dialoghi tra Giobbe e i suoi amici, che sono la parte più bella del libro (purtroppo quasi interamente saltata da Recalcati), sono una contestazione radicale da parte di Giobbe dell’idea che lui è diventato povero e malato perché colpevole, che il peccato fosse la spiegazione della sua sventura. Giobbe non accetta per tutto lo sviluppo del suo libro questa tesi, e rivendica la sua innocenza. Nel reclamare il suo stato di innocente e di sventurato, critica decisamente la logica dell’homo oeconomicus alla base della religione e dell’idea di dio-commercialista. Il primo massimizzatore di profitti non è stato l’economista ma l’uomo religioso: «Perché l’innocente può venire distrutto e il malvagio premiato?».

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Recensioni - L’ultimo saggio di Recalcati offre nuove domande e nuovi sguardi sul grande racconto biblico: centrale la critica alla teologia economico-retributiva

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 29/05/2021

«Facendosi uomo e indossando la nostra sofferenza ben oltre il limite stesso patito da Giobbe, il Dio assente si è fatto Dio presente, ha rimediato all’assurdo della sua inaccessibilità, si è giustificato, si è insomma riscattato. In Cristo si redime Dio: ovvero, il Signore ha potuto pronunziare il suo perdono solo dopo che sulla croce si è fatto perdonare».

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Il Dio di Giobbe, ferita e benedizione

Il Dio di Giobbe, ferita e benedizione

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Editoriali - La pandemia e il lavoro da più stimare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/05/2021

Una delle eredità della pandemia è lo svelamento della qualità del lavoro di cura e delle sue virtù. Virtù, una parola che avevamo dimenticato, che con il tempo aveva assunto una sfumatura di vecchio un po’ stantia, è tornata al centro della scena pubblica ed etica. Finalmente abbiamo visto molte cose che prima non vedevamo o non vedevamo abbastanza, e tra queste molte, moltissime virtù, soprattutto in lavori dove non riuscivamo a vederle.

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Quando, sull’inizio dell’Ottocento, la prima rivoluzione industriale stava cambiando radicalmente il mondo del lavoro, i migliori economisti iniziarono a formulare teorie su come remunerare il lavoro. Prima di loro, il lavoro che passava attraverso il "mercato" riguardava una piccola minoranza di persone. La quasi totalità delle donne ne era fuori, nei campi i lavori erano svolti in regime di servitù dove non si vendevano ore di lavoro ma uomini, gli aristocratici e i nobili non lavoravano e interpretavano il loro non-lavoro come privilegio e libertà: «Il nascere agiato mi fece libero e puro, né mi lasciò servire ad altro che al vero. Mille franchi di rendita sono maggiori di 10.000 provenienti da impiego» (Vittorio Alfieri, "Opere", t. VI).

Tra gli economisti che tentarono le prime riflessioni sui salari c’è anche il piacentino Melchiorre Gioja, che nel suo trattato "Del merito e delle ricompense" nel 1818 scriveva: «L’onorario d’un giudice suole essere maggiore di quello d’un professore di diritto, benché in questo si richieda maggior sapere. La differenza tra questi due onorari rappresenta il prezzo della maggiore virtù richiesta in un giudice. In generale gli onorari crescono in ragione degli abusi che si possono commettere nelle cariche, perché il numero delle persone che offrano certezza di non abusarne, decresce in ragione di questa possibilità» (Tomo 1). Per Gioja, dunque, l’onorario doveva essere direttamente proporzionale alla virtù richiesta da quella data attività. Più la virtù necessaria per svolgere bene un tipo di lavoro è scarsa, più va pagata; più devi resistere alla tentazione della corruzione, più devi essere remunerato.

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Editoriali - La pandemia e il lavoro da più stimare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/05/2021

Una delle eredità della pandemia è lo svelamento della qualità del lavoro di cura e delle sue virtù. Virtù, una parola che avevamo dimenticato, che con il tempo aveva assunto una sfumatura di vecchio un po’ stantia, è tornata al centro della scena pubblica ed etica. Finalmente abbiamo visto molte cose che prima non vedevamo o non vedevamo abbastanza, e tra queste molte, moltissime virtù, soprattutto in lavori dove non riuscivamo a vederle.

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Primo Maggio. I giusti salari della virtù

Primo Maggio. I giusti salari della virtù

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Editoriali - Prove e vittime di oggi, storia di ieri

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 31/12/2020

La dimensione collettiva della paura e della morte, è questa una eredità che ci lascia il 2020. Avevamo dimenticato le grandi paure collettive, avevamo relegato la morte nell’intimità della famiglia e nella solitudine del cuore degli individui. E abbiamo imparato che una casa è troppo piccola per elaborare il dolore dei lutti, perché per non morire anche noi insieme a chi amiamo ci sarebbe bisogno della forza di una comunità intera. Dentro la stessa tempesta abbiamo provato la stessa paura, abbiamo condiviso la paura di avere paura della morte, e avendola condivisa non ci ha sopraffatto.

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Non sappiamo come usciremo da questo annus horribilis. Certamente ne usciremo senza una buona parte di quella generazione nata in un’Italia poverissima e morta in una Italia benestante. Genitori e nonni che con le loro virtù, la loro pietas e fede popolare hanno generato famiglie, imprese e democrazia. Mezzadri, contadini, casalinghe che seppero usare i sassi delle macerie delle guerre per edificare cattedrali sociali ed economiche. Abbiamo sofferto tutti vedendoli morire, troppo spesso da soli, perché sentivamo che si stava consumando qualcosa di sbagliato e di profondamente ingiusto. Quella era una generazione che aveva camminato dietro una grande stella etica: "La felicità più importante non è la nostra, ma quella dei figli". Si sono sacrificati perché il valore del futuro era per loro più grande di quello del presente.

Ma poi, soprattutto le donne, dopo aver trascorso la loro giovinezza a curare figli e genitori rinunciando troppe volte alla propria fioritura professionale, si sono ritrovate a invecchiare e poi morire fuori casa.

Allora, una prima lezione di questo anno riguarda la cultura dell’invecchiamento che ci manca troppo. In pochi decenni abbiamo sperperato una buona arte dell’invecchiare e del morire appresa nei millenni, e mentre attendiamo di trovarne una nuova facciamo pagare un conto molto alto alle nostre mamme e nonne, che hanno lasciato questa terra con un enorme e inestimabile credito di cura e di accudimento. Sta anche qui una radice del dolore di questo anno, in un debito collettivo di cui abbiamo preso coscienza proprio mentre si estingueva.

La storia ha conosciuto altri anni orribili. Nel 536 d.C. una misteriosa nebbia (vulcanica) fece precipitare l’Europa e parte dell’Asia nella quasi totale oscurità per circa un anno e mezzo.

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Editoriali - Prove e vittime di oggi, storia di ieri

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 31/12/2020

La dimensione collettiva della paura e della morte, è questa una eredità che ci lascia il 2020. Avevamo dimenticato le grandi paure collettive, avevamo relegato la morte nell’intimità della famiglia e nella solitudine del cuore degli individui. E abbiamo imparato che una casa è troppo piccola per elaborare il dolore dei lutti, perché per non morire anche noi insieme a chi amiamo ci sarebbe bisogno della forza di una comunità intera. Dentro la stessa tempesta abbiamo provato la stessa paura, abbiamo condiviso la paura di avere paura della morte, e avendola condivisa non ci ha sopraffatto.

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I buoni frutti dei grandi mali

I buoni frutti dei grandi mali

Editoriali - Prove e vittime di oggi, storia di ieri di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 31/12/2020 La dimensione collettiva della paura e della morte, è questa una eredità che ci lascia il 2020. Avevamo dimenticato le grandi paure collettive, avevamo relegato la morte nell’intimità della ...
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Commenti - Nella Fratelli tutti Francesco ha spiegato che la sua è una fratenità universale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/10/2020

La fraternità non è una parola semplice. Perché le fraternità sono molte, e non sono tutte né buone né cristiane. Ci sono sempre state persone e comunità che in nome delle loro fraternità hanno scartato e umiliato donne e uomini che non rientravano in quella loro fraternità, che per chiamare alcuni fratelli hanno offeso e ucciso i nonfratelli. Il grande racconto di Caino ci dice che la fraternità del sangue non garantisce nessuna amicizia, e che il fratello può essere il primo assassino. Altre fraternità non hanno visto né voluto le donne, e le hanno eliminate in nome di una fraternità parziale e sbagliata. Molto raramente i fratelli hanno incluso tutti i fratelli, ancora più raramente le sorelle tutte.

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Era perciò importante che papa Francesco in Fratelli tutti ci dicesse subito quale fosse la sua fraternità. E ce lo ha detto scegliendo la parabola del Buon Samaritano come principale e in certo senso unico impianto teologico ed etico del suo discorso. E scegliendo questa parabola ha fatto una scelta di campo forte, partigiana e parziale. Ci ha voluto dire che la sua è fraternità universale centrata sulla vittima. Ce lo ha detto fin dal suo primo viaggio, quando scendendo dalla sua Gerusalemme (Roma) scelse Lampedusa come sua Gerico. Una scelta partigiana e parziale, perché l’etica del Samaritano è certamente una base solida e inequivocabile per una civiltà della prossimità e della misericordia, ma è meno ovvia come fondamento di un’etica della fraternità, perché le manca la dimensione decisiva della reciprocità. È meno ovvio perché la fraternità non è solo contenuto dell’azione dell’individuo, non è soltanto un comando rivolto a ciascuno di noi preso isolatamente; la fraternità è anche, e forse soprattutto, un comando che ci viene rivolto in quanto comunità, chiesa, società, umanità, un verbo coniugato alla forma plurale: 'amatevi gli uni gli altri...'.

La parabola del samaritano non parla di fratelli di sangue (né prodighi né maggiori), né è direttamente interessata a qualche forma di azione reciproca: c’è una vittima, ci sono due individui separati che passano oltre, e c’è un terzo, il samaritano, che si china e si prende cura di quella vittima. Tra i vari protagonisti non scatta una qualche forma di interazione reciproca – se si eccettua, paradossalmente, quella finale tra il samaritano e l’albergatore.

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Commenti - Nella Fratelli tutti Francesco ha spiegato che la sua è una fratenità universale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/10/2020

La fraternità non è una parola semplice. Perché le fraternità sono molte, e non sono tutte né buone né cristiane. Ci sono sempre state persone e comunità che in nome delle loro fraternità hanno scartato e umiliato donne e uomini che non rientravano in quella loro fraternità, che per chiamare alcuni fratelli hanno offeso e ucciso i nonfratelli. Il grande racconto di Caino ci dice che la fraternità del sangue non garantisce nessuna amicizia, e che il fratello può essere il primo assassino. Altre fraternità non hanno visto né voluto le donne, e le hanno eliminate in nome di una fraternità parziale e sbagliata. Molto raramente i fratelli hanno incluso tutti i fratelli, ancora più raramente le sorelle tutte.

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Sempre dalla parte della vittima amando le umane diversità

Sempre dalla parte della vittima amando le umane diversità

Commenti - Nella Fratelli tutti Francesco ha spiegato che la sua è una fratenità universale di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 06/10/2020 La fraternità non è una parola semplice. Perché le fraternità sono molte, e non sono tutte né buone né cristiane. Ci sono sempre state persone e comuni...
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Un divario che sta aumentando. A commento della nuova Classifica del Benvivere realizzata da Avvenire e SEC

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/09/2020

«Quello ch’ora dicesi Regno di Napoli abbraccia le più belle, le più amene, e le più fertili contrade della presente Italia, state già famose per le scuole del saper greco, per l’eccellenza delle leggi e de’ legislatori, per la loro forza terrestre e navale, per le guerre, per le arti, pel commercio» (p. 243). Con queste parole l’economista e filosofo napoletano Antonio Genovesi, fondatore della tradizione italiana dell’economia civile, iniziava nelle sue Lezioni di commercio il ragionamento sulle cause del declino economico e sociale in cui si trovava il suo Regno di Napoli, e quindi indicava i mezzi per risollevarlo: meno "onore privato" e più "fede pubblica", meno terre ai latifondisti e più ai piccoli proprietari, più scuole per tutti, più conoscenze tecniche nel popolo, meno privilegi feudali e più premi agli artigiani e al commercio. E poi concludeva: «non siamo ancora giunti a quella coltura degl’ingegni, alla quale noi possiam pervenire meglio che gli altri, per la vivezza della mente e della fantasia, e dove altre nazioni forse di minore ingegno sono per diligenza usata giunte; anzi, che non siamo neppure alla metà dell’opera» (p. 248). Eravamo nel 1767.

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Il dato che più impressiona in questo secondo rapporto "Avvenire delle città", è l’enorme distacco tra le province del Centro-Nord e quelle del Sud, un divario già molto grande lo scorso anno e che quest’anno è ulteriormente cresciuto. Per incontrare la prima città sotto il fiume Tronto (l’antico confine del Regno), occorre scendere fino al 67° posto (Bari), mentre lo scorso anno Isernia era al 51° posto. Dal 67° all’ultimo posto (107) abbiamo soltanto città del Sud, ad eccezione di 5 province centrali. E la somma algebrica dei miglioramenti e peggioramenti nel ranking tra il 2019 e il 2020 nelle città del Sud è di meno 29.

Il "Benvivere" era parola cara alla tradizione meridiana dell’economia, a quel Ludovico Bianchini, Napoletano e erede di Genovesi, che chiamò il suo trattato di economia la Scienza del benvivere sociale. Forse perché si amano le cose che si desiderano quando avvertiamo la loro mancanza. O forse perché nelle città meridiane c’è un benvivere in parte diverso da quello del Nord, che ancora gli indicatori, neanche quelli più sofisticati del nostro report, riescono a catturare. Se un giorno fossimo capaci di creare un sistema di variabili che ci consenta di cogliere i beni relazionali, un elemento fondamentale di ogni benvivere, ma soprattutto di quello latino e meridiano, forse questa classifica così netta e polarizzata si complicherebbe, e ci accorgeremmo che in molte città del Sud e delle Isole si vive meglio di come oggi appare.

Già nel commentare i dati dello scorso anno notavamo che «abbiamo usato strumenti che poco catturano dimensioni fondamentali del benessere, come la solitudine, la compagnia degli anziani, l’invecchiare vicino ai nipoti, l’amicizia e la convivialità». Questi indicatori non esistono ancora perché la teoria economica e sociale dominante ha costruito nel tempo un’idea di benessere dove contano molto il lavoro, i servizi, le virtù civili, le imprese, la sicurezza, il capitale umano. E non potrebbe che essere così, perché queste dimensioni della vita sono veramente dimensioni del nostro benessere.

Ma tutti sappiamo, anche se lo dimentichiamo ogni giorno di già, che la consolazione degli amici, invecchiare con accanto i figli, figlie e nipoti, crescere un bambino in un borgo di campagna invece che in una grande città, mangiare il panino da soli o condividere lunghi pranzi con chi amiamo, organizzare e vivere il tempo della festa… sono dimensioni altrettanto importanti del benessere. Dimensioni presenti ovunque, ma più presenti al Sud, e quindi se non vengono rilevate tendono ad aumentare i gap tra il benvivere delle nostre città. Per il prossimo anno ci proponiamo, con tempi speriamo tutti più favorevoli, di dedicarci alla ricerca di queste nuove misure. È possibile, si può fare.

Ma non appena abbiamo ricordato queste dimensioni diverse e ancora poco esplorate del benessere, dobbiamo fare di tutto perché cittadini, intellettuali e politici conoscano e riflettano su questi dati, e quindi migliorino quelle dimensioni migliorabili. Molte cose che non ci fanno vivere bene si possono, si devono migliorare. Non ci sono zone del paese destinate a rimanere per sempre nelle loro trappole di povertà. Il mal-vivere o il ben-vivere non è un destino, è anche impegno civile, è anche progetto politico.

Antonio Genovesi lottò molto contro quel tratto del carattere nazionale che lui chiamava il nonsipuotismo, una malattia tipica del nostro Paese. Lasciamo a lui allora anche l’ultima parola: «Si può, dirà taluno? Appunto questo sospetto rovina le nazioni. La massima mia è: ogni uomo, ogni famiglia, ogni Stato può ben essere quel ch’è stato un altro uomo, un’altra famiglia, un altro Stato. È micidiale sentimento, quel "non si può"» (pp. 48-49).

Sulla Classifica del Ben-vivere vedi anche:

Cercare senso in altro modo, di Vittorio Pelligra, pubblicato su Avvenire il 26/09/2020

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Un divario che sta aumentando. A commento della nuova Classifica del Benvivere realizzata da Avvenire e SEC

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/09/2020

«Quello ch’ora dicesi Regno di Napoli abbraccia le più belle, le più amene, e le più fertili contrade della presente Italia, state già famose per le scuole del saper greco, per l’eccellenza delle leggi e de’ legislatori, per la loro forza terrestre e navale, per le guerre, per le arti, pel commercio» (p. 243). Con queste parole l’economista e filosofo napoletano Antonio Genovesi, fondatore della tradizione italiana dell’economia civile, iniziava nelle sue Lezioni di commercio il ragionamento sulle cause del declino economico e sociale in cui si trovava il suo Regno di Napoli, e quindi indicava i mezzi per risollevarlo: meno "onore privato" e più "fede pubblica", meno terre ai latifondisti e più ai piccoli proprietari, più scuole per tutti, più conoscenze tecniche nel popolo, meno privilegi feudali e più premi agli artigiani e al commercio. E poi concludeva: «non siamo ancora giunti a quella coltura degl’ingegni, alla quale noi possiam pervenire meglio che gli altri, per la vivezza della mente e della fantasia, e dove altre nazioni forse di minore ingegno sono per diligenza usata giunte; anzi, che non siamo neppure alla metà dell’opera» (p. 248). Eravamo nel 1767.

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Sud, migliorare si può e si deve

Sud, migliorare si può e si deve

Un divario che sta aumentando. A commento della nuova Classifica del Benvivere realizzata da Avvenire e SEC di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 26/09/2020 «Quello ch’ora dicesi Regno di Napoli abbraccia le più belle, le più amene, e le più fertili contrade della presente Italia, state già ...
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Protagonisti - Dalla tesi fino all’ultima lezione, mise al centro della ricerca il benessere della popolazione Il maestro di uno studio più umanistico che matematico nella biografia di Roberto Giulianelli

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire Agorà il 28/07/2020

«Il mercato dà una misura di quanto valgono le cose, ma non di quanto vale esso stesso come sistema di misura dei valori delle cose». Così il giovane Giorgio Fuà terminava nel 1946 il suo editoriale ( Bisogna dar retta agli economisti?) del primo numero di “Comunità”. Questo editoriale è una sorta di manifesto della sua visione dell’economia, che svilupperà in tutto il resto della sua vita: «Si può dire benissimo che entro un dato ordinamento ogni individuo, se cerca il proprio interesse, raggiungerà il massimo di benessere cui può aspirare nell’ambito di quell’ordinamento… Ma quale massimo? Quale benessere? ». Il “benessere della popolazione”, oggetto della sua tesi di laurea scritta a Losanna nel 1940, dove il giovane ebreo anconetano si era dovuto rifugiare per fuggire alle leggi razziali, resterà il grande tema della sua ricerca, fino al suo ultimo libro Crescita economica. L’insidia delle cifre (1993), dove leggiamo: «Oggi dobbiamo smettere di privilegiare il tradizionale tema della quantità di merce prodotta e dedicare maggiore attenzione ad altri temi… quali la soddisfazione o insoddisfazione che il lavoro procura a chi lo fa». Ripercorrere, grazie al buon e “utile” saggio di Roberto Giulianelli L’economista utile. Vita di Giorgio Fuà (Il Mulino, pagine 374, euro 25,00), l’esistenza uno dei più importanti economisti italiani del secondo Novecento, significa toccare la carne di alcuni passaggi decisivi della vita dell’Italia e dell’Europa, e non solo di quella economica. Giorgio nasce nel 1919 dal matrimonio tra Riccardo Fuà, medico anconetano di una importante e benestante famiglia ebrea, ed Elena Serge, torinese, ebrea anch’ella. Crescere nell’Italia fascista, iniziare l’università a Pisa con le leggi razziali del 1938, segneranno per sempre la visione del mondo di Giorgio, quella economica e insieme quella etica e politica. Emigrato in quello stesso anno a Losanna, lì studiò economia, statistica e demografia in quella scuola resa celebre due generazioni prima, da un altro grande italiano: Vilfredo Pareto.

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Il tema della popolazione ha caratterizzato gli studi italiani di economia da Antonio Ge- novesi ad Achille Loria, perché profondamente legato alla “pubblica felicità”, l’altro nome della tradizione italiana della scienza economica. Sebbene Fuà avesse fin da giovanissimo una chiara e forte vocazione didattica e accademica (fece le sue prime lezioni nel 1941 nella scuola ebraica di via Eupili di Milano), arrivò ad una cattedra universitaria in età matura, solo nel 1966. Prima aveva esercitato il mestiere di economista in varie istituzioni protagoniste dell’Italia e dell’Europa del dopoguerra. Decisiva fu la bocciatura nel concorso per la libera docenza nel 1948. Molto vivace e rivelativa della sua vocazione scientifica e umana è la descrizione che Giorgio, e sua moglie Erika Rosenthal, danno di quella bocciatura da parte della commissione composta da tre importanti professori di economia (Amoroso, Vito e Dominedò): «Mi hanno combattuto sia sviando grottescamente certe mie affermazioni, sia abbeverandomi di ideologia liberista (Amoroso) e cattolica ( Vito)». E sua moglie Erika così commentava: «Giorgio era naturalmente in gran tensione, ma è stato bravissimo». Come lui fu bocciato in quel concorso il suo amico Ernesto Rossi, e qualche anno dopo Paolo Sylos Labini, compagno di bocciatura e di molte battaglie culturali. L’antifascismo e la sua prima formazione avvenuta tra Italia, Ginevra e Losanna lo portarono a maturare una visione critica del liberismo economico, e vicina alla teoria della pianificazione, al socialismo e per qualche anno al comunismo (che verrà meno dopo i fatti d’Ungheria), senza mai essersi iscritto a nessun partito politico («Non son nato con la vocazione del traffico politico»). La sua vocazione era invece un’altra, come lui stesso ci dice raccontando l’incontro, nel 1952 a Losanna, con il giovane economista toscano Giacomo Becattini, che Fuà descrive come «un tipo entusiasta e bravo ». E aggiunge: «Ho piantato il lavoro per una o due ore per dargli spiegazioni e mi dicevo che questo è il mestiere che ci vuole per me». Becattini, l’inventore della teoria dei distretti industriali, ebbe da Fuà l’incarico di cercare libri di economia antica nelle (molte e ricche) librerie antiquarie di Firenze. Molti anni dopo Becattini dirà: «È probabile che, almeno in parte, il mio interesse per la storia del pensiero economico abbia avuto origine da quel rovistare».

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Protagonisti - Dalla tesi fino all’ultima lezione, mise al centro della ricerca il benessere della popolazione Il maestro di uno studio più umanistico che matematico nella biografia di Roberto Giulianelli

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire Agorà il 28/07/2020

«Il mercato dà una misura di quanto valgono le cose, ma non di quanto vale esso stesso come sistema di misura dei valori delle cose». Così il giovane Giorgio Fuà terminava nel 1946 il suo editoriale ( Bisogna dar retta agli economisti?) del primo numero di “Comunità”. Questo editoriale è una sorta di manifesto della sua visione dell’economia, che svilupperà in tutto il resto della sua vita: «Si può dire benissimo che entro un dato ordinamento ogni individuo, se cerca il proprio interesse, raggiungerà il massimo di benessere cui può aspirare nell’ambito di quell’ordinamento… Ma quale massimo? Quale benessere? ». Il “benessere della popolazione”, oggetto della sua tesi di laurea scritta a Losanna nel 1940, dove il giovane ebreo anconetano si era dovuto rifugiare per fuggire alle leggi razziali, resterà il grande tema della sua ricerca, fino al suo ultimo libro Crescita economica. L’insidia delle cifre (1993), dove leggiamo: «Oggi dobbiamo smettere di privilegiare il tradizionale tema della quantità di merce prodotta e dedicare maggiore attenzione ad altri temi… quali la soddisfazione o insoddisfazione che il lavoro procura a chi lo fa». Ripercorrere, grazie al buon e “utile” saggio di Roberto Giulianelli L’economista utile. Vita di Giorgio Fuà (Il Mulino, pagine 374, euro 25,00), l’esistenza uno dei più importanti economisti italiani del secondo Novecento, significa toccare la carne di alcuni passaggi decisivi della vita dell’Italia e dell’Europa, e non solo di quella economica. Giorgio nasce nel 1919 dal matrimonio tra Riccardo Fuà, medico anconetano di una importante e benestante famiglia ebrea, ed Elena Serge, torinese, ebrea anch’ella. Crescere nell’Italia fascista, iniziare l’università a Pisa con le leggi razziali del 1938, segneranno per sempre la visione del mondo di Giorgio, quella economica e insieme quella etica e politica. Emigrato in quello stesso anno a Losanna, lì studiò economia, statistica e demografia in quella scuola resa celebre due generazioni prima, da un altro grande italiano: Vilfredo Pareto.

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Giorgio Fuà, il mestiere civile dell'economista

Giorgio Fuà, il mestiere civile dell'economista

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Nuove forme di relazione - Lo smart working e la scuola a distanza hanno allargato le nostre opportunità, ma aumentato le diseguaglianze, ridotto la socialità e la creatività del lavoro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/05/2020

Che cosa abbiamo imparato in questi due mesi sul lavoro e sulla scuola? Le cose positive sono sotto gli occhi di tutti, e non sono poche. Scoprire che molte cose che prima facevamo solo 'in presenza' si possono fare anche da casa, è stato emozionante e incoraggiante. Lo smart working ha allargato le nostre opportunità, ha arricchito il nostro set di offerta lavorativa, ha ridotto l’inquinamento e il traffico di cui non abbiamo certo alcuna nostalgia. Abbiamo parlato e collaborato con persone lontane che non avremmo mai raggiunto senza questi nuovi strumenti.

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Dei limiti e dei danni di queste innovazioni si parla, invece, meno. Il primo di essi ha a che fare con il rapporto tra l’insegnamento a distanza e la diseguaglianza. Chi, come me, sta facendo molte lezioni online, anche usando le piattaforme più evolute, si è accorto che gli studenti più abili e motivati partecipano e apprendono, quelli meno motivati e con qualche problema pregresso di apprendimento fanno invece molta fatica. È molto difficile capire da casa che cosa accade dietro uno schermo con telecamera disattivata perché, dicono, 'non funziona'. In aula un docente attento guarda, capisce, motiva, sprona; fare tutto questo online, soprattutto con aule numerose, è molto, molto più difficile. Per non parlare dei bambini e dei ragazzi figli di immigrati di prima generazione, che dopo questi mesi rischiano seriamente di regredire alla conoscenza della lingua italiana che avevano nel 2019. Il virus lascerà una scuola – non solo un’economia – più diseguale; e questa è davvero una brutta notizia, perché le diseguaglianze nell’infanzia e nell’adolescenza si moltiplicano nella vita adulta.

Sui ragazzi e ragazze in lockdown c’è ancora molto da dire. Siamo rimasti tutti sorpresi positivamente da come hanno resistito alla clausura domestica. Sono stati più virtuosi di quanto, quasi tutti, pensavamo all’inizio. E dobbiamo esserne molto grati. Ma, se vogliamo essere anche onesti (e un poco 'politicamente scorretti'), sappiamo che c’è anche un lato meno luminoso della medaglia. I ragazzi e le ragazze hanno resistito a casa anche perché gran parte di essi erano già confinati nelle camere da ben prima della pandemia. Da anni i nostri adolescenti (e ormai anche i bambini) hanno rinunciato a molte ore all’aria aperta e ai giochi comunitari 'in presenza' perché troppo sedotti e incantati dagli smartphone e dai loro meravigliosi passatempo solitari. Stavano già molto bene nelle loro camerette da soli, e così hanno sofferto meno per la mancanza del gioco con gli amici. Giocavano già molto poco insieme, dopo la scuola, e hanno continuato a non giocare. Si 'incontravano' già dentro le loro macchine e hanno continuato a incontrarsi così. Vent’anni fa avrebbero sofferto molto di più per non uscire di casa, perché il paese dei balocchi era fuori, perché il sogno dei sogni era giocare con gli amici.

Nel Novecento abbiamo generato miracoli economici e civili perché abbiamo imparato a cooperare giocando insieme, molte ore tutti i giorni, e poi abbiamo 'continuato a giocare' lavorando insieme. La quotidiana lotta dei genitori per provare a ridurre il numero di ore che i figli trascorrono incollati ai telefoni si è necessariamente rilassata molto durante la pandemia. Anche per questa ragione la chiusura della scuola è un fatto grave sebbene necessario, perché era la principale (a volte quasi l’unica) attività veramente sociale e comunitaria dei nostri ragazzi e ragazze; chiudendola abbiamo perso formazione e apprendimento, ma abbiamo anche perso abilità relazionale e comunitaria. Quando finirà l’emergenza sarà ancora più difficile far uscire tanti ragazzi e ragazze dalle loro stanze – lo stiamo già vedendo. La didattica online, nonostante tutti gli sforzi, sta aumentando il confinamento solitario dei nostri figli.

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Nuove forme di relazione - Lo smart working e la scuola a distanza hanno allargato le nostre opportunità, ma aumentato le diseguaglianze, ridotto la socialità e la creatività del lavoro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/05/2020

Che cosa abbiamo imparato in questi due mesi sul lavoro e sulla scuola? Le cose positive sono sotto gli occhi di tutti, e non sono poche. Scoprire che molte cose che prima facevamo solo 'in presenza' si possono fare anche da casa, è stato emozionante e incoraggiante. Lo smart working ha allargato le nostre opportunità, ha arricchito il nostro set di offerta lavorativa, ha ridotto l’inquinamento e il traffico di cui non abbiamo certo alcuna nostalgia. Abbiamo parlato e collaborato con persone lontane che non avremmo mai raggiunto senza questi nuovi strumenti.

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Ciò che non si vede né accade in telelavoro e teleconferenza

Ciò che non si vede né accade in telelavoro e teleconferenza

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Editoriale - Questo tempo e questo Primo maggio

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/05/2020

Quando la vita, senza chiederci il permesso, ci rallenta la corsa, si possono fare grandi scoperte. Si può finalmente entrare in un nuovo rapporto con quegli esseri viventi che per essere visti e "parlarci" hanno bisogno di tempi più lenti, più profondi e dilatati. I vecchi, i malati, la natura, le piante, i fiumi, sono portatori di una qualità della vita che resta muta se costretta a intonarsi ai ritmi sfrenati del business.

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In questi mesi di immenso dolore, abbiamo imparato in tanti le prime parole dei linguaggi dei tempi rallentati; alcuni hanno persino imparato a parlare con gli angeli, altri coi demoni, qualcuno con entrambi. Ripercorrendo ogni giorno gli stessi duecento metri, abbiamo finalmente visto, conosciuto e riconosciuto l’ambiente attorno casa; ci siamo accorti di quante cose erano lì, appena oltre l’uscio, che eravamo circondati da moltissima vita, e non lo sapevamo.

Precipitati in questo enorme rallentamento collettivo abbiamo visto diversamente e meglio anche il lavoro. Non potendo, molti, lavorare – o non potendo lavorare come sapevamo e volevamo fare –, in questo letargo dell’homo faber e dell’homo oeconomicus si è liberato spazio ad altre dimensioni della vita. L’economia è stata costretta a ritrarsi – non lo avrebbe mai fatto spontaneamente –, obbligata a diventare una tra le molte parole della vita (non più l’unica né la prima né l’ultima, ma solo una parola accanto ad altre). E in questo spazio liberato ci siamo accorti di quanta vita avevamo immolato e sacrificato a una economia cresciuta troppo, velocemente e in maniera squilibrata. Non lo dimentichiamo.

Innanzitutto abbiamo visto quanta economia si svolge dentro casa, nella nostra famiglia.

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pubblicato su Avvenire il 01/05/2020

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Il lavoro, veramente

Il lavoro, veramente

Editoriale - Questo tempo e questo Primo maggio di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 01/05/2020 Quando la vita, senza chiederci il permesso, ci rallenta la corsa, si possono fare grandi scoperte. Si può finalmente entrare in un nuovo rapporto con quegli esseri viventi che per essere visti e...
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Idee - La philia e l’eros dell’antica Grecia acquistano una diversa ricchezza di significato alla luce dell’agape evangelica. Il libro di Pietro Del Soldà

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/04/2020

Uno degli effetti collaterali del covid19 è la ri–scoperta (o scoperta) della semantica dell’amicizia. Ci stiamo abituando a lezioni online, riunioni di lavoro via zoom, videochiamate, tesi di laurea online con il vestito buono e applauso dei genitori commossi e nascosti dietro la camera; ma ogni volta che terminiamo queste sessioni telematiche ci nasce, troppo spesso, una forte nostalgia per i nostri studenti, per i colleghi, per genitori e amici, per il bar dove andavamo per “consumare” prima la chiacchierata poi il caffé. Gli incontri che stanno continuando ad accadere in questa lunga quarantena non sono solo semplicemente incontri “virtuali” (parola che morirà con la fine della pandemia), sono comunque incontri ai quali mancano alcune dimensioni fondamentali, e tra queste il corpo. Ci sono voluti migliaia di anni per imparare a stare vicini a meno di un metro di distanza, a dare la mano allo sconosciuto per dirgli che su quella mano non c’era un pugnale, e poi ad abbracciare e baciare gli amici.

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Ci sono voluti troppi millenni per apprendere l’arte delle distanze brevi per poter pensare di poterle dimenticare in pochi mesi. L’amicizia è l’arte delle distanze Sulle ali degli amici Soldàbrevi. Distanze affettive, ma anche distanze fisiche, geografiche, spaziali. Perché se i verbi dell’amicizia sono quelli del tempo (fedeltà, durata, resilienza), anche i tempi dello spazio sono importanti: se non si va dall’amico o l’amicizia si è indebolita o c’è un ostacolo all’incontro o c’è solo un grande desiderio, come quello immenso che sta crescendo giorno dopo giorno. E mentre le distanze tra di noi sono cresciute, la lotta col virus si gioca sulla capacità di cura di medici e infermieri, che è anche talento delle mani, che devono toccare senza contaminare e contaminarsi. L’ambivalenza della vita, la danza di communitas e immunitas, che ogni tanto diventa danza macabra. L’amore è uno, ma gli amori sono molti. Amiamo molte persone e molte cose, siamo amati da molti e in modi diversi. Amiamo i genitori, i figli, le fidanzate, le mogli e i mariti, fratelli e sorelle, maestre, colleghi, nonni e cugini, poeti e artisti. E amiamo, moltissimo, gli amici e le amiche. Il mondo greco per dire amore aveva due parole principali, erose philia, due parole che non esaurivano le molte forme dell’amore ma che offrivano un registro semantico più ricco del nostro per declinare questa parola fondamentale della vita. Un lessico che era capace di distinguere il «ti voglio bene» detto alla donna amata dal «ti voglio bene detto» detto a un amico, e allo stesso tempo riconoscere che erano anche uguali. Il cristianesimo, poi, ha aggiunto una terza parola greca per dire un’altra tonalità dello stesso amore, un tono già presente nella Bibbia ebraica e, soprattutto, già presente nella vita.

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Idee - La philia e l’eros dell’antica Grecia acquistano una diversa ricchezza di significato alla luce dell’agape evangelica. Il libro di Pietro Del Soldà

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/04/2020

Uno degli effetti collaterali del covid19 è la ri–scoperta (o scoperta) della semantica dell’amicizia. Ci stiamo abituando a lezioni online, riunioni di lavoro via zoom, videochiamate, tesi di laurea online con il vestito buono e applauso dei genitori commossi e nascosti dietro la camera; ma ogni volta che terminiamo queste sessioni telematiche ci nasce, troppo spesso, una forte nostalgia per i nostri studenti, per i colleghi, per genitori e amici, per il bar dove andavamo per “consumare” prima la chiacchierata poi il caffé. Gli incontri che stanno continuando ad accadere in questa lunga quarantena non sono solo semplicemente incontri “virtuali” (parola che morirà con la fine della pandemia), sono comunque incontri ai quali mancano alcune dimensioni fondamentali, e tra queste il corpo. Ci sono voluti migliaia di anni per imparare a stare vicini a meno di un metro di distanza, a dare la mano allo sconosciuto per dirgli che su quella mano non c’era un pugnale, e poi ad abbracciare e baciare gli amici.

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Idee. Se gli amici fanno le ali della storia

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Opinioni - Debito e colpa, Europa e nostro domani

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 31/03/2020

«Questi genealogisti della morale si sono mai, sino a oggi, anche solo lontanamente immaginati che, per esempio, quel basilare concetto morale di 'colpa' ha preso origine dal concetto molto materiale di 'debito'?». In questa famosa frase della 'Genealogia della morale', Friedrich Nietzsche sottolineava lo strettissimo rapporto che nella lingua tedesca esiste tra 'debito' e 'colpa', al punto di essere la stessa parola: Schuld . Stessa equivalenza e stessa parola le ritroviamo anche nella lingua olandese.

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Due Paesi accomunati dal forte influsso e dall’eredità della Riforma Protestante, sebbene l’Olanda sia più calvinista e la Germania più luterana. Ma in generale in tutta la Bibbia il debito prima di essere una faccenda economica è faccenda morale e religiosa – 'rimetti a noi i nostri debiti…' lo troviamo al centro della prima preghiera cristiana.

È comunque indubbio che l’Umanesimo protestante abbia sottolineato di più, rispetto ai Paesi cattolici latini, l’equivalenza colpa/debito. Per ogni debito, ma soprattutto per il debito pubblico. Anche perché la 'cultura della colpa' è più tipica dei Paesi protestanti, mentre nei Paesi cattolici e latini è la 'cultura della vergogna' a dominare. Sotto le Alpi dei debiti ci si vergogna con chi ci conosce e ci vede (e quindi è bene che gli altri non conoscano e non vedano i nostri debiti), ma ci si sente meno in colpa. Non a caso in Italia i primi prestiti con un pagamento di un tasso d’interesse lecito furono quelli accesi per finanziare le spese pubbliche delle città medioevali, perché le spese del sovrano e quelle della Chiesa non erano viste solo come spreco, ma anche come magnificenza e come festa (i Papi, diversamente dalla Ginevra di Calvino, non hanno mai abolito le feste e i loro costi).

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Opinioni - Debito e colpa, Europa e nostro domani

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 31/03/2020

«Questi genealogisti della morale si sono mai, sino a oggi, anche solo lontanamente immaginati che, per esempio, quel basilare concetto morale di 'colpa' ha preso origine dal concetto molto materiale di 'debito'?». In questa famosa frase della 'Genealogia della morale', Friedrich Nietzsche sottolineava lo strettissimo rapporto che nella lingua tedesca esiste tra 'debito' e 'colpa', al punto di essere la stessa parola: Schuld . Stessa equivalenza e stessa parola le ritroviamo anche nella lingua olandese.

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Il gran peso delle parole

Il gran peso delle parole

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Editoriali - Meccanismi e complessità del mercato, interdipendenza, fraternità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 13/03/2020

Economia, cioè il governo della casa. È questa la prima definizione che imparano gli studenti di economia nel primo giorno di scuola. Mai come in questi giorni la nostra generazione ha capito che esiste un rapporto diretto tra governo, casa ed economia. Il governo ci chiede di stare a casa, mentre l’economia fa di tutto perché qualcuno non stia a casa ma al lavoro. L’economia può e deve fare il suo mestiere, cioè fare in modo che le parole rassicuranti che il governo ci rivolge nel tenerci buoni a casa possano corrispondere al vero – i supermercati saranno pieni di merci.

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E l’economia sa che per far giungere frutta, latte, verdura, carne, pane, nei negozi di generi alimentari, insieme a gas, energie ed internet nelle nostre case e le medicine nelle farmacie, c’è bisogno di qualcuno che lavori. Perché se stiamo tutti a casa nessuno può stare a casa. Se poi andiamo a guardar bene nei dettagli – è questo l’aspetto più difficile del mestiere della politica – ci accorgiamo subito che abbiamo messo in piedi una economia di mercato tremendamente complessa e interdipendente, di cui non vediamo l’enorme complessità finché tutto gira in condizioni normali.

Ma non appena si inceppa qualcosa e dobbiamo mettere mano alla “manutenzione della macchina”, scopriamo immediatamente che è tutto veramente molto, molto difficile. Ecco perché da una parte oggi siamo (quasi) tutti convinti che gli operai delle fabbriche non sono lavoratori che debbono essere esposti a più rischi di contagio dei lavoratori che ora sono a casa, ma quando iniziamo a indicare quali imprese dovrebbero chiudere e quali no, ci troviamo di fronte a due fatti–dilemmi. Il primo: dover ricostruire in poche ore la morfologia del network economico di clienti, fornitori, sub–fornitori, indotti, e scomporre i prodotti finali in tutte le loro decine o centinaia di componenti, è infinitamente arduo. Il mercato contemporaneo è un meccanismo mirabile proprio perché aggrega una infinita quantità di operazioni e di calcoli dispersi in milioni di persone, che nessun robot iper–intelligente potrebbe fare – prima della divisione del lavoro il mercato ottimizza la divisione della conoscenza dispersa e frammentata, di cui ciascuno di noi possiede solo un piccolissimo, ma insostituibile, brandello.

Secondo: ipotizzando di riuscire ad approssimare il calcolo di questa rete ingarbugliatissima, è probabile che le imprese assenti dalla filiera produttiva di qualche bene essenziale siano meno di quelle che pensiamo. Quindi individuare quali imprese chiudere è maledettamente difficile e, anche se ci riusciamo, scopriamo che molti lavoratori dovrebbero continuare a lavorare lo stesso se vogliamo stare a casa e lì mangiare e vivere. I miracoli economici che questo capitalismo ha prodotto in questi ultimi decenni sono l’altra faccia dell’impotenza in cui ci troviamo oggi. Si trova qui la ragione del conflitto, inevitabile, tra chi deve fare ora le scelte concrete e chi invoca sacrosanti princìpi etici di equità. E cercare di capire ciascuno le ragioni dell’altro, sarebbe già un passo essenziale per una sua possibile risoluzione o accudimento. C’è poi un altro problema importante, su cui si discute di meno. Quali sono i beni e servizi essenziali? È difficile convincere molta gente sull’essenzialità delle sigarette o, peggio, dei gratta– e–vinci dei tabaccai aperti (più facile convincerci che sono essenziali per i fumatori e per gli azzardo–dipendenti). Forse, invece, nessuno crede che sia essenziale il parrucchiere.

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Editoriali - Meccanismi e complessità del mercato, interdipendenza, fraternità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 13/03/2020

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Coronavirus. Chiudere ciò che si può. Comprendere ciò che si deve

Coronavirus. Chiudere ciò che si può. Comprendere ciò che si deve

Editoriali - Meccanismi e complessità del mercato, interdipendenza, fraternità di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 13/03/2020 Economia, cioè il governo della casa. È questa la prima definizione che imparano gli studenti di economia nel primo giorno di scuola. Mai come in questi giorni la n...