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Economia Civile

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Editoriali - Stato&mercato: vecchi tic, nuove sfide

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/12/2017

Democrazia economica ridIl mercato è uno, ma i mercati sono molti. Quando si parla e si discute seriamente di mercato e di Stato – poli di un dibattito che si vuol riaccendere anche usando lenti dal fuoco vecchio – dovremmo prima specificare di quale mercato e di quale Stato stiamo parlando. Perché è solo il Mercato con la "M" grande, creazione irreale e astratta delle ideologie, a essere uno solo. Ma se vogliamo capire cosa sta accadendo all’economia mondiale e in quella del nostro Paese, e magari cercare di migliorarla, dobbiamo uscire dal mondo incantato dei Mercati e degli Stati irreali.

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Stato e Mercato sono categorie tipiche delle ideologie del Novecento, che avevano inventato uno Stato e un Mercato che nessuno ha mai conosciuto davvero, e poi li ha contrapposti tra di loro. Chi invece lavorava e lavora nelle imprese vere, gli imprenditori con nome e cognome, chi opera nelle istituzioni politiche, non ha mai incontrato né "Stato" né "Mercato", ma cose molto diverse perché reali. Ha conosciuto e conosce regolamenti regionali, leggi statali, funzionari europei, sindacati, dogane… Con queste realtà ha litigato, ha dialogato, ha vissuto e continua a vivere.

Chi guarda e vive nel mondo concreto e reale sa quindi molto bene che alcune istituzioni e alcuni mercati sono buoni, altri meno, altri sono pessimi; sa che alcuni sono buoni per alcuni ed altri lo sono per altri, e che pochi sono buoni per tutti. Sa poi molto bene che ci sono dei mercati molto efficienti e in salute che stanno impoverendo il Paese e la democrazia. Il Mercato non riduce l’azzardo, né le armi, li potenzia e li accresce; e se la società civile vuole ridurre questi beni demeritori non dovrebbe ricorrere di certo al Mercato. Una società civile matura non pensa, poi, che "privatizzare" sia sinonimo di democrazia e di civiltà: abbiamo, anche qui, affidato a privati la gestione dell’azzardo, e i risultati disastrosi sono sotto gli occhi di chi vuol vedere.

Queste sono le cose che sanno le persone che abitano i mercati tutti i giorni. Persone, intellettuali, lavoratori, che cercano di discernere "gli spiriti del mercato", che ne criticano alcuni e ne incoraggiano altri. Persone che i teorici del Mercato con la "M" grande chiamano anti-sistema, illiberali e magari "peronisti". Come tutte le ideologie anche quella del Mercato ha i suoi sacerdoti, i custodi del tempio e dei dogmi, le sue scomuniche.

Se guardiamo che cosa veramente accade nelle moderne democrazie di mercato tanto evocate dagli amanti del Mercato, troviamo un elemento comune. Il mercato funziona se accompagnato da istituzioni forti, e fra queste quelle pubbliche statali svolgono un ruolo cruciale – non è infatti un caso che negli editoriali che in questi giorni evocano lo spauracchio dello «statalismo di ritorno» contro il Mercato, siano zeppi di citazioni e di commenti di leggi prodotte dallo Stato.

I mercati e le democrazie che funzionano sono il frutto di cooperazioni e alleanze tra istituzioni politiche, sociali, culturali, economiche, universitarie. L’insieme che emerge da queste alleanze è troppo complesso per spiegarlo con i soli due assi Stato/ Mercato. Se amiamo e vogliamo i buoni frutti di civiltà dei mercati civili, di quella che Carlo Cattaneo chiamava la «civil concorrenza», dobbiamo semplicemente immaginare e realizzare buone ed efficienti istituzioni pubbliche che funzionino e che servano i mercati, e che si occupano dei beni comuni che il mercato non sa produrre.

Non c’è altra strada. Chi invece si ostina a immaginare da una parte un Mercato come luogo ideale della giustizia, del merito, dell’efficienza e della libertà, e dall’altra lo Stato come icona delle corruzioni, delle inefficienze e dell’oscurantismo, in realtà dimentica che i mercati reali sono pieni di istituzioni economiche non meno inefficienti di quelle politiche e pubbliche (non dimentichiamoci come e perché è scoppiata la crisi finanziaria del 2007) e che ci sono molte istituzioni pubbliche molto più efficienti di quelle economiche, perché il confine tra civile e incivile attraversa sia le istituzioni sia i mercati reali.

Se oggi vogliamo, per un altro esempio, immaginare un futuro civile ed economico diverso per il Sud Italia, dovremmo solo immaginare una nuova alleanza tra imprese, banche, 'mercati', istituzioni, politica, società civile. Al di fuori questa cooperazione globale ci sono soltanto le ideologie astratte e dannose. Il Novecento, in tutti i Paesi, ci ha mostrato che la cultura politica e la cultura economica di un Paese sono espressioni della stessa cultura. In America, in Europa, in Italia non abbiamo mai avuto periodi storici caratterizzati da politica corrotta e mercati efficienti, e viceversa.

Abbiamo invece visto sempre la stessa cosa: i periodi di buona politica sono stati accompagnati da buona economia e da buona finanza. Nelle stagioni di cultura incivile, decadente e corrotta abbiamo invece avuto istituzioni politiche corrotte e imprese e banche inefficienti e corrotte. Il ciclo economico non è l’inverso del ciclo politico, è semplicemente l’altra faccia della stessa medaglia. Le democrazie funzionano quando i mercati vedono le istituzioni come loro alleate in un gioco a un tempo competitivo e cooperativo. E declinano quando fanno l’opposto. Oggi abbiamo bisogno di meno ideologie e di più «civil concorrenza».

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Editoriali - Stato&mercato: vecchi tic, nuove sfide

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/12/2017

Democrazia economica ridIl mercato è uno, ma i mercati sono molti. Quando si parla e si discute seriamente di mercato e di Stato – poli di un dibattito che si vuol riaccendere anche usando lenti dal fuoco vecchio – dovremmo prima specificare di quale mercato e di quale Stato stiamo parlando. Perché è solo il Mercato con la "M" grande, creazione irreale e astratta delle ideologie, a essere uno solo. Ma se vogliamo capire cosa sta accadendo all’economia mondiale e in quella del nostro Paese, e magari cercare di migliorarla, dobbiamo uscire dal mondo incantato dei Mercati e degli Stati irreali.

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Non tornino gli ideologi

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AGORA' - Per la sua alleanza con la tecnica, oggi il  capitalismo ama presentarsi come civiltà laica e post-ideologica. Eppure ha radici religiose... Faccia a faccia fra l'economista Luigino Bruni e il teologo anglicano.

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/11/2017

John Milbank rid«Il capitalismo è una religione… In futuro ne avremo una visione più chiara». Scriveva nel 1922 il filosofo Walter Benjamin. Parole profetiche, perché mai come in questo nostro tempo il capitalismo della finanza e dei consumi “24ore7giorni” sta rivelando la sua natura religiosa o, meglio, idolatrica. Qualcosa di tanto rilevante quanto sottovalutato dai pensatori del nostro tempo. Non da John Milbank, anglicano, uno dei teologi contemporanei più profondi e influenti. Lo abbiamo incontrato in questo novembre 2017, alla Lumsa di Roma, in occasione del convegno internazionale “L’eredità di Martin Lutero nelle scienze economiche e sociali moderne”.

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Entriamo subito nel vivo del tema. Pensa che il capitalismo del XXI secolo sia più o meno “religioso' del primo capitalismo dei secoli passati? Quando guardiamo a ciò che sta accadendo nella nostra società, ciò che appare interamente secolare sembra invece avere radici religiose, anche se il capitalismo di oggi, per la sua alleanza con la tecnica, ama presentarsi come uno dei luoghi di massima razionalità, come civiltà totalmente laica e post-ideologica.

«Questa è una domanda interessante. Il capitalismo che abbiamo oggi è un capitalismo estremo, nel senso che è dominato sempre più dalla finanza e dal debito, anche se si può sostenere che questi fattori erano già insiti nel capitalismo da sempre. In aggiunta a ciò, abbiamo un’ulteriore estensione della mercificazione: la conoscenza si è trasformata in merce o, piuttosto, la conoscenza è mercificata sotto forma d’informazione. Così l’ascesa dell’economia dell’informazione, la riproduzione, che è stata sempre incredibilmente importante per la tecnologia capitalista, è aumentata esponenzialmente. Oggi si possono riprodurre le cose a bassissimo costo e, così diventa facile condividerle. Quindi non è solo una questione di acquisto e vendita di informazioni, ma, in qualche modo, le informazioni appaiono gratuite, un bene libero. I monopoli della distribuzione di informazioni, come Google e Amazon, utilizzano le informazioni, che ricevano gratuitamente, per realizzare profitti e commercializzarle, a un livello completamente diverso e terribilmente invasivo. Penso che queste stesse tendenze incoraggino un’ulteriore fusione di poteri di mercato con i poteri politici, di proprietari con governanti, così da costruire sempre di più un’oligarchia internazionale molto ricca e molto lontana dalla gente»

Pensa che sia essenziale al capitalismo una visione antropologica negativa e pessimistica, come lo è stata quella calvinista-agostiniana, nella nota tesi di Max Weber? Spesso si parla di un ottimismo antropologico di Adam Smith che, diversamente dal pessimismo di Hobbes, ha fondato il capitalismo sulla simpatia e i sentimenti morali. A me sembra che dietro la visione del mercato di Smith, fondata sulla “mano invisibile”, ci sia invece un profondo pessimismo: siccome non possiamo fare affidamento sulle virtù dobbiamo accontentarci degli interessi…

«Sembrano esserci argomenti abbastanza buoni per dire che il capitalismo è stato incoraggiato da certi fattori religiosi, sia protestanti sia cattolici, nel suo inizio senz’altro. In particolare, il capitalismo è cresciuto da teologie che avevano una visione molto triste della natura umana, e che tendevano a incoraggiare l’idea che l’economia potesse essere governata da princìpi amorali, e che un’economia basata su princìpi amorali fosse il modo in cui Dio manteneva l’ordine in un mondo peccaminoso. E vedevano poi l’esercizio della bontà naturale come sempre più irrilevante per la salvezza umana. Quindi se viene incoraggiato un processo amorale, e l’idea che la natura e la nostra vita in questo mondo non sono rilevanti in termini religiosi, queste teologie incoraggiano la secolarizzazione. Le persone dimenticano i precetti di Dio, e la società, l’economia e la politica diventano indipendenti ed ereditano questo senso di autoregolazione amorale. Quindi la domanda interessante diventa: per questa via la religione viene semplicemente lasciata indietro, messa da parte e dimenticata? Oggi, ci sono prove che non sta avvenendo questo. C’è un revival del Vangelo, anche in varie sette, e nei Paesi in via di sviluppo vediamo persone che si convertono a forme di cristianesimo protestante e pentecostale. E negli Stati Uniti, il Paese capitalista più avanzato, il cristianesimo è ancora molto vivo, e ci sono molti protestanti (e alcuni cattolici) che fanno un’apologia teologica del capitalismo, che lo vedono come la più alta realizzazione del cristianesimo. Se esiste un legame tra teologie e capitalismo – e c’è –, è allora sempre più probabile un ritorno delle religioni con l’avanzare del capitalismo estremo. E questo è un paradosso. E ci dice che la legittimazione puramente secolare dell’economia capitalista è una operazione molto debole».

Quali pensa siano le questioni più rilevanti circa il rapporto tra economia e religione oggi, o, più precisamente, nel rapporto tra economia e teologia. Quali sono le questioni che ritiene veramente cruciali per la qualità della nostra democrazia oggi? Deve preoccuparci soltanto il terrorismo di matrice islamica?

«La questione centrale è la possibilità teologica di un’adeguata legittimazione secolare del capitalismo. Ci sono persone che considerano il processo di crescita del capitalismo come un evento provvidenziale, e cercano di fornire resoconti quasi-teologici sul perché il capitalismo si sia affermato e stia crescendo. Alcuni pensano che il capitalismo sia la forma più consona allo sviluppo della natura umana, dell’uomo qual è, e collegano il capitalismo alla libertà umana e vedono la libertà umana come sacra. Questo accade oggi specialmente in America, e ha radici in una antropologia piuttosto negativa. Questo solleva la questione se i fondamenti antropologici del capitalismo hanno un bisogno essenziale di una antropologia negativa [quella protestante, jansnista e agostiniana], e cosa diventa il capitalismo se lo pensiamo a partire da una visione della natura umana meno cupa, se partiamo dalla libertà di piuttosto che dalla libertà da. Libertà di scoprire la verità. Libertà di sviluppare per sé stessi una vita umana buona».

Come vede lei il rapporto tra disincanto del mondo e capitalismo?

«Penso anche che, nel profondo, si ponga la questione se il capitalismo sia intrinsecamente legato al disincanto del mondo e alla secolarizzazione. L’ironia potrebbe essere che questo disincanto del mondo è incoraggiato da una certa teologia che lo vede semplicemente come uno strumento di Dio, che il mondo è così perché Dio lo ha fatto arbitrariamente e lo gestisce secondo certe procedure meccaniche, ma che di per sé il mondo non ha alcun significato simbolico. Quindi se la realtà è completamente disincantata, si può ridurre tutto a merce. Nulla è sacro, tutto può essere circoscritto, alterato, comprato e venduto. Si può fare quel che si vuole con qualunque cosa e le uniche restrizioni, l’unico modo di controllare questa anarchia è l’ordine dei mercati. Ma poi, una volta che il disincanto è diventato interamente laico e la teologia che gli stava dietro viene dimenticata, allora quasi inevitabilmente in cose come i movimenti ecologici e new age le persone scoprono che il mondo è fonte di incantesimo. Ci sono cose a cui desiderano dare una certa sacralità. Ci sono cose che hanno un valore al di là del loro prezzo di mercato o del modo in cui raggiungono i bisogni dei privati. Le persone iniziano a scoprire da sole l’intrinseco effetto della sacralità e quindi si ottiene una sorta di paganesimo».

Questa era esattamente la condizione nella quale si trovavano le civiltà e le religioni prima dell’avvento della religione ebraico-cristiana.

«Si corre il rischio di perdere il lavoro fatto dalla Bibbia, la sacralità unica della persona umana e così si ottengono varie ideologie che vogliono subordinare l’uomo alla terra proprio come un altro tipo di animale e questo porta a un revival di laicità pagana. Quindi, in un certo senso, penso che la sfida sia recuperare ciò che chiamerei, in senso più ampio, “equilibrio cattolico” in cui il mondo non è di per sé sacro, ma è sacramentale con una gerarchia all’interno della natura tale da valutare tutte le forme di vita. La vita umana in modo supremo, ma allo stesso tempo anche le forme di vita diverse da quella umana perché senza di esse non avremmo un’esistenza piena e alla fine finiremmo per svalutare la vita umana stessa».

Quali le differenze tra una visione “sacramentale” del mondo e il mercato del nostro tempo che sembra assomigliarle quando “sacralizza” le cose e le merci?

«Parte del capitalismo è uno spettacolo. Non mercifica solo le cose, le trasforma in spettacolo e queste diventano realtà quasi iconiche. Invece di essere circondati da statue di santi e di eroi siamo circondati da immagini di merci, persone alla moda e così via. Queste immagini in realtà non ci presentano nulla al di sopra di noi e non rappresentano neanche qualcosa a cui potremmo aspirare. Di fatto, ci mettono davanti a una sconfitta continua, perché, per farci desiderare di più, ci presentano sempre l’irraggiungibile e non un obiettivo desiderabile o qualcosa che possa migliorare la qualità reale della nostra vita umana. Non sono simboli di speranza come la statua dell’eroe o del santo. Una volta compreso tutto questo – il modo in cui il capitalismo calcola e desacralizza, il modo in cui produce imitazioni quasi-sacre – è qui che le persone con un senso religioso dovrebbe chiedere: “Come si può avere una critica puramente secolare dell’ordine capitalista?”. È questo un punto molto debole della critica al capitalismo della sinistra secolare del nostro tempo. Perché se tutto è solo materiale, se tutto è disincantato, allora il capitalismo rimarrà sempre la forma più avanzata di modernità emancipata. Questo è il problema».

Max Weber e Amintore Fanfani, ma anche Karl Marx, ci hanno detto che il capitalismo nasce da uno spirito. Lei pensa che è possibile immaginare oggi un capitalismo senza spirito, un capitalismo che non abbia una qualche dimensione religiosa? Può reggere un capitalismo svuotato di qualsiasi spirito e ridotto a pura materia?

«Le procedure del capitalismo e lo spirito del capitalismo sono la stessa cosa, ed è per questo che Marx parlava di feticismo delle merci - il capitalismo non è solo un’economia, ma è una quasi-religione. Non si tratta solo di sfruttare il lavoro, ma intrinsecamente di sfruttare il desiderio delle persone, anche se su questa dimensione Marx non si è soffermato abbastanza. Il profitto deriva non solo dal non pagare le persone il giusto, ma anche dai sovrapprezzi dovuti al fatto che le persone desiderano continuamente beni in eccedenza sui loro bisogni. La manipolazione del desiderio e l’attrazione sia per l’accumulo che per il fascino è un elemento quasi-religioso. Il capitalismo, in questo senso, rimane una questione di spirito».

(traduzione di Giorgia Nigri)

L'intervista è stata letta da Pagina 3, la Rassegna stampa culturale di Radio 3 RAI del 29 novembre: ascolta qui il podcast

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/11/2017

John Milbank rid«Il capitalismo è una religione… In futuro ne avremo una visione più chiara». Scriveva nel 1922 il filosofo Walter Benjamin. Parole profetiche, perché mai come in questo nostro tempo il capitalismo della finanza e dei consumi “24ore7giorni” sta rivelando la sua natura religiosa o, meglio, idolatrica. Qualcosa di tanto rilevante quanto sottovalutato dai pensatori del nostro tempo. Non da John Milbank, anglicano, uno dei teologi contemporanei più profondi e influenti. Lo abbiamo incontrato in questo novembre 2017, alla Lumsa di Roma, in occasione del convegno internazionale “L’eredità di Martin Lutero nelle scienze economiche e sociali moderne”.

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Milbank, se il capitalismo diventa «quasi-sacro»

Milbank, se il capitalismo diventa «quasi-sacro»

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Agorà - Il teologo e filosofo Naud riflette in un pamphlet sul rapporto fra vangelo e denaro, sminuendo il valore profondo della beatitudine. Eppure i paradossi della Bibbia, e della vita, non si risolvono riducendoli, bensì cercando di avvicinarli alla loro grandezza

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01-02/11/2017

San Francesco Giotto ridNon è mai stato facile scrivere un’etica del denaro e dell’economia partendo dai vangeli. Riconoscere questa difficoltà, potrebbe in molti casi essere sufficiente per non iniziare un tale compito o fermarsi subito. Ma la tentazione di ricavare direttamente dal vangelo principi morali per l’economia della nostra società è molto forte, quasi invincibile. Qualche volta, anche chi legge questi libri sente un bisogno, anche questo invincibile, di scriverne una recensione, soprattutto se l’oggetto del libro sono i poveri e la povertà – che fanno spesso fatica a difendersi da soli dagli scrittori e dagli esperti. Ho fatto questa esperienza dopo la lettura di un piccolo libro di André Naud (1925-2002), Il vangelo e il denaro (Queriniana, pagine 88, euro 9,00), che è stato un docente canadese di teologia e filosofia, “perito” durante il Concilio Vaticano II. Autore di lavori teologici importanti. Il cui discorso sulla povertà evangelica, è, quanto meno, molto discutibile. E per questo lo discutiamo.

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Un pregio di questo pamphlet è la coerenza e la chiarezza del messaggio, che ricorre tenace dalla prima all’ultima pagina: «In breve, nelle Beatitudini non troviamo l’insegnamento di Gesù sull’atteggiamento da assumere di fronte alle ricchezze… Ancor meno siamo invitati a pensare che secondo Gesù la povertà reale sarebbe un ideale che tutti i cristiani dovrebbero perseguire» (p. 20). Infatti, secondo Naud, la prima beatitudine di Matteo – beati i poveri in spirito – sarebbe la lode «dell’umiltà del cuore», e la natura di quella di Luca – beati i poveri – sarebbe «dare una parola di conforto a coloro che sono poveri di fatto, ricordando loro le promesse dell’al di là». Come se il Regno, promesso ai poveri come contenuto della beatitudine, non fosse invece qualcosa di molto concreto per l’al di qua, o che nell’Umanesimo biblico, di cui le beatitudini sono massima espressione, non esista una promessa di al di là che non inizi già ora nella storia. Commentando il brano del “giovane ricco”, poi coerentemente aggiunge: «È palesemente inopportuno presentare la povertà come un ideale per i cristiani». Perché «salvo vocazioni particolari ed eccezionali, non possiamo parlare della povertà come un valore da consigliare e da coltivare» (p. 25). Peccato che queste “vocazioni particolari” siamo quelle di frati, monaci, suore, consacrati, che per due millenni hanno costituito una pietra angolare della Chiesa e del mondo, hanno seguito i consigli evangelici, e tra questi la povertà. Come se essere un benedettino o una clarissa fossero “casi particolari” e un po’ strampalati da non imitare da parte della comunità ordinaria dei cristiani. E sorge la domanda: cosa sono le vocazioni consacrate nella Chiesa? Qualcosa di bizzarro, raccomandato solo a persone con personalità particolari, a eroi o folli? A questa sua analisi Naud associa anche il collega Jacques Dupont, che a proposito ancora delle beatitudini affermava: «Ma tale povertà, è realmente voluta, le se annette un valore, se ne fa un ideale? La risposta di Luca a questa domanda non può essere che un No categorico » (p. 80), perché, conclude Dupont, «Luca considera la povertà come un male». Quindi, la povertà sarebbe «un anti-valore» (p. 81). La prima beatitudine del discorso di Gesù avrebbe questo statuto di maledizione, che invece non avrebbero “la mitezza”, “la costruzione di pace”, la “persecuzione per la giustizia”, la “misericordia”, che la seguono. Alcune beatitudini buone, altre cattive. E perché? E su quali basi? Questo libro di Naud è interessante perché presenta tesi che stanno crescendo e acquistando forza e popolarità, dentro e fuori le Chiese cristiane. Naud e Dupont non sono i primi né saranno gli ultimi a scrivere queste parole tristi sulla povertà evangelica. Per questa ragione vanno prese sul serio, discusse e criticate in profondità. Sono sempre più, infatti, teologi e cristiani che in nome del vangelo, e spesso anche in buona fede, contribuiscono a colpevolizzare i poveri per la loro povertà, magari in nome della meritocrazia. Quando si disprezza la povertà si torna alle teologie economiche dell’antichità, contro le quali hanno lottato con tutte le loro forze Giobbe e Gesù.

Questa interpretazione della povertà mi lascia davvero molto perplesso. Non si capisce dove siano fondate nella Scrittura, nella tradizione, né nella vita della gente. Ignorano san Francesco, Teresa di Calcutta, e i tanti carismi che nella Chiesa ci hanno detto di scegliere la povertà come via concreta per incarnare il vangelo e le sue beatitudini.

Sono due millenni – e lo abbiamo scritto più volte su queste pagine – che il “discorso della montagna” resiste agli attacchi di chi cerca di ridicolizzarlo, di definirlo inutile, dannoso, una illusione, una consolazione. Questo è vero per tutte le beatitudini, ma è particolarmente evidente e forte per la beatitudine dei poveri. In tanti continuano a ripetere che «beati» non sono i poveri veri, ma i ricchi che vivono il distacco spirituale dalla loro ricchezza, chi usa i beni per il bene comune, chi li investe nelle imprese, o magari nella finanza. E così, anche quando diciamo cose condivisibili, ci allontaniamo dal semplicissimo e tremendo «beati i poveri » delle beatitudini. Non è certo facile capire quella beatitudine, forse perché è troppo semplice. Sarebbe necessario attraversare il suo terreno paradossale, scandaloso, ambivalente e quindi manipolatorio (ogni verità grande è grande perché si presta a essere manipolata: anche questa beatitudine è stata oltraggiata, abusata, usata contro i poveri, ma resta vera). Ancora più normale è stato ridurre o amputare questa folle felicità per farla rientrare nei nostri “letti” troppo più corti di quelli del vangelo. I paradossi della Bibbia, e della vita, non si risolvono riducendoli, ma cercando di avvicinarci alla loro grandezza.

Per capire qualcosa del paradosso della beatitudine dei poveri, dovremmo prendere molto sul serio la seconda parte della beatitudine, la sua promessa: il Regno dei cieli. Ogni beatitudine la si capisce se la leggiamo tutta, fino alla fine. I poveri sono beati perché sono abitanti del Regno dei cieli. Per questa ragione è la prima beatitudine, a fondare tutte le altre. Poveri erano gran parte dei discepoli di Gesù. Lo avevano incontrato sulle vie della Palestina, e poi lo avevano seguito restando poveri e beati. Mentre Gesù li guardava e chiamava beati abitavano già in quel Regno degli uomini e delle donne delle beatitudini: miti, puri, perseguitati, misericordiosi, affamati di giustizia, afflitti, poveri. Un Regno dove si conosce la provvidenza, che solo i poveri sperimentano davvero – una tipica “povertà” dei ricchi è l’indigenza di provvidenza. Nel dire «beati i poveri» Gesù parlava ai suoi, e parla ancora ai suoi, non a una élite speciale tra i suoi.

Chi non coglie la verità e il mistero di questa prima beatitudine semplicemente non entra nella logica del Regno dei cieli, e quindi resta sull’uscio del vangelo, della sua buona novella. Non tutti i cristiani e non tutti gli uomini scelgono «madonna povertà», ma tutti dovremmo almeno rispettarla e stimarla, e soffrire quando non riusciamo a liberarci dai nostri beni. Soffrire per non conoscere la stessa gioia di Francesco e dei suoi fratelli e sorelle. Di non assaporare quella fraternità cosmica, di non imparare quella libertà assoluta, di non potere baciare la bocca e le mani dei lebbrosi, di non conoscere quella perfetta letizia.

Non è obbligatorio essere poveri, neanche nella Chiesa. I ricchi non sono esclusi dai sacramenti, sono sovente lodati sui pulpiti e ringraziati anche dagli stessi poveri. Sono sempre stati parte, legittima e anche importante, delle comunità cristiane. Vivono più a lungo, hanno una migliore istruzione e salute, hanno maggiori confort. Ma non conoscono quella beatitudine dei poveri, non vedono le loro stelle più clarite et pretiose et belle. Sotto il nostro sole c’è anche questa forma di giustizia, ed è grande. Ma per capirla un po’, prima c’è bisogno di assaggiare qualche boccone di povertà vera, di averla sentita sulla propria carne, profonda e dolorosa. Solo un povero può ripetere «beati i poveri» senza manipolare quelle parole. Il libro di Giobbe ci aveva detto che il povero è innocente, nonostante tutti gli sforzi dei teologi del tempo di dimostrargli la sua colpa. Le beatitudini incontrano Giobbe e tutti i poveri e dicono loro una parola nuova e meravigliosa: «Non siete solo innocenti: siete anche beati». I mucchi di letame restano, ma dal giorno in cui quelle parole furono dette in Palestina, e poi scritte, è arrivata sulla terra anche la beatitudine.

La beatitudine della povertà è la prima, ma può arrivare tardi nella vita. Qualche volta è l’ultima beatitudine. Giunge dopo aver camminato molto, e se siamo nati tra le ricchezze e i comodi il cammino può essere molto duro e il suo finale incerto. Può essere necessaria tutta la vita per sentirsi dire alla fine: beato te, o povero. Tutti possiamo diventare abitanti di quel Regno, fosse soltanto nell’ultimo minuto. E, forse, soltanto lì capiremo che era proprio vero: «Beati voi poveri, perché vostro è il Regno dei cieli».

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01-02/11/2017

San Francesco Giotto ridNon è mai stato facile scrivere un’etica del denaro e dell’economia partendo dai vangeli. Riconoscere questa difficoltà, potrebbe in molti casi essere sufficiente per non iniziare un tale compito o fermarsi subito. Ma la tentazione di ricavare direttamente dal vangelo principi morali per l’economia della nostra società è molto forte, quasi invincibile. Qualche volta, anche chi legge questi libri sente un bisogno, anche questo invincibile, di scriverne una recensione, soprattutto se l’oggetto del libro sono i poveri e la povertà – che fanno spesso fatica a difendersi da soli dagli scrittori e dagli esperti. Ho fatto questa esperienza dopo la lettura di un piccolo libro di André Naud (1925-2002), Il vangelo e il denaro (Queriniana, pagine 88, euro 9,00), che è stato un docente canadese di teologia e filosofia, “perito” durante il Concilio Vaticano II. Autore di lavori teologici importanti. Il cui discorso sulla povertà evangelica, è, quanto meno, molto discutibile. E per questo lo discutiamo.

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«La povertà non è ideale». E se lo fosse?

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Editoriali - Proposte dei cattolici e non-ascolto

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 31/10/2017

48 SettimanaSociale Cagliari 2017 300x300A chi interessa ciò che il mondo cattolico vive, pensa, propone in ambito sociale ed economico? Dal silenzio imbarazzante dei media cosiddetti laici sui lavori e sulle proposte della 48ª Settimana Sociale dei cattolici italiani di Cagliari, si direbbe che interessi soltanto al mondo cattolico, ai suoi media, ai suoi giornali. E questa non è una bella notizia per l’Italia.

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Quattro intensi giorni di dibattito, mille rappresentanti, proposte concrete per cambiare e migliorare il mondo del lavoro, l’economia e la società, che non hanno dunque meritato la dignità per entrare tra i fatti e i temi segnalati all’attenzione dell’opinione pubblica. Le ragioni di questa grave distrazione sono molte. Tra queste, forse, l’apparente semplicità delle (utili e realizzabili) proposte avanzate e l’assenza di proposte più "profetiche" (come quelle, specialmente care anche a chi scrive, sull’«economia disarmata»), sulle quali il consenso all’interno del variegato mondo cattolico sarebbe stato probabilmente più difficile. O, forse, anche una serie di ospiti che stavolta non ha incluso personalità del mondo culturale laico italiano e internazionale. Altre volte e in altre sedi questo tipo di dialogo si era intessuto con particolare intensità, ma la disattenzione non era stata minore. Forse, dunque, per tutto ciò ci sono anche ragioni più profonde.

La prima ha a che fare con il bizzarro concetto di laicità che si è affermato nel nostro Paese. Le contrapposizioni ideologiche del XIX e del XX secolo, hanno generato una cultura dove è sufficiente che in un discorso compaiano le parole "Dio" o "Bibbia", perché vengano automaticamente classificate faccende private di un sotto-insieme del Paese, non abbastanza "laiche" per interessare tutti. Così, invece di intendere la vita democratica come la somma delle diversità civili, la si concepisce come una sottrazione per arrivare alla piccola zona comune fra tutti, che è sempre troppo piccola per la pubblica felicità che ha bisogno della «convivialità delle differenze» (Don Tonino Bello). La società perde biodiversità generativa, perché si eliminano le dimensioni più innovative e creative dei diversi mondi vitali.Ma se poi andiamo a scavare di più, troviamo qualcosa di ancora più puntuale. Ai cattolici, in realtà, si lascia un certo spazio e una certa libertà di esprimersi "in pubblico", ma soltanto su temi inseriti in una lista chiusa di argomenti "eticamente sensibili". Se si esce da questa lista, anche se la Chiesa e i cattolici parlano è come se non parlassero: non hanno "voce" in questi capitoli. Possono parlare di povertà, di vita (senza esagerare), un po’ di famiglia. Ma se iniziano a parlare di lavoro, di tasse, di scuola, addirittura di economia o di finanza, escono dalla lista bloccata e semplicemente vengono ignorati. Quindi, quando i cattolici si esprimono sui temi laicamente consentiti dalla lista si è legittimati, ma non ascoltati, perché considerati espressione di una visione culturale partigiana. Quando dicono la loro sui temi fuori lista, sono semplicemente bocciati perché fuori tema. Un segnale di questo è che tra le pochissime notizie di Cagliari che sono riuscite a passare tra le maglie di questa censura culturale, non sono le proposte concrete su economia e banche, ma il tema del lavoro domenicale, uno di quei pochissimi argomenti "economici" presenti nella lista degli argomenti non all’Indice, perché, si pensa, ha a che fare con il culto - e quindi non preso sul serio, non capendo così che la sfida della domenica è esattamente la libertà dai "faraoni" che vorrebbero che gli schiavi lavorassero sempre, e quindi l’essenza della democrazia.

Il mondo cattolico è tra le poche "agenzie globali" capaci, per vocazione, di portare avanti un discorso profetico sull’economia, sul lavoro, sulla finanza - e lo sta facendo, anche se pochi se ne accorgono, e le deve fare con sempre maggiore forza e profezia.

Ma la laicità delle lobby preferisce lasciarlo parlare 'soltanto' di fine vita e di assistenza – senza ascoltarlo –, e così tenerlo ben distante dall’economia e dalla finanza. Perché intuisce che se gli riconoscesse diritto di parola su questi temi, dovrebbe fare i conti con i dogmi della sua propria laica religione. La nostra società non ascolta la voce dei cristiani sul capitalismo perché il capitalismo del XXI secolo è diventato esso stesso una religione, con un culto severissimo che non ammette altri dèi al di fuori di esso. Il capitalismo non vuole il discorso religioso cristiano perché ha già il suo. Ma per capirlo ci vorrebbe proprio quella laicità che gli manca. Per questo, nonostante la disattenzione di media che vedono sempre più a stento e sempre più parzialmente il Paese reale, i cattolici devono continuare a occuparsi dei temi della lista e, soprattutto, di quelli fuori lista. Perché, con le parole di Paolo VI, «se il mondo si sente straniero al cristianesimo, il cristianesimo non si sente straniero al mondo».

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Editoriali - Proposte dei cattolici e non-ascolto

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 31/10/2017

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Difetto di laicità

Difetto di laicità

Editoriali - Proposte dei cattolici e non-ascolto di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 31/10/2017 A chi interessa ciò che il mondo cattolico vive, pensa, propone in ambito sociale ed economico? Dal silenzio imbarazzante dei media cosiddetti laici sui lavori e sulle proposte della 48ª Settim...
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Verso le Settimane Sociali dei cattolici - Il lavoro non può finire né ridursi perché è amore e cooperazione. Quando lavoriamo la nostra intelligenza si esalta. E sul lavoro fonderemo ancora la nostra democrazia

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/10/2017

Lavoro di domani Avvenire ridÈ ormai diventato comune tratteggiare scenari cupi sul lavoro di domani. È urgente discuterli e, possibilmente, arricchirli e rettificarli, perché il lavoro oggi ha bisogno soprattutto di sguardi generosi e di parole realiste ma piene di speranza. Sociologi, filosofi, giornalisti, futurologhi, continuano a ripeterci che di lavoro ce ne sarà sempre meno, che nell’età di internet e dell’intelligenza artificiale dobbiamo rassegnarci a lasciare fuori dal lavoro più o meno la metà della gente in età lavorativa. Saranno le macchine a lavorare per noi, noi semplicemente faremo altro, e sopravvivremo grazie alla grande produttività dei robot che consentirà a tutti di ricevere una somma di denaro sufficiente per vivere. I più abili e formati lavoreranno in sinergia con i computer, e faranno funzionare perfettamente il sistema economico, che sarà talmente perfetto da non aver più bisogno di noi.

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In fondo, qualcuno aggiunge, nelle civiltà passate, i lavoratori veri e propri sono stati sempre pochi: la maggior parte della popolazione era infatti composta da cortigiani, nobili, monaci e religiosi, mendicanti, malati, servi, schiavi, o donne che non erano nel 'mercato del lavoro' (anche se hanno lavorato sempre più di tutti). Altri scenari già più positivi immaginano – sempre in un quadro di un lavoro sempre più scarso – che dovremo ridistribuire il lavoro rimasto, lavorando tutti meno per poter lavorare tutti. La settimana lavorativa si ridurrà cosi a 15 o al massimo 20 ore. Lavorare come attività prevalente delle persone adulte, sarebbe stata una fase storica durata più o meno un secolo e mezzo in Occidente, e presto torneremo nella situazione che ha caratterizzato l’umanità per millenni. Una eccezione, una parentesi, una eclisse, una anomalia.

Se questo paesaggio fosse davvero l’unico o soltanto quello più probabile, dovremmo davvero essere molto preoccupati. Ma, grazie a Dio, sulla linea dell’orizzonte ci sono colori meno cupi, che fanno pensare e sperare che il tempo di domani sarà bello.

Innanzitutto, dovremmo capire un po’ meglio che cosa è diventato il lavoro in questo secolo e mezzo diverso della traiettoria dell’Occidente. Il lavoro come lo conosciamo oggi non è il frutto di una evoluzione graduale nei secoli passati. No, il lavoro moderno è soprattutto una invenzione, una immensa innovazione arrivata da una congiunzione astrale di molti elementi: l’Umanesimo, il cattolicesimo sociale, la Riforma protestante, il movimento socialista, la cooperazione, i movimenti sindacali, le ferite dei fascismi e delle guerre. Grazie a tutto ciò, in quel breve lasso di tempo il lavoro ha dato vita alla più grande cooperazione che la vicenda umana abbia mai conosciuto nella sua lunga storia. Lavorando, e riempiendo il mondo del lavoro di diritti e di doveri, abbiamo creato una rete sempre più vasta fino a coprire quasi tutto il mondo. I prodotti e i servizi che popolano la nostra vita sono il frutto di una cooperazione di milioni e milioni di persone. Perché io possa scrivere e voi possiate leggere questo articolo, c’è bisogno della cooperazione di decine di migliaia di persone, se non di più – dalla redazione del giornale, alle tipografia, le spedizioni, gli aerei e i treni che trasportano le copie, tutta la rete distributiva, l’energia elettrica, la rete internet, l’industria della carta... Non è una cooperazione romantica né carina: a volte lavorare è duro, durissimo, si muore anche lavorando, e si muore anche perché il lavoro è serio e tremendo come lo è la vita. La democrazia è anche questo, una immensa, implicita, forte, capillare, azione congiunta, che moltiplica le opportunità e la biodiversità economica e civile della terra. Il mercato è questa grande cooperazione, anche quando prende la forma della concorrenza – cooperiamo anche competendo, in modo corretto e leale, sui mercati: uno degli errori teorici e pratici più gravi è contrapporre concorrenza a cooperazione.

Imparando a lavorare, e a lavorare con gli altri, abbiamo orientato le nostre energie e la nostra creatività in modo che potessero fiorire pienamente, e raggiungere e servire un numero sempre maggiore di persone. Noi abbiamo molti modi per esprimere la nostra intelligenza, creatività, amore; ma quando lavoriamo la nostra intelligenza-creatività-amore si esalta, si sublima. Diventa qualcosa di meraviglioso.

Mozart ha fatto molte cose nella sua vita, ma quando componeva Mozart era Mozart davvero. Il mio amico Vittorio faceva molte cose, di qualità diversa, ma quando riparava le auto era veramente Vittorio. E io ho imparato a conoscerlo quando ho cominciato a guardarlo lavorare, perché quando lavorava, nella fatica e con le dita nerissime, la sua personalità fioriva, e la sua anima più vera si svelava. Lavorare è anche un modo adulto di amare, un modo serio e vero che abbiamo di contribuire al bene nostro e a quello degli altri. Se un giorno tornasse qualcuno dal passato e mi chiedesse: 'ho solo due ore, mostrami la cosa migliore che avete fatto voi umani in questi secoli', non lo porterei in un museo, né in una chiesa: lo porterei con me in una impresa, in una fabbrica, dove la gente sta dando vita ad una grande azione collettiva generativa (e poi salutandolo gli leggerei una poesia che non conosce: l’arte è una alta forma di lavoro). Abbiamo sconfitto mille malattie, siamo arrivati fino a Marte, semplicemente lavorando, e lavorando molto. E se domani riusciremo a sconfiggere le altre mille malattie, a sfamare tutti, a far studiare bene tutti i bambini e i giovani della terra, lo faremo soltanto lavorando, lavorando molto, lavorando meglio, lavorando insieme.

Noi esseri umani, non sappiamo fare di meglio sotto il sole. Se, allora, dovessimo smettere di lavorare, o lavorare troppo poco, il vero rischio è che orienteremo le nostre energie in attività meno appassionanti, serie, responsabili, difficili, sfidanti, del lavoro, e, forse, riprenderemo ad esercitarci troppo nell’arte della guerra.

Non è vero che il lavoro finirà. Chi lo dice sottovaluta l’intelligenza, la creatività e l’amore delle donne e degli uomini. Faremo lavori diversi, molti più servizi e meno catene di montaggio, ma continueremo a lavorare, a cooperare a volerci bene lavorando. E domani benediremo la tecnologia che ci ha liberato da lavori poco interessanti per poterne fare di migliori. Siamo stati capaci di produrre macchine e robot così intelligenti da poter fare (quasi) a meno di noi, perché abbiamo lavorato molto, insieme, e abbiamo messo nel lavoro la nostra intelligenza migliore. Finché ci sarà qualcuno che si inventerà qualcosa per soddisfare il bisogno di un altro, finché creeremo occasioni sempre nuove di mutuo vantaggio, il lavoro non finirà. E la nostra vera ricchezza delle nazioni continuerà ad essere la somma dei rapporti mutuamente vantaggiosi che riusciamo a immaginare e poi a realizzare. Finché ci guarderemo gli uni gli altri come portatori di bisogni e di desideri non ancora espressi, e utilizzeremo la nostra meravigliosa intelligenza e il nostro amore creativo, ci sarà lavoro: per tanti, forse per tutti.

Lavoreremo diversamente, ma continueremo a lavorare. Non abbiamo niente di meglio da fare.

Continueremo ad esseri fondati sul lavoro, e sul lavoro a fondare la nostra democrazia.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/10/2017

Lavoro di domani Avvenire ridÈ ormai diventato comune tratteggiare scenari cupi sul lavoro di domani. È urgente discuterli e, possibilmente, arricchirli e rettificarli, perché il lavoro oggi ha bisogno soprattutto di sguardi generosi e di parole realiste ma piene di speranza. Sociologi, filosofi, giornalisti, futurologhi, continuano a ripeterci che di lavoro ce ne sarà sempre meno, che nell’età di internet e dell’intelligenza artificiale dobbiamo rassegnarci a lasciare fuori dal lavoro più o meno la metà della gente in età lavorativa. Saranno le macchine a lavorare per noi, noi semplicemente faremo altro, e sopravvivremo grazie alla grande produttività dei robot che consentirà a tutti di ricevere una somma di denaro sufficiente per vivere. I più abili e formati lavoreranno in sinergia con i computer, e faranno funzionare perfettamente il sistema economico, che sarà talmente perfetto da non aver più bisogno di noi.

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Il lavoro di domani sarà bello

Il lavoro di domani sarà bello

Verso le Settimane Sociali dei cattolici - Il lavoro non può finire né ridursi perché è amore e cooperazione. Quando lavoriamo la nostra intelligenza si esalta. E sul lavoro fonderemo ancora la nostra democrazia di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 19/10/2017 È ormai diventato comune tratte...
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Opinioni - L’economia che mette al centro la dignità della persona. Non rendite e assistenza, ma reciprocità e responsabilità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/05/2017

Sul confine e oltre 07 ridUscire dalle trappole di povertà è stato sempre estremamente difficile. E questo perché la povertà economica si manifesta come una assenza di reddito, ma quel reddito che manca dipende da una carenza di capitali: capitali sociali, relazionali, familiari, educativi, etc. E quindi se non agisco sul piano dei capitali, i flussi di reddito non arrivano, e se arrivano si disperdono, non fanno uscire le persone dalla condizione di povertà, e non di rado la peggiorano – quando quel denaro finisce nei posti sbagliati, come le slotmachines e i gratta-e-vinci.

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Tutto questo il carisma francescano lo ha sempre saputo, e lo sa ancora. Nelle varie forme che ha assunto la cura francescana delle povertà, una grande attenzione è stata sempre riservata ai capitali delle persone e delle comunità, che sono sempre azioni, investimenti e accumulazioni che durano anni, e sono sempre molto costosi e dall’esito incerto. Senza prendere sul serio questa dimensione della sapienza francescana, non capiamo come mai dai frati dell'Osservanza nacquero nella seconda metà del '400 i cosiddetti monti di Pietà, delle proto-banche di micro-credito che avevano l'obiettivo di far uscire i poveri da condizioni di vulnerabilità economica. Vale la pena parlarne e offrire un contributo al dibattito nel momento in cui nel sostenere il "reddito di cittadinanza" il Movimento 5 Stelle si è accostato ai francescani. Quei francescani, non diedero vita a degli enti assistenziali (potevano farlo e tanti lo facevano) ma a dei contratti, a dei prestiti, che impegnavano i beneficiari alla responsabilità e quindi alla restituzione del prestito. Erano certamente istituzioni umanitarie perché avevano come scopo la lotta alla povertà e l’inclusione sociale, ma quel carisma suggerì loro strumenti più sofisticati dell’elemosina, strumenti basati sul registro della reciprocità.

Sta proprio nella reciprocità la questione decisiva, che coinvolge le povertà e coinvolge il lavoro. Quando una persona fuoriesce dalla rete di rapporti di reciprocità di cui è composta la vita civile e economica e si ritrova senza lavoro e quindi senza reddito, la malattia che si crea nel corpo sociale è la rottura di relazioni di reciprocità. Il reddito da lavoro (stipendi, salari) è il risultato di una relazione tra persone o istituzioni legate da vincoli reciproci: A offre una prestazione lavorativa a B, e B ricambia offrendo reddito ad A. Quando, invece, i redditi non nascono da rapporti mutuamente vantaggiosi, abbiamo a che fare con relazioni sociali malate o quantomeno parziali, che si chiamano rendite o assistenza, dove i flussi di reddito sono sganciati da relazioni reciproche. Ecco perché la tradizione francescana affermava che ‘quando c’è un povero in città è tutta la città che è malata’, perché un membro del corpo sociale si isola dal flusso che lo lega a tutti gli altri, e inizia la cancrena.  

Si comprende allora che il principale rischio nei processi di lotta alla povertà, si annida proprio nel trascurare la dimensione della reciprocità. Quando percepisco un reddito senza che prima o simultaneamente ci sia una mia prestazione a vantaggio di qualcun altro, quel reddito raramente mi aiuta ad uscire dalle trappole in cui mi trovo, perché continuo ad essere un povero con un po’ di reddito per sopravvivere. Per lasciare la condizione di povertà, per affrancarmi dall’indigenza, devo reinserirmi in rapporti sociali di mutuo vantaggio. Tutti sappiamo che 500 euro ottenuti lavorando e 500 euro ottenuti grazie a un assegno sociale, sono due faccende completamente diverse: sembrano uguali ma è il sapore della dignità e del rispetto ad essere molto diverso. Il primo reddito è espressione di una relazione che l’economista napoletano Antonio Genovesi chiamava di “mutua assistenza”; il secondo assomiglia molto alla mancia che diamo a un figlio prima che inizi a lavorare, e nessuno genitore responsabile vuole che il figlio sopravviva per molto tempo con le mance che gli dà. E’ allora molto francescano l’articolo 1 della Costituzione italiana, che fonda la nostra democrazia sul lavoro. In una società in cui i poveri erano molti più di oggi, la Costituzione ha voluto indicare l’unica via civile possibile alla lotta alla povertà: il lavoro, la grande rete che ci lega gli uni con gli altri in rapporti di pari dignità.

Inoltre, se la povertà è assenza di capitali che si esprime in assenza di reddito, i capitali più importanti non sono faccende individuali ma comunitarie e sociali. E quindi i beni pubblici e i beni comuni sono parte integrante della ricchezza e dei capitali delle persone, che pesano come e più del conto in banca.

Quando vedo una persona in condizione di povertà, se voglio veramente curarla, debbo sanare le sue relazioni, perché la povertà è una serie di rapporti malati. Il lavoro per tutti è la terra promessa della Costituzione, molto più esigente del reddito per tutti. Una promessa-profezia che oggi assume un significato ancora più importante di allora, perché c’è una ideologia globale crescente che nega la possibilità di lavoro per tutti, nel tempo della robotica e dell’informatica. La vera minaccia che è di fronte a noi è rinunciare a fondare le democrazie sul lavoro, accontentandoci di società nelle quali lavorano il 50 o 60% delle persone in età attiva e a tutti gli altri verrà consentito di sopravvivere con un reddito di cittadinanza, dando vita ad una vera e propria società dello scarto, magari scambiata come solidarietà. Questa terra del lavoro parziale non può, non deve essere la terra promessa.

Chi oggi, allora, continua a pensare di combattere la povertà con qualche centinaia di euro erogati ai singoli individui, dimentica la natura sociale e politica della povertà, e ricade in visioni individualistiche e non-relazionali. Per combattere le antiche e nuove povertà dobbiamo riattivare la comunità, le associazioni della società civile, la cooperazione sociale, e tutti quei mondi vitali nei quali le persone vivono e fioriscono.

Infine, Francesco d’Assisi oggi ci direbbe, forse, due altre cose. La prima riguarda la parola povertà: Francesco la chiamava ‘sorella’, la vedeva come una strada di felicità e di vita buona. I francescani hanno scelto liberamente la povertà per liberare chi la povertà non l’ha scelta ma la subisce. Sapevano che non tutte le povertà sono cattive, perché la povertà è anche una parola del vangelo: ‘beati i poveri’. E quindi oggi userebbero parole diverse per la povertà cattiva e non scelta (esclusione, indigenza, vulnerabilità economica …), e ci aiuterebbero a stimare la bella povertà scelta nella condivisione e nella sobrietà generosa. Infine, ci ricorderebbero che la prima cura della povertà è l’abbraccio del povero. Francesco iniziò la sua vita nuova abbracciando e baciando il lebbroso a Rivotorto. Possiamo immaginare mille misure contro la ‘povertà’, possiamo dare loro reddito e far nascere nuove istituzioni che se ne occupino, ma se non torniamo a guardare e abbracciare i poveri delle nostre città, siamo molto lontani da Francesco e dalla sua fraternità.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/05/2017

Sul confine e oltre 07 ridUscire dalle trappole di povertà è stato sempre estremamente difficile. E questo perché la povertà economica si manifesta come una assenza di reddito, ma quel reddito che manca dipende da una carenza di capitali: capitali sociali, relazionali, familiari, educativi, etc. E quindi se non agisco sul piano dei capitali, i flussi di reddito non arrivano, e se arrivano si disperdono, non fanno uscire le persone dalla condizione di povertà, e non di rado la peggiorano – quando quel denaro finisce nei posti sbagliati, come le slotmachines e i gratta-e-vinci.

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Lavoro e povertà: la vera lezione dei francescani

Lavoro e povertà: la vera lezione dei francescani

Opinioni - L’economia che mette al centro la dignità della persona. Non rendite e assistenza, ma reciprocità e responsabilità di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 24/05/2017 Uscire dalle trappole di povertà è stato sempre estremamente difficile. E questo perché la povertà economica si manif...
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Salutiamo con questo articolo il prof. Giacomo Becattini che si è spento stamattina a Firenze. Luigino Bruni lo ricorda come: «uno degli ultimi economisti umanisti europei, grande maestro di una economia viva, civile, vera, storica, italiana, territoriale»

di Luigino Bruni

Pubblicato su Avvenire "Agorà sette - libri" l'8/01/2016

Logo Agorà sette libriGiacomo Becattini è un economista che ha generato novità nella teoria e nella politica economica del nostro Paese, e non solo. Oggi, vicino ai novant’anni, pubblica un libro (La coscienza dei luoghi, Donzelli, 2015 Ndr) che condensa in poco più di duecento pagina la saggezza di una intera vita. Becattini è un economista rappresentativo della migliore tradizione italiana ed europea di storia del pensiero. Pochi economisti hanno saputo essere tutti locali e tutti globali: senza l’osservazione delle dinamiche dei distretti di Prato e di Carrara non avremmo le teorie di Becattini, ma pochissimi intellettuali italiani hanno influenzato come lui i dibattiti di politica industriale in vari Paesi del mondo.

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Un economista che è stato un grande perché non è stato solo economista: geografia, urbanistica, storia economica e delle idee, politica, agraria, sono tra le materie toccate e arricchite da Becattini. È un economista "impuro", per usare le parole di un altro suo maestro, Maffeo Pantaleoni, che, diversamente da Pareto e in linea con la tradizione italiana più feconda, non ha creduto ai purismi di teorie troppo astratte per essere utili alla società, e ha mescolato strumenti, linguaggi, La coscienza dei luoghi ridculture, per non rimandare alle "seconde approssimazioni" la realtà che se persa da subito è persa per sempre.

Dove si trovano le novità della ricerca di Becattini, che in questo libro ritroviamo con chiarezza? Ruotano attorno all’idea di "distretti industriali". È vero che l’idea e l’espressione le troviamo anche nelle opere dell’ultimo quarto del secolo XIX di Alfred Marshall, ma Becattini li ha risuscitati dai sepolcri dove le aveva confinate l’economia ufficiale, facendole diventare altro. Ci ha spiegato che l’economia dei distretti è parte migliore dell’economia e della società Italia, dove si esprime il lato luminoso del modello comunitario italiano. In anni nei quali gli studiosi parlavano dell’Italia come paradigma di familismo amorale, di legami sociali che imbrigliavano il nostro capitalismo "relazionale", di nanismo delle imprese familiari e di insufficienza di capitale manageriale, Becattini ha raccontato un’altra storia, ha composto una musica in controcanto. Quando tutti vedevano il futuro dell’economia italiana nel "grande, lontano, anonimo", Becattini continuava a ripetere che è la foresta non il singolo albero a determinare lo sviluppo economico. Che erano le piccole imprese dentro i distretti a rappresentare il tesoro dell’Italia, che non erano residuo di un passato finito ma caparra di un futuro possibile. Oggi i dati gli danno ragione, perché sono stati e sono i distretti delle scarpe, della moda, dei motori, dei mobili che hanno saputo Giacomo Becattiniinnovare e reggere l’impatto devastante del capitalismo finanziario. Ci ha salvato «quella parte dell’economia italiana che: a) affonda le sue radici nelle nostra storia; b) è stata capace, nella seconda metà del XX secolo, di coprire con i suoi prodotti (il Made in Italy e la nostra straordinaria meccanica) il deficit strutturale della nostra bilancia commerciale, gravato, in particolare, dalle carenze di fonti energetiche; c) è meno agganciata ai poteri forti, finanziari e politici, del nostro Paese». (p. 17).

La visione dell’economia di Becattini parte dal grande concetto di «vocazioni economiche dei luoghi», sulla loro «coralità produttiva» (bellissima sua espressione). L’economia vive di spirito, di carattere regionale, di passioni: se l’Emilia ha generato un distretto dei motori che è eccellenza mondiale, ciò dipende prima di tutto dall’amore di quegli emiliani per i motori. E il giorno in cui finisse questa passione, subito dopo finirebbe anche il business. Per scoprire queste vocazioni Becattini guarda quindi alla storia, alle relazioni tra le persone e tra le imprese, all’«intimità dei territori»: sono le relazioni a essere produttive. I luoghi, non gli individui, diventano nell’economia becattiniana la prima unità di osservazione per il benessere e per lo sviluppo, e così ci accorgiamo che la creazione del valore dipende da troppi elementi extra-aziendali. Se l’alveare non produce più miele, occorre tornare a guardare alle piante e ai fiori nel territorio.

L’ambiente e la terra riacquistano così la loro centralità dimenticata innanzitutto dalla teoria economica: «La politica di conservazione dei laghi non può essere definita solo in funzione della loro pescosità, ma anche della difesa dell’esperienza lacustre, nella sua interezza, per le future generazioni di pescatori e frequentatori del lago» (p. 114). Una visione di una eco-economia integrale che piacerebbe molto a Papa Francesco.

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Salutiamo con questo articolo il prof. Giacomo Becattini che si è spento stamattina a Firenze. Luigino Bruni lo ricorda come: «uno degli ultimi economisti umanisti europei, grande maestro di una economia viva, civile, vera, storica, italiana, territoriale»

di Luigino Bruni

Pubblicato su Avvenire "Agorà sette - libri" l'8/01/2016

Logo Agorà sette libriGiacomo Becattini è un economista che ha generato novità nella teoria e nella politica economica del nostro Paese, e non solo. Oggi, vicino ai novant’anni, pubblica un libro (La coscienza dei luoghi, Donzelli, 2015 Ndr) che condensa in poco più di duecento pagina la saggezza di una intera vita. Becattini è un economista rappresentativo della migliore tradizione italiana ed europea di storia del pensiero. Pochi economisti hanno saputo essere tutti locali e tutti globali: senza l’osservazione delle dinamiche dei distretti di Prato e di Carrara non avremmo le teorie di Becattini, ma pochissimi intellettuali italiani hanno influenzato come lui i dibattiti di politica industriale in vari Paesi del mondo.

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Becattini: vocazione «local»

Becattini: vocazione «local»

Salutiamo con questo articolo il prof. Giacomo Becattini che si è spento stamattina a Firenze. Luigino Bruni lo ricorda come: «uno degli ultimi economisti umanisti europei, grande maestro di una economia viva, civile, vera, storica, italiana, territoriale» di Luigino Bruni Pubblicato su Avvenire "...
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Opinioni - E la preghiera ci rivelò la città

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 2/11/2016

Norcia preghiera SanbenedettoTra le moltissime immagini che accompagnano le nostre tante tragedie, ce ne sono alcune che spiccano, che si impongono per forza propria. Qualche volta una emerge su tutte le altre, perché alimenta riflessioni, svelando l’anima profonda di quanto è accaduto e che le parole non riescono ancora a dire. Nel terremoto di domenica 30 ottobre – che mi ha colto mentre passavo in auto sotto Arquata – la foto di quel piccolo gruppo di cittadini di Norcia, inginocchiati con le suore e i monaci davanti alle macerie della basilica di San Benedetto, è diventata l’icona di questo nuovo, indicibile, dolore. Marina Corradi lo ha scritto ieri, qui, con grande intensità.

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Mentre la terra ancora tremava e nessuno poteva sapere la gravità di quanto era appena accaduto, mentre si fuggiva, si gridava, si cercavano e si chiamavano famigliari e amici, qualcuno si è fermato, è caduto in ginocchio di fronte a una chiesa che non c’era più, ma che continuava ad esserci. In quel piccolo gruppo di cristiani oranti di fronte a un mucchio di macerie abbiamo rivisto molte cose, tutte molto importanti. Innanzitutto tra quelle persone c’erano anche alcune suore di clausura. Molte altre volte, durante e dopo le scosse, quelle suore avranno pregato nel loro convento, ma non le avevamo viste. Quella scossa più forte e il crollo delle mura le ha portate in mezzo alla città, e la piazza è diventata il luogo della preghiera. E tutti le abbiamo viste, insieme ai monaci, alla gente, in ginocchio. E abbiamo capito, abbiamo rivisto, alcuni dopo tanti anni, altri per la prima volta, che cosa significa saper pregare, che cosa significa aver appreso per anni, decenni, l’arte della preghiera.

Mentre tutto si muove, qualcuno, per vocazione, si ferma, si inginocchia, alza le mani, e prega. Come Mosè durante la battaglia, come Maria e le donne sotto la croce. Come se quell’evento drammatico avesse squarciato il velo, consentendoci di vedere un pezzo vivo della città, che nei tempi non tremendi non riusciamo più a vedere. Domenica mattina l’abbiamo vista, l’abbiamo vista tutti. E tutti l’abbiamo capita, credenti e no. Tutti abbiamo ringraziato quel manipolo di persone per non aver dimenticato di pregare. Quando la vita ci mette tutti in ginocchio, possiamo stare in ginocchio e basta o possiamo restare in ginocchio e pregare. Ma per pregare mentre la terra trema occorre averlo fatto tutti i giorni, tutta la vita.

Non si improvvisano mai le preghiere, tantomeno quando tutto crolla. E così abbiamo tutti capito che quando in città c’è qualcuno che ha imparato a pregare e lo fa ogni giorno, per anni, per tutta la vita, quella città è più ricca. Ha un bene pubblico in più, di valore inestimabile. Anche se non lo vediamo, anche se abbiamo dimenticato di vederlo, anche se chiamiamo le suore 'suorine', e non le stimiamo più come meritano, e persino le prendiamo in giro per la loro scelta di vita, perché abbiamo dimenticato l’estrema serietà e dignità di un salmo recitato a memoria, di una Ave Maria, di un Eterno riposo, di una vita spesa per essere il cuore vivo e invisibile di una comunità, e quindi del mondo.

Ma in quel drappello di inginocchiati c’è un altro messaggio. Il luogo della preghiera è anche la piazza. I carismi sono faccende pubbliche, politiche, economiche, civili, e non vogliamo aspettare il prossimo terremoto per vedere ancora suore e frati pregare nelle nostre piazze. La 'messa in sicurezza' delle nostre splendide città e cittadine appenniniche non sarà mai completa e solida se non rimetteremo anche fondamenta spirituali. Si piange di fronte a queste macerie, si alzano lamenti davanti ai nostri 'muri del pianto', perché quelle chiese erano le mura vere delle nostre città. Nella basilica di San Benedetto c’erano, ancora custoditi, anche i pesi e le misure dei mercanti: quella fede ci ha insegnato anche la fiducia nei commerci, quel credere ha fondato il buon credito. Senza religione, spiritualità, preghiera i nostri avi non avrebbero mai costruito Norcia, Visso, Preci ( nomen omen), perché quelle città sono nate e sono vissute per secoli anche e soprattutto di cristianesimo. Saremo capaci di ricostruire chiese e non musei, città e non parchi turistici, solo se siamo capaci, oggi, di capire il valore civile di quel piccolo gruppo di persone in ginocchio di fronte a un cumulo di pietre.

La prima risorsa per ricostruire dopo i terremoti è l’anima collettiva dei luoghi. Gli abitanti di quelle città lo sanno. Non sempre riusciamo a dirlo, ma quando si tocca col ginocchio una terra che trema, improvvisamente ci accorgiamo che non lo abbiamo dimenticato del tutto, non lo abbiamo dimenticato tutti. Un 'resto' è ancora vivo, segno e speranza che tutto il popolo tornerà. Questo lo sappiamo tutti, ma i portatori di carismi lo sanno di più, per vocazione, per compito di bene comune. Pensavamo di averlo dimenticato. Domenica lo abbiamo ricordato. Impareremo di nuovo a pregare, in ginocchio, di fronte alle macerie delle nostre chiese e delle nostre vite, per ricominciarle, per ritrovarle?

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Opinioni - E la preghiera ci rivelò la città

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 2/11/2016

Norcia preghiera SanbenedettoTra le moltissime immagini che accompagnano le nostre tante tragedie, ce ne sono alcune che spiccano, che si impongono per forza propria. Qualche volta una emerge su tutte le altre, perché alimenta riflessioni, svelando l’anima profonda di quanto è accaduto e che le parole non riescono ancora a dire. Nel terremoto di domenica 30 ottobre – che mi ha colto mentre passavo in auto sotto Arquata – la foto di quel piccolo gruppo di cittadini di Norcia, inginocchiati con le suore e i monaci davanti alle macerie della basilica di San Benedetto, è diventata l’icona di questo nuovo, indicibile, dolore. Marina Corradi lo ha scritto ieri, qui, con grande intensità.

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Norcia, le macerie e quel grande «bene comune»

Norcia, le macerie e quel grande «bene comune»

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Premio alla «teoria dei contratti», semplice e disastrosa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire l'11/10/2016

Oliver Hart Bengt Holmstroem ridLa cultura del contratto è la grande vincitrice del nostro tempo di troppi poveri perdenti. Si è sviluppata sulle ceneri della cultura del patto, che era stata la colonna portante dell’edificio famigliare, civile e politico delle generazioni passate. Fino a pochi decenni fa, il regno del contratto era importante ma delimitato, perché la gran parte della vita della gente era retta dal registro del patto (famiglia, amicizia, politica, religione, lavoro ...).

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Patti e contratti hanno convissuto per molti secoli, erano strumenti complementari per la vita sociale. Fino a quando la globalizzazione dei mercati e della finanza e l’emergere di un ethos dove ogni legame è vissuto come un laccio per l’individuo, hanno decretato la trasformazione progressiva di tutti i patti in contratti. Il patto è (era) un fatto comunitario e simbolico. Non nasce dal solo registro dell’interesse personale, ma ha nella gratuità, nel perdono, nei legami e negli interessi collettivi i suoi elementi costitutivi. Matrimoni, cooperative, città, costituzioni, il lavoro, erano patti e non contratti – e sino a quando “vivono”, lo sono ancora. I contratti piacciono molto all’individuo postmoderno perché gli appaiono come “relazioni umane senza ferita”, cioè rapporti con costi “di attivazione” e “di uscita” molto bassi, certamente più bassi dei costi dei patti.

E così il contratto sta velocissimamente sostituendo il patto nella famiglia, nella scuola, nella sanità, nel “mercato del lavoro”, presentandosi come l’unico strumento davvero liberale e civile per regolare i rapporti umani, possibilmente tutti. Si capisce allora perché il Comitato per l’assegnazione del premio Nobel per l’economia, nel premiare ieri gli economisti Oliver Hart e Bengt Holmström, abbia motivato la scelta dei vincitori dicendo che il loro lavoro sulla teoria dei contratti copre oggi una area sempre più vasta, «dalla regolamentazione dei fallimenti delle imprese, fino al disegno delle costituzioni».

La teoria economica dei contratti è infatti ormai diventata una grammatica universale per disegnare i rapporti umani non solo nelle imprese, ma anche nelle università, nella politica, e sempre più in ogni forma di organizzazione. Questo l’Accademia Reale delle scienze di Svezia mostra di saperlo molto bene. Ma ciò che forse non sa, o non dice, è che la teoria dei contratti sta cambiando profondamente il nostro modo di stare insieme al mondo, e non in meglio. Essa, infatti, veicola una ben precisa visione dell’uomo e una sempre più invadente e influente ideologia, che si basa su alcuni assiomi-dogmi tutt’altro che eticamente neutri. Il principale e più potente è la teoria dell’incentivo, secondo la quale se lo paghi in modo adeguato e sofisticato puoi ottenere praticamente tutto da ogni essere umano.

E quindi tutte le altre motivazioni non monetarie e non auto-interessate degli esseri umani non vanno prese sul serio perché non sono credibili né affidabili. Il lavoratore o il cittadino – secondo questa teoria economica – non lavora bene perché attribuisce un valore in sé al lavoro ben fatto, ma solo se adeguatamente remunerato. E dopo decenni durante i quali gli economisti hanno continuato a pensare, scrivere, e a insegnare tutto ciò, è sempre più difficile trovare qualcuno che pensi che la prima motivazione che spinge una persona a lavorare bene sia la sua etica professionale o il proprio dovere.

Un effetto collaterale di questa neopremiata teoria dei contratti, è presentare tutti i rapporti umani come rapporti liberi tra pari (come contratti, appunto). Siamo quindi all’eclissi del grande tema del potere, che viene declinato come una semplice questione di giusti incentivi. Tutto semplice, troppo semplice. Un semplicismo fondato sul grande vulnus di un forte riduzionismo antropologico, di cui la teoria dei contratti è massima espressione.

La complessità motivazionale, simbolica, relazionale, spirituale delle persone è lasciata sullo sfondo. Si dipingono uomini e donne troppo semplificati, si costruiscono contratti reali a misura di questi “omuncoli economici”, e alla fine finiamo anche per credere di essere veramente come ci vede un’economia che insegue l’antica utopia di ridurre le relazioni umane a una questione di tecnica, e perciò eticamente neutrale, universale, astratta.

E inutile, se non fosse manipolatoria. Allora, la domanda vera diventa: siamo sicuri che oggi, mentre ne continuiamo a pagare le conseguenze disastrose, fosse opportuno premiare i maggiori rappresentanti di questa teoria economica e finanziaria che viene presentata come una semplice “scatola di strumenti”? Forse, se vogliamo che la gente torni amica della teoria economica e la teoria economica si dimostri amica della gente, servono economisti più umanisti e meno tecnicisti. Studiosi che alla domanda: «Cosa ti ha spinto a diventare economista?», potrebbero dare risposte simili a quella che diede quasi un secolo fa il grande (e dimenticato) Achille Loria: «Il dolore umano».

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Premio alla «teoria dei contratti», semplice e disastrosa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire l'11/10/2016

Oliver Hart Bengt Holmstroem ridLa cultura del contratto è la grande vincitrice del nostro tempo di troppi poveri perdenti. Si è sviluppata sulle ceneri della cultura del patto, che era stata la colonna portante dell’edificio famigliare, civile e politico delle generazioni passate. Fino a pochi decenni fa, il regno del contratto era importante ma delimitato, perché la gran parte della vita della gente era retta dal registro del patto (famiglia, amicizia, politica, religione, lavoro ...).

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Un Nobel all'economia che accumula ceneri

Un Nobel all'economia che accumula ceneri

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Commenti - Dopo le Olimpiadi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/08/2016

Le Olimpiadi non sono un evento sportivo come tutti gli altri. Non lo sono mai state. Non sono i campionati mondiali di calcio, non sono Wimbledon, non sono il Tour de France. Non sono questo; o almeno non lo erano, perché in questa trentunesima edizione di Rio de Janeiro (tra l’altro ottima per molte cose), è iniziato, o quantomeno decollato, un tentativo di loro assimilazione allo sportbusiness dell’attuale capitalismo. In una società sempre più orientata al mercato, per lungo tempo le Olimpiadi sono state una zona franca protetta dalla logica del profitto. Il tennis, il calcio, il ciclismo, il basket, il golf – cioè, appunto – gli sport più 'di mercato', non erano gli eventi più importanti, perché le Olimpiadi erano altro.

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Il business è stato sempre molto importante (basta vedere il medagliere che corrisponde quasi perfettamente al G8 o G20), ma è stato a lungo inserito all’interno di simboli e di valori diversi e più grandi. Il rapporto tra mercato e sport è particolarmente importante e delicato. Lo sport è un ambito che confina con il mercato, al punto da rischiare di non vedere la profonda diversità che esiste tra queste due sfere della vita. Nello sport e nel mercato capitalistico si compete, c’è bisogno di innovazione, di eccellenza, si può barare e si può essere leali. E così molti, dimenticando le differenze radicali, fanno il grave errore di usare metafore e linguaggio sportivi per descrivere imprese e mercati – e viceversa. Una differenza tocca la stessa natura dello sport: l’eccellenza sportiva non si misura sulla base delle vittorie, ma sulla fedeltà ai valori e ai princìpi dello sport. Un atleta può essere eccellente anche se non è vincente (se, ad esempio, gareggia nei cento metri insieme a Bolt). Non è il risultato il primo indicatore dell’eccellenza di uno sportivo.

La vittoria è certamente importante, anche perché è un segnale di virtù (quando lo sportivo, il sistema e i concorrenti sono leali) che genera imitazione, innovazioni, migliori prestazioni, record. Vincere non è il fine dello sport, il telos avrebbero detto i greci. La medaglia olimpica non è un incentivo: è un premio, cioè un segnale che riconosce e rafforza la virtù-eccellenza di uno sportivo, che attiva le dimensioni della emulazione virtuosa. E quando la medaglia da premio si trasforma in incentivo, è lo sport che diventa un’altra cosa, e non migliore. È qui che si fonda l’etica originaria delle olimpiadi moderne, che sono il paradigma della pratica sportiva. Quando, allora, il mercato capitalistico prende in mano lo sport, produce inevitabilmente un cambiamento e una deformazione profonda della sua natura, perché agisce sullo scopo, sulla ragione d’essere di questa pratica, sul suo telos, e presto sulla motivazione degli sportivi, quelli in attività e ancor di più sui futuri campioni, che saranno sempre meno interessati ai premi e sempre più agli incentivi. Tutto ciò è una faccenda seria, che non ha nulla a che fare con il romanticismo nostalgico dei bei tempi passati.

Qualcuno può anche essere soddisfatto di questa mercatizzazione dello sport (come lo è di altri giochi, della scuola, della sanità), tutti però dobbiamo essere coscienti che la posta in ballo è molto alta. Tornando a Rio, sono stati molti i segnali che anche le Olimpiadi stanno subendo (o hanno già subito) una mutazione genetica. A partire dal braciere olimpico collocato nel Maracanã, mitico tempio del calcio, e non nello stadio dell’atletica, uno stadio di calcio che è stato molto più frequentato delle piscine, delle palestre e delle piste da atletica, e forse non solo perché eravamo in Brasile. Un altro segnale è stata la crescente spettacolarizzazione degli eventi sportivi. Alcuni regolamenti (nel tiro, per esempio) sono stati modificati al fine di renderli più televisivi ed exciting, ignorando le proteste degli atleti che si sentivano trattati come circensi e giocolieri cose ottime, tra l’altro, ma nel loro contesto. Impressionante poi la metamorfosi delle cerimonie di premiazione, dove abbiamo assistito a toni, urla, musiche, dj sempre più simili a quelli inventati prima nel football americano e poi negli ultimi anni importati negli stadi di calcio.

Sono stati, poi, riammessi molti atleti professionisti, anche nella boxe. E non ultima è arrivata la discutibilissima idea di reintrodurre il golf che – massima beffa – non ha visto la partecipazione dei giocatori più famosi, sensibili a ben altri incentivi. Ma il segnale più preoccupante è arrivato proprio dalla nostra Italia. Il tradizionale colore azzurro delle nostre divise olimpioniche è stato interamente mangiato da un gigantesco numero 7 (bianco su sfondo nero) dello sponsor. L’inno nazionale delle nostre (molte) medaglie è diventato di fatto una colonna sonora di quella azienda. Non è stata davvero una grande presentazione per candidatura di Roma per il 2024. In sostanza, quella sottile ma chiara linea che separa lo sport-business dallo sport-e-basta sta diventando invisibile, perché il mercato capitalistico non può conoscere quella gratuità che è la natura più profonda dello sport, almeno di quello olimpico. Ora il test definitivo sarà rappresentato dalle Quindicesime Paralimpiadi, le Olimpiadi delle 'abilità differenti', che rischiano di pagare le difficoltà finanziare generate dalle sorelle maggiori (di cui condividono il budget) nelle quali gli affari li hanno fatti soggetti diversi dagli organizzatori. A partire dal 7 settembre lì vedremo – dalla presenza degli spettatori all’attenzione dei media – cosa resta dello spirito olimpico, se un suo ultimo soffio è ancora libero di volare senza le zavorre del business.

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Commenti - Dopo le Olimpiadi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/08/2016

Le Olimpiadi non sono un evento sportivo come tutti gli altri. Non lo sono mai state. Non sono i campionati mondiali di calcio, non sono Wimbledon, non sono il Tour de France. Non sono questo; o almeno non lo erano, perché in questa trentunesima edizione di Rio de Janeiro (tra l’altro ottima per molte cose), è iniziato, o quantomeno decollato, un tentativo di loro assimilazione allo sportbusiness dell’attuale capitalismo. In una società sempre più orientata al mercato, per lungo tempo le Olimpiadi sono state una zona franca protetta dalla logica del profitto. Il tennis, il calcio, il ciclismo, il basket, il golf – cioè, appunto – gli sport più 'di mercato', non erano gli eventi più importanti, perché le Olimpiadi erano altro.

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Sport e business: ciò che resta di Olimpia

Sport e business: ciò che resta di Olimpia

Commenti - Dopo le Olimpiadi di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 26/08/2016 Le Olimpiadi non sono un evento sportivo come tutti gli altri. Non lo sono mai state. Non sono i campionati mondiali di calcio, non sono Wimbledon, non sono il Tour de France. Non sono questo; o almeno non lo erano...
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Commenti - Di fronte al dolore che percorre i nostri giorni

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/07/2016

La nostra capacità di soffrire per le sofferenze degli altri e di gioire per le loro gioie, ha subito in pochi decenni un declino rapidissimo. La civiltà dei consumi e del confort confonde il benessere con la riduzione di ogni forma di sofferenza, dimenticando così una delle verità più profonde e antiche: che nella vita umana ci sono molte buone sofferenze, come ci sono molti cattivi piaceri.

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E così le tv, i nuovi totem postmoderni, ci promettono una vita più felice facendoci passare nel giro di pochi secondi dall’ultima strage in Francia all’ultimo gioco di 'pacchi', dando vita a un appiattimento degli eventi che genera un livellamento verso il basso delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti.

Le grandi conquiste della democrazia, dei diritti e delle libertà, sono il frutto maturo di millenni di civiltà e di fede, dove abbiamo imparato a soffrire e a sdegnarci per cose nuove e diverse: per le libertà degli altri negate, per i loro diritti schiacciati, per le ingiustizie verso persone che non erano nostri parenti né amici. Senza queste nuove sofferenze non saremmo usciti dai regimi, non ci saremmo liberati dai faraoni né dalle tante forme di schiavitù e di servitù.

Questo tipo di emozioni sociali sono in parte naturali, ma la loro intensità e qualità sono frutto della cultura e dell’educazione del carattere. Sentiamo naturalmente un senso di malessere quando entriamo in contatto con chi soffre attorno a noi, ma per sentire fino al punto di agire, di muoverci, di andare in loro aiuto c’è bisogno di qualcosa di più della natura. Provare disagio per una vittima che incontriamo lungo la strada è naturale, prendersene cura si chiama cultura.

L’empatia è naturale, la compassione no, perché nasce dalla coltivazione, individuale e Varsavia Sinagoga Ghetto Esterno ridcollettiva, di alcuni particolari emozioni e sentimenti più alti. Le norme sociali, ce lo ricordava già Adam Smith a metà Settecento, sono generate dalla capacità che gli esseri umani hanno sviluppato di approvare e biasimare le azioni e i sentimenti degli altri (e i propri), tramite quella facoltà che lui chiama 'simpatia'. L’equilibrio sociale è il risultato dell’ordine spontaneo della dinamica dei sentimenti, come il mercato lo è della dinamica degli interessi.

Questo equilibrio dei sentimenti può però assestarsi a livelli bassi (per esempio, nelle società di banditi) o a livelli alti, quando i popoli sviluppano religioni, arte, filosofia, bellezza, pietas. Ma anche l’ordine morale 'alto' dei sentimenti, come tutte le realtà fragili perché delicate, può andare in frantumi nel far di un mattino per mancanza di cura e di accudimento. E come accade per quasi tutte le abilità e virtù, se la compassione e lo sdegno non sono coltivati e praticati si atrofizzano, e regrediamo a stadi morali inferiori.

L'esposizione costante alla ideologia economica e del consumo ci sta trasformando in animali sempre meno capaci di compatire e di sdegnarci: soltanto venti anni fa lo sapevamo fare molto meglio. Ci attende un mondo dove saremo sempre più capaci delle emozioni naturali e facili verso gattini e cagnolini, ma non sapremo più solidarizzare e soffrire per le povertà e per le ingiustizie attorno a noi. La globalizzazione non ha potenziato questi sentimenti, li ha frantumati e ridotti d’intensità e efficacia, rendendoci più capaci di emozioni semplici e a basso costo ma meno capaci di quelle complesse e costose, che in Occidente erano il risultato di un processo articolato, dove il cristianesimo e l’umanesimo biblico hanno svolto un ruolo fondamentale.

Abbiamo imparato a sentire diversamente con l’anima osservando e meditando nelle chiese i quadri e gli affreschi del presepe, delle parabole, delle croci e delle resurrezioni, guardando le statue e le storie dei martiri e dei santi. Durante le Messe i nostri nonni non capivano tutte le parole, ma capivano molto bene il vangelo delle immagini – lo possiamo vedere ancora oggi quando i bambini vengono in chiesa, e sono molto più capaci di noi di dialogare con i dipinti e i volti attorno a loro.

Se vogliamo rispondere seriamente a questa crisi della nostra capacità di sentire e soffrire per cose grandi e alte, dobbiamo lavorare di più e diversamente con i giovani e con i bambini e le bambine di oggi, riconoscendo un ruolo speciale alla scuola, che è uno dei pochi beni pubblici globali ancora rimasti. La letteratura, l’arte e la musica sono essenziali per formare le emozioni e i sentimenti più profondi e grandi, in tutti ma soprattutto nei ragazzi e nei giovani. Le prime fiabe, La cavallina storna, Don Rodrigo, il figliol prodigo, San Martino, ci hanno donato gratuitamente le lettere con cui abbiamo scritto le prime frasi della nostra coscienza e del nostro sdegno, con cui abbiamo imparato a piangere per dolori e gioie di altri, a soffrire e a gioire per persone che non avremmo mai incontrato e che non sono mai esistite (ma più reali e veri di tanti vicini di casa). Se da giovani non si incontra almeno un poeta amante della nuda verità (Giacomo Leopardi, per esempio), da adulti non riusciamo a liberarci dalle ideologie, e ci asserviamo a qualche idolo dalle risposte semplici alle nostre domande ancora più semplici.

Varsavia Sinagoga Ghetto Interno ridOggi i nostri bambini crescono educati principalmente da tv e telefonini, in compagnia delle nuove telenovelas per ragazzi, che rappresentano sullo schermo niente più di quanto i ragazzi vivono tutti i giorni, senza alcuna capacità di far sognare e desiderare loro cose più grandi del loro cuore. Le storie televisive della mia infanzia erano il 'Pinocchio' di Collodi interpretato da Comencini e il 'Michele Strogoff' di Decourt, tratto da Jules Verne. Ho riascoltato poco tempo fa le colonne sonore di quei film e si sono improvvisamente riaccesi quei giorni e le mie prime emozioni sul bene e sul male degli altri, quando senza maestri imparai che un padre può vendere anche la sua unica giacca per far studiare un figlio, e che un contadino povero può donare il suo unico cavallo per un ideale più grande.

C'è poco da sperare in un cambiamento di rotta delle tv, pubbliche e private, sempre più nelle mani di sponsor mercanti di profitti. Ma la scuola? I governi occidentali stanno riducendo lo spazio dell’educazione artistica e umanistica, in tutte le scuole di ordine e grado. In una cultura dove le fedi e le grandi narrative collettive hanno perso spazio, se priviamo sistematicamente i giovani anche della letteratura, dell’arte, della musica alta e della poesia produrremo persone senza le passioni e i sentimenti più importanti per vivere insieme nella pace e nella libertà. Se non reagiamo a questa anoressia di compassione, i nostri figli passeranno presto per il centro di Varsavia e non sapranno più 'rivedere' il ghetto e i suoi 450mila ebrei deportati e uccisi, non sapranno più entrare in quella sinagoga e lì piangere per la vergogna. E questo sarebbe un giorno troppo triste. La capacità di compassione della sua gente è una risorsa immensa dei popoli. Non meno preziosa del petrolio e della tecnologia. Iniziare a parlare del suo deterioramento è il primo passo per provare a ricostituire questo patrimonio in rovina.

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Commenti - Di fronte al dolore che percorre i nostri giorni

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/07/2016

La nostra capacità di soffrire per le sofferenze degli altri e di gioire per le loro gioie, ha subito in pochi decenni un declino rapidissimo. La civiltà dei consumi e del confort confonde il benessere con la riduzione di ogni forma di sofferenza, dimenticando così una delle verità più profonde e antiche: che nella vita umana ci sono molte buone sofferenze, come ci sono molti cattivi piaceri.

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Anoressia di compassione. Nuova cura dei sentimenti

Anoressia di compassione. Nuova cura dei sentimenti

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Questione assente e urgente

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 14/07/2016

BancheC’è un aspetto troppo assente dai dibattiti di questi giorni su banche e tentativi di soluzione della crisi. È la governance delle banche e del sistema finanziario, che è evidentemente obsoleta se la rapportiamo con i cambiamenti rapidissimi e profondi di questi ultimi tre decenni. Tra il Seicento e la seconda metà del Novecento la logica del rapporto tra finanza e politica era rimasto sostanzialmente immutato: le banche e le finanze erano considerate attività troppo strategiche e delicate per lasciarle nelle mani del libero gioco della domanda e offerta di denaro.

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La banca, con alcune specificità regionali e culturali, era sempre rimasta una istituzione ibrida di (molto) pubblico e (poco) privato. Troppi gli interessi in gioco nella gestione del risparmio delle famiglie e delle imprese, da poter considerare la banca una impresa come tutte le altre.

In particolare nei Paesi latini di cultura cattolico-comunitaria, la dimensione pubblica e statale della finanza era particolarmente forte. Un controllo svolto soprattutto ex-ante ed ex-post, meno durante lo svolgimento dell’attività bancaria-finanziaria ordinaria: i governi e le autorità bancarie e finanziarie intervenivano all’inizio (concessioni, autorizzazioni) e alla fine (in caso di crisi, fallimenti, denunce).

Lo scenario è iniziato a cambiare radicalmente con la fine del millennio. Innanzitutto è aumentata la velocità della finanza, se confrontata con quella dell’economia reale e soprattutto con la "lentezza" della politica: le operazioni finanziarie sono talmente veloci che controllarle "prima" o "dopo" è molto difficile, e soprattutto è quasi del tutto inutile. In secondo luogo, la globalizzazione ha ridotto in generale la forza della politica e dei governi in rapporto a quella dei mercati. Ancor di più è diminuita la forza di gestire e regolare i mercati finanziari, che si spostano come vogliono, cercando paradisi (o almeno purgatori) fiscali – il quasi totale e globale fallimento dei vari tentativi di introduzione di serie Tobin Tax et similia, dice anche di questa debolezza. Da ultimo (ma potremmo anche continuare), l’ideologia del mono-mercato, intrecciata con l’ideologia neo-manageriale, ha progressivamente creato in questi anni la convinzione che la banca non è altro che una impresa come tutte le altre (solo con qualche vincolo in più), perché il suo scopo è massimizzare profitti, come tutte le imprese in tutti i mercati. Sono organizzazioni economiche, si sente dire sempre più spesso, che vanno gestite con la stessa cultura, le stesse tecniche, strumenti e cultura di tutte le imprese in tutti i Paesi, da Tokyo a Duala.

Questa "triplice alleanza" è alla radice della crisi finanziaria globale degli anni passati, e anche della crisi del nostro sistema finanziario. Qualcuno continua a ripetere che la crisi delle banche italiane dipenda principalmente se non soltanto dal nostro "familismo amorale" e dalle troppe filiali, facendo come chi di fronte a un malato di tumore, per la terapia si basasse sulla diagnosi dell’artrosi di cui il paziente soffre da trent’anni. E, sbagliando diagnosi, si sente sempre più dire che la guarigione delle banche italiane si trova nell’imitare le grandi banche internazionali, viste come l’immagine della salute e del futuro della buona finanza. Il mondo finanziario continua a soffrire per mancanza di pensiero – e con esso soffre anche quello politico.

Riusciremo a curare il nostro sistema bancario, nazionale e globale, se riporteremo più democrazia finanziaria dentro le banche, una democrazia che invece dai patron della finanza è vista soltanto come attrito, costo, inefficienza. Dobbiamo ricordare, dire e scrivere due princìpi generali della buona finanza di domani. La governance ordinaria delle banche non può e non deve essere affidata soltanto agli azionisti, ai "padroni" – almeno che non si riesca a separare di nuovo le banche d’affari da quelle che gestiscono i risparmi delle famiglie e delle imprese, operazione ormai molto complessa se non impossibile, poiché oggi quasi tutte le banche sono di fatto banche d’affari.

Bisogna allora immaginare i Cda con una quota non piccola di membri indicati dai cittadini, con meccanismi partecipativi tutti da studiare, ma non impossibili (qualcuno li sta già studiando). E – lo ripetiamo – è urgente affiancare in tutte le banche un comitato etico al Cda, che abbia poteri reali, che accompagni e controlli la gestione ordinaria degli affari. I controlli ex-ante ed ex-post non sono più efficaci nel mondo vorticoso della fast-finance. Alcune banche lo stanno già sperimentando, ma noi cittadini dobbiamo chiedere che questi cambiamenti nella governance avvengano subito e decisamente. In gioco non c’è soltanto il futuro dei nostri risparmi (e sarebbe già molto), ma la sostenibilità delle nostre democrazie.

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Questione assente e urgente

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 14/07/2016

BancheC’è un aspetto troppo assente dai dibattiti di questi giorni su banche e tentativi di soluzione della crisi. È la governance delle banche e del sistema finanziario, che è evidentemente obsoleta se la rapportiamo con i cambiamenti rapidissimi e profondi di questi ultimi tre decenni. Tra il Seicento e la seconda metà del Novecento la logica del rapporto tra finanza e politica era rimasto sostanzialmente immutato: le banche e le finanze erano considerate attività troppo strategiche e delicate per lasciarle nelle mani del libero gioco della domanda e offerta di denaro.

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Democrazia bancaria

Democrazia bancaria

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Commenti - Il lavoro, i suoi non-luoghi, il valore

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il: 01/05/2016

Falegname ridUna grande utopia del nostro capitalismo è la costruzione di una società dove non ci sia più bisogno del lavoro umano. C’è sempre stata un’anima dell’economia che ha sognato imprese e mercati "perfetti" al punto da poter fare a meno degli esseri umani. Gestire e controllare uomini e donne è molto più difficile che gestire docili macchine e ubbidienti algoritmi. Le persone concrete attraversano crisi, protestano, entrano in conflitto tra di loro, fanno sempre cose diverse da quelle che dovrebbero fare secondo i mansionari, spesso le fanno migliori.

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Perché siamo semplicemente liberi, esseri spirituali, e quindi sempre eccedenti rispetto ai compiti, ai contratti, agli incentivi. Il mercato veramente perfetto sarebbe allora quel sistema di tecniche, controlli, incentivi, strumenti, finalmente capace di garantire la massima efficienza e la massima produzione di ricchezza, riducendo fino ad eliminare la presenza umana dalle nuove città della nuova economia.

Oggi, grazie ai traguardi straordinari raggiunti dall’automazione e dalla digitalizzazione, quell’antica utopia rischia seriamente di avverarsi. Se, infatti, guardiamo bene al clima che si respira dentro le grandi imprese, ci possiamo accorgere che l’obiettivo che si cela dietro la retorica di una certa cultura manageriale (che afferma esattamente l’opposto) è la standardizzazione, la prevedibilità e la formattazione dei comportamenti dei lavoratori, per depotenziarne quella carica di libertà che non può rientrare nella razionalità della tecnica. Si vorrebbero prestazioni lavorative senza i lavoratori, lavoro senza persone, estraendo dall’azione umana solo la sua componente perfettamente orientata agli obiettivi della proprietà. Ridotta alla sua essenza più nuda, è questa la natura della sempre più sofisticata ideologia dell’incentivo, che è la nuova religione del capitalismo post-moderno.

Ma quando il lavoro viene ridotto a tecnica e prestazione, quando le organizzazioni diventano così razionali da "costruire" lavoratori che imitano la logica delle macchine, non resta più nulla di quell’attività antropologica primaria che è il lavoro umano, e del suo mistero. E se gli uomini e le donne perdono la loro capacità di lavorare perdono molto, troppo, quasi tutto della loro dignità, del loro essere stati fatti "poco meno di Elohim" (Salmo 8). La realizzazione dell’utopia del lavoro-senza-umani sarebbe allora soltanto l’attualizzazione della perfetta disumanizzazione della vita in comune. E per continuare a vivere, saremmo costretti ad emigrare in massa verso altri terre e altri pianeti dove sia ancora possibile lavorare veramente.

Questa festa del lavoro può essere allora un momento propizio per ricordarci e ricordare che cosa sono il lavoro e i lavoratori. Dovremmo ricordarci, ad esempio, che se vogliamo conoscere veramente una persona dobbiamo guardarla mentre lavora. È lì che si rivela con tutta la sua umanità, è lì che si trovano la sua ambivalenza, i suoi limiti ma anche, e soprattutto, la sua capacità di dono e di eccedenza. Possiamo far festa insieme, uscire a cena, giocare a calcetto con gli amici, ma niente come il lavoro è una finestra antropologica e spirituale che ci svela chi ci sta vicino. Non è raro che pensavamo di conoscere un amico, un genitore, un figlio, finché un giorno ci capita di vederlo lavorare e improvvisamente scopriamo di non averlo mai conosciuto veramente, perché ci era rimasta velata una dimensione essenziale della sua persona, che ci si è aperta solo mentre lo guardavamo lavorare: mentre ripara un’auto, pulisce un bagno, fa una lezione, prepara un pranzo. Siamo tutti noi presenti nella mano che stringe la vite, nella penna che scrive, nello straccio che asciuga: è qui che incontriamo l’umanità nostra e quella degli altri. E, quasi sempre, nasce una nuova stima e una nuova gratitudine per il lavoro che vediamo e scopriamo come dono. Poche realtà danno gioia più del lavoro ben fatto, e quindi pochissime cose (se ce ne sono) danno più infelicità di lavorare male, anche quando non riusciamo a fare diversamente. Siamo diventati grandi guardando i grandi lavorare.

Ho "conosciuto" mio nonno Domenico quando, bambino, l’ho visto nella sua officina costruire con le sue mani un banchetto, per me. Solo lì ho capito cosa fossero veramente le sue grandi mani callose e sapienti, e a partire da lì l’ho conosciuto. Di lui mi resta oggi solo quel banchetto, custodito nel mio studio accanto ai libri, e in quei legni non manca nulla della sua anima, perché un giorno l’ho vista incarnarsi quell’oggetto, costruito come dono, per me.

Una grave forma di povertà dei nostri bambini è non poter guardare più il lavoro degli adulti, perché troppi lavori stanno diventando astratti, invisibili, confinati in non-luoghi lontani e inaccessibili, soprattutto ai bambini e ai giovani. Quale lavoro potranno creare domani se oggi vivono immersi in mille spettacoli, ma privati dello spettacolo del lavorare, il più grande della terra? Un dono grande per i figli è dare loro la possibilità di vedere il lavoro vero e concreto, e da lì iniziare a vedere il mondo.

Ci sono poche esperienze umane e spirituali più vere di passare per le città e guardare la gente mentre lavora. Non c’è allora modo migliore di festeggiare il lavoro che tornare a guardarlo, vederlo, riconoscerlo, e poi ritornare riconoscenti. È la nostra stima, personale e collettiva, per il lavoro e per i lavoratori la prima e vera riforma di cui ha bisogno il mondo del lavoro. E magari, in questo giorno di non-lavoro, torniamo a leggere qualche pagina sul lavoro dei classici della tradizione civile italiana: "Non v’è lavoro, non v’è capitale - ha scritto Carlo Cattaneo - che non cominci con un atto d’intelligenza. Prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in essa per la prima volta il carattere di ricchezza".

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Commenti - Il lavoro, i suoi non-luoghi, il valore

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il: 01/05/2016

Falegname ridUna grande utopia del nostro capitalismo è la costruzione di una società dove non ci sia più bisogno del lavoro umano. C’è sempre stata un’anima dell’economia che ha sognato imprese e mercati "perfetti" al punto da poter fare a meno degli esseri umani. Gestire e controllare uomini e donne è molto più difficile che gestire docili macchine e ubbidienti algoritmi. Le persone concrete attraversano crisi, protestano, entrano in conflitto tra di loro, fanno sempre cose diverse da quelle che dovrebbero fare secondo i mansionari, spesso le fanno migliori.

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L'umana ricchezza

L'umana ricchezza

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Commenti - Così piaghe e crisi diventano benedizioni

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 27/03/2016

Gesù Risorto Pochet 01 ridResurrezione è una grande parola della terra. La vita che rinasce dalla morte è la prima legge della natura, delle piante e dei fiori, che riempiono di colori e di bellezza il mondo perché ci dicono che la vita è più grande della morte che la nutre. Le donne e gli uomini rinascono molte volte nel corso dell’esistenza, ritrovandosi risorti dopo lutti, abbandoni, depressioni, malattie che li avevano prima crocifissi. Qualche volta siamo risorti resuscitando qualcun altro dal suo sepolcro, e sono state queste le resurrezioni più belle e vere. Se la resurrezione non fosse stata una parola umana, amica e di casa, quelle donne e quegli uomini di Galilea non sarebbero stati capaci di intuire qualcosa del mistero, unico, che si era compiuto tra la croce e il giorno dopo il sabato.

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Se resurrezione è parola umana, allora è anche una parola dell’economia. C’è molta resurrezione nell’economia, nelle imprese, nel mondo del lavoro. La possiamo vedere tutte le mattine, anche in questi tempi di crisi, soprattutto in questi tempi di crisi. Ma dobbiamo imparare a vederla, riconoscerla, guardando il mondo con “occhi di resurrezione”. Non è facile vedere e riconoscere i risorti e le risurrezioni, per molte ragioni, ma soprattutto perché nei corpi dei risorti ci sono le stigmate della passione. E le ferite nostre e degli altri ci fanno paura, fuggiamo da esse e non riusciamo a viverle come l’inizio della resurrezione e il sacramento che l’accompagna sempre. E cercando la resurrezione nell’assenza delle piaghe e del dolore, non la troviamo, o magari la confondiamo con il successo. Non vediamo la resurrezione perché pensiamo che sia l’anti-croce o l’opposto della passione, e non il suo compimento. Fuggiamo dai crocifissi e dagli abbondonati, e non incontriamo i risorti che si trovano soltanto lì. La resurrezione comincia sulla croce, e i suoi segni sono per sempre.

Il Cristo risorto è la resurrezione del suo corpo ferito. La novità di questa resurrezione sta anche nella sua corporeità. Il corpo risorto non è però un ritorno al corpo del giovedì, la resurrezione non è un evento che cancella i segni della flagellazione e della Via Crucis. Il Cristo appare con le sue piaghe, la luce della resurrezione non aveva eliminato le stigmate del venerdì santo. La gloria del risorto non è allora la gloria dell’eroe antico: la sua è una gloria ferita, umile, debole. I risorti che appaiono senza piaghe sono fantasmi, illusioni, sogni, o ideologie, e quindi la loro luce è finta. Le nostre resurrezioni iniziano mentre gridano gli abbandoni sulle croci. E se non impariamo a gridare, non impariamo neanche a risorgere. Non capiamo la logica delle beatitudini se non la guardiamo dalla prospettiva di un risorto con le stigmate.

Le piaghe che restano dopo la resurrezione sono un elemento fondamentale per capire l’economia della salvezza, ma anche la salvezza dell’economia. Se le ferite restano nei corpi risorti, allora non esiste una economia dei crocifissi e una economia dei risorti. La croce e la resurrezione sono dentro la stessa economia, dentro la stessa vita. Per trovare le vere resurrezioni nella nostra società ed economia, dovremmo allora andarle a cercare dove nessuno le cerca più. Tra le tante imprese che stanno nascendo dagli immigrati e dalle loro ferite, nelle molte cooperative che fioriscono dentro le carceri, tra quei giovani che decidono di non lasciare la loro terra e imparano umilmente gli antichi saperi delle mani, in mezzo a quei lavoratori che non si arrendono di fronte alle molte ragioni della proprietà e del mercato e fanno risorgere la loro azienda. Senza commettere l’errore di pensare che le ferite che hanno generato la resurrezione un giorno spariranno, e sarà tutto e solo luce.

Quando nascondiamo i segni delle piaghe, le nostre storie di resurrezione, anche quelle autentiche, non diventano luoghi credibili di speranza per chi si trova ancora nella stagione della croce. Nella nostra economia ci sono troppi sfiduciati che aspettano solo di poter mettere le mani nelle piaghe delle resurrezioni, per poter capire e amare diversamente anche le proprie piaghe non ancora risorte. Le resurrezioni non si trovano al termine delle ferite, ma dentro di esse.

Tra i molti significati della parola pèsach, la prima pasqua, c’è anche il verbo zoppicare (psh). Quando il lettore della Bibbia legge “zoppicare” pensa a Giacobbe, il grande zoppicatore. Nel guado notturno del fiume Yabbok, Elohim lo ferì al nervo sciatico, lo rese zoppo, gli cambiò il nome in Israele. Secondo una tradizione rabbinica Giacobbe zoppicò per il resto della sua vita. Nel combattimento notturno, nel guado del Mar Rosso rinacque il nuovo popolo, ma il segno-ricordo della schiavitù d’Egitto non è mai scomparso dal suo corpo. Dal grande combattimento del Golgota fiorì un corpo risorto con le stigmate. Le resurrezioni sono ferite trasformate in benedizioni, e mai cancellate. Quando si risorge, le ferite restano, ma diventano luminose. Le vere resurrezioni si riconoscono dalla luce che irradia dalle loro piaghe.

Ndr - L'immagine di "Gesù Risorto" di Michel Pochet (CentroMaria) si trova presso la Mariapoli Faro (Križevci, Croazia)

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Commenti - Così piaghe e crisi diventano benedizioni

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 27/03/2016

Gesù Risorto Pochet 01 ridResurrezione è una grande parola della terra. La vita che rinasce dalla morte è la prima legge della natura, delle piante e dei fiori, che riempiono di colori e di bellezza il mondo perché ci dicono che la vita è più grande della morte che la nutre. Le donne e gli uomini rinascono molte volte nel corso dell’esistenza, ritrovandosi risorti dopo lutti, abbandoni, depressioni, malattie che li avevano prima crocifissi. Qualche volta siamo risorti resuscitando qualcun altro dal suo sepolcro, e sono state queste le resurrezioni più belle e vere. Se la resurrezione non fosse stata una parola umana, amica e di casa, quelle donne e quegli uomini di Galilea non sarebbero stati capaci di intuire qualcosa del mistero, unico, che si era compiuto tra la croce e il giorno dopo il sabato.

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Con occhi risorti

Con occhi risorti

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