L'ideologia del business, fede del nostro tempo

L'ideologia del business, fede del nostro tempo

Agorà, Il libro - Già Saint Simon nel 1803 profetizzava che il capitalismo sarebbe divenuto un culto idolatrico capace di sostituirsi al cristianesimo. E al centro del tempio c’è il dio-consumatore

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/09/2018

Capitlismo infelice Avvenire ridPubblichiamo uno stralcio del libro di Luigino Bruni "Capitalismo infelice. Vita umana e religione del profitto" edito da Giunti (pagine 160, euro 16,00), che è da oggi in libreria. Viene pubblicato nella nuova collana 'Terra futura' (che Giunti realizza in collaborazione con Slow Food editore e l’Università di scienze gastronomiche) che per ora conta altri tre titoli tutti in uscita lo stesso giorno.

Mircea Eliade, il grande antropologo romeno, nel suo classico saggio Il sacro e il profano , scriveva: «L’uomo moderno ha desacralizzato il suo mondo e ha deciso di vivere un’esistenza profana. Basterà constatare il fatto che la desacralizzazione caratterizza l’esperienza totale dell’uomo non religioso delle società moderne». Se Eliade fosse vissuto oggi, molto probabilmente non avrebbe scritto questa frase, perché si sarebbe accorto che il capitalismo del XXI secolo sta risacralizzando il mondo, sebbene in un modo tutto nuovo e diverso dal mondo sacro di cui parlava Eliade. E, quasi certamente, la neo-sacralizzazione del nostro tempo Eliade e i suoi colleghi del Novecento l’avrebbero chiamata neo-idolatria.

Questo saggio analizza e discute alcune delle dimensioni del nuovo spirito dell’economia del nostro tempo. Un’economia che continuo a chiamare capitalismo, in mancanza di una parola sintetica più efficace, ben consapevole che tra quanto chiamiamo oggi capitalismo e quello che abbiamo conosciuto nei due secoli precedenti, ci sono molte differenze, alcune così radicali (per esempio la finanza e la rivoluzione del web ) da renderci molto complicata la scelta di usare la stessa parola. Esso è quindi una riflessione su ciò che non vediamo (gli spiriti sono invisibili), che non vogliamo vedere o che il sistema non ci fa vedere, ma di cui subiamo le conseguenze soprattutto in termini di gioia di vivere, il cui calo sembra essere una nota dominante del nostro capitalismo.

La dimensione religioso-sacrale del capitalismo non è cosa nuova. Prima che Max Weber o Karl Marx ce lo dicessero chiaramente, e ciascuno a modo suo, all’inizio dell’Ottocento il francese Claude-Henri de Saint-Simon immaginò e realizzò una vera e propria religione degli imprenditori, dei capitalisti e della scienza, che ebbe un notevole successo e adepti in tutta Europa. In una famosa lettera nel 1803, Saint-Simon scriveva: «La notte scorsa ho udito queste parole: 'Roma rinuncerà alla pretesa di essere il centro della mia chiesa; il papa, i cardinali, i vescovi e i preti cesseranno di parlare in mio nome… Sappi che Io ho fatto sedere Newton al mio fianco e gli ho affidato la direzione dell’intelligenza umana e la guida degli abitanti di tutti i pianeti… Ogni consiglio farà costruire un tempio che ospiterà un mausoleo in onore di Newton… Ogni fedele che risiede a meno di un giorno di cammino dal tempio scenderà una volta all’anno nel mausoleo di Newton. […] Nei dintorni del tempio saranno costruiti laboratori, officine, e un collegio. Ogni lusso sarà riservato al tempio…'».

La nuova religione di Saint-Simon era universale e laica; i sommi sacerdoti erano gli scienziati, gli ingegneri, gli industriali. Da Marx fu annoverato tra gli autori utopici. Ma, in realtà, se leggiamo bene le sue idee e il suo movimento, dovremmo dire che più che di utopia si trattava di una sorta di strana profezia, se pensiamo a cosa è diventato oggi quel capitalismo che il filosofo francese osservava nella prima fase del suo sviluppo. Con alcune differenze però: l’alleanza tra tecnica e capitale, al tempo di Saint-Simon ancora incipiente, oggi si è potenziata e radicalizzata, ma non sono stati gli ingegneri e i produttori a diventarne i sacerdoti. Il loro posto lo hanno preso i finanzieri e soprattutto i manager, e al centro del tempio non c’è il dio-produttore ma il dio-consumatore. Niente più dell’ideologia del business sta infatti dominando il nostro tempo.

Un’ideologia prodotta e generata nelle business school di tutto il mondo, che conosce un enorme successo perché non si presenta come un’ideologia o religione (qual è), ma come una tecnica, e quindi di portata universale. Gli stessi strumenti del management si applicano a Dallas e a Nairobi, a Milano e in Siberia, perché le tecniche non sono dipendenti dalla cultura e dal carattere dei popoli: un’automobile o una lavastoviglie funzionano allo stesso modo in tutto il mondo, con qualche attenzione per le gomme e per il liquido antigelo. Così gli stessi strumenti di management dovrebbero funzionare allo stesso modo per le multinazionali capitalistiche e per le comunità di suore, perché, si dice, sono tutte aziende e in quanto tali sono tutte uguali. Sotto l’universalismo della tecnica si veicola allora una visione del mondo, dell’individuo, delle relazioni sociali.

Una visione che, come tutte le religioni, ha i suoi dogmi. I principali si chiamano meritocrazia e incentivi. Con la meritocrazia, ad esempio, si legittima la diseguaglianza, perché i talenti non sono interpretati come dono ma come merito individuale. Un dogma da cui deriva la sempre più pervasiva idea che i poveri sono demeritevoli e quindi colpevoli, e in quanto tali non abbiamo nessun obbligo morale di soccorrerli: al massimo possiamo pagare qualche Ong perché se ne occupi in modo che non ci diano troppo fastidio. Questo libro è dunque un dialogo sulla natura religiosa e idolatrica del capitalismo del nostro tempo. Ho scelto di trattare temi complessi con uno stile non specialistico, senza appesantire il testo con note e citazioni di opere (che comunque si trovano elencate in bibliografia), facendo mio il metodo di Antonio Genovesi, fondatore dell’Economia civile, che diceva: «Scriverò dunque come penso, e parlerò come tra noi si parla, perché amo di essere inteso, non ammirato».


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