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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/09/2018
Pubblichiamo uno stralcio del libro di Luigino Bruni "Capitalismo infelice. Vita umana e religione del profitto" edito da Giunti (pagine 160, euro 16,00), che è da oggi in libreria. Viene pubblicato nella nuova collana 'Terra futura' (che Giunti realizza in collaborazione con Slow Food editore e l’Università di scienze gastronomiche) che per ora conta altri tre titoli tutti in uscita lo stesso giorno.
Mircea Eliade, il grande antropologo romeno, nel suo classico saggio Il sacro e il profano , scriveva: «L’uomo moderno ha desacralizzato il suo mondo e ha deciso di vivere un’esistenza profana. Basterà constatare il fatto che la desacralizzazione caratterizza l’esperienza totale dell’uomo non religioso delle società moderne». Se Eliade fosse vissuto oggi, molto probabilmente non avrebbe scritto questa frase, perché si sarebbe accorto che il capitalismo del XXI secolo sta risacralizzando il mondo, sebbene in un modo tutto nuovo e diverso dal mondo sacro di cui parlava Eliade. E, quasi certamente, la neo-sacralizzazione del nostro tempo Eliade e i suoi colleghi del Novecento l’avrebbero chiamata neo-idolatria.
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Questo saggio analizza e discute alcune delle dimensioni del nuovo spirito dell’economia del nostro tempo. Un’economia che continuo a chiamare capitalismo, in mancanza di una parola sintetica più efficace, ben consapevole che tra quanto chiamiamo oggi capitalismo e quello che abbiamo conosciuto nei due secoli precedenti, ci sono molte differenze, alcune così radicali (per esempio la finanza e la rivoluzione del web ) da renderci molto complicata la scelta di usare la stessa parola. Esso è quindi una riflessione su ciò che non vediamo (gli spiriti sono invisibili), che non vogliamo vedere o che il sistema non ci fa vedere, ma di cui subiamo le conseguenze soprattutto in termini di gioia di vivere, il cui calo sembra essere una nota dominante del nostro capitalismo.
La dimensione religioso-sacrale del capitalismo non è cosa nuova. Prima che Max Weber o Karl Marx ce lo dicessero chiaramente, e ciascuno a modo suo, all’inizio dell’Ottocento il francese Claude-Henri de Saint-Simon immaginò e realizzò una vera e propria religione degli imprenditori, dei capitalisti e della scienza, che ebbe un notevole successo e adepti in tutta Europa. In una famosa lettera nel 1803, Saint-Simon scriveva: «La notte scorsa ho udito queste parole: 'Roma rinuncerà alla pretesa di essere il centro della mia chiesa; il papa, i cardinali, i vescovi e i preti cesseranno di parlare in mio nome… Sappi che Io ho fatto sedere Newton al mio fianco e gli ho affidato la direzione dell’intelligenza umana e la guida degli abitanti di tutti i pianeti… Ogni consiglio farà costruire un tempio che ospiterà un mausoleo in onore di Newton… Ogni fedele che risiede a meno di un giorno di cammino dal tempio scenderà una volta all’anno nel mausoleo di Newton. […] Nei dintorni del tempio saranno costruiti laboratori, officine, e un collegio. Ogni lusso sarà riservato al tempio…'».
La nuova religione di Saint-Simon era universale e laica; i sommi sacerdoti erano gli scienziati, gli ingegneri, gli industriali. Da Marx fu annoverato tra gli autori utopici. Ma, in realtà, se leggiamo bene le sue idee e il suo movimento, dovremmo dire che più che di utopia si trattava di una sorta di strana profezia, se pensiamo a cosa è diventato oggi quel capitalismo che il filosofo francese osservava nella prima fase del suo sviluppo. Con alcune differenze però: l’alleanza tra tecnica e capitale, al tempo di Saint-Simon ancora incipiente, oggi si è potenziata e radicalizzata, ma non sono stati gli ingegneri e i produttori a diventarne i sacerdoti. Il loro posto lo hanno preso i finanzieri e soprattutto i manager, e al centro del tempio non c’è il dio-produttore ma il dio-consumatore. Niente più dell’ideologia del business sta infatti dominando il nostro tempo.
Un’ideologia prodotta e generata nelle business school di tutto il mondo, che conosce un enorme successo perché non si presenta come un’ideologia o religione (qual è), ma come una tecnica, e quindi di portata universale. Gli stessi strumenti del management si applicano a Dallas e a Nairobi, a Milano e in Siberia, perché le tecniche non sono dipendenti dalla cultura e dal carattere dei popoli: un’automobile o una lavastoviglie funzionano allo stesso modo in tutto il mondo, con qualche attenzione per le gomme e per il liquido antigelo. Così gli stessi strumenti di management dovrebbero funzionare allo stesso modo per le multinazionali capitalistiche e per le comunità di suore, perché, si dice, sono tutte aziende e in quanto tali sono tutte uguali. Sotto l’universalismo della tecnica si veicola allora una visione del mondo, dell’individuo, delle relazioni sociali.
Una visione che, come tutte le religioni, ha i suoi dogmi. I principali si chiamano meritocrazia e incentivi. Con la meritocrazia, ad esempio, si legittima la diseguaglianza, perché i talenti non sono interpretati come dono ma come merito individuale. Un dogma da cui deriva la sempre più pervasiva idea che i poveri sono demeritevoli e quindi colpevoli, e in quanto tali non abbiamo nessun obbligo morale di soccorrerli: al massimo possiamo pagare qualche Ong perché se ne occupi in modo che non ci diano troppo fastidio. Questo libro è dunque un dialogo sulla natura religiosa e idolatrica del capitalismo del nostro tempo. Ho scelto di trattare temi complessi con uno stile non specialistico, senza appesantire il testo con note e citazioni di opere (che comunque si trovano elencate in bibliografia), facendo mio il metodo di Antonio Genovesi, fondatore dell’Economia civile, che diceva: «Scriverò dunque come penso, e parlerò come tra noi si parla, perché amo di essere inteso, non ammirato».
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Economia è una parola greca che rimanda direttamente alla casa (oikos nomos, regole per gestire la casa), quindi alla famiglia. Eppure l’economia moderna, e ancor più quella contemporanea, si è pensata come un ambito retto da principi diversi, distinti e per molti versi opposti ai principi e ai valori che hanno sempre retto e continuano a reggere la famiglia. Un principio fondante la famiglia, forse il primo e quello sottostante gli altri, è quello di gratuità, che è quanto è di più distante dall’economia capitalistica, che conosce surrogati della gratuità (sconti, filantropia, saldi) che svolgono la funzione di immunizzare i mercati dalla gratuità vera.
Esiste una amicizia naturale tra l’Italia e il Bene comune, questa espressione che sentiamo risuonare, che sta nel cuore della Dottrina sociale della Chiesa,
Finché sulla terra ci sarà un idolo, avremo ancora bisogno di profeti. E dagli idoli la nostra società post-capitalistica appiattita sul feticismo del consumare – un culto con milioni di totem, oggi pure virtuali e personalizzati – è quasi divorata. L’umanesimo biblico che Luigino Bruni continua a esplorare in chiave sociale, economica e antropologica rappresenta anzitutto un antidoto all’idolatria. Ma non si svela pienamente trascurando i profeti: «Ci resta soprattutto precluso senza Isaia», afferma l’economista marchigiano, con il quale conversiamo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro,
Lionello Bonfanti
«Le tematiche economiche e finanziarie, mai come oggi, attirano la nostra attenzione, a motivo del crescente influsso esercitato dai mercati sul benessere materiale di buona parte dell’umanità». Così inizia il documento
Oggi è la festa dei lavoratori, di tutti lavoratori. È anche la festa del lavoro. Ma non è la festa di tutto il lavoro, perché non tutto il lavoro né tutti i lavori meritano di essere festeggiati. Il lavoro senza aggettivi qualificativi non parla abbastanza per dirci se merita o no la nostra festa.
In queste settimane post-elettorali si sta riaccendendo il dibattito sulle diverse proposte di reddito di cittadinanza e sulle sue varianti. Il confronto è giustamente serio e appassionante, perché tocca cose molto importanti come la povertà, il lavoro, il non lavoro.
Mercato, moneta, debito, profitto: nel grande racconto biblico sono già presenti la maggior parte delle categorie, anche economiche, che hanno fondato la nostra civiltà. A questo codice simbolico dell’Occidente, nel corso dei millenni, hanno attinto a piene mani la poesia, la letteratura e l’arte. Per non parlare della filosofia o della teoria politica. Persino la psicoanalisi, in anni recenti, si è avvalsa della potenza generativa degli archetipi vetero-testamentari allargando il bacino della saggezza greca, per dirla con Charles Moeller, grazie al paradosso cristiano. L’Economia no. Anzi: quello tra Bibbia ed Economia è un incontro per troppo tempo mancato al quale, proprio per questa ragione, Luigino Bruni ha scelto di dedicare, negli ultimissimi anni, una porzione rilevante della sua ricerca. Continua infatti anche nel 2018, al Polo Lionello Bonfanti, l’esperienza iniziata a giugno con la 'Settimana di Economia Biblica':
Il mercato è uno, ma i mercati sono molti. Quando si parla e si discute seriamente di mercato e di Stato – poli di un dibattito che si vuol riaccendere anche usando lenti dal fuoco vecchio – dovremmo prima specificare di quale mercato e di quale Stato stiamo parlando. Perché è solo il Mercato con la "M" grande, creazione irreale e astratta delle ideologie, a essere uno solo. Ma se vogliamo capire cosa sta accadendo all’economia mondiale e in quella del nostro Paese, e magari cercare di migliorarla, dobbiamo uscire dal mondo incantato dei Mercati e degli Stati irreali.
«Il capitalismo è una religione… In futuro ne avremo una visione più chiara». Scriveva nel 1922 il filosofo Walter Benjamin. Parole profetiche, perché mai come in questo nostro tempo il capitalismo della finanza e dei consumi “24ore7giorni” sta rivelando la sua natura religiosa o, meglio, idolatrica. Qualcosa di tanto rilevante quanto sottovalutato dai pensatori del nostro tempo. Non da John Milbank, anglicano, uno dei teologi contemporanei più profondi e influenti. Lo abbiamo incontrato in questo novembre 2017, alla Lumsa di Roma, in occasione del convegno internazionale “L’eredità di Martin Lutero nelle scienze economiche e sociali moderne”.
Non è mai stato facile scrivere un’etica del denaro e dell’economia partendo dai vangeli. Riconoscere questa difficoltà, potrebbe in molti casi essere sufficiente per non iniziare un tale compito o fermarsi subito. Ma la tentazione di ricavare direttamente dal vangelo principi morali per l’economia della nostra società è molto forte, quasi invincibile. Qualche volta, anche chi legge questi libri sente un bisogno, anche questo invincibile, di scriverne una recensione, soprattutto se l’oggetto del libro sono i poveri e la povertà – che fanno spesso fatica a difendersi da soli dagli scrittori e dagli esperti. Ho fatto questa esperienza dopo la lettura di un piccolo libro di André Naud (1925-2002),
A chi interessa ciò che il mondo cattolico vive, pensa, propone in ambito sociale ed economico? Dal silenzio imbarazzante dei media cosiddetti laici sui lavori e sulle proposte della
È
Uscire dalle trappole di povertà è stato sempre estremamente difficile. E questo perché la povertà economica si manifesta come una assenza di reddito, ma quel reddito che manca dipende da una carenza di capitali: capitali sociali, relazionali, familiari, educativi, etc. E quindi se non agisco sul piano dei capitali, i flussi di reddito non arrivano, e se arrivano si disperdono, non fanno uscire le persone dalla condizione di povertà, e non di rado la peggiorano – quando quel denaro finisce nei posti sbagliati, come le slotmachines e i gratta-e-vinci.