Editoriali Avvenire

Economia Civile

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 Commenti - Oltre la crisi solo recuperando visione e capacità generativa anche dei capitali

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 14/04/2013

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Le crisi, soprattutto quelle profonde e gravi, sono un segnale che una comunità civile o economica sta esaurendo la sua capacità generativa, e non è più capace di creare vero valore economico, civile, politico, culturale, scientifico, perché ha smarrito i suoi valori, non sa più ciò che vale. C’è una regola generale a cuore della legge di evoluzione delle civiltà e della loro economia: la forza generativa dell’uso civile delle ricchezze si spegne quando raggiunge il suo culmine, perché i successi e i frutti finiscono col tempo per spegnere quella fame di vita e quella speranza che li aveva generati.

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Ciò non è solo evidente dall’analisi storica: è sufficiente recarsi ogni tanto in Cina – dove mi trovo ora –, nelle Filippine, o in Brasile per vedere che la radice del loro (attuale) sviluppo economico e civile prende linfa vitale dall’entusiasmo civile e dalla volontà di riscatto individuale e sociale, che si esprimono anche in quella gioia di vivere che si respira nelle strade, soprattutto tra i poveri e i bambini.

Queste risorse morali e spirituali si consumano, ma non si rigenerano da sole, e così dopo periodi più o meno lunghi finiscono. È una legge spietata ma anche provvidenziale, perché è anche un grande meccanismo che fa sì che non siano sempre gli stessi a salire sulla giostra del benessere e della prosperità. Sul piano economico-civile, tutto ciò fa sì che nelle fasi civilmente positive ed espansive, i capitali (stock) sono al servizio dei redditi (flussi): sono i terreni, le case, gli immobili, i risparmi, i titoli azionari ad essere in funzione dei redditi da lavoro (salari) e d’impresa (profitti). In queste fasi felici, i capitali esistono e sono importanti, ma questi capitali sono messi a reddito, sono fatti girare e fruttare per lo sviluppo e per il bene comune.

La virtù dominante in questi periodi civilmente fecondi è la speranza, che porta a guardare i capitali (reali e finanziari) come strumenti da mettere in gioco, come talenti da trafficare perché portino frutto. Si guardano gli stock in vista dei flussi. Si vedono i "cento" del valore del capitale di oggi, ma più si vedono i "cinque" che quei cento ben investiti potranno produrre, perché quel reddito/flusso è un segnale della capacità generativa della mia azienda, della mia vita. Il primo senso del buon grano non è mai l’accumulazione nei granai. È anche questa la differenza tra contadino e mercenario, tra investimento e pura accumulazione, e tra l’imprenditore, il protagonista delle fasi espansive, e lo speculatore, protagonista di ogni declino.

La ricchezza generativa di redditi rende felici e fecondi, mentre la ricchezza accumulata per se stessa rende miseri e sterili. Quando la cultura latina voleva rappresentare la felicitas, i suoi simboli e le sue immagini erano i raccolti fecondi (Campania felix), gli strumenti del lavoro, e i bambini, che ieri come oggi sono il primo segno della fecondità felice di famiglie e popoli. Tutto questo lo sa bene anche la grande cultura dei popoli con la sua arte, che quando hanno voluto rappresentare l’icona dell’infelicità l’hanno individuata più nell’avaro che nel povero, perché l’avaro è un ricco misero che non conosce, lui con i suoi averi, la fioritura e la fecondità, come i capitali (de)portati oggi nei paradisi fiscali.

Un’impresa, un sistema economico, una civiltà iniziano allora la loro decadenza quando il nesso tra capitali e frutti si inverte, e lo scopo dei capitali diventano i capitali. Alla speranza subentra la paura, il senso del grano diventa il granaio e ci si dimentica di chi di quel grano ha bisogno per vivere, e per lavorare. Nel linguaggio dell’economia, la grande crisi inizia quando i redditi (flussi) sono visti in funzione dei capitali (stock), i profitti e i salari in funzione delle rendite. Così gli imprenditori si trasformano in speculatori, le élite che avevano determinato la fase virtuosa del ciclo economico-civile diventano caste, che destinano le loro energie a conservare i privilegi acquisiti nei tempi passati. Nei periodi felici prevalgono la fiducia e la cooperazione, e si guarda agli altri come potenziali partner per nuove comuni intraprese. Nelle fasi di declino ci si guarda accanto con sospetto, e il vicino diventa un rivale, un nemico che può sottrarci una fetta di quelle rendite. I rapporti sociali si incattiviscono, gli altri (non noi) sono tutti evasori e disonesti, e il loro benessere diventa una minaccia per il nostro. E invece, nei periodi migliori, proprio «il mercato ci insegna a vedere con benevolenza la ricchezza e il benessere degli altri» (John Stuart Mill, 1848), perché contano le nuove torte, e non la dimensione delle fette di quelle che abbiamo creato in passato. In Italia oggi riusciamo a fare perfino di peggio: «Riusciamo a litigare per spartisci future torte che non creeremo mai», mi confidava un imprenditore siciliano.

La nostra crisi dice allora che stiamo dilapidando i capitali di valori civili e religiosi che avevano operato i miracoli economici e sociali dei decenni passati. Serve un nuovo miracolo economico, civile, morale. Dopo la seconda guerra mondiale i nostri genitori e nonni presero le macerie prodotte da umanesimi fratricidi e, con i loro valori, le fecero diventare mattoni, pietre angolari delle loro nuove case e della casa europea. Se oggi vogliamo vedere un presente e un futuro possibili, e magari migliori, dobbiamo trovare le risorse per trasformare le nostre macerie in una nuova casa e nuova eco-nomia. Le nostre macerie non sono fatte di cemento e calce, ma anche questa crisi sta, a modo suo, distruggendo case, fabbriche, chiese, sta mietendo le sue vittime, ha i suoi eroi e la sua Resistenza. Dobbiamo trovare le risorse per raccogliere le macerie e trasformarle in nuovi mattoni. E dobbiamo scavare molto, perché le pietre migliori non sono in superficie, sono ancora in parte sepolte, o ignorate perché – come la nostra vocazione comunitaria – considerate pietre d’inciampo, e scartate. Occorre salvarle, facendone le pietre angolari della nuova casa, della nuova economia, del nuovo lavoro.

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 Commenti - Oltre la crisi solo recuperando visione e capacità generativa anche dei capitali

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 14/04/2013

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Le crisi, soprattutto quelle profonde e gravi, sono un segnale che una comunità civile o economica sta esaurendo la sua capacità generativa, e non è più capace di creare vero valore economico, civile, politico, culturale, scientifico, perché ha smarrito i suoi valori, non sa più ciò che vale. C’è una regola generale a cuore della legge di evoluzione delle civiltà e della loro economia: la forza generativa dell’uso civile delle ricchezze si spegne quando raggiunge il suo culmine, perché i successi e i frutti finiscono col tempo per spegnere quella fame di vita e quella speranza che li aveva generati.

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Il cento e il cinque

Il cento e il cinque

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 Commenti - Italia ed Europa, fisco e impresa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 07/04/2013

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Stiamo precipitando in una vera e propria trappola di povertà. La spirale è ben delineata: (1) lo Stato è indebitato e deve trovare risorse; (2) le risorse non vengono dal reddito-Pil perché siamo in recessione; (3) si è costretti a usare la leva fiscale, soprattutto su famiglie e imprese; (4) l’esasperata pressione fiscale riduce ancora il reddito prodotto; (5) diventano necessarie altre tasse per trovare altre risorse; (6) il reddito si riduce ancora, e così via, in una sorta di danza macabra che si avvita su se stessa verso il basso.

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E come se non bastasse, le imprese non trovano credito da banche bloccate da problemi (e miopie) loro propri e da regole esterne. Meno male che, ieri, il governo Monti ha dato forma a un provvedimento – finalmente autorizzato dalla Ue – che è destinato a porre fine a una scandalosa vessazione aggiuntiva: i debiti non pagati dalla stessa identica macchina statale che tar-tassa le imprese con una pressione fiscale che è quasi il doppio di quella sulle rendite. Comunque sia, siamo al cospetto di un teorema che farebbe la sua bella figura in qualsiasi trattato di economia che volesse descrivere la crisi perfetta di un sistema economico.

Simili crisi perfette hanno portato al declino di intere civiltà. Ormai sappiamo anche che la via di uscita reale (non quelle immaginate per ignoranza o propaganda) è una sola: rilanciare lo sviluppo economico, e quindi il lavoro, la domanda e il reddito. In realtà, però, questa non è la soluzione ma il cuore del problema, perché per poter far tutto ciò dovremmo allentare i vincoli imposti dall’Europa al rapporto debito/Pil, e permetterci investimenti pubblici che ci consentano, da qui a qualche anno, di riprendere appunto un sentiero di vero sviluppo. Una impresa che si trova in grave crisi può e deve certamente ridurre i costi, ma se non investe e rilancia un nuovo progetto d’impresa non ha futuro. La crisi o è aurora di un giorno nuovo o è tramonto: occorre stare attenti perché i colori del cielo si assomigliano, e potremmo confonderli.

Sono sempre più convinto – per fortuna in compagnia di economisti come Amartya Sen – di ciò che sulle pagine di “Avvenire” è stato scritto più e più volte: l’Italia e gli altri Paesi in crisi debbono rinegoziare in Europa i noti parametri oggi posti alla base del Fiscal Compact, e dar vita a una stagione di nuovi investimenti che rilancino lavoro, impresa, competitività, e – prima di tutto - scuola e università. Le nostre imprese non sono “cotte”, possono ripartire perché hanno delle potenzialità ancora troppo poco valorizzate, sui piani tecnologico, commerciale e delle intelligenze tanto quanto – soprattutto al Sud – su quelli della cultura, dell’arte, del territorio, del turismo. Ma senza nuovi grandi investimenti di sistema e con una “visione” (che a oggi non c’è), questi nostri immensi patrimoni non producono reddito né lavoro, o non ne producono abbastanza.

Nella trappola in cui siamo caduti, gli imprenditori, i lavoratori, le famiglie non riescono da soli a risollevarsi: c’è un urgente bisogno di un’azione pubblica decisa, forte, coerente, veloce. Ma c’è di più: gli imprenditori e i lavoratori sono esausti, e le energie residue per resistere, e non arrendersi, sono davvero poche. E qui, ancora una volta, è bene essere chiari: non ci sono alibi per nessuno, solo una classe politica e un Parlamento irresponsabili potrebbero assistere passivi a questo scenario. C’è poi un fattore culturale da tenere in considerazione. Se guardiamo la storia ci accorgiamo che le classe dirigenti, in Italia e molti Paesi latini, non hanno avuto uno sguardo benevolo verso il lavoro, i mercanti e le imprese. Hanno guardato i mercanti «come Giuda» (ce lo ricorda il titolo del bellissimo libro dello storico Giacomo Todeschini, 2011), cioè gente moralmente equivoca perché, proprio come Giuda, trafficano «a scopo di lucro», per trenta denari, per beni privati.

Invece è buono il denaro speso dallo Stato e dai governanti, perché, a differenza dei mercanti, quel denaro ha come scopo (si dice) il bene comune, non il turpe lucrum. Così il debito pubblico sarebbe diverso e moralmente migliore dei debiti e crediti privati, perché questi ultimi nascono da interessi e egoismi particolari, mentre il debito pubblico nasce per il bene comune. È una storia antica, di cui non siamo sempre consapevoli, ma che è ben radicata nella nostra coscienza e nelle prassi collettive. Se però vogliamo uscire dalla trappola in cui siamo caduti dobbiamo guardare, politicamente e culturalmente, gli imprenditori in modo nuovo e diverso. Innanzitutto, non si vederli in opposizione al lavoro ma come suoi grandi alleati.

Dobbiamo poi finirla di confondere i veri imprenditori e la loro azione e vocazione civile con gli “speculatori” e coi “faccendieri” che imprenditori non sono, che depredano lavoratori e ambiente, e alimentano non "paradisi" ma “inferni fiscali” (davvero non sapevamo già che le grandi banche hanno da sempre filiali in queste isole “infelici” per operazioni offshore?). E in questa confusione troppo spesso gli imprenditori continuano a essere considerati da pezzi importanti dell’opinione pubblica potenziali evasori e imbroglioni, e quindi meritevoli di essere pubblicamente vessati. Questi sono veri e propri peccati sociali, di cui siamo responsabili tutti, se restiamo passivi e silenti.

Serve un nuovo pensiero su lavoro e imprenditori. E spunti e suggestioni ci giungono ancora da Francesco e dalla tradizione francescana, che – anche se può sembrare paradossale, vista la rinuncia da parte del povero frate di Assisi proprio alla sua iniziale condizione di ricco commerciante internazionale – valorizzò i mercanti e la loro funzione sociale. Non li considerava «come Giuda», ma diede vita a un laico ordine terziario che includeva molti di loro. Si realizzò, così, una strana affinità elettiva tra i poveri "per scelta" e molti mercanti conoscitori di denaro e di finanza.

Non va poi dimenticato che in molte città medievali i mercanti erano annoverati tra i pauperes, tra i poveri, perché non erano percettori di rendite ma vivevano di redditi sottoposti all’alea del mercato, alle sue incertezze e avversità. Oggi come ieri l’imprenditore vero è qualcuno che rischia i propri talenti e le proprie risorse per creare beni e lavoro. E per questo è amico dei poveri, soprattutto dei poveri di lavoro. Non vive di rendite, e quindi se non crea e innova cade a terra. E può cadervi anche innovando e facendo bene il proprio mestiere: lo stiamo vedendo troppe volte in questi tempi di crisi. La possibilità della sventura è parte della condizione umana, anche dei giusti, ma per questi può non essere l’ultima parola. Ridiamo fiducia e stima agli imprenditori, e con loro al mondo dell’impresa, che è il luogo dove il lavoro nasce, cresce, fruttifica. E come cittadini chiediamo di più, molto di più, alla politica e alle nostre istituzioni nazionali ed europee: oggi stanche e logore, ma solo con esse sarà possibile uscire dalla trappola.

 

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 Commenti - Italia ed Europa, fisco e impresa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 07/04/2013

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Stiamo precipitando in una vera e propria trappola di povertà. La spirale è ben delineata: (1) lo Stato è indebitato e deve trovare risorse; (2) le risorse non vengono dal reddito-Pil perché siamo in recessione; (3) si è costretti a usare la leva fiscale, soprattutto su famiglie e imprese; (4) l’esasperata pressione fiscale riduce ancora il reddito prodotto; (5) diventano necessarie altre tasse per trovare altre risorse; (6) il reddito si riduce ancora, e così via, in una sorta di danza macabra che si avvita su se stessa verso il basso.

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Trappola da smontare

Trappola da smontare

 Commenti - Italia ed Europa, fisco e impresa di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 07/04/2013 Stiamo precipitando in una vera e propria trappola di povertà. La spirale è ben delineata: (1) lo Stato è indebitato e deve trovare risorse; (2) le risorse non vengono dal reddito-Pil perch...
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 Commenti - Società ed economia, donne e carismi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 30/03/2013

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È ogni giorno più evidente che il mondo po­litico, civile ed economico che avevamo co­struito nel XX secolo è morto, senza che anco­ra si intravveda una resurrezione. Siamo nel sa­bato. Un 'non ancora' senza il 'già'. La storia umana ha conosciuto e conosce molti sabati santi, alcuni dei quali epocali. E anche per que­sto è importante che alla radice dell’evento cri­stiano, e quindi dell’umanesimo europeo, ci sia il sabato santo, un tempo anche storico che va tra la morte e la resurrezione, che è parte an­ch’esso di una storia di salvezza. Il sabato san­to non è solo un vuoto, un’assenza, un interval­lo, un sonno, né soltanto un’attesa.

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È anche un inizio di passaggio, un’attività, una veglia, una presenza. Vi troviamo gli apostoli che, delusi e impauriti, si ritraggono scoraggiati e bloccati dalla grande crisi. Ma abbiamo anche alcune presenze, in particolare di donne. E, come ci ri­cordò Carlo Maria Martini in una sua lettera nel 2000, nel sabato c’è la presenza di Maria, la ma­dre di Gesù. Mentre gli uomini fuggono, le don­ne restano, stanno, abitano il sabato, agiscono, attendono operose. La presenza di quelle donne, in quella cultura, ci dice almeno tre cose. Innanzitutto ci ricorda il valore della vita e del corpo, anche dei corpi feriti, senza vita. Vanno al sepolcro per ungere un corpo, e non si fanno bloccare dalla grande pietra posta all’ingresso. Il secondo messaggio riguarda i poveri: le donne in quella cultura non contavano, erano per natura, tra gli ultimi del­la società, erano quindi fragili e vulnerabili. Ma sono loro che non fuggono, che sono resilienti di fronte alla grande prova, e che sperano atti­vamente.

Le donne e Maria – il terzo messaggio – sono anche presenza dei carismi, perché han­no con essi familiarità spirituale e una speciale connaturalità. «Ave Maria piena di charis», di charis-ma e di gratuità. Non a caso il grande teologo Hans Urs Von Balthasar utilizzava qua­si come sinonime le espressioni «principio ca­rismatico » e «principio mariano». E i carismi, lo sappiamo, sono doni che fanno vedere di più, vedere diversamente, vedere cose che al­tri – in questo caso gli apostoli – non vedono. E vedendo diversamente, agiscono e operano diversamente. La nostra società e la nostra economia potran­no vedere un’alba di resurrezione se sapremo vi­vere bene questo tempo del sabato.

Anche og­gi, di fronte alle nostre crisi, molti fuggono, e in vari modi (nei paradisi fiscali, nel web senza cor­pi veri, nel cinismo civilmente disimpegnato). Ma oggi abbiamo anche un grande bisogno de­gli 'abitanti del sabato': delle donne, anche troppo fuori dai luoghi che contano, e abbiamo bisogno soprattutto dei carismi. Nei sabati del­la storia, mentre le istituzioni soffrivano, fuggi­vano, morivano, l’umanità si è salvata perché i carismi, e spesso le donne, sono stati capaci di restare, sotto le croci e presso i sepolcri del loro tempo. Hanno sperato attivamente. Tra la morte dell’impero romano e la rinascita della civiltà cittadina italiana e europea, non c’è stato solo un vuoto o un’assenza: nel guado tra un mondo e un altro c’è stata la presenza di tan­ti carismi monastici, che nell’attesa hanno sal­vato e inventato la nuova Europa, supplendo al­la morte delle vecchie istituzioni, e inventan­done delle nuove.

Tra la fine dell’ancien régime e gli Stati sociali moderni, sono fioriti centinaia, migliaia, di carismi e istituzioni carismatiche che hanno inventato, con la creatività tipica del­la charis/charitas, la cura delle nuove e vecchie forme di miseria e di esclusione, che hanno for­mato e istruito intere generazioni di uomini e di donne. E ancora tra rivoluzione industriale e Stato sociale, tra fascismo e democrazia, e po­tremmo allargare lo sguardo all’India di Gandhi e di Madre Teresa, o alle istituzioni di microfi­nanza di suor Nancy Pereira. I carismi, come Maria alle Nozze di Cana, ve­dono prima degli altri, e dicono, a volte urlano: "Non hanno più vino". Sono i carismi i prota­gonisti dei sabati santi della storia, che fanno da ponte tra i venerdì e le domeniche, e ac­compagnano il cammino. Al nostro sabato man­cano i carismi e i loro occhi, che sono troppo as­senti, o emarginati, dalla sfera pubblica, eco­nomica, politica.

È emblematico che le perso­nalità che dovrebbero essere capaci di portarci fuori dal pantano politico-economico irre­sponsabile in cui siamo immersi, siano cercate tra i tecnici, i professori, gli intellettuali, senza accorgerci che queste categorie non hanno più, e ormai da tempo, le risorse morali per sposta­re il grande masso posto di fronte al sepolcro... Per rimuover quel masso non serve la tecnica, occorrerebbero occhi di resurrezione. C’è bisogno di mistici, di carismi, di profeti, di persone capaci di vedere il 'vino' che manca, e poi fare in modo che arrivi veramente e presto. Ma questi nomi di uomini, ancor meglio di donne, spirituali non vengono fatti, né pensati. Al tempo stesso, il mondo dei carismi, ancora vivo e fecondo, deve fare di più, deve far sentire di più la sua voce, che è sempre voce di poveri e per i poveri, e poi fare proposte anche politiche, perché i carismi sono doni per il bene comune, e quindi faccende laiche, civili e politiche.

Quando manca la voce e la presenza dei carismi, le istituzioni non sanno né vedere né quindi operare per il bene comune, soprattutto nei tempi del sabato. La nostra crisi è anche, e soprattutto, crisi spirituale, perché con la fine delle ideologie si sono spenti i motori simbolici della nostra fabbrica civile ed economica. E quando si spegne il grande Paradiso, arrivano quelli piccolissimi e artificiali, che presto si rivelano grandi inferni. Ridoniamo al nostro sabato gli occhi del carismi.

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 Commenti - Società ed economia, donne e carismi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 30/03/2013

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È ogni giorno più evidente che il mondo po­litico, civile ed economico che avevamo co­struito nel XX secolo è morto, senza che anco­ra si intravveda una resurrezione. Siamo nel sa­bato. Un 'non ancora' senza il 'già'. La storia umana ha conosciuto e conosce molti sabati santi, alcuni dei quali epocali. E anche per que­sto è importante che alla radice dell’evento cri­stiano, e quindi dell’umanesimo europeo, ci sia il sabato santo, un tempo anche storico che va tra la morte e la resurrezione, che è parte an­ch’esso di una storia di salvezza. Il sabato san­to non è solo un vuoto, un’assenza, un interval­lo, un sonno, né soltanto un’attesa.

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Abitare il Sabato

Abitare il Sabato

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 Commenti - Idee e opere, oltre la cultura del non-abbraccio

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/03/2013

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Francesco è un nome che dice molte cose, anche all’economia e alla finanza. E, se sappiamo e vogliamo ascoltare, ci lancia messaggi essenziali per curare, veramente e in profondità, le nostre crisi. Francesco d’Assisi, perché amante di 'madonna povertà', è anche all’origine di importanti cambiamenti economici, teorici e pratici. Il movimento francescano diede vita alla prima importante scuola di pensiero economico, ed è anche all’origine della tradizione di banca e di finanza (gli ormai famosi Monti di Pietà, i prodromi della finanza popolare e solidale italiana).

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Non si ricorda però a sufficienza che queste istituzioni bancarie popolari fiorirono due secoli dopo una profonda e sistematica riflessione culturale e filosofica su economia, moneta e mercato.

Olivi, Scoto, Occam, e decine di altri maestri francescani, furono dottori anche di economia, perché colsero, per istinto carismatico, che dovevano studiare le res novae del loro tempo, dovevano riflettere profondamente sui grandi cambiamenti della loro epoca, quando stava iniziando una grande rivoluzione commerciale e cittadina che poi fiorì nell’Umanesimo civile. Studiarono economia per amore della loro gente, soprattutto dei poveri.

Il primo messaggio che ci proviene da Francesco e dal suo movimento carismatico è il significato morale e civile dello studio e della scienza. Questa crisi ci sta dicendo ogni giorno con maggiore forza che l’economia e la finanza a una sola dimensione (quella dei profitti di breve periodo) produce disastri e disumanesimo (Cipro è l’ennesimo segnale). Ma mentre la crisi continua a mietere le sue vittime, in tutte le università si continua a studiare e a insegnare la finanza e l’economia retta dagli stessi princìpi che hanno causato queste crisi. I libri di testo sono gli stessi, i dogmi e la spocchia imperialista di noi economisti sono gli stessi del pre-crisi, i nostri migliori studenti continuano a formarsi in scuole di dottorato con gli stessi programmi del 2007.

Francesco allora invita i veri amanti del bene comune e quindi di 'madonna povertà' (il primo metro di bene comune sono sempre le condizioni dei poveri), a investire molto di più nello studio delle res novae del nostro tempo, che sono i temi del lavoro, del management delle imprese, dell’economia e della finanza, che oggi soffrono anche 'per mancanza di pensiero'. E sull’esempio degli antichi Monti di Pietà, il mondo si cambiadando vita non solo a libri e a conferenze, ma a nuove istituzioni.

I carismi hanno prodotto anche università che sono state sulle frontiera delle innovazioni culturali del loro tempo, perché è tipico del carisma vedere prima e più lontano. Oggi la nostra cultura e la nostra scienza soffrono per mancanza dei carismi, che debbono tornare a svolgere il loro compito, che è anche compito civile, scientifico e culturale. C’è un estremo, vitale, bisogno di dar vita a nuovi istituti di ricerca e a nuove università dove si possano studiare diversamente contenuti diversi da quelle che continuano a insegnare i templi del sapere, molti dei quali finanziati dai proventi di questa (brutta) finanza. C’è bisogno di nuovi studia e nuove scholae dove si produca ad alto livello pensiero economico e sociale diverso, e poi di scuole popolari che diffondano e alimentino con la vita quel nuovo pensiero a tutti i livelli: dove sono? Se non lo faremo, continueremo a lamentarci della crisi e della disoccupazione, ma non saremo all’altezza di Francesco e dei francescani che lavorarono per orientare la società del loro tempo, anche con idee e scienza nuove.

Un secondo messaggio di Francesco è, e non può che essere, la povertà. È molto legato al primo messaggio – non a caso la 'scienza' è un frutto dello Spirito, ed è lo stesso Spirito ad essere 'padre dei poveri'.

Ci sono parole che sono sempre e solo negative: menzogna, schiavitù, razzismo… La povertà non è una di queste, perché dopo Francesco (e quindi dopo il cristianesimo) quando si parla di povertà dovremmo sempre specificare di quale povertà stiamo parlando. Questa grande parola copre un ampio spettro semantico, che va dal dramma di chi la povertà la subisce fino alla beatitudine di chi la povertà la sceglie liberamente, spesso per riscattare altri da povertà non scelte e subite. La nostra cultura non ha strumenti adeguati per affrontare le antiche e nuove povertà non scelte, perché ha perso contatto con le semantiche della bella povertà scelta, che si chiamano stili di vita sobri, solidali, soprattutto comunione conviviale e fraterna. Francesco ci ricorda che solo chi ama la buona povertà sa prima vedere, e quindi combattere, quella cattiva.

Finché i programmi governativi, pubblici e privati di lotta alla povertà saranno pensati e implementati da politici e funzionari che alternano convegni sulla povertà a vacanze da ricchi epuloni, la povertà continuerà a essere oggetto di studi (spesso inutili), report e convegni, ma né vista né capita, quindi non curata. Per curare la povertà servono i carismi, quindi poveri che curano poveri. Il capitalismo filantropico sta aumentando le istituzioni che si occupano di povertà, senza però che tra chi aiuta e chi è aiutato si crei nessun incontro autentico.

Francesco ha curato, quantomeno l’anima, dei lebbrosi di Assisi (a Rivotorto) abbracciandoli e baciandoli: è l’abbraccio la prima forma di cura. Francesco oggi ci ricorda e ci ammonisce di non cadere nelle trappole della nostra cultura dominata dall’immunità, una cultura del non­abbraccio che si sta insinuando anche all’interno delle nostre istituzioni nate per 'curare' le povertà, dove stanno crescendo i professionisti della cura e dell’assistenza (ed è cosa buona), ma dove rischiano di diminuire gli abbracci. L’indice di fraternità – altra splendida parola francescana – è dato dal grado di inclusione comunitaria dei poveri, che può essere inverso alla creazione di enti specializzati per gestirli, ai quali si appalta la 'cura dei poveri' al fine di tenerli ben lontani dalle nostre città immuni e immunizzanti.

Rimettiamoci allora all’ascolto di Francesco, dei suoi messaggi antichi, dei suoi messaggi di futuro.

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 Commenti - Idee e opere, oltre la cultura del non-abbraccio

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/03/2013

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Francesco è un nome che dice molte cose, anche all’economia e alla finanza. E, se sappiamo e vogliamo ascoltare, ci lancia messaggi essenziali per curare, veramente e in profondità, le nostre crisi. Francesco d’Assisi, perché amante di 'madonna povertà', è anche all’origine di importanti cambiamenti economici, teorici e pratici. Il movimento francescano diede vita alla prima importante scuola di pensiero economico, ed è anche all’origine della tradizione di banca e di finanza (gli ormai famosi Monti di Pietà, i prodromi della finanza popolare e solidale italiana).

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Quell'altra economia che ha nome Francesco

Quell'altra economia che ha nome Francesco

 Commenti - Idee e opere, oltre la cultura del non-abbraccio di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 24/03/2013 Francesco è un nome che dice molte cose, anche all’economia e alla finanza. E, se sappiamo e vogliamo ascoltare, ci lancia messaggi essenziali per curare, veramente e in prof...
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 Commenti - In Italia ha generato Economia e Civiltà, difendiamola e torniamo a produrla

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/03/2013

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Abbiamo un vitale bisogno della virtù civile ed economica della bellezza. La bellezza ci è necessaria per il rilancio della nostra economia e del lavoro, per una rifondazione della scuola e dell’università, e per curare veramente le vecchie e nuove forme di povertà involontaria e non scelta, che per essere sanate hanno bisogno della bella povertà di Francesco. L’economia e la civiltà italiane non hanno solo 'generato' bellezza (artistica, musicale, urbana ...): prima è stata la bellezza a generare economia e civiltà.

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Il Made in Italy, di ieri e di oggi, lo hanno fatto artigiani lavoratori formati dalla bellezza, cresciuti in mezzo alle nostre cattedrali, piazze, valli, mari e montagne. Gli input delle nostre economie non sono stati soltanto le materie prime, il capitale e il lavoro: nelle filiere produttive sono entrati anche Dante, Pinocchio, Fellini, storie, paesaggi, affreschi, chiese. Bellezza che è diventata anche design, auto, scarpe, abiti, cibo.

Quando andiamo in Umbria o in Sicilia per turismo eno-gastronomico, non 'consumiamo' soltanto alloggio, cibo e vino, stiamo 'mangiando e bevendo' anche bellezza, accumulata in millenni di cultura e di paesaggio (nel prezzo dei beni ci sono componenti che l’imprenditore vende, ma che non son suoi: le tasse sono anche questo). Siamo stati capaci di creare valore economico finché siamo stati capaci di generare valore aggiunto in bellezza, fin quando l’abbiamo saputa raccontare, e poi tradurla anche in prodotti, in beni, in economia, benessere. Oggi stiamo consumando bellezza, ma non siamo capaci di riprodurla, se non in quantità minima. Dobbiamo tornare a produrre bellezza, se vogliamo tornare a produrre beni e lavoro. Ma la bellezza non si pianifica nelle business school né nei tavoli politici: nasce, fiorisce, dalla gratuità, da quella charis / grazia che è radice anche di bellezza (grazioso), e quindi dall’amore dei luoghi, delle città, dei territori.

La bellezza è poi essenziale, sebbene oggi meno evidente, per una buona scuola e buone università, che sperimentano carestie non solo di risorse economiche e finanziarie, ma anche di bellezza. Per la formazione del carattere dei bambini e dei giovani dovremmo usare i luoghi più belli della città, oggi catturati dalle banche e dalle rendite, mentre gli studenti sono confinati in edifici sempre meno curati, spesso in un vero stato di degrado. Non so come si possa insegnare, incontrare e conoscere Socrate, Pitagora e Leopardi in luoghi brutti.

Chi lavora nelle scuole sa – se vede bene – che le aule, le pareti, i giardini parlano e insegnano, sono 'colleghi' parlanti linguaggi non verbali, ma vivi come i nostri. Questo lo sanno molto bene i bambini, perché lo hanno imparato dalle fiabe e dai cartoni, dove anche i grilli, gli animali e le piante parlano, e dove le case hanno occhi e sanno sorridere. Anche per questo motivo i bambini non sono adulti con qualcosa in meno, perché hanno anche qualcosa in più degli adulti, che si perde crescendo. Senza questa consapevolezza è impossibile una vera reciprocità bambino-adulto. Ma se pochi minuti dopo aver letto un testo di Ungaretti, cercando di far vivere e sperimentare qualcosa del mistero della poesia (la poesia o la si vive e sente nella carne, o è esercizio inutile, se non dannoso), gli alunni e gli studenti fanno ricreazione in luoghi sciatti e degradati, quell’esercizio di libertà e di verità si disperde. Così il giorno dopo l’insegnante-Sisifo, deve ripartire da zero, o quasi. Non c’è scuola buona che non sia anche bella.

Ma se c’è un luogo dove il bisogno di bellezza è ancora più urgente, questo è il mondo delle povertà. Nelle società passate, i luoghi più belli della città erano le cattedrali e le chiese, abitati dal popolo, quindi anche dai poveri. È stupefacente pensare che gli affreschi di Giotto e di Caravaggio adornavano anche, e soprattutto, i luoghi dei poveri, quelli della gente semplice, umile, analfabeta: il giogo duro delle loro vite brevi e piene di stenti era reso più leggero anche dal dono dell’arte di artisti e di mecenati, che con la bellezza restituivano e condividevano parte della loro ricchezza.

Certo, in quelle società c’erano ancora molto lusso e molta ricchezza privata non condivisa con tutti né tantomeno con i poveri. Ma oggi, nonostante rivoluzione francese e democrazia, la ricchezza condivisa sotto forma di bellezza è ancora minore, perché la ricchezza che nasce dalla finanza finisce nei paradisi fiscali, o in residenze e beni di consumo privatissimi e invisibili. Le ville dei super-ricchi non abbelliscono alcuna città, perché la gente non le vede più, tantomeno le 'abita': sono ricchezze incivili, perché non sono nelle e per le città. Così quei lussi e quegli sfarzi non sono più autenticamente bellezza, e neanche per chi li possiede, perché la bellezza per essere tale ha bisogno dello sguardo dell’altro, e dello sguardo del povero. «Sposata hai una pena di non provar gioia alcuna che non sia di tutti»: c’è qualcosa di universale in questo bel verso di Davide Maria Turoldo. «Nella mia cooperativa – mi raccontava un imprenditore civile – voglio avere ottimi parrucchieri, perché – aggiungeva – se una signora anziana che si è fratturata un femore non si risente bella, non guarisce, e può lasciarsi morire».

La bellezza vera è terapeutica: si può morire, o non guarire, anche per la bruttezza dei luoghi. Accogliere e aiutare persone povere in luoghi belli dà loro quella forza in più per fare il primo passo per riprendere il cammino, perché la bellezza risveglia la nostra parte migliore. Questa bellezza non è un bene di lusso, è un bene di prima necessità, che coabita con la sobrietà e la povertà. Riportiamo allora la bellezza nelle città, nelle imprese, nelle scuole, altrimenti ci mancherà la forza spirituale e simbolica per ricominciare.

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 Commenti - In Italia ha generato Economia e Civiltà, difendiamola e torniamo a produrla

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/03/2013

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Abbiamo un vitale bisogno della virtù civile ed economica della bellezza. La bellezza ci è necessaria per il rilancio della nostra economia e del lavoro, per una rifondazione della scuola e dell’università, e per curare veramente le vecchie e nuove forme di povertà involontaria e non scelta, che per essere sanate hanno bisogno della bella povertà di Francesco. L’economia e la civiltà italiane non hanno solo 'generato' bellezza (artistica, musicale, urbana ...): prima è stata la bellezza a generare economia e civiltà.

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Sorella bellezza

Sorella bellezza

 Commenti - In Italia ha generato Economia e Civiltà, difendiamola e torniamo a produrla di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 17/03/2013 Abbiamo un vitale bisogno della virtù civile ed economica della bellezza. La bellezza ci è necessaria per il rilancio della nostra economia e ...
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Commenti - Il tempo dei ciclopi: la non-accoglienza nel mondo del lavoro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/03/2013

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Abbiamo un vitale bisogno di riscoprire la virtù dell’ospitalità. Soprattutto nei confronti dei giovani, che stanno diventando ogni giorno di più i primi stranieri in una società di adulti che non capiscono, che non dà loro spazio, che li ha indebitati senza chiedere loro il consenso, e che vedono degradare i loro luoghi, la scuola soprattutto.Il mondo è cambiato troppo velocemente, e se persino noi adulti avvertiamo con chiarezza la fine di un sistema, non è difficile immaginare quanto distante e strano apparirà questo nostro vecchio mondo ad un ventenne, ad una quindicenne. Ci sono generazioni che invecchiano prima di altre, è la storia a dircelo. La nostra è una di queste.

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Si, funziona, ma non dà i soldi”, ha esclamato ieri un ragazzo di circa 10 anni in una metro di Roma, con l’intenzione di correggere la mamma che aveva risposto con un secco “no” ad un signore che le aveva domandato: “funziona il bancomat?”. In realtà avevano ragione sia la madre che il bambino, perché ciascuno guardava diversamente la stessa macchina: strumento per avere contanti (mamma), touch-screen colorato con tanti pulsanti (bambino).

Dialoghi simili, e civilmente molto più rilevanti, stanno diventando troppo frequenti nel mondo della scuola e del lavoro, dove si fa fatica ad intendersi, a parlarsi, a stimarsi. A dirci senza troppa filosofia che i giovani sono estranei e stranieri nella loro terra è quel 43% di disoccupazione giovanile, un numero che non dovrebbe farci dormire la notte; e invece dormiamo, perché ormai assuefatti ai numeri negativi, ma ancor più perché ci stiamo dimenticando che ogni giovane non è figlio soltanto dei suoi genitori, ma è figlio di tutti.

C’era forse qualcosa di questa figliolanza (e di questa fraternità) universale alla radice della regola aurea dell’ospitalità che ritroviamo alle radici della nostra storia, una ospitalità che portava a considerare l’ospite/straniero come sacro, e quindi da onorare con l’offerta di doni. Le grandi civiltà avevano intuito che non c’è nessuna persona che sia veramente estranea né straniera. Ce lo suggerisce anche la giustamente famosa frase di Terenzio: “Sono uomo. E ritengo che nulla di ciò che è umano mi è estraneo”.

In ogni essere umano, e in un certo senso anche in ogni realtà della creazione, vive e rivive qualcosa di me, e di me in loro, come se nel genoma di ogni essere vivente ci fosse una traccia di tutti gli altri. Credo che Francesco volesse dirci, con altra bellezza e forza, qualcosa del genere con il suo “Cantico delle creature”. La natura più profonda della norma dell’ospitalità non è allora l’altruismo, è la reciprocità: “Ricordati, anche tu eri straniero” (Esodo). Dobbiamo essere ospitali con lo straniero (che si trova in quanto straniero in una condizione di fragilità e di vulnerabilità), anche perché lo siamo stati noi, i nostri nonni, e perché lo potranno essere i nostri figli. È condizione dell’umano. È questa ospitalità-reciprocità di cui si sente la mancanza nella nostra cultura; e la sentono soprattutto i giovani perché, insieme con gli anziani, sono quelli che ne hanno un estremo bisogno per vivere bene, e, sempre più, per vivere e basta.

Invece quando oggi un giovane si incontra con il mondo del lavoro fa troppe volte l’esperienza di Ulisse con Polifemo, il ciclope che in Omero rappresenta l’immagine della inciviltà, proprio perché praticava l’anti-accoglienza: invece di offrire doni ai suoi ospiti, li divorava. Invece del pane, la pietra; non l’uovo, ma lo scorpione. Stiamo vedendo troppi giovani divorati da anni di non-lavoro, da un ozio non scelto e non meritato che mangia giorno dopo giorno il loro capitale umano acquisito studiando, e quello non rinnovabile della giovinezza. E altrettanti giovani divorati da un lavoro sbagliato, quello imposto da quelle grandi imprese, banche, società di consulenza capitalistiche che assumono giovani senza la gratuità dell’ospitalità: li usano, li spremono, non danno loro il tempo di crescere bene, obblighi senza doni. Li divorano un po’ alla volta.

E i “fortunati” che riescono ad accedere a questi lavori-caverne, si ritrovano con enormi massi che ostruiscono l’uscita. Il masso più pesante è la crisi che stiamo vivendo, che li porta ad accettare, o a non lasciare “all’apparir del vero”, lavori sbagliati perché devono vivere, per fame. Così diventa normale che le grandi imprese, a posto dei “doni ospitali”, facciano firmare contratti capestro dove il giovane, come “contro-dono” all’impresa che gli paga il master, si impegna a restare in quella impresa per un certo numero di anni. Pratiche servili, quasi roba da schiavi.

Sono certo che da tali master-capestro non potrà mai fiorire l’umanità delle persone, che ha bisogno sempre dell’acqua della libertà e della luce della gratuità. Ma nell’economia complessa di oggi e di domani, senza persone libere e “fiorite in umanità”, non arrivano più neanche la crescita e i profitti dell’impresa. Occorre allora rilanciare una nuova cultura dell’ospitalità lavorativa, dove le imprese investano veramente nei primi anni di lavoro dei giovani che ricevono, e reimparino a donare. E in questi giorni in cui si parla molto, e in molti casi opportunamente, di ‘salario di cittadinanza’, non dobbiamo mai dimenticare che il primo dono che la società civile e le istituzioni devono fare ai loro giovani è il dono del lavoro, mettendoli nelle condizioni, a partire da migliori studi, di poter lavorare, e possibilmente di lavorare bene.

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Commenti - Il tempo dei ciclopi: la non-accoglienza nel mondo del lavoro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/03/2013

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Abbiamo un vitale bisogno di riscoprire la virtù dell’ospitalità. Soprattutto nei confronti dei giovani, che stanno diventando ogni giorno di più i primi stranieri in una società di adulti che non capiscono, che non dà loro spazio, che li ha indebitati senza chiedere loro il consenso, e che vedono degradare i loro luoghi, la scuola soprattutto.Il mondo è cambiato troppo velocemente, e se persino noi adulti avvertiamo con chiarezza la fine di un sistema, non è difficile immaginare quanto distante e strano apparirà questo nostro vecchio mondo ad un ventenne, ad una quindicenne. Ci sono generazioni che invecchiano prima di altre, è la storia a dircelo. La nostra è una di queste.

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Figli nostri, stranieri

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Commenti - Necessaria più democrazia

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/03/2013

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In Svizzera oggi si sta svolgendo un referendum per porre un freno alle remunerazioni dei manager delle società quotate in borsa. È questa una felice occasione per riaprire anche da noi il tema delle remunerazioni dei cosiddetti “top manager”, e su quello, ancora più importante perché radice del primo, della democrazia economica. Ma l’Italia? L’Europa? Una ragione di questa assenza, o, speriamo, ritardo, è l’incapacità dell’Europa, tanto più dell’Italia, di proporre nei decenni passati una diversa cultura economica e di impresa.

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Oggi le business school sono tutte uguali: ad Harvard, Nairobi, San Paolo, Berlino, Pechino, Milano si insegnano le stesse cose, si utilizzano gli stessi libri di testo, a volte persino le stesse slides scaricabili in rete. Ho visto fare corsi di ‘responsabilità sociale d’impresa’ in classi dove dirigenti di cooperative sedevano accanto a manager di fondi di investimento speculativi, poiché, si diceva, “business is business”. E così non stupisce, ma rattrista soltanto, che si stiano progressivamente avvicinando tra di loro la cultura e gli stipendi delle grandi cooperative e quelli delle imprese capitalistiche, un avvicinamento che farà senz’altro rivoltare nella tomba i fondatori del movimento cooperativo, che avevano immaginato e realizzato imprese diverse anche perché capaci di tradurre i principi di fraternità e uguaglianza in busta paga, e non solo nei preamboli degli statuti.

Eppure l’Europa e l’Italia avevano, e un po’ ce l’hanno ancora, un altro modo di fare impresa e di fare società, un altro ‘spirito del capitalismo’, che si chiamano in Germania ‘economia sociale di mercato’, in Francia ‘economia sociale’, in Italia ‘economia civile’, in Spagna e in Portogallo ‘economia solidaria’. Una cooperativa sociale non è una istituzione filantropica (charity), ma una faccenda di reciprocità e di inclusione produttiva, è un “fare con” prima di essere un “fare per”. Una fondazione bancaria non è una foundation americana, e le piccole e medie imprese di natura famigliare, l’asse portante della nostra economia, non hanno né la cultura né gli strumenti della corporation anonima, anche se tante di queste nostre imprese si sono smarrite per inseguire quei modelli estranei. In Italia avevamo anche la gloriosa tradizione della Economia aziendale, oggi purtroppo in via d’estinzione, che era un felice tentativo di tradurre il modello comunitario e relazionale italiano in cultura organizzativa, dove lo scopo dell’azienda non era la massimizzazione del profitto, ma l’equilibrio tra tutte le componenti di una istituzione, e il cui principio fondante era “il soddisfacimento dei bisogni umani” (Gino Zappa, 1927).

La crisi economica è anche frutto di una cultura manageriale che si è rivelata inadeguata, certamente per una legislazione insufficiente e sbagliata, ma anche per una forma mentis che inizia nelle università di economia e poi continua nei master; una formazione sbagliata che è anche alla base della giustificazione di quei stipendi da superstar. Gli attuali curricula economici sono, in tutto il mondo, sempre più depurati da tutte le dimensioni umanistiche e storiche, illudendosi che riducendo il pensiero economico a numeri, tabelle, grafici e algoritmi (e sempre più semplici), si possa formare della gente capace di pensare, di creatività, di innovazione vera, o di coordinare le persone e il loro mistero antropologico e spirituale, che restano tali anche quando lavorano. Eppure i futuri lavori nasceranno, certamente in Italia, da cultura, arte, turismo, relazioni, e per far bene questi mestieri è molto utile conoscere la storia, la cultura o l’arte, e forse più delle tecniche di bilancio, di valutazione e controllo.

C’è allora bisogno di riaprire un dibattito pubblico su questi temi cruciali, che non possono essere lasciati agli “addetti ai lavori”: lo abbiamo fatto negli anni passati, e i risultati sono sotto gli occhi tutti. La cultura democratica moderna ha posto al centro la politica e il governo dello Stato: ottimo. Ma il mondo è molto cambiato, e oggi sappiamo, o dovremmo sapere, che il buongoverno passa anche, e sempre più, per il buongoverno dei mercati, delle imprese e delle organizzazioni. Di Parlamento ce n’è uno (in Italia), ma i consigli di amministrazione di banche e imprese sono decine di migliaia: la qualità della nostra vita, della nostra dignità e libertà dipende anche da questi, e non possiamo continuare a ignorarlo. La democrazia economica sarà la sfida del XXI secolo, se vogliamo evitare di ridurre l’area democratica a settori sempre meno rilevanti per la vita della gente, a sentirci sovrani il giorno delle elezioni e tutti gli altri giorni sudditi di tanti regnanti non democratici. Il XX secolo ha creato e ha mantenuto saldo il confine tra gli ambiti di azione della democrazia e quelli retti da altri principi non democratici.

Tra gli ambiti non democratici quello delle imprese capitalistiche era ed è il più importante e rilevante. La nuova era dei beni comuni ci costringe a ripensare profondamente il confine della democrazia, se non vogliamo perderla, o costringerla in una regione asfittica, un giorno forse irrilevante. Il mercato e le imprese non sono faccende private: non lo sono mai state (si pensi ai sindacati dei lavoratori e di chi fa impresa). Questa crisi, però, ci ha detto con estrema forza e chiarezza che anche l’economia, la finanza e il mercato sono veramente ‘cosa pubblica’, con le sue delizie e con le sue croci, di cui abbiamo il dovere e il diritto di occuparci, non fosse altro perché siamo noi a pagare tutte le conseguenze del loro malgoverno. Occorre allora inventare nuovi strumenti di democrazia economica, che non possono essere gli stessi della democrazia politica. E occorre pensarli e su scala globale. Ma occorre farlo presto, è troppo importante.

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Commenti - Necessaria più democrazia

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/03/2013

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In Svizzera oggi si sta svolgendo un referendum per porre un freno alle remunerazioni dei manager delle società quotate in borsa. È questa una felice occasione per riaprire anche da noi il tema delle remunerazioni dei cosiddetti “top manager”, e su quello, ancora più importante perché radice del primo, della democrazia economica. Ma l’Italia? L’Europa? Una ragione di questa assenza, o, speriamo, ritardo, è l’incapacità dell’Europa, tanto più dell’Italia, di proporre nei decenni passati una diversa cultura economica e di impresa.

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Anche il mercato è cosa pubblica

Anche il mercato è cosa pubblica

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Commenti - Siamo come Colombo prima del suo viaggio verso il mondo nuovo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/02/2013

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Per poter veramente ripartire, abbiamo bisogno anche di una mappa. Nella seconda metà del Quattrocento, erano molti i marinai che volevano tentare l’esplorazione dell’Oceano verso occidente. Dovevano attraversare un mare inesplorato, per il quale non potevano evidentemente esistere carte nautiche; eppure quei navigatori, per partire, avevano bisogno di una mappa. I marinai non partono senza una mappa del mare. Cristoforo Colombo decise di partire non solo quando trovò il finanziamento dell’impresa (come tutti gli imprenditori), ma anche, e soprattutto, quando riuscì a procurarsi una mappa dell’Oceano. 

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Gliela offrì il fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli, grande umanista, astronomo, mercante di spezie (anche per questo gli interessava una via più breve per le Indie). Questo fondatore della geografia moderna e osservatore di comete, ebbe (forse) una corrispondenza con Colombo, e con ogni probabilità gli fece arrivare una sua carta nautica, una mappa dell’oceano fino alle Indie. Una carta necessariamente imprecisa e incompleta, ma decisiva perché Colombo potesse osare una delle azioni più straordinarie della storia umana. Dal Pozzo Toscanelli non era un navigatore, forse non era mai uscito dall’Italia, ma componeva le sue mappe sulla base dei racconti dei viaggiatori, con i quali intratteneva a Firenze lunghe conversazioni, popolate di fatti veri e fantastici (tra cui il leggendario regno di prete Gianni). Quel mondo nuovo – ogni mondo nuovo – fu prima desiderato, sognato, quasi visto, e solo dopo raggiunto. Quella mappa nacque dunque dall’ascolto delle avventure di marinai portoghesi, veneziani, spagnoli, che dicevano di aver “visto”, forse per fenomeni di fata morgana, delle terre emerse a occidente, più a ovest delle isole già note. La mappa e l’impresa di Colombo furono certo il frutto di due geni, ma anche il frutto di una straordinaria sinergia di teoria, spirito, arti, mestieri, scienza, economia, di Firenze e di Lisbona, dell’Italia e dell’Europa.

La nostra economia, e la nostra civiltà, si trovano oggi in una situazione simile a quella di Colombo; ma questa volta salpare verso un mare sconosciuto non è una scelta ma un’urgente necessità, perché se non prendiamo il largo ci aspettano solo decenni di declino e di incattivimento delle relazioni sociali. E non ci manca solo il coraggio civile, spirituale e politico di Colombo e dei suoi ufficiali e marinai, né solo la fecondità civile ed economica dell’Italia e dell’Europa del Quattrocento. Ci manca anche un Paolo dal Pozzo Toscanelli, capace di scriverci una nuova mappa. E ci manca perché coloro che potrebbero scriverla (economisti, politici, intellettuali …), non sono più capaci di ascoltare le storie dei marinai, i racconti dei viaggiatori, le storie della nostra gente viva e vera. L’uomo medievale e rinascimentale sapeva bene, come ci ha ricordato anche Cesare Pavese, che “i migliori poemi sono quelli raccontati dai marinai illetterati sul castello di prora” (Introduzione a Mobydick), ma noi l’abbiamo dimenticato.

Se invece ricominciassimo ad ascoltare le nostre storie, potremmo cercare di delineare almeno alcune prime coordinate di questa mappa mancante. Una prima coordinata è la vocazione più vera e profonda della nostra gente italiana ed europea: la comunità. I tessuti comunitari delle nostre città si sono troppo impoveriti: ci serve un progetto etico, politico e civile per ricomporlo, rigenerarlo, in non pochi casi reinventarlo. La solitudine sta diventando una nuova epidemia, che come la peste di Manzoni è a modo suo democratica, perché colpisce il povero Tonio ma anche Don Rodrigo, il malvagio Griso ma anche il santo Fra Cristoforo – oggi i più malati di solitudine sono top manager e banchieri, anche quando circondati di adulatori e nuovi servi con master.

La seconda coordinata è una nuova scuola. Sono sempre più colpito da quanta professionalità resiste nelle nostre scuole, soprattutto in quelle elementari e materne, dove professionisti continuano a insegnare per vocazione e fedeltà al proprio (bellissimo) mestiere, ma non so ancora per quanto. Il nuovo governo – se riusciremo ad averlo – se vuole salvare veramente l’Italia, dovrà mettere mano ad una riforma radicale della nostra scuola e dell’Università, con una speciale attenzione al Sud.

La terza coordinata riguarda la povertà. La miseria e l’esclusione in Italia e in Europa stanno aumentando, perché crescono le forme di povertà cattiva, molte delle quali si assommano nelle stesse persone. Ce ne accorgeremmo subito se lo chiedessimo alla gente, invece di sprecare denaro pubblico per dannosi sondaggi pre-elettorali. Nel passato siamo stati capaci di rispondere alle tante povertà che abbiamo conosciuto grazie ad un’alleanza tra le istituzioni e i carismi. Senza i carismi le nuove povertà non si vedono, o si vedono troppo tardi, quando la malattia è già avanzata. Ci sarebbero voluti occhi carismatici, come quelli di Don Benzi, per capire qualche anno fa che si stava annidando un virus di scommesse e di giochi, che avrebbe presto prodotto la febbre della finanza speculativa e quella delle sale giochi (due febbri ugualmente gravi, non dimentichiamolo). Nuovi e antichi carismi che oggi potrebbero portarci, sull’esempio di Don Benzi, sulle strade a raccogliere ragazzi e anziani consumati dalle slot machines, casalinghe dipendenti da gratta-e-vinci, per salvarli e salvarci, anche a fronte ad una totale assenza delle istituzioni.

Ci serve allora urgentemente una mappa. E se non la disegniamo ad un certo punto si dovrà necessariamente partire, e il viaggio non sarà buono. O forse siamo già salpati, senza mappa né meta, e stiamo vagando in balìa di Sirene e Ciclopi. Ma possiamo sempre tentare di scriverla a bordo, se appena terminata questa triste stagione elettorale, faremo silenzio civile, e reimpareremo ad ascoltarci, a sentire l’anima, il sangue e la carne della nostra gente. È solo partendo da lì che potremo trovare una nuova terra. 

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Commenti - Siamo come Colombo prima del suo viaggio verso il mondo nuovo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/02/2013

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Per poter veramente ripartire, abbiamo bisogno anche di una mappa. Nella seconda metà del Quattrocento, erano molti i marinai che volevano tentare l’esplorazione dell’Oceano verso occidente. Dovevano attraversare un mare inesplorato, per il quale non potevano evidentemente esistere carte nautiche; eppure quei navigatori, per partire, avevano bisogno di una mappa. I marinai non partono senza una mappa del mare. Cristoforo Colombo decise di partire non solo quando trovò il finanziamento dell’impresa (come tutti gli imprenditori), ma anche, e soprattutto, quando riuscì a procurarsi una mappa dell’Oceano. 

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La mappa che ci serve

La mappa che ci serve

Commenti - Siamo come Colombo prima del suo viaggio verso il mondo nuovo di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 24/02/2013 Per poter veramente ripartire, abbiamo bisogno anche di una mappa. Nella seconda metà del Quattrocento, erano molti i marinai che volevano tentare l’esplorazione dell’O...
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Commenti - La cultura cristiana della quaresima e la sua natura civile

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/02/2013

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La quaresima ha anche una natura civile, che ci si svela subito se leggiamo le sue parole alla luce di questa fase cruciale della nostra vita pubblica. Parole che si articolano e vanno a formare un vero e proprio messaggio di cambiamento di rotta, di conversione. La prima parola è pentimento, una parola estranea alla nostra cultura, eppure fondamentale per poter ricominciare davvero dopo ogni crisi personale e collettiva. Dopo aver fatto errori, soprattutto se gravi e collettivi, per poter ricominciare e ripartire spediti nel viaggio c’è bisogno, prima, di pentirsi, perché se manca la coscienza di aver sbagliato, non si riesce a ritrovare la strada per riprendere il cammino.

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La prima espressione di ogni pentimento è provare dolore, rincrescimento e rammarico per aver fatto cose non buone, che hanno procurato del male a se stessi e soprattutto agli altri. Di cose non buone, e gravi, ne abbiamo viste tante in questi anni di crisi, e ne stiamo vedendo ancora troppe. Ma non si vedono né intravvedono pentimenti nei leader della finanza speculativa, nella cultura del top management di grandi aziende e banche, né tantomeno nella nostra classe politica. Senza pentimenti civili, accompagnati come in tutti i pentimenti veri da qualche gesto, non avremo la forza di ripartire.

Per questi errori e peccati civili ed economici, i (necessarissimi) processi nelle aule dei tribunali non possono esaurire i riti di pentimento, scuse e magari di riconciliazione. Quando un manager di una grande banca o azienda commette dei reati, c’è bisogno di qualcosa di più della sentenza dei tribunali (quando arriva): ci sarebbe bisogno che queste istituzioni che hanno tradito fiducia e speranze di azionisti e dell’intero Paese sapessero pentirsi, chiedere scusa e perdono alla gente. La riparazione e la restituzione del codice civile e penale sono troppo povere per questi reati che feriscono i codici simbolici ed etici delle comunità.

La seconda parola è umiltà. Una virtù fondamentale per la buona vita, una parola totalmente fuori corso in una cultura che premia gli “io” ipertrofici, e non ha più occhi per apprezzare la virtù dell’umiltà. Umiltà viene da terra, da quell’humus che è radice ad un tempo di umiltà (humilitas) e di uomo (homo), una ricchezza semantica che si ritrova anche nella lingua ebraica, dove uomo e terra sono chiamati adam e adamah. L’umiltà è una delle parole fondanti l’umano, perché ci dice che le cose grandi nella vita sono tali perché piccole, perché sono un di meno, un diminuire, perché sono polvere e terra.

Questo antico legame umiltà-uomo-terra ci ricorda che l’umiltà è virtù quando nasce dall’aver toccato polvere, terra, cenere: si diventa veramente umili, e veramente uomini, quando si cade, si sente la terra e la polvere, e poi ci si rialza. È questa l’umiltà di Giobbe, ma anche quella di chi lavora e conosce la terra, quella di chi, di fronte ad una montagna o ad un sasso, fa l’esperienza della propria infinita piccolezza, e da quel contatto con la terra riscopre anche la propria dignità infinita. Non ci si umilia da soli (questo è narcisismo), ma sono gli altri, la vita, la terra e la povere ad umiliarci, che poi possono farci ricominciare migliori il cammino. I fallimenti, individuali, economici, politici, di questi anni possono diventare un’occasione per migliorare, ma occorre, prima, voler fare l’esperienza dell’umiltà, che è del tutto assente da tutti i programmi, le promesse e soprattutto dai toni di questi tristi giorni pre-elettorali.

La terza parola è digiuno. Il nostro secolo ha l’ossessione delle diete, ma non conosce più il digiuno, perché il digiuno non è faccenda di calorie o di dimagrimenti, ma ha a che fare con un  altro cardine della buona vita: la temperanza. Il digiuno è educazione dei desideri, delle passioni, del cuore, dello spirito, dell’intelligenza. Il digiuno e la temperanza per essere apprezzati e poi coltivati hanno bisogno di persone capaci di vedere dei valori in cose che si chiamano limite, moderazione, sobrietà. In realtà se guardiamo bene la nostra gente, oltre gli spettacoli televisivi, ci accorgiamo che sono sempre più le persone che vivono vite temperate, che attribuiscono valore al limite (nell’uso delle risorse, del tempo, del lavoro, dei profitti, nel consumo …), che moderano i propri bisogni, che li arricchiscono diminuendoli. Ne incontro tanti, e ogni giorno di più, ma non se ne parla nella sfera pubblica, perché non fanno audience né portano voti.

La civiltà che ci ha preceduto era scandita dai digiuni, perché l’asprezza della vita era sostenibile solo educando passioni, intelligenza e volontà: la povertà può diventare, ed è diventata, vita buona e degna solo se accompagnata dai digiuni, che moltiplicano il valore del poco cibo e della festa dei poveri. È anche la mancanza della cultura della quaresima che sta decretando da noi la morte del carnevale (e il boom di Halloween, che è il suo opposto), che è vissuto finché lo precedevano e attendevano i digiuni di cibo e di festa. Il digiuno, infine, alimenta e rafforza, non riduce, la voglia di vivere, la generatività della vita: non a caso la grande filosofia greca aveva indicato in Penia (indigenza, mancanza) il genitore di Eros. Ogni creatività, dall’arte alla famiglia all’impresa, richiede il desiderio di ciò che non si ha o non si è ancora. La radice di ogni vera crisi è lo spegnersi del desiderio del non ancora.

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Commenti - La cultura cristiana della quaresima e la sua natura civile

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/02/2013

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La quaresima ha anche una natura civile, che ci si svela subito se leggiamo le sue parole alla luce di questa fase cruciale della nostra vita pubblica. Parole che si articolano e vanno a formare un vero e proprio messaggio di cambiamento di rotta, di conversione. La prima parola è pentimento, una parola estranea alla nostra cultura, eppure fondamentale per poter ricominciare davvero dopo ogni crisi personale e collettiva. Dopo aver fatto errori, soprattutto se gravi e collettivi, per poter ricominciare e ripartire spediti nel viaggio c’è bisogno, prima, di pentirsi, perché se manca la coscienza di aver sbagliato, non si riesce a ritrovare la strada per riprendere il cammino.

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Tre parole per ripartire (e il buon desiderio)

Tre parole per ripartire (e il buon desiderio)

Commenti - La cultura cristiana della quaresima e la sua natura civile di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 17/02/2013 La quaresima ha anche una natura civile, che ci si svela subito se leggiamo le sue parole alla luce di questa fase cruciale della nostra vita pubblica. Parole che si arti...
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Commenti - Nelle nostre vite, nello stesso tempo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/02/2013

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Dobbiamo urgentemente ripensare il rapporto tra lavoro e scuola. Il lavoro è troppo assente nella formazione dei gio­vani. Nella società tradizionale la sua as­senza era buona, per la presenza pervasi­va del lavoro in tutto il resto della vita di ra­gazzi e giovani. Per i tanti che vivevano in campagna, il lavoro li attendeva fedele al ritorno dalla scuola, e a volte la precedeva nelle primissime ore del mattino. E anche chi viveva in città era circondato dai me­stieri e dalle professioni, a partire dai gio­cattoli che riproducevano, per i piccoli, i la­vori dei grandi. La scuola, allora, era un u­tile breve intervallo di non-lavoro in un mondo di lavoro (e anche duro).

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Oggi ci troviamo nella situazione opposta. Il lavoro è sempre meno presente nella cul­tura delle nostre città, e nei giochi dei bam­bini, perché il suo posto lo hanno occupa­to la finanza, i rapporti mediati dalla rete, e soprattutto il consumo. Il tour in un su­permercato, intronizzati sui carrelli della spesa, è la prima esperienza 'economi­ca' dei nostri bambini. Manca l’amicizia tra giovani e il lavoro negli anni cruciali della formazione, e così quando poi de­vono iniziare a trovare o a inventarsi un la­voro, sono prima disorientati, poi spesso disoccupati.

Ma sarebbe troppo difficile permettere che i nostri studenti, durante le scuole superiori (almeno negli ultimi anni), possano svol­gere forme di attività lavorativa alcune o­re alla settimana, o nei lunghi mesi estivi di non-scuola? Il vero ostacolo, più forte dei problemi organizzativi o della sicurez­za (l’insicurezza massima oggi si trova nei cortili dei nostri licei) va rintracciata nel­l’idea, ancora molto radicata, che il lavoro manuale non si addica alla formazione del carattere, perché la buona educazione si fa con la letteratura, la storia, la matema­tica, e non in una bottega di un artigiano, in uno studio tecnico, in una fabbrica, tan­tomeno in una fattoria agricola. Non ci sia­mo ancora liberati, nonostante San Bene­detto e l’Umanesimo civile, dell’idea vol­gare che il lavoro manuale è impuro, adat­to a servi e schiavi. L’inimicizia tra lavoro e giovani continua poi nell’Università, quando il lavoro resta ancora esperienza molto marginale, e trop­po sullo sfondo. Molti studenti universita­ri oggi fanno 'lavoretti' per mantenersi, ma pochi iniziano da studenti il mestiere che vorrebbero fare dopo la laurea. Nei de­cenni passati, quando l’economia correva e cresceva (forse troppo), poteva avere un senso studiare fino a 24-25 anni, e iniziare a lavorare dopo la laurea. Ma oggi, con u­na economia bloccata (e che lo resterà an­cora per un bel po’), se un giovane si fer­ma quattro o più anni preparandosi per la­vorare domani, è fin troppo probabile che l’economia e la società non avranno nel frattempo creato le condizioni perché quel lavoro domani esista veramente.

Un significato vero di economie e società in recessione è anche questo: la genera­zione presente non crea opportunità di la­voro per i giovani, ma le distrugge. In altre parole, se oggi un giovane non entra nel mondo del lavoro durante gli anni della formazione universitaria, rischia di non entrarci mai, o di entrarci tardi e a condi­zioni troppo sfavorevoli, perché mentre lei o lui studiano senza già lavorare, nessun al­tro sta creando opportunità di lavoro per loro. Occorre allora fare in modo che gli anni di studio nell’università non siano so­lo preparazione al lavoro che arriverà (for­se) dopo, ma siano già lavoro, non 'lavo­retti' ma vero lavoro mentre si studia.

Tutto ciò significa, me ne rendo conto, an­dare contro la tendenza in atto negli ulti­mi decenni di ridurre e formattare i per­corsi di studio, perché si considera la for­mazione come una sorta di merce che si paga oggi per lavorare meglio domani. Dobbiamo, invece, immaginare corsi di studio molto più flessibili, che affianchi­no, non sostituiscano, il lavoro, e che pos­sano durare anche molti anni, perché l’o­biettivo non è il pezzo di carta, ma la co­noscenza e l’apprendimento, che sono a­limentati anche dal lavoro, soprattutto in una società complessa come la nostra.

Ogni lavoro si impara facendolo, non a scuola, tantomeno nelle business school e con i loro master. Tutto ciò ha importanti conseguenze anche per il mondo del lavoro. Mia madre ha dovuto terminare i suoi studi alla quinta elementare, ma quei cinque anni di scuola sono cresciuti con lei, sono stati un patrimonio custodito gelosamente e fatto fruttare, e hanno accompagnato e formato la vita sua e di noi figli. Oggi invece molti dati dicono che il mondo del lavoro distrugge in pochi anni buona parte del capitale di conoscenze con cui una persona termina gli studi. Si è molto più ignoranti dopo dieci anni di lavoro che al termine dell’università, perché abbiamo costruito una civiltà del lavoro che considera gli studi come strumenti che si acquisiscono in una fase determinata della vita (giovinezza), in vista di un mondo del lavoro (adulto) che è altra cosa rispetto alla scuola e agli studi.

Tutto ciò è particolarmente vero nelle grandi imprese, che prendono bravi neolaureati, li immettono in ritmi di lavoro impossibili, non lasciano loro tempo e spazi per coltivare la loro umanità né fuori, né, tantomeno, dentro l’impresa, producendo così persone a una sola dimensione, e che anche quando studiano lo fanno per aggiornarsi e per aumentare la performance, perdendo così la cosa più vera dello studio: la gratuità. Dobbiamo riumanizzare i luoghi del lavoro post­moderni, riempiendoli di cultura, di arte, di bellezza, di gratuità, ambienti dove le persone possano fiorire in tutte le dimensioni mentre lavorano, e possano trovare il tempo per studiare cose belle e difficili anche a 40 o 50 anni, e così non si arrivi alla pensione sfiniti e persino ignoranti. Ma occorre portare più lavoro negli studi, e più studio nel lavoro.

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Commenti - Nelle nostre vite, nello stesso tempo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/02/2013

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Dobbiamo urgentemente ripensare il rapporto tra lavoro e scuola. Il lavoro è troppo assente nella formazione dei gio­vani. Nella società tradizionale la sua as­senza era buona, per la presenza pervasi­va del lavoro in tutto il resto della vita di ra­gazzi e giovani. Per i tanti che vivevano in campagna, il lavoro li attendeva fedele al ritorno dalla scuola, e a volte la precedeva nelle primissime ore del mattino. E anche chi viveva in città era circondato dai me­stieri e dalle professioni, a partire dai gio­cattoli che riproducevano, per i piccoli, i la­vori dei grandi. La scuola, allora, era un u­tile breve intervallo di non-lavoro in un mondo di lavoro (e anche duro).

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Sposiamo lavoro e studio

Sposiamo lavoro e studio

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Commenti - L'autentica lezione senese

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/02/2013

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Per capire che cosa significa per Siena e per l’Italia quanto sta accadendo in questi giorni al Monte dei Paschi, dovremmo leggere i giornali all’interno del Palazzo Pubblico di Siena, nelle sale dove si trovano gli affreschi dell’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti. Quando il Monte dei Paschi fu fondato (nel 1472) quel dipinto era già lì, al centro della città, da ben oltre un secolo (dal 1339), e avrà accompagnato anche i dibattiti e le speranze che portarono alla costituzione del Monte, che nacque come Monte di Pietà o Monte Pio. 

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Siena, infatti, fu una delle capitali del grande movimento dei Monti di Pietà, un vasto movimento popolare animato dai frati francescani. Il suo ispiratore indiscusso fu San Bernardino da Siena, le cui ‘Prediche volgari’ (popolari), pronunciate ai suoi concittadini, costituirono una vera e propria summa per quella lotta alla miseria che generò, pochi decenni dopo Bernardino, l’azione dei tanti fondatori dei Monti. A Siena il Monte nacque per iniziativa del Comune, ma l’eco della figura e delle parole infuocate di Bernardino contro usurai e avari nei venerdì di quaresima di ogni anno, furono decisive per la fondazione di quella banca pubblica, a servizio dei cittadini senesi. Se Lorenzetti avesse dipinto la sua Allegoria dopo il 1472 avrebbe certamente collocato il Monte sulla parete del Buon Governo, perché la banca e la finanza civili sono state e sono istituzioni essenziali per il benvivere sociale.

L’asse delle allegorie del Buono e del Cattivo governo è la dialettica virtù-vizi, che si trovano nella stessa sala, le une di fronte agli altri, a ricordarci, con la forza del simbolo e dell’arte, che l’albero delle virtù è lo stesso albero su cui crescono i vizi, e per questo occorre essere sempre vigilanti nella vita privata e pubblica, in modo da scoprire per tempo quando una virtù si sta tramutando in vizio. L’affresco ci mostra un Buon governo che è il frutto, il figlio, della pratica delle virtù cardinali, un elenco che mi piace riportare in questa fase della nostra vita pubblica: Giustizia, Prudenza, Temperanza, Fortezza, parole da scrivere sempre con l’iniziale maiuscola. Gli effetti del buongoverno sono la prosperità e la concordia, e soprattutto lo sviluppo della laboriosità, dell’artigianato, del commercio, dell’edilizia, degli studi, della festa, dell’arte, dell’agricoltura, dei matrimoni, che popolano le scene del Lorenzetti.

Di fronte agli affreschi sul buongoverno e i suoi effetti, troviamo quelle del Cattivo governo, con al centro la tirannide, e sopra di essa i grandi vizi civili. Il primo è, non a caso, l’avarizia, una sorta di arpia con in mano un lungo uncino per arpionare avidamente il denaro della gente. Ai piedi dell’edificio dei vizi troviamo la Giustizia, pestata e umiliata, con le mani legate. Questa giustizia vinta e soggiogata è legata con una corda tenuta da un solo individuo, mentre nell’affresco del Buon Governo la corda che lega il sovrano alla città è tenuta da tutti i cittadini assieme. In latino fides significava, infatti, sia fiducia che corda, a dire che la reciproca confidenza tra i cittadini è il primo legame sociale della civil convivenza, un legame che diventa il laccio del cacciatore in mancanza di Buon governo.

Non occorrono altre “parole” di queste di Lorenzetti per commentare le cronache di questi giorni. A noi però, nell’era della finanza speculativa, manca il vocabolario giusto, perché l’ideologia dominante ha trasformato l’avarizia (far del denaro il fine, non più un mezzo) da vizio capitale a virtù pubblica, a valore su cui si sono scelti amministratori privati e pubblici, valutati bilanci, approvati licenziamenti, assegnati premi Nobel, fissati stipendi e bonus. E mancandoci le parole adatte, succede che dopo tutto quanto è accaduto in questi ultimi anni continuiamo a pensare che la crisi del Monte dei Paschi sia un’eccezione, un episodio triste che dipende da incompetenza e corruzione, o magari dalla sfortuna.

In realtà basterebbe usare l’antico linguaggio delle virtù e dei vizi, e capiremmo che abbiamo a che fare con un vizio antico, l’avarizia, che però non è più solo vizio individuale, bensì un vizio di sistema, che ha trasformato in questi ultimi decenni troppe banche da istituzioni per il bene civile in imprese speculative, smarrendo così la propria identità e vocazione. Che ci siano pure banche speculative (non troppe), e se falliscono non si salvino con soldi pubblici; ma proteggiamo, anche con adeguate leggi che ancora mancano, le banche commerciali, la banca e la finanza popolare, territoriale e civile, che rischia di essere totalmente fagocitata dall’uncino arpionante. Ho visto alcuni miei amici di Siena profondamenti affranti e addolorati dalle vicende del Monte.

Poche città al mondo (se ce ne sono) hanno, come Siena, un legame così profondo con una banca, che viene solo dopo (se non accanto) a quello con il Palio. Questo è il modello italiano, una cultura complessa e ricca, dove anche le banche sono (state?) pezzi di vita, di cuore, di passioni e di amore civile. Il rammarico per la crisi del Monte nasce allora, per i senesi e per noi, dal prendere definitivamente atto di un tradimento, che si è consumato ormai da tempo, che tocca radici e identità. Gli esseri umani, gli italiani senz’altro, gioiscono e soffrono anche per le piazze e i monumenti delle proprie città; e qualche volta anche per le loro banche, e non solo perché temono per la sorte dei propri risparmi, ma perché i nostri beni e il nostro bene sono più grandi di quelli della nostra casa, e inglobano anche beni e simboli pubblici. E perché il nostro vero patrimonio è più grande del conto corrente e proprietà personali. Per questo le crisi delle istituzioni e la distruzione dei beni pubblici ci impoveriscono, e molto. Il nuovo CDA del Monte per le prime riunioni chieda in prestito la sala del Palazzo Pubblico di Siena: quella buona estetica potrà servire l’etica, e con essa l’economia.

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Commenti - L'autentica lezione senese

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/02/2013

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Per capire che cosa significa per Siena e per l’Italia quanto sta accadendo in questi giorni al Monte dei Paschi, dovremmo leggere i giornali all’interno del Palazzo Pubblico di Siena, nelle sale dove si trovano gli affreschi dell’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti. Quando il Monte dei Paschi fu fondato (nel 1472) quel dipinto era già lì, al centro della città, da ben oltre un secolo (dal 1339), e avrà accompagnato anche i dibattiti e le speranze che portarono alla costituzione del Monte, che nacque come Monte di Pietà o Monte Pio. 

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Le virtù capovolte

Le virtù capovolte

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Commenti - Un gran lavoro oltre le solitudini

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 27/01/2013

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La "ludopatia" prima di essere malattia da gioco è malattia del gioco. Per curare la pa­tologia da gioco è allora necessario riscoprire la sua fisiologia, ritrovando il giusto rapporto con questa dimensione essenziale della vita. Gio­care ha la stessa radice di giocondo, giubilare e anche di giovare e giovamento, perché il buon giocare fa bene al corpo e all’anima. È tra le e­sperienze umane più universali ed essenziali, e conserva una sua dimensione di mistero (per­ché anche gli animali giocano o sembrano gio­care?).

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Quando in una famiglia e comunità non si sa più giocare, lì sono sempre in profonda cri­si le buone relazioni. E come tutte le grandi pa­role dell’umano anche il gioco è ambivalente, perché può pervertirsi nel suo opposto, soprat­tutto nelle lunghe solitudini.

Durante l’infanzia il gioco è quasi tutto, e con­sente ai bambini di affrontare la loro comples­sa età, e anche le grandi ferite – mi ha sempre colpito e sorpreso vedere che dopo i funerali, mentre gli adulti continuano (giustamente) a piangere, i bambini riprendono a giocare, aiu­tando così tutti a ricominciare. Il buon gioco non termina con la fine dell’infanzia o della gio­vinezza, perché per gli adulti, e per i vecchi, il gioco non è meno essenziale che per i bambi­ni. Quando un adulto riesce, con grande lavo­ro e fatica, a non perdere la capacità di giocare si ritrova con una risorsa morale in più, parti­colarmente preziosa quando si passano mo­menti difficili e di prova, poiché il gioco rende il giogo della vita più leggero e soave.

Lo storico olandese Johan Huizinga, nel suo classico saggio Homo Ludens (l’uomo che gio­ca) scrive che «la civiltà umana sorge e si svi­luppa nel gioco, come gioco». Non solo, i mo­menti fondativi delle civiltà sono legate al gio­co (il libro dei Proverbi [cap. 8] ci fa intuire una dimensione di gioco presente anche nella Crea­zione; e credo che Gesù sapesse giocare, altri­menti non avrebbe attratto i bambini), ma sa­per giocare è essenziale per scienziati, scritto­ri, imprenditori, studiosi, la cui creatività è profondamente legata al gioco da bambino e da adulto, e alla fantasia che il buon gioco ali­menta e ricrea (in questo senso il buon gioco è anche ri-creazione).

Mi piace molto che la filosofa americana Martha Nussbaum abbia posto il gioco tra le «dieci ca­pacità fondamentali» che ogni persona do­vrebbe avere per poter svolgere una vita buo­na. Oggi gli studiosi delle cosiddette "motiva­zioni intrinseche", così importanti per il be­nessere delle persone, anche di quello lavorati­vo, quando vogliono indicare il tipo puro di at­tività a motivazione intrinseca ricorrono al gio­co, in particolare al gioco dei bambini, poiché qui l’unica motivazione è interna (intrinseca) al­l’attività stessa: la prima ricompensa del gioco è il giocare. Chi sa giocare bene sa anche ben la­vorare, tanto che non è errato dire che il gioco è il lavoro del bambino, e che alcune dimen­sioni del lavoro sono il gioco degli adulti, che quando mancano rendono il lavoro alienante.

Il buon gioco ha bisogno di compagnia, per­ché la sua natura più vera è il suo essere rela­zione, un bene relazionale. È vero che i bam­bini sanno giocare anche da soli, ma quelle bambole e quei balocchi sono per loro vivi, co­me sono vive e vere le fiabe e i loro personag­gi. Non so se da bambino mi hanno amato di più i personaggi delle mie favole e racconti o i miei vicini di casa: entrambi certamente, ma il villaggio che fa crescere bene il bambino è po­polato anche da giocattoli e fiabe, che non so­no meno vivi degli abitanti della casa e della scuola; e così in loro, e in noi, rivive l’uomo an­tico che chiamava per nome piante e pietre, perché più capace di noi di vedervi la stessa vi­ta che muove il mondo.

Oggi, però, dobbiamo essere preoccupati per il troppo tempo che i nostri bambini dedicano al gioco solitario. Il giocare con fratelli, sorelle e compagni è la prima grande palestra dove ci si allena alla gestione dei conflitti, delle delusioni e soprattutto della cooperazione. Il mondo dell’impresa usa ancora un patrimonio di cooperazione che le persone della mia generazione, e di quelle precedenti alla mia, hanno costruito anche giocando assieme da bambini e da giovani. Non è raro osservare oggi bambini seduti nello stesso luogo, persino nello stesso divano, ciascuno alle prese con il proprio giochetto elettronico, smartphone o tablet, senza nessuna interazione con i vicini: quale capacità di cooperazione avranno questi futuri lavoratori? Ci sono attività che cambiano natura, normalmente in meglio, quando vengono svolte assieme agli altri: il gioco è una di queste, ma anche il guardare un film o il cibarsi: ci sono tante solitudini dietro i disordini alimentari. È la solitudine infelice ciò che più mi colpisce quando entro per un caffè in certi bar: uomini, e tante, troppe, donne, ognuna accanto all’altro a sfregare schede o a gettare via soldi nelle macchinette, senza una parola tra di loro, tutti consumati, mangiati, da quei giochi cattivi.

C’è allora un estremo bisogno di riportare il gioco alla sua natura di bene relazionale, di incontro, di festa. Bisogna preservare, tornare a far nascere o inventare ex novo dei "luoghi del gioco buono" nei locali delle nostre associazioni, nelle parrocchie, nelle famiglie. Luoghi dove il trovarsi insieme per giocare rafforza i legami, cura le ferite delle solitudini, è antidoto alla 'cultura del solitario'. Ci sono già strumenti – tra cui il Wecoop, un gioco da tavolo comunitario inventato dalla Cooperazione sarda assieme all’Università di Cagliari – che andrebbero imitati e moltiplicati. L’azzardo pericoloso del cattivo gioco si combatte con buone leggi, ma anche con il buon gioco. E se rimpariamo l’alfabeto del giocare, rimpareremo anche a lavorare. A lavorare insieme.

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Commenti - Un gran lavoro oltre le solitudini

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 27/01/2013

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La "ludopatia" prima di essere malattia da gioco è malattia del gioco. Per curare la pa­tologia da gioco è allora necessario riscoprire la sua fisiologia, ritrovando il giusto rapporto con questa dimensione essenziale della vita. Gio­care ha la stessa radice di giocondo, giubilare e anche di giovare e giovamento, perché il buon giocare fa bene al corpo e all’anima. È tra le e­sperienze umane più universali ed essenziali, e conserva una sua dimensione di mistero (per­ché anche gli animali giocano o sembrano gio­care?).

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Per riavere buon gioco

Per riavere buon gioco

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Commenti - Creare lavoro, alimentare il futuro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/01/2013

logo_avvenireC'è una idea, quasi una ideologia, che si sta piano piano insinuando in Europa, quella che ormai prende come dato inevitabile un alto tasso di disoccupazione, visto come una sorta di prezzo da pagare all'era della globalizzazione dei mercati e della finanza. Prima della rivoluzione industriale donne, uomini, bambini e anziani lavoravano tutti o quasi (tranne i redditieri e i nobili), perché era il solo modo per sopravvivere date quelle condizioni naturali e tecniche. Una quasi piena occupazione, ma non certo una condizione ideale né desiderabile, data la quasi assenza di diritti, libertà, istruzione, salute e longevità (i nostalgici del mondo pre-moderno dovrebbero ricordare questi dati, ogni tanto). [fulltext] =>

Negli ultimi due secoli le grandi innovazioni tecnologiche e scientifiche hanno moltiplicato la ricchezza prodotta, creando molto lavoro industriale e, grazie agli altissimi livelli di produttività, molto lavoro nel settore pubblico e dei servizi. Questo mondo sta di fatto tramontando, certamente in buona parte dell'Europa, poiché l'industria non crea più lavoro, alcuni prodotti sono ormai saturi (vedi dati auto), e la crisi della produzione industriale fa sì che non si generino più risorse per la creazione di lavoro nel settore pubblico.

La domanda cruciale, che di tanto in tanto torna, e non a caso, su queste pagine, allora diventa: come creare lavoro in Italia e in Europa, e quindi a far ripartire lo sviluppo, in uno scenario così radicalmente e velocemente mutato? Una prima via è accettare il declino, ma non ci piace. Una seconda strada, che ci piace ancora meno, è rassegnarsi all'idea che circa un quarto, o forse un terzo di persone in età attiva non lavorino (quelle meno abili, i vinti che restano per via) e soppravvivano grazie ad una sorta di social card, da finanziare con le imposte dei più ricchi o magari con le entrate di lotterie e giochi. Ma esiste invece una terza buona strada? Abbiamo il dovere etico di provare almeno ad immaginarne qualche brano o sentiero, e per evitare che le nostre parole restino solo utopie (non luoghi), occorre iniziare da luoghi, realtà che "già" esistono, sebbene "non ancora" rilevanti al punto di assurgere a nuovo modello o sistema.

Un primo brano essenziale da ridisegnare per poter immaginare una strada di nuovo lavoro e sviluppo è un radicale cambiamento nel settore del credito. Non si creerà mai nuovo lavoro oggi in Italia e in Europa se non sblocchiamo il sistema finanziario e bancario. I risparmi esistono ancora, e nel nostro Paese sono molti; ma "che fine fanno?", dove vengono investiti?. C'è tanta liquidità che oggi finisce nei luoghi sbagliati, ad alimentare rendite finanziarie e di posizione che non creano lavoro, ma normalmente lo distruggono, mentre troppo spesso finanziano criminalità e guerre (investimenti che hanno sempre reso molto). Dobbiamo invece creare dei nuovi meccanismi che orientino i risparmi dei cittadini verso buoni progetti capaci di lavoro e di futuro.

Nella fase attuale, la finanza e le banche tradizionali non sono più fattori di innovazione e di sviluppo, perché troppo drogate da decenni di finanza facile e sbagliata, e perché tendono a proteggere interessi costituiti e rendite. Chi oggi ha un buon progetto veramente innovativo (nei settori dell'ambiente, dell'energia, cultura, arte, turismo, cura, cibo, abitare ...) trova quasi sempre le porte chiuse del credito. E ciò non stupisce, perché dalla storia e dalla teoria sappiamo che nelle fasi di cambio di paradigma, la finanza tradizionale non ha le categorie culturali per capire i progetti imprenditoriali veramente innovativi, quelli cioè capaci di far partire un nuovo ciclo economico. Ci troviamo, per usare le parole del grande economista austriaco J.A. Schumpeter, in una fase di blocco, in uno "stato stazionario", che può essere spezzato solo da innovazioni vere e di sistema, capaci cioè di creare nuova vera ricchezza, e nuovo lavoro. Ma il punto cruciale, come ci ricorda sempre Schumpeter, è che nelle moderne economie nessuna vera innovazione può partire senza banchieri innovatori,  istituzioni e persone dotate di una nuova mentalità e nuovi occhi capaci di vedere le potenzialità di reddito in quei progetti che oggi possono dare una svolta ad una situazione veramente difficile. Nei tempi di gravi crisi l'elemento cruciale non è tanto la diminuzione della ricchezza, ma la sua accumulazione nelle mani sbagliate: "La ricchezza bene acquistata e bene usata è un grande dono di Dio; ma ne' ricchi è troppo pericolo" (San Bernardino da Siena, 1427).

Una esperienza piccola ma esemplare è quella del "crouwd funding" (finanziamento di massa), un fenomeno in rapida crescita anche in Italia (sebbene partito solo pochi anni fa), che, con un forte utilizzo del web, mette assieme progetti imprenditoriali e gruppi di cittadini, che possono finanziarlo se vi vedono elementi di novità. Sono nuove forme di finanziamento popolare, che orienta risparmio privato verso nuovi processi produttivi, un denaro che finché resta confinato ai soli strumenti tradizionali finisce per alimentare solo rendite.

Se saremo capaci di mettere a sistema queste nuove forme di finanza civile, dando vita non a dieci ma a decine di migliaia di progetti di finanza popolare, con adeguati interventi politici e legislativi, dando vita ad alleanze con le nostre antiche istituzioni finanziarie a vocazione sociale e popolare (una vocazione che oggi va rilanciata con coraggio e creatività), potremmo fare qualcosa di decisivo. E così emuleremo, creativamente, i francescani dei Monti di Pietà, i fondatori delle migliaia di casse rurali tra Otto e Novecento, delle casse di risparmio, delle mutue, istituzioni nate nei tempi di crisi, quando c'è un bisogno vitale di finanza civile, la sola capace di rimettere in moto la macchina economica, e così ricreare lavoro e rafforzare la democrazia.

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Commenti - Creare lavoro, alimentare il futuro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/01/2013

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Ridiamoci credito

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Agorà - Il filosofo campano nasceva 300 anni fa: i suoi concetti di “economia civile” e “pubblica felicità” quanto mai attuali rispetto al pensatore scozzese

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire 13/01/2013

Logo_Avvenire_AgorIl 2013 è il trecentesimo anniversario della nascita dell’economista e filosofo Antonio Genovesi, nato a Castiglione (Salerno) il 1 novembre del 1713. Un autore che ha cose molto importanti da dire all’Italia di oggi, e di domani. Genovesi è uno dei fondatori della moderna scienza economica. Il primo cattedratico di economia nella storia, a Napoli nel 1754.

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Le sue Lezioni di commercio ossia di economia civile (1765) furono molto influenti in Italia, conosciute e tradotte in Europa e oltre. Genovesi visse e operò nella stessa epoca di Adam Smith, il filosofo scozzese al quale normalmente si riconosce la paternità dell’economia moderna. I due si assomigliavano molto. Entrambi furono prima filosofi e poi economisti, entrambi moderni e quindi critici del mondo feudale, e convinti che il mercato avrebbe contribuito decisamente alla costruzione di un mondo più egualitario e libero.  Eppure l’Economia Civile di Genovesi non è soltanto la versione meridiana e povera della Political Economy d’oltremanica. L’Economia civile ha tratti di originalità, e su più fronti.

Innanzitutto diverso era il contesto culturale. Smith opera in una cultura calvinista (insegnava ai futuri leader della chiesa scozzese), Genovesi era abate, e nella Napoli illuminista e borbonica. Smith è profondamente legato alla scuola filosofica, Genovesi era un erede dell’umanesimo classico di Aristotele e di San Tommaso, e di Vico, ma anche di autori moderni francesi (Cartesio) e inglesi (Locke).

Queste differenze culturali si tradussero anche in una diversa economia. Per Smith il protagonista del nuovo mondo è l’individuo, magari virtuoso, prudente e guidato da un interesse illuminato (self-interest). Smith, e dopo di lui l’economia come oggi la conosciamo in tutto il mondo, nell’immaginare le azioni economiche partiva da una idea di uomo parsimoniosa, capace di guardare e cercare i propri interessi. Il bene comune, la ricchezza e il benessere delle nazioni  per Smith non è mestiere dei singoli individui, i quali è bene che non pensino al bene comune quando agiscono nei mercati: “non ho mai visto fare niente di buono da chi si prefiggeva di operare per il bene comune” (1776). Parole realistiche, ma certamente pessimiste e un po’ ciniche, che affidano ogni istanza di bene comune alla ‘mano invisibile’ e impersonale dei mercati, e uno po’ alla mano visibile del Governo.

Genovesi non ha una visione ingenua dell’essere umano. Era un esperto, non meno di Smith, di sentimenti e di passioni umane (vi aveva anche dedicato un trattato, la Diceosina, nel 1766, che è uno dei primi libri dove si parla di diritti fondamentali dell’uomo, con importanti riferimenti anche agli animali), ma era newtonianamente convinto che la persona fosse un equilibrio di due tipi di forze, quelle “concentrive” (auto-interessate) e quelle “diffusive” (pro-sociali), entrambe primitive e sempre presenti. Per Genovesi il soggetto è dunque persona, una realtà costitutivamente relazionale, fatta per reciprocità. Da qui la sua idea di mercato come “mutua assistenza”, una intuizione originale che oggi sta vivendo una nuova giovinezza, e non solo in Italia.

Il messaggio di Genovesi è più attuale oggi che nel Settecento, quando prevalse l’Economia Politica di Smith, e si eclissò l’Economia civile di Genovesi. Sono, infatti, molte, e tutte rilevanti, le parole che l’economista napoletano ci invia per l’oggi dell’Italia. La prima è pubblica felicità: mai come in questi tempi ci stiamo accorgendo che la felicità o è pubblica o non è, poiché la ricchezza cercata contro gli altri produce malessere per tutti.

La seconda è contenuta nella stessa espressione Economia civile: l’economia se non è civile è semplicemente incivile, mai eticamente neutrale, perché attività umana. Se l’impresa crea posti di lavoro, rispetta l’ambiente, lavoratori, società, migliora beni e servizi, è civile; se non lo fa è incivile, non c’è terza possibilità. Infine, il terzo messaggio ha a che fare con l’Italia, e con il suo modello economico e sociale. Genovesi è una delle più belle espressioni della tradizione italiana e meridiana, che ci ricorda che esiste una nostra eccellenza che non nasce dall’imitazione di altri modelli e umanesimi nordici o americani, ma dal mettere in moto, e a reddito, il genio italiano frutto di secoli di meticciato, di incroci e incontri tra popoli, culture, campanili, frati, monache, artisti, mercanti, mari, valli e montagne. Gli eredi migliori di Genovesi sono il mondo della cooperazione, i distretti del “made in Italy”, la finanza etica, il turismo sostenibile e la buona agricoltura, e tutte quelle esperienze civili capaci di mettere a sistema e a reddito relazioni, gratuità, storia, di generare valore dai valori.

Il 2013 è un anno cruciale per l’Italia, e per l’Europa. L’anniversario di Genovesi, e i suoi messaggi di Economia civile, non potevano arrivare in un momento migliore. Saremo capaci di farli fruttare?

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Iniziative – Fra Napoli, Roma e Milano

Per celebrare la figura di Antonio Genovesi, e rendere presente il suo messaggio all’Italia di oggi, l’Istituto Luigi Sturzo, l’Istituto Universitario Sophia e l’Università di Milano-Bicocca, con la collaborazione delle BCC, la Fondazione con il Sud, Eupolis regione Lombardia e il Banco di Napoli, promuovono una serie di iniziative dedicate ad Antonio Genovesi. L’anno genovesiano vuole essere l’occasione di riscoprire e valorizzare le radici di una tradizione economica che, per la ricchezza dei propri fondamenti antropologici, ha ancora molto da dire all’economia di oggi. Nell’ambito dei diversi incontri scientifici interverranno, tra gli altri, Stefano Zamagni, Mauro Magatti, Luigino Bruni e Pier Luigi Porta. Il progetto prevede anche la pubblicazione di una nuova edizione delle Lezioni di Economia Civile di A. Genovesi, per i tipi di Vita e Pensiero.

Principali Appuntamenti:

8 Marzo - Inaugurazione ‘Anno genovesiano’, Castiglione del Genovesi (SA), convegno nei luoghi natii.

9 Marzo - « Antonio Genovesi: Economic and Civil Perspective 300 Years Later », Napoli, Convegno Internazionale, Sede centrale del Banco di Napoli

4-5 Giugno - « Public Happiness », Roma, Convegno Internazionale, Università Angelicum

6 Giugno - « Ragioni e sentimenti civili per un’economia ed una politica dal volto umano: la lezione di Antonio Genovesi », Roma, Convegno Internazionale, Istituto L. Sturzo e LUMSA

14 novembre - « Antonio Genovesi maestro degli economisti lombardi nell’età dell’Illuminismo », Milano, Convegno Internazionale, Istituto Lombardo - Accademia di scienze e lettere

Per iscrizioni e prenotazioni ai vari eventi: francesca.daldegan@gmail.com

Per altre informazioni, tra cui il programma del primo convegno a Napoli, www.sturzo.it (progetto Genovesi)

 

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Agorà - Il filosofo campano nasceva 300 anni fa: i suoi concetti di “economia civile” e “pubblica felicità” quanto mai attuali rispetto al pensatore scozzese

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire 13/01/2013

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Genovesi: la rivincita dell’abate contro Adam Smith

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