Editoriali Avvenire

Economia Civile

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Commenti -  Conta ciò che si fa. Di più come.

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 14/10/2012

logo_avvenireIn Europa ci sono 25 milioni di disoccupati, un numero destinato, con ogni probabilità, a crescere nei prossimi anni, a meno di svolte che per ora restano nel regno dei desideri. Dovremmo fermarci di più a riflettere su questi numeri fatti di carne e sangue, che possono dirci molte cose, e ci potrebbero spingere all'azione per cambiarli e migliorarli.

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Se pensassimo fino in fondo a questi numeri, senza fermarci alla superficie del fenomeno, ci accorgeremmo presto che il principale costo delle crisi economiche, soprattutto di quelle profonde ed epocali come quella di oggi, è sempre quello umano. Ma il principale ostacolo che si incontra subito è la mancanza di indici di bilancio o di monete capaci di misurarlo, compensarlo, e spesso perno di vederlo. Non entra nel Pil, e solo l’osservazione della vita vera della gente e del mondo del lavoro potrebbe almeno in parte rivelarci.

Le componenti principali di questo costo umano, invisibile ma realissimo, sono due, che aumentano entrambe in tempi di crisi: la disoccupazione in senso stretto e la sofferenza che nasce dal dover fare lavori sbagliati per vivere. Della prima componente, cioè dei costi della disoccupazione, sappiamo abbastanza, ma non sappiamo e non diciamo tutto: si sottolinea poco, ad esempio, il danno di avere un numero crescente di giovani fuori dal mondo del lavoro. E quando i giovani non lavorano sono certamente i giovani stessi a perdere molto, moltissimo, per la mancanza di reddito e per non investire lavorando gli anni migliori e più creativi della vita; ma perde moltissimo anche il  mondo dell'impresa, che quando non ha abbastanza giovani tra i suoi lavoratori  non riesce a innovare veramente, non ha abbastanza entusiasmo, gratuità, voglia di futuro e speranza.

Un Paese come il nostro e come tanti altri in Europa (non nel resto del pianeta) che lasciano troppi giovani fuori dal mondo produttivo, genera allora un grande duplice grave danno: per i giovani (e quindi per tutti) e per le imprese (e quindi per tutti). Ma c'è di più, e per capirlo dobbiamo considerare la seconda componente del costo umano della disoccupazione: la profonda sofferenza di chi, quando il lavoro manca, è costretto ad accettare lavori che non corrispondono alla propria vocazione e ai propri talenti. Pèrché? E in quale senso? Un giorno rividi una mia compagna di liceo, che lavorava, laureata, come cassiera in un supermercato. Al vedermi arrossì, in evidente disagio che nasceva dal sapere, lei per prima, che quel lavoro che stava facendo non era quello che aveva voluto, sognato, per cui aveva studiato e sudato tanti anni. La prima cosa che avrei voluto dirle è farle in qualche modo arrivare, è il valore etico del lavoro, anche quando è svolto "semplicemente" per procurarsi il necessario per vivere, non dipendere dagli altri, e magari far vivere bene le persone alle quali si è legati e di cui si è responsabili.

Milioni di persone vanno tutti i giorni a lavorare per questa ragione, e nel lavorare per vivere e far vivere meglio possibile nobilitano il lavoro, se stessi, la società. Tutto questo può essere già molto; ma il lavoro non è mai solo questo, perché quell'essere simbolico che chiamiamo "persona" è sempre in cerca di senso in quello che fa. E se il lavoro mentre mi dà da vivere non mi dà anche senso (e cioè significato e direzione), il lavoro darà pure un bene (salario, identità sociale), ma procurerà molta sofferenza nel lavoratore e nelle relazioni attorno a lui o a lei, dentro e fuori le imprese. C’è, però, una possibilità  -avrei voluto aggiungere in quel dialogo silenzioso tra due vecchi compagni di scuola- per redimere e dar senso a questa sofferenza: cercare di fare bene ciò che si fa. Anzi, sono convinto che esista una sorta di regola aurea: «Più il lavoro che svolgiamo è sbagliato, più dobbiamo farlo bene, se non vogliamo morire».

Se si lavora nel posto sbagliato, se si fanno cose lontanissime da quelle che si pensa siano la professione che mi farebbe fiorire, l'unico modo per salvarsi è lavorare bene. Perché se lavoro male in un lavoro sbagliato, mi spengo dentro. Perché non rimane più nulla di vero a cui aggrapparmi per continuare a vivere e a crescere. E nel far bene qualsiasi lavoro aiuta pensarlo e viverlo come "servizio", questa parola oggi non più di moda perché non è di moda la vita, ma che è sempre fondativa di ogni vera civiltà.

Tutti, però, cittadini, imprese è istituzioni, dobbiamo fare di più perché un numero sempre maggiore di persone (giovani in particolare) lavorino, è possibilmente nel luogo giusto. Erano soprattutto queste le cose che avrei voluto dire a quella mia compagna di scuola, e che bisognerebbe saper dire ai tanti concittadini che oggi, per vivere o sopravvivere, continuano a rendere sacro e degno il loro lavoro, ogni lavoro. E può anche accadere, fatto non raro, che a forza di far bene un lavoro che non piace, si finisca un giorno per amarlo.

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Commenti -  Conta ciò che si fa. Di più come.

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Il lavoro che salva

Il lavoro che salva

Commenti -  Conta ciò che si fa. Di più come. di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 14/10/2012 In Europa ci sono 25 milioni di disoccupati, un numero destinato, con ogni probabilità, a crescere nei prossimi anni, a meno di svolte che per ora restano nel regno dei desideri. Dovremmo ferm...
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Commenti -  Un mondo vitale eppure sottovalutato e maltrattato. È tempo di cambiare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 07/10/2012

logo_avvenireMentre si continua ad annunciare e ad attendere la ripresa dall’economia “che conta”, in Italia la piccola economia sociale e civile cresce veramente. Il variegato (e ricco) mondo cooperativo, dell’impresa sociale, del privato–sociale, negli ultimi anni ha registrato significativi successi sia in termini di occupazione, sia di Pil.

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Secondo l’ultimo rapporto (in uscita) del Comitato economico e sociale europeo, il numero di lavoratori nell’economia sociale italiana dal 2002 al 2010 è aumentato di circa il 60%, e oggi occupa oltre 2.220.000 persone, contribuendo a circa il 10% del nostro Pil, valori tra i più alti in Europa. E non è poco, se pensiamo che la Fiat occupa, direttamente e con gli indotti, meno del 5% del totale dell’occupazione generata dall’economia sociale italiana. L’economia sociale e civile è un muro maestro dell’intera economia europea, la cui anima è ancora la cooperazione (un’anima che presto potrebbe perdere se non inverte la deriva di omologazione alle imprese capitalistiche, e ai loro livelli di remunerazione dei top manager).

La cooperazione ha offerto in questi due ultimi secoli un contributo fondamentale al modello europeo di economia di mercato, che è diverso da quello statunitense o cinese anche per il peso che hanno in esso la dimensione sociale e la mutualità, espressione del principio di fraternità e delle sue radici cristiane e cattoliche. L’economia sociale, poi, oltre ai posti di lavoro crea inclusione e riduce la diseguaglianza, la malattia più grave delle nostre economie capitalistiche. La buona crescita dell’economia sociale oggi si sta, tuttavia, fermando. E questo per due principali ragioni: i tagli al welfare e l’accesso al credito. I tagli e l’inasprimento della tassazione stanno colpendo duramente l’economia sociale.

Molte di queste imprese, occupandosi direttamente di beni meritori come la cura e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, vivono grazie a un’alleanza complessa con famiglie, società civile, imprese e pubblica amministrazione. Il “patto di stabilità” colpisce in Italia poco o affatto i ricchi mentre rischia di essere devastante per l’economia sociale e civile, che non ha dalla sua parte i poteri forti che trattano e negoziano nei luoghi che contano. E così quando bisogna decidere dove tagliare si colpisce Lazzaro, e si lascia prosperare il “ricco epulone” con le sue rendite – continuo ad essere allibito, e in certi momenti sdegnato, per la perdurante incapacità di chi regge il timone in Italia e in Europa di capire che il vero “nemico” delle nostre economie e delle nostre società sono le rendite, non i veri imprenditori che continuano a essere trattati come potenziali evasori, mentre i rentiers ringraziano, sorridendo.

C’è poi il problema del credito alle imprese, come ha ricordato con forza anche il presidente Monti. Tra queste imprese che non hanno adeguato accesso al credito, e quindi soffrono e muoiono (falliscono le imprese ma, non dimentichiamolo mai, continuano a morire anche imprenditori e lavoratori), ci sono le piccole e medie imprese e ci sono anche le imprese sociali. Queste, se misurate con i parametri di Basilea e della finanza speculativa, risultano spesso inaffidabili – anche perché questi parametri non sono stati pensati per le piccole e medie imprese, e tantomeno per le imprese sociali. Peccato che in realtà, al di là degli algoritmi, i dati veri ci dicono che queste imprese sono molto più affidabili di tante multinazionali con ottime certificazioni di bilancio, perché la vera fiducia (quella che poi viene ripagata e crea sviluppo) nasce dai territori, e la può concedere solo chi vive in essi, a contatto con la gente, e non in lontani centri decisionali di fronte agli schermi dei pc. Le Banche di credito cooperativo, e altre banche più attente alla dimensione etica e al mondo non profit, già fanno molto, ma non basta.

Occorre fare di più e meglio. Oggi il sistema bancario è troppo malato e intossicato da anni di gestione sbagliata per poter compiere le scelte giuste nel concedere credito. Troppi dirigenti bancari hanno perso il contatto con le imprese vere, con i volti della fatica e del lavoro, e quindi non sanno più distinguere le garanzie vere da quelle finte e di carta, e sbagliano continuando a non concedere credito a chi lo merita e ne ha vitale bisogno, e magari a erogarlo a chi non lo merita e produce danni. E così non crescono né le buone imprese né la buona banca. Che fare?

Occorre riportare il sistema bancario alla sua funzione di interesse pubblico. Questa crisi dovrebbe produrre una riforma radicale del sistema bancario (che di fatto ancora resta quello pre–crisi). Una riforma che, oltre a fissare una chiara distinzione tra banche d’affari e banche ordinarie, dovrebbe prevedere una maggiore prossimità territoriale del processo decisionale, e, tra l’altro, far sì che nei Cda delle banche siedano rappresentanti veri della società civile, riportando così i territori nelle banche e le banche nei territori. A chi rispondono oggi i Cda delle banche? Ai soci? Ai fondi di investimento?

Peccato che siano state quasi tutte “salvate” o, comunque, puntellate con soldi pubblici, cioè dei cittadini, e a questi debbono tornare prima di tutto a rispondere. Riportando i territori e la gente nelle banche, e le banche nei territori, si renderebbe efficace e concreto quel “principio di sussidiarietà” che sta alla base dei trattati politici europei e che, però, le istituzioni e i trattati finanziari stanno tradendo. La politica economico–finanziaria europea è infatti basata su una “sussidiarietà a ritroso”: le scelte si fanno a Francoforte e a Bruxelles e poi si applicano come dogmi nelle realtà nazionali e locali, operando così un ribaltamento e un tradimento grave della sussidiarietà, cui stiamo assistendo in modo troppo passivo.

Per cambiare tutto ciò, e far continuare a crescere l’economia sociale, e con essa le tante buone imprese e banche territoriali che continuano a sostenere l’Italia, ci sarebbe bisogno di una forza delle idee e delle istituzioni che non si intravvedono né in Italia né in Europa. Ma possiamo e dobbiamo continuare a desiderarla, volerla, chiederla. Per ottenerla.

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Commenti -  Un mondo vitale eppure sottovalutato e maltrattato. È tempo di cambiare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 07/10/2012

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Economia sociale decisiva (ma chi ha potere guarda altrove)

Economia sociale decisiva (ma chi ha potere guarda altrove)

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Commenti -  Il mercato non basta

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/09/2012

logo_avvenireL’Italia oggi ha un estremo bisogno di felicità pubblica. Pubblica felicità è una grande 'parola' della tradizione economica e civile italiana, che ha molte importanti cose da dire a questa nostra età. In una fase storica rivoluzionaria (il secondo Settecento) per molti versi simile a quella attuale, gli economisti italiani associando l’economia alla pubblica felicità volevano sottolineare tre aspetti.

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1) Senza sviluppo economico i popoli non possono essere veramente felici e non escono mai dalla condizione del servo. 2) La felicità, sia quella pubblica sia quella personale, nasce dalle virtù, come dice anche la radice latina di felicitas, dove il prefisso fe è lo stesso di femina, fertile, fecondo: la felicità arriva solo coltivando la virtù, come i frutti dalla fatica e dalla cura della terra. 3) La felicità è un bene comune, perché mentre si può essere ricchi anche da soli (soprattutto se si hanno rendite), per essere felici occorre coltivare le relazioni, soprattutto i beni relazionali, politici, civili.

Questi tre messaggi, che provengono dalla nostra vena più ricca e profonda, sono di una attualità e urgenza assolute. Questa crisi non ci sta proprio dicendo che quando l’economia è in crisi, quando il lavoro manca ed è fragile, quando c’è recessione, è l’intera vita delle famiglie e dei popoli che diventa infelice? Non va mai dimenticato che l’economia può essere accostata a felicità solo se e solo quando l’economia e gli economisti conoscono e combattono le parole dell’infelicità, quelle che narrano di poca, sbagliata o troppa economia. L’abbondono delle virtù – il secondo messaggio – e la lode dei vizi hanno avuto e hanno gran parte nel declino economico, etico e politico del nostro Paese. I vizi ci sono sempre stati, ma il genio della nostra generazione è di averne trasformati parecchi (avidità, azzardo morale…) in virtù, eliminando così quella vergogna pubblica che è sempre stata il principale vaccino dei vizi.

E quando si lodano i furbi, quando hanno successo gli opportunisti e i cinici, quando si remunerano lautamente i percettori di rendite, si commette quello che per l’aquilano Giacinto Dragonetti era l’errore civile più grande: «Si nuoce di più con situar male le ricompense, che col sopprimerle» (1766). Infine il terzo cruciale messaggio: l’Italia ripartirà se sarà capace di un grande progetto comune. C’è oggi troppa ricerca di felicità private, che, come tutti i beni privati, sono rivali e a 'somma zero' (cioè la maggiore felicità dell’uno è a scapito di quella degli altri). La ricerca inutile di queste pseudo­felicità 'contro', produce solo inimicizia civile, paura, insicurezza, noia e alla lunga frustrazione e malessere pubblico, e privato. La pubblica felicità ci dice invece qualcosa di diverso e di opposto: non si può essere felici da soli, e che l’infelicità degli altri ci riguarda, soprattutto l’infelicità civile, come quella dovuta alla disoccupazione, che non è mai faccenda privata ma sempre pubblica essendo il lavoro al centro del patto sociale. Se riduciamo questa infelicità pubblica, aumentiamo la felicità di tutti e di ciascuno.

Oggi però all’Italia non basta un progetto comune: occorre anche un grande progetto pubblico. Fermeremo veramente il declino italiano non con più mercato capitalistico ma con più pubblico e più istituzioni locali, nazionali, europee e internazionali (per la finanza): all’economia italiana, da qualche decennio, manca soprattutto una politica industriale (vedi Taranto, Sulcis, Fiat e migliaia di altri casi meno noti), istituzioni più efficienti ed eque, governo del territorio e dei beni comuni, meno corruzione pubblica, una nuova classe politica e una nuova visione politica, una forte e decisa Europa politica. E mancando questi elementi, manca anche il mercato civile. È infatti solo una grande illusione, senza alcun supporto della migliore teoria economica, che l’Italia avrà un futuro migliore solo con più mercato e senza una vera alleanza con il pubblico e con le istituzioni. Le regioni più fragili del nostro Paese non ripartiranno mai economicamente e civilmente se mancherà una forte azione pubblica, che consentirebbe anche al mercato di svilupparsi. Il mercato è prima di tutto una istituzione sociale che ha bisogno di regole, controlli, pesi e contrappesi. Se non c’è buona politica il mercato non è mai buono, ma rafforza nuovi e vecchi feudi e vecchie e nuove rendite che poi impediscono al mercato stesso di funzionare e lo occupano.

Questi ultimi anni di fede quasi religiosa nei dogmi del mercato capitalistico for profit ci hanno mostrato tra l’altro che la corruzione privata e i suoi danni economici e sociali non sono meno gravi di quelli della corruzione pubblica, e che non c’è nessuna garanzia che manager iperpagati siano più efficienti e più equi di quelli pubblici (si pensi all’origine di questa crisi finanziaria). Basterebbero più trasparenza, regole, controllo democratico dal basso, più cultura civile. Sono anche convinto che se negli ultimi due decenni invece di privatizzare e svendere grandi imprese pubbliche, autostrade, suolo pubblico nei centri storici delle nostre città, telefonia, e molti beni comuni, avessimo soltanto fatto in modo che fossero gestiti meglio con più controllo civile e politico, oggi l’Italia sarebbe più forte e più capace di ripartire. Il mercato porta buoni frutti quando vive e cresce dentro un grande progetto comune e pubblico, e con istituzioni mature e forti. Le ferite dell’inefficienza e della corruzione del nostro passato non debbono produrre la più grande stoltezza di immaginare una buona società senza una forte presenza del pubblico. che non significa solo Stato, significa soprattutto società civile ma anche pubblica amministrazione locale e, sempre di più, Europa.

Ce lo dice la storia della Germania, della Francia, di buona parte del Nord del continente, non le storie ideologiche fondate su mercati immaginari che nessuno ha mai visto. Pubblica felicità, allora, per l’oggi e il domani del nostro Paese, ridando fiato a una tradizione nobile e grande, quella nata dal genio italiano, da cui sono sorti i Monti di Pietà, le Casse di Risparmio, la grande storia della cooperazione, i distretti industriali, Adriano Olivetti, il miracolo italiano di ieri e quello di domani.

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Commenti -  Il mercato non basta

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/09/2012

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Felicità, virtù economica

Felicità, virtù economica

Commenti -  Il mercato non basta di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 23/09/2012 L’Italia oggi ha un estremo bisogno di felicità pubblica. Pubblica felicità è una grande 'parola' della tradizione economica e civile italiana, che ha molte importanti cose da dire a questa nostra età. In ...
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Commenti -  Guardiamoci e cambiamo registro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/09/2012

logo_avvenireUna delle questioni che dovremmo porre sempre più al centro del dibattito economico e sociale è quella demografica, cui è legato l’enorme tema delle pensioni, e del lavoro. In particolare, è urgente una riflessione seria e pubblica sui cambiamenti radicali che sta subendo la vecchiaia, cioè la condizione umana negli ultimi anni della vita, quando la vita subisce una svolta, si capisce che si è entrati nell’ultima fase, e si è vicini al suo termine.

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Una questione urgente anche perché la rivoluzione della longevità è tra le più grandi e di portata epocale che la storia umana abbia conosciuto. Nel giro di pochi decenni l’umanità (almeno quella che vive in condizioni decenti) ha rubato alla morte, o guadagnato alla vita, una quantità di anni (almeno 20, e quasi 30 in alcuni Paesi), pari a quelli guadagnati tra il neolitico e il dopoguerra. Qualcosa di straordinario, da lasciare senza fiato.

E questa rivoluzione non ha solo mandato in tilt lo Stato sociale (la crisi del debito è dovuta anche a questo), ma pone domande difficili su come vivere non tanto una vita sempre più lunga, ma una vecchiaia sempre più lunga: oggi qualità della vita è anche e soprattutto qualità della vecchiaia.

Chi conosce da vicino e vive con persone anziane, vede immediatamente che invecchiare nella nostra epoca non è facile, anzi è molto difficile, soprattutto nell’ultima fase. In una cultura centrata sulla giovinezza, l’efficienza, il corpo, l’apparire, l’invecchiamento non ha diritto di cittadinanza, e lo avrà sempre meno, se non invertiamo decisamente la rotta. Nella cultura tradizionale che abbiamo da poco messo alle nostre spalle, invecchiare era un’esperienza diversa, certamente più breve e non per tutti. Un’esperienza complessivamente migliore. Per almeno tre motivi. Innanzitutto il vecchio, in un mondo dove la cultura è soprattutto cumulativa, è detentore di beni comuni che gli vengono riconosciuti dalla comunità, che si chiamano saggezza, esperienza, conoscenza del passato, sapienza, risorse essenziali in quelle società.

Quindi l’invecchiamento era al tempo stesso "un di meno" e "un di più", individuale e collettivo, poiché mentre il corpo degradava (più di oggi), si arricchiva lo spirito e l’anima della persona e della comunità. Il secondo motivo era la visione religiosa del mondo: avvicinarsi alla morte sapendo che è solo un passaggio verso un’altra vita, probabilmente migliore, è ben diverso che morire in una cultura dominante come la nostra dove l’avvicinarsi della morte è sempre più l’avvicinarci al nulla (mi impressionano molto i tanti suicidi di vecchi, che dicono qualcosa di nuovo, poiché tradizionalmente si suicidavano i giovani). Infine, la famiglia: la grande gioia degli anziani è stata sempre la discendenza, vedere che la vita propria stava terminando ma c’era una parte di sé che invece cresceva e continuava, e che dava senso a quel declino. Figlie, figli e nipoti che, nelle tradizioni medio-orientali, circondavano il letto del vecchio morente, a dire che la morte era anche vita e futuro.

Queste tre ragioni di buona vecchiaia stanno inesorabilmente tramontando dal nostro orizzonte: troppa gente invecchia sempre più senza essere stimata, spesso da sola in case di riposo, e a volte senza fede. Ci sarebbe poi molto da dire dalla prospettiva femminile. Molte delle attuali donne anziane, soprattutto di ceto medio e basso, sono delle vere "esodate della cura": da giovani hanno offerto cura a genitori, parenti e figli, rinunciando spesso a una loro carriera e fioritura civile, e ora, per la prima volta nella nostra storia, si trovano in grande credito di cura, poiché, a differenze delle loro mamme, non la ricevono più, o molto meno, da figli e nipoti, e muoiono consumate dalla malinconia in tanti luoghi tristi.

Che fare allora per invertire la rotta? Innanzitutto occorre gestire meglio gli anni dell’invecchiamento cosiddetto "attivo": c’è già, ma sempre più ci sarà, una lunga fase della vita che si collocherà tra la fine del posto di lavoro e la fine della vita attiva di una persona. Ieri come oggi, una persona vive pienamente, prima o dopo la pensione, quando è inserita all’interno di reti sociali nelle quali cresce, coltiva la propria socialità, ed è utile a qualcuno e per qualcosa.

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Commenti -  Guardiamoci e cambiamo registro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/09/2012

logo_avvenireUna delle questioni che dovremmo porre sempre più al centro del dibattito economico e sociale è quella demografica, cui è legato l’enorme tema delle pensioni, e del lavoro. In particolare, è urgente una riflessione seria e pubblica sui cambiamenti radicali che sta subendo la vecchiaia, cioè la condizione umana negli ultimi anni della vita, quando la vita subisce una svolta, si capisce che si è entrati nell’ultima fase, e si è vicini al suo termine.

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Allo specchio della vecchiaia

Allo specchio della vecchiaia

Commenti -  Guardiamoci e cambiamo registro di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 23/09/2012 Una delle questioni che dovremmo porre sempre più al centro del dibattito economico e sociale è quella demografica, cui è legato l’enorme tema delle pensioni, e del lavoro. In particolare, è urg...
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Commenti -  Il tardo capitalismo si rivela simile al tardo feudalesimo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/09/2012

logo_avvenireLa crescita è una sfida, la diseguaglianza ancor di più. L’aumento della diseguaglianza nelle economie capitalistiche sta diventando il primo vero ostacolo allo sviluppo economico e sociale, perché a causa della grande diseguaglianza di opportunità, diritti e libertà, la ricchezza dopata che abbiamo creato non è feconda e generativa di lavoro e di autentico sviluppo. Del resto, come avrebbe potuto esserlo? Solo il lavoro genera lavoro.

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Se si ripercorre il cammino che abbiamo compiuto dalla rivoluzione industriale a oggi, ci si rende conto di quanto sia preoccupante nelle economie di mercato l’indice delle diseguaglianze. Dopo una sostanziale diminuzione nelle economie occidentali del Novecento, dovuta al passaggio da economie e strutture sociali feudali a una economia di mercato molto più dinamica, negli ultimi decenni il capitalismo trionfante sta facendo di nuovo aumentare le diseguaglianze, riportandole a livelli molto vicini a quelli iniziali. 

Negli Stati Uniti i primi 500 top manager guadagnano in media 10 milioni di dollari l’anno, e i 20 più ricchi manager di hedge funds (i fondi d’investimento più speculativi) guadagnano in totale più della somma dei redditi di quei 500 manager. E c’è di più: oggi la diseguaglianza presente all’interno degli Usa è molto simile a quella di Paesi che stanno solo ora uscendo da strutture sociali feudali. Insomma, il nostro tardo capitalismo sta assomigliando troppo al tardo feudalesimo, come se due secoli di sviluppo economico e di diritti non fossero serviti a nulla, o a troppo poco, in termini di diseguaglianza. Troppo mercato sta producendo gli stessi frutti incivili dell’assenza di mercato. E questo è un messaggio urgente e grave, anche perché contraddice l’utopia riformista profondamente associata alla nascita dell’economia politica moderna, quando lo sviluppo dei mercati era visto dagli illuministi come il principale strumento per superare il mondo feudale, e avviarsi verso quella società democratica di persone libere e uguali da loro non intravista, ma agognata.

E, infatti, finché lo sviluppo dei mercati è stato anche sviluppo del lavoro e dei diritti, l’economia è stata complessivamente fedele alla sua vocazione originaria; ma un capitalismo di ultima  generazione, fondato sulle rendite finanziarie e sul debito, sta riportando il mondo in una  polarizzazione rigida tra classi che credevamo di aver superato. Perché? Innanzitutto i 4/5 dei cosiddetti poveri assoluti (i circa due miliardi di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno) non si trovano più nei cosiddetti ‘Paesi poveri’, ma in Paesi a reddito medio e alto. Ciò dice un fatto nuovo e di portata epocale: la linea di demarcazione tra ricchi e poveri è sempre meno  legato alla geografia (Nord–Sud) ed è sempre più spostata all’interno di ogni Paese: la globalizzazione ha infatti profondamente cambiato la morfologia della povertà.

Per questa ragione oggi il rapporto tra Pil dei Paesi e i vari indicatori di benessere e di malessere è sempre meno significativo e utile. Se prendiamo il Pil dei Paesi a reddito pro–capite medio alto (ad esempio i Paesi Ocse) e li incrociamo con indici fondamentali per la vita della gente come quello dell’aspettativa di vita, di benessere dei bambini, di malattie mentali, di obesità, di criminalità, di risultati scolastici dei giovani, di mobilità sociale, scopriamo che non viene fuori quasi nulla di significativo, perché i dati sono molto simili tra di loro. Il discorso invece cambia drammaticamente se invece del Pil prendiamo gli indicatori di diseguaglianza (tra cui il famoso ‘Indice di Gini’), perché scopriamo grandi differenze in quegli indici fondamentali all’interno di questi stessi Paesi.

In altre parole, in termini di aspettativa di vita, di salute, di capitale umano, di capabilities (direbbe Amartya Sen), c’è molta più differenza tra un impiegato inglese e una donna inglese di origini caraibiche con lavoro precario, di bassa educazione, che vive in quartieri poveri di Londra e magari single–mother (madre sola), che tra un impiegato inglese e uno peruviano. Una differenza che, poi, diventa ancora più piccola se confrontiamo un top manager inglese con uno sudamericano. La diseguaglianza è un grave male pubblico, di cui soffre l’intera popolazione di un dato Paese, inclusa – come dicono molti dati recenti – anche la classe più ricca, perché con la diseguaglianza aumenta l’invidia sociale, la mentalità posizionale, l’insicurezza, e l’infelicità di tutti.

Quindi, venendo all’oggi dell’Italia e dell’Europa, chi ama veramente il bene comune e lavora per la vera ripresa economica, deve preoccuparsi un po’ meno di Pil e assai più di fare in modo di ridurre la diseguaglianza. Se continueremo a tassare il lavoro, la benzina, le prime case, ad alzare le imposte indirette e a non tassare i grandi patrimoni, le rendite finanziarie e le rendite di ogni natura (comprese quelle di posizione delle tante categorie feudali protette), continueremo a guardare gli indicatori sbagliati, a confondere gli effetti con le cause, a misurare cose che ci distraggano dalle grandi sfide del momento cruciale che stiamo vivendo.

La speranza risiede soprattutto nei giovani, che hanno una minore tolleranza per la diseguaglianza: dalla loro sdegnata non rassegnazione può iniziare una nuova stagione economica e sociale, dove l’égualité, non solo formale ma sostanziale, torni ad essere uno dei grandi valori della nostra civiltà.

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Commenti -  Il tardo capitalismo si rivela simile al tardo feudalesimo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/09/2012

logo_avvenireLa crescita è una sfida, la diseguaglianza ancor di più. L’aumento della diseguaglianza nelle economie capitalistiche sta diventando il primo vero ostacolo allo sviluppo economico e sociale, perché a causa della grande diseguaglianza di opportunità, diritti e libertà, la ricchezza dopata che abbiamo creato non è feconda e generativa di lavoro e di autentico sviluppo. Del resto, come avrebbe potuto esserlo? Solo il lavoro genera lavoro.

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La sfida più urgente è la diseguaglianza

La sfida più urgente è la diseguaglianza

Commenti -  Il tardo capitalismo si rivela simile al tardo feudalesimo di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 16/09/2012 La crescita è una sfida, la diseguaglianza ancor di più. L’aumento della diseguaglianza nelle economie capitalistiche sta diventando il primo vero ostacolo allo svilup...
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Commenti -  L’economia non è tutto (e non basta), serve la buona e civile politica

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/09/2012

logo_avvenireAnche la politica sta vivendo una lunga stagione di profondo disagio, a molti livelli. Un primo livello di disagio è quello che vive un’intera generazione di politici nata e cresciuta nella stagione delle grandi ideologie, con i suoi linguaggi, simboli, liturgie, che oggi si ritrova a operare in un mondo post-ideologico e disincantato, troppo diverso per comprendere le loro parole, che non sono più capaci di dire quei contenuti dai quali erano state plasmate.

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Questo primo disagio della politica – una parola che, questa volta, può essere usata senza ulteriori qualificazioni – ci dice già una cosa importante: non basta mandare in pensione (il triste verbo "rottamare" usiamolo per le macchine) l’attuale classe dirigente, perché se non diamo vita a nuovi linguaggi, riti e simboli politici il rischio di ritrovarci dopo i pensionamenti con un rimedio peggiore del male è davvero molto grande, poiché avremo con ogni probabilità nuovi politici con gli stessi difetti degli attuali, e probabilmente senza la formazione che davano le antiche scuole ideologiche di partito e i tradizionali luoghi vitali. E potremmo continuare, con altri tipi di disagio, fino ad arrivare ai più noti e sotto gli occhi di tutti (corruzione, rendite di posizione, etc.).

Ma c’è un malessere più radicale, e che alla base di buona parte dello sbandamento e della sofferenza che la politica (e con essa la società tutta) sta attraversando. È questo un problema centrale, di cui misteriosamente si parla troppo poco, forse perché distratti dai disagi e mali più superficiali di cui sono piene le cronache. La politica, il politico, soffre anche, e a mio avviso soprattutto, perché non è più capace di fare sintesi, di offrire una lettura del mondo e della storia del nostro tempo.

E ciò dipende in larga misura dall’economia e dalla finanza, che sono sempre più pervasive e cruciali nella vita della gente e nelle scelte politiche, ma che sono diventate sempre meno comprensibili, date la loro complessità e radicale novità rispetto a soli pochi decenni fa. Per millenni la funzione della politica era soprattutto quella di offrire una visione sintetica dei problemi del proprio tempo per poter così agire e indicare direzioni di bene comune. Nel Novecento, per svolgere questa funzione era sufficiente conoscere il linguaggio filosofico, avere basi di diritto, di scienze politiche e anche di economia, la quale nella sua parte essenziale e utile per fare buona politica era tutto sommato semplice: leggere Smith, Marx e Keynes era sufficiente per essere un buon politico. E, infatti, la politica aveva familiarità con queste discipline e con questi autori, e quindi sapeva offrire sintesi, sapeva raccontare storie e grandi narrazioni, indicare direzioni, e sapeva così passare dal molteplice all’uno.

Oggi la vocazione della politica e del politico non è cambiata, ma ci sono elementi del "molteplice" che la politica non capisce più, perché sono diventate incomprensibili le leggi (ma ci sono?) che governano economia, finanza, mercati, spread. E tutto ciò provoca una vera sofferenza perché non è in discussione un discorso o intervista più o meno riusciti, ma l’identità stessa del mestiere del politico, la sua vocazione. E così sentiamo dire che quello attuale non è "il vero valore dello spread", o che i mercati finanziari ci stanno "ingiustamente" attaccando, perché questi politici hanno in mente il concetto classico del ’giusto prezzo’ che purtroppo non ha più diritto di cittadinanza nell’era degli hedge fund e dei derivati, dove parole come "giusto" e "vero" non hanno semplicemente più senso. Sono due le vie di fuga da questo profondo disagio. La prima è esperienza comune a molti Paesi europei, dove si affida tutta la politica a chi conosce il linguaggio del particolare economico-finanziario diventato esoterico e incomprensibile: tecnici, finanzieri ed economisti a cui si appalta la funzione politica. Rischiando così seriamente di dimenticare – e questo è l’errore fatale – che l’economico è sempre soltanto una dimensione della vita politica; è sempre frammento, molteplice, non è mai l’uno che è chiesto alla politica.

Si fa così del particolare il tutto, senza tener presente gli altri particolari (semplicemente perché anche chi conosce il linguaggio dell’economia non conosce gli altri linguaggi necessari per la sintesi politica). Ma così si rischia di far morire la politica e con essa la democrazia, se l’economico non si trascende e umilmente si mette all’ascolto di altri linguaggi particolari, poiché il bene economico non è mai direttamente bene comune. «Un economista che è solo economista è un cattivo economista», amavano ripetere molti dei migliori economisti del passato, tra cui Luigi Einaudi, grande economista, che fu anche ottimo politico proprio perché più grande della sola economia.

La seconda via di fuga è stata e continua a essere una fuga nel senso letterale del termine: in questa fase di smarrimento, troppi cittadini – molti di loro cattolici impegnati – che avrebbero una vocazione politica, negli ultimi anni l’hanno abbandonata per dedicarsi ad altre forme di servizio, soprattutto nell’ambito civile, dell’economia sociale, del volontariato, in quello che una volta si chiamava il "pre-politico" e che invece è diventato troppo spesso un "post-politica". Oggi l’Italia, anche per la sua storia millenaria fecondata da tanti carismi, ha nel civile una ricchezza umana ed economica formidabile. Se vogliamo che la fase che si sta aprendo sia veramente l’inizio di qualcosa di nuovo, occorre allora liberare queste forze presenti nel civile, saperle accogliere e valorizzare.

Qualcosa accenna a muoversi finalmente in questa direzione, qualcosa comincia ad accadere. Occorre capire l’urgenza storica, far sì che questo processo si rafforzi. Bisogna che ci si possa innamorare o ri-innamorare della politica e sentire che è possibile "farla", perché senza una nuova politica, senza politiche e politici nuovi da queste crisi potremo uscire solo peggiori. Se invece sapremo propiziare e fare qualcosa di simile a quanto si realizzò nel secondo dopoguerra del Novecento, quando dalla parte migliore della società vennero forze ideali e spirituali capaci di rifondare Italia e Europa, allora da questo duro inverno potrà sbocciare una nuova primavera politica, economica e civile.

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Commenti -  L’economia non è tutto (e non basta), serve la buona e civile politica

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/09/2012

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Tornare alla sintesi

Tornare alla sintesi

  Commenti -  L’economia non è tutto (e non basta), serve la buona e civile politica di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 09/09/2012 Anche la politica sta vivendo una lunga stagione di profondo disagio, a molti livelli. Un primo livello di disagio è quello che vive un’intera gene...
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Commenti - Tempo di necessaria lungimiranza

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/09/2012

logo_avvenire Stiamo uscendo dalla crisi? Non credo. La ne­cessarissima riduzione della spesa pubbli­ca associata alla spending review non farà au­mentare di certo il Pil, visto che negli ultimi due decenni l’Italia era cresciuta anche grazie al­l’aumento ipertrofico della spesa pubblica.

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Se poi aggiungiamo l’aumento dei costi che la ma­novra ha messo sulle spalle delle famiglie, la preoccupante crescente disoccupazione giova­nile, i più facili licenziamenti, la crisi di compe­titività e l’obsolescenza di troppe nostre impre­se, qualcuno dovrebbe spiegare dove i tecnici dei grandi centri di ricerca economica avrebbero fondato le loro previsioni di ripresa dell’econo­mia italiana nel 2013; a meno che non ricorra­no alle solite ingegnerie contabili e statistiche che torturano i dati fino a farli confessare quan­to chi interroga vuol sentirsi dire.

La realtà purtroppo è ben diversa e meno rosea, e per capirlo basterebbe leggere i dati sul be­nessere soggettivo di europei e italiani in cadu­ta libera in questi anni, ma soprattutto guarda­re i nostri concittadini in volto, magari anche a­scoltarli, per capire immediatamente, se si è do­tati di un minimo di empatia, che il malessere è grande. Ce lo dice anche il continuo aumen­to dei giochi e delle scommesse, segno grave di degrado, anche in luoghi tradizionalmente cu­stodi e coltivatori di valori (ho visto in Toscana “slot machine” anche dentro centri ricreativi di grande storia civile, politica ed etica). Ma, non dobbiamo dimenticarlo mai, se anche con qual­che miracolo economico dovessimo riuscire a far ripartire tra qualche mese il Pil, ciò non significherebbe l’uscita dalla crisi. Il perché è trop­po semplice: se non creiamo oggi nuovo lavo­ro, in modo ecologicamente sostenibile e so­cialmente equo, potremo anche uscire da que­sta crisi finanziario–economica, cioè dalla crisi con la ‘c’ piccola, ma continueremo a rafforza­re la Crisi con la “C” grande.

Uno dei grandi problemi di questi tempi è che si parla molto, troppo, della crisi (spread, bor­se, finanza nazionale ed europea…) e poco, troppo poco, della Crisi. Dobbiamo ricordarci e ricordare che quella ormai storica data del 15 settembre 2008 non è stata meno significativa e epocale dell’11 settembre 2001: nel rumore creato dalla crisi terroristica internazionale, la speculazione ha continuato a operare indistur­bata dall’opinione pubblica. Anche per questa lezione della storia, chi oggi ha a cuore il bene comune, e quindi riconosce il valore del mer­cato, delle imprese, del lavoro e della finanza ci­vile, deve parlare e far parlare meno di crisi, e tornare con forza a parlare e far parlare della Crisi del nostro modello di sviluppo economi­co– sociale. Come? Facendo in modo che, a tut­ti i livelli, si mettano al centro dell’agenda pub­blica e politica, compresa quella delle prossime elezioni nazionali, i temi e le sfide della Crisi del nostro tempo, tra cui le crisi ambientali, la cre­scita delle rendite, ma anche il deterioramento dei rapporti sociali – frutto diretto della svalu­tazione dei grandi valori cardine e la crisi del­l’amicizia civile: ho provato a Milano a salutare («Buongiorno!») un signore lungo i navigli, si è impaurito ed è scappato, non più abituato a ta­li antiche pratiche di cittadinanza...

Ma soprattutto la Crisi è del lavoro, che non è solo quella delle emergenze presentate come casi particolari e drammatici: è una intera fase storica che sta tramontando, perché è in corso un cambiamento strutturale e di lungo perio­do. Ma restiamo – istituzioni e cittadini – a guar­dare, a stupirci dei dati e dei fatti, a sperare di essere vicini alla fine del tunnel e che si riparta, senza avere né una lettura profonda e condivi­sa di quanto sta accadendo, né quindi alcuna proposta sistemica, strutturale, ed efficace.

Ma se, come è evidente, la grande impresa e lo Stato non potranno creare lavoro oggi né tanto meno domani, e se le piccole e medie imprese del Made in Italy sono in grande difficoltà, la domanda cruciale diventa: da dove nascerà l’occupazione per ripartire? Una domanda tragica, non tanto perché manca la risposta, ma perché viene negata la domanda stessa. E si attende, neanche capaci non dico di creare lavoro ma di tener in vita quello che ancora rimane in piedi e traballa.

Ci sarebbero tuttavia delle operazioni molto urgenti da fare, e certo non impossibili. Altre ricette sono state già abbozzate, anche su queste colonne di giornale. Ne propongo alcune dal mio punto di vista. La prima riguarda la terra: questo capitalismo l’ha dimenticata, trascurata, abusata, violentata (pensiamo all’Africa), e invece da essa può e deve nascere il lavoro che manca. Bisogna tornare ad occuparci diversamente di agricoltura e di cibo, guardando e coltivando i territori e i loro beni comuni (acqua, verde, zone montagnose, mari) come luoghi che possono nutrirci, facendoci lavorare. C’è poi l’energia: possono e debbono nascere migliaia di lavori dalle nuove fonti di energia (e francamente colpisce che, invece, nell’abbozzo di Piano energetico nazionale che è circolato in questi giorni sembri destinato a prevalere l’orientamento per il mantenimento di un ruolo larghissimamente egemone dei combustibili fossili…). Bisogna puntare con lungimiranza anche su queste nuovo fonti e farlo rendendole meno concentrate, più 'democratiche' e popolari, territoriali, e quindi sostenibili.

Ma per queste due operazione c’è bisogno che le istituzioni – prima di pensare di vendere il Colosseo… – mettano semplicemente a disposizione i tanti terreni, gli immobili, le strutture pubbliche spesso sottoutilizzate, ferme, costose. Ci sono poi i beni culturali: ad Ascoli Piceno – come in altre parti d’Italia – sono delle cooperative a gestire i musei civici: perché non imitarli nella gestione dei mille musei, pinacoteche, siti archeologici, che hanno un bisogno vitale di imprenditori civili (non di speculatori) perché non degradino e muoiano, e creino anche lavoro sostenibile (che non dipenda cioè dalle finanze pubbliche)?

C’è, infine, una questione molto urgente che riguarda direttamente il mondo cattolico. Ci sono oggi in Italia centinaia di ordini religiosi che, per l’evoluzione radicale e veloce che hanno vissuto in questi ultimi anni, si trovano in serie difficoltà nella gestione di scuole, ospedali, immobili, terreni. C’è il rischio, in qualche caso incombente, che migliaia di splendidi luoghi, che hanno fatto e fanno la vita spirituale e civile dell’Italia, vadano in mano di faccendieri e pseudo­consulenti, che lucrano lauti guadagni da questo stato di necessità. Questi immobili rischiano, insomma, una 'confisca' da parte di questi speculatori peggiore di quella napoleonica. C’è bisogno di un’azione concertata, sistematica, lungimirante, generosa, rispettosa dei carismi e della loro natura preziosa, che dia vita ad alleanze vere tra queste istituzioni e la parte più sensibile delle comunità che vivono attorno a esse.

Potrebbero, e dovrebbero, nascere presto centinaia, migliaia, di nuove imprese sociali, di nuove cooperative, che, ben formate e con le giuste motivazioni e regole sulla destinazione dei profitti, insieme ai religiosi (non sostituendosi a essi) consentirebbero a quelle stesse opere e ai loro carismi di continuare a dare il loro specifico e essenziale apporto al bene comune (che è molto più di una erogazione di servizi), e si creerebbe anche molto nuovo lavoro. Necessario, sostenibile, esemplare.

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Commenti - Tempo di necessaria lungimiranza

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/09/2012

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Rispondere alla vera crisi

Rispondere alla vera crisi

Commenti - Tempo di necessaria lungimiranza di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 02/09/2012 Stiamo uscendo dalla crisi? Non credo. La ne­cessarissima riduzione della spesa pubbli­ca associata alla spending review non farà au­mentare di certo il Pil, visto che negli ultimi due decenni l’Ita...
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Commenti -  Processo perverso da spezzare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  26/08/2012

logo_avvenire In economia si usano spesso metafore sportive, e normalmente portano fuori strada perché il mercato non è una gara sportiva. Il caso del doping, invece, è una eccezione, perché l’analogia doping/evasione fiscale se ben usata può essere efficace

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Sono ovviamente molte le ragioni che portano atleti al doping. Due sembrano essere quelle più comuni e generali. La prima tipologia di doping, quella più presente nei media, è quella dell’atleta che usa sostanze proibite per vincere, per avvantaggiarsi scorrettamente sulla concorrenza. Ma c’è anche una seconda ragione che porta al doping, quella dell’atleta che si convince che i suoi concorrenti più forti sono tali perché usano doping, e che quindi, se anche lui/lei non fa altrettanto sarà sempre un perdente.

In questo secondo caso ci si dopa non tanto per vincere, ma per non perdere. Scatta, cioè, nella mente dell’atleta una sorta di equazione micidiale: «in un sistema in cui va forte solo chi si dopa, se non mi dopo anche io non andrò mai forte». Drogarsi diventa così una sorta di male necessario o di costo morale per poter svolgere quel mestiere che si ama ma che si considera ormai corrotto. Ma c’è di più: in seguito a questa logica "di tipo 2" ci si potrebbe ritrovare con atleti tutti dopati anche se la maggioranza di essi, presi uno a uno, ha iniziato il doping come scelta difensiva, pensando che tutti gli altri si dopassero. Si finisce così in una situazione nella quale ciascuno individualmente se potesse scegliere tra le due alternative: "nessuno di noi si dopa" e "tutti ci dopiamo" sceglierebbe la prima, ma collettivamente finiscono tutti nella seconda, con gravi danni individuali e collettivi: i record vengono falsati, i giovani migliori si allontano da quelle pratiche sportive, si spende sempre di più per controlli sempre più severi e sempre più elusi, ecc. Ci si ritrova in trappole di povertà nelle quali nessuno individualmente voleva cadere, e dalle quali – questo è un problema cruciale – è complicatissimo liberarsi una volta catturati. Lasciando il doping ai sociologi dello sport (che ci direbbero che non ci sono solo le ragioni di tipo 1 e 2, ma anche altre), pensiamo all’evasione fiscale in Italia.

L’imprenditore che evade le tasse arriva a questa scelta sulla base di ragionamenti molto simili alla logica del doping del tipo 1 e quella del tipo 2; ma, a differenza dello sport professionistico dove prevale la prima logica di doping (ci si dopa per vincere), nell’evasione fiscale è la seconda forma di "doping" che prevale (si evade per non perdere e fallire). Raramente un imprenditore - che non sia un faccendiere o semplicemente un delinquente - inizia ad evadere all’inizio della sua attività. Ogni vero imprenditore sa che se riesce a stare in regola con il fisco, la sua azienda e la sua vita funzionano molto meglio, e da ogni punto di vista (basti pensare, ad esempio, al fatto che i soldi che entrano in nero non possono essere usati produttivamente e per l’investimento nell’impresa, che si avvia così a diventare un bonsai). Alcuni imprenditori – come gli atleti dopati "di tipo 1" – evadono perché disonesti e vogliono vincere a tutti i costi. Ma per molti altri l’evasione inizia quando prendono piede ragionamenti simili a quelli descritti per il doping di tipo 2. In questi casi, il primo tarlo si insinua quando l’imprenditore inizia a pensare che i concorrenti di successo evadono e sono, a qualche livello, scorretti. Normalmente questa ipotesi non è suffragata da dati oggettivi, ma si alimenta di voci, dicerie, singoli episodi, che nella mente dell’imprenditore e della sua cerchia più intima diventano presto certezze.

Ci sono dati seri che dicono che la percezione soggettiva della disonestà degli altri è molto maggiore di quella reale. Se poi questo ragionamento è rafforzato dall’ipotesi ulteriore che i giudici sono corrotti, che i controlli non ci sono o sono iniqui, che l’introito fiscale alimenta sprechi e privilegi della classe dominante, l’ipotesi diventa teoria e prassi certissime. Si può ragionevolmente sostenere che dietro il boom di evasione fiscale degli ultimi anni non ci sia solo il deterioramento delle nostre virtù civili o di quelle della classe imprenditoriale, né tanto meno una diminuzione dei controlli.

L'evasione fiscale è aumentata anche per fenomeni di "doping di tipo 2"; ma – e questo è il problema principale che abbiamo di fronte – ora ci troviamo effettivamente bloccati in una situazione di alta evasione fiscale, uno stato dal quale non riusciamo a muoverci, in cui le previsioni e le congetture di evasione si sono auto-realizzate: il sistema ormai è dopato, e oggi in Italia l’imprenditore leale e corretto verso il fisco, rischia troppe volte di fare la fine dell’atleta onesto in una gara di atleti dopati. Occorre allora invertire la rotta, spezzare questo processo perverso. Ma come? Agendo a più livelli, ricordandoci però che oggi qualsiasi messaggio proveniente dalle istituzioni che alimenta l’idea popolare che "siamo (quasi) tutti corrotti ed evasori" non fa altro rafforzare lo status quo, e così mostrare l’opzione evasione come l’unica scelta per non finire tra i vinti, per non fallire. Dobbiamo subito invertire la rotta comunicativa, parlando meno di evasione genericamente e in generale, aumentando le notizie che parlano di successi alla lotta all’evasione, e soprattutto mostrando casi di buone pratiche, di imprenditori e cittadini che le tasse le pagano e che "vincono", e magari – insistiamo – introdurre forme premiali per questi. Certo, l’evasione fiscale non è tutta qua: ma è anche qua. Sono parole delicate e difficili da dire di questi tempi, ma occorre avere coraggio, perché, come ricordava tra gli altri il grande cooperatore Luigi Luzzati: «Chi non ha il coraggio di dire ciò che pensa, finisce col non pensare se non quello che avrà il coraggio di dire».

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Commenti -  Processo perverso da spezzare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  26/08/2012

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Doping evasione

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Commenti -  Processo perverso da spezzare di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il  26/08/2012 In economia si usano spesso metafore sportive, e normalmente portano fuori strada perché il mercato non è una gara sportiva. Il caso del doping, invece, è una eccezione, perché l’analogia d...
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Commenti -  Economia, democrazia, «poteri»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/08/2012

logo_avvenire La difficoltà di capire la crisi economica, finanziaria, civile e politica che stia­mo vivendo, nasce soprattutto dal fatto che il nostro capitalismo finanziario-indivi­dualista presenta, accanto a tratti antichi, dei tratti inediti, che sfuggono e impedi­scono a tanti di capire quanto sta acca­dendo. La lettura classica del sistema eco­nomico- sociale moderno, o democratico, era basata sulle classi sociali, espressione a loro volta di classi economiche. La mi­noranza che detiene la ricchezza – si dice­va – ha in mano anche il potere politico, e lo esercita con il consenso della maggio­ranza di cittadini-lavoratori che accettano di essere governati dagli interessi dei ric­chi e potenti, perché, nella sostanza, ogni alternativa migliore o non è intravista o considerata troppo rischiosa e costosa.

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A questo proposito così scriveva l’economi­sta Achille Loria nel 1902: «Chiunque os­servi con animo spassionato la società u­mana (…) vi ritrova lo strano fenomeno di una assoluta, irrevocabile scissione in due classi rigorosamente distinte; l’una delle quali, senza far nulla, s’appropria redditi e­normi e crescenti, laddove l’altra, più nu­merosa d’assai, lavora dal mattino alla se­ra della sua vita in contraccambio di una misera mercede; l’una, cioè, vive senza la­vorare, mentre l’altra lavora senza vivere, o senza vivere umanamente».

Marxismo e socialismo, cattolicesimo so­ciale, cooperativismo, ma anche pensiero liberale (ieri, John Stuart Mill e, oggi, A­martya Sen) condividevano questa dia­gnosi, sebbene divergessero sulla natura del rapporto tra le classi, per alcuni di tipo cooperativo e armonico per altri antago­nistico e violento. Alcuni autori, il più no­to è l’italiano Vilfredo Pareto, avevano an­che teorizzato che questa distinzione in due (o più) classi contrapposte non fosse limitata all’economia e alla politica, ma si estendesse all’intelligenza, ai talenti, fino a rappresentare una sorta di legge genera­le di natura, di fatto immodificabile. Altri, invece, la pensavano diversamente, e la storia della democrazia di questi ultimi due secoli può anche essere letta come una lot­ta per ridurre progressivamente o elimi­nare la rigida divisione della società in ric­chi/ potenti versus poveri/deboli, anche se grandi erano e restano le differenze sul 'co­me' fare.

Le teorie liberali ipotizzavano che il mer­cato stesso, maturando ed evolvendo, a­vrebbe reso più ugualitario e democratico il capitalismo, mentre quelle marxiste pro­ponevano la rivoluzione. In ogni caso en­trambe erano 'teorie del progresso', ba­sate sulla convinzione che la società mo­derna avrebbe in qualche modo superato l’oppressione di una classe sulle altre. La storia recente ha però dimostrato che en­trambi questi umanesimi hanno tradito la loro grande promessa, perché le società moderne (comprese quelle collettiviste del recente passato, e del presente) non si tro­vano, al di là delle retoriche, in una situa­zione sostanzialmente diversa da quella descritta 110 anni fa da Loria. La contrap­posizione tra classi non è oggi meno radi­cata di quella tipica dell’era del capitali­smo industriale, o della società feudale. Ma ci sono delle novità, che se non viste e com­prese rischiano di nasconderci la reale mo­dalità di permanenza delle classi e le con­seguenze che ne derivano.

La principale novità consiste nell’invisibi­lità della classe dominante attuale. Nelle società passate, i ricchi e potenti erano ben individuabili e presenti: erano i padroni, i nobili, i patrizi. Erano visti e all’occorren­za anche combattuti e rovesciati dal trono nei loro luoghi concreti (palazzi, castelli, ultimo piano degli uffici …). Oggi i veri ric­chi e i veri potenti vivono in città invisibi­li, sebbene molto reali, in non-luoghi: chi incontra mai per le strade delle nostre città i veri ricchi (top-manager, finanzieri…)? Diversamente dal passato, non vestono (troppo) diversamente da tutti, non han­no auto troppo diverse dagli altri, e anche se hanno case molto diverse dalle nostre, non le vediamo se non in tv (o sulle riviste patinate) – e quindi, sul piano civile, è co­me se non esistessero.

Tutto ciò rende difficile intercettare la nuova classe dominante, e così si pensa e si scrive che le classi sociali, i padroni e i sudditi, siano oggi scomparsi; e quando la frustrazione cresce li si va a cercare nei luoghi sbagliati (piccoli e veri imprenditori, amministratori locali, parlamentari…). E invece la classe dominante continua ad esistere, e i suoi membri agiscono a tutti i livelli per consolidare privilegi, potere e soprattutto le rendite di posizione. Sia chiaro: non si tratta di tirar fuori la solita favola dei complotti, ma solo di prendere sul serio la categoria del potere, di cui si parla sempre meno. È infatti troppo evidente che a una esigua minoranza della popolazione questa crisi non ha creato nessun problema, anzi ha solo rafforzato ricchezza e potere. L’insicurezza, la vulnerabilità, la paura del presente e del domani – i tipici segnali che dicono indigenza, ieri e oggi – non riguardano la classe dominante, ma tutti gli altri. Tranne, e qui sta il punto, nelle fasi acute della crisi (lo scorso autunno, ad esempio), quando di fronte al rischio che saltasse il banco (e le banche), anche la classe dominante ha avuto paura, e ha agito subito, "commissariando" (con esigenti liste di 'compiti a casa') le nostre democrazie che non hanno opposto resistenza perché fiacche, qualche volta colluse, comunque senza visione. E infatti, se non ce ne fossimo ancora accorti, a pagare il conto per riportare il sistema sotto-controllo non è la classe dominante, ma l’altra, tutti gli altri. Ecco perché sotto questa crisi si nasconde una domanda campale per la democrazia: dobbiamo prendere coscienza che dietro a quanto sta accadendo non c’è nulla di inevitabile e nessun destino, ma solo scelte concrete, che vanno capite, discusse, e poi democraticamente votate.

C’è oggi, almeno come ieri e persino di più, una élite di popolazione, sempre più trans­nazionale, consociata ma senza volto e volti, che vuole evitare il «default» del sistema senza mettere in discussione i propri privilegi, ricchezza, potere, ma solo, e semplicemente, la democrazia. Ragionava lo scorso gennaio con motivato e saggio allarme un osservatore "non tecnico" ma attento come il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, come tra clamorose disattenzioni, cortine fumogene e mode culturali si stia favorendo «il formarsi di coaguli sovrannazionali talmente potenti e senza scrupoli, tali da rendere la politica sempre più debole e sottomessa». E così, mentre «dovrebbe essere decisiva», essa si ritrova messa all’angolo. Perché la (quasi) invisibile classe dominante ha deciso «di tagliarla fuori e renderla irrilevante, quasi inutile». Che fare allora? Innanzitutto prendere coscienza del problema economico-sociale e democratico che si pone, e poi agire anche politicamente. Usando, però, categorie culturali che siano all’altezza della fase storica che stiamo attraversando. 

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Commenti -  Economia, democrazia, «poteri»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/08/2012

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Gli invisibili e tutti noi

Gli invisibili e tutti noi

Commenti -  Economia, democrazia, «poteri» di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 19/08/2012 La difficoltà di capire la crisi economica, finanziaria, civile e politica che stia­mo vivendo, nasce soprattutto dal fatto che il nostro capitalismo finanziario-indivi­dualista presenta, accant...
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Commenti - Gli alimenti e una cultura da ritrovare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 14/08/2012

logo_avvenire Si sta profilando all’orizzonte una nuova crisi nei prezzi delle materie prime alimentari. Il prezzo del pane è sempre stato qualcosa di più di un gioco fra domanda e offerta. 

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Il pane è certamente un bene, ma non è automaticamente una merce da lasciare alle pure dinamiche di mercato: in questo il pane assomiglia al lavoro, che non a caso gli viene spesso associato. Il cibo, il mangiare, non sono faccende soltanto umane, ma comuni a tutte le specie viventi. Gli esseri umani, però, danno un significato simbolico al cibo, ed è attorno ad esso che si articola la trama delle relazioni sociali più importanti, a partire dai pasti quotidiani in famiglia, dove si ricostruiscono e si accudiscono i beni relazionali primari.

Anche per questo in tutte le civiltà il consumo del cibo e il mangiare sono atti che si svolgono in comunità - o che si sono svolti in comune per millenni, sino all’invenzione della "cultura" del fast-food. Ecco perché dietro a questa imminente impennata del prezzo del grano e di altre materie prime alimentari non c’è solo siccità e riscaldamento globale, ma si nasconde una crisi delle relazioni sociali, e quindi una domanda di fondo sul nostro modello di sviluppo.

Se si guardano i dati di lungo e di lunghissimo periodo, si nota che negli ultimi vent’anni i prezzi delle materie prime hanno iniziato a crescere progressivamente fino ad annullare la diminuzione che quegli stessi prezzi avevano subito dalla rivoluzione industriale fino agli anni Novanta del secolo scorso. Ciò dice, se vogliamo ascoltare, che stiamo entrando in una nuova era (l’«era dei beni comuni») dove la gestione delle materie prime, compreso il cibo, diventerà una sfida cruciale per lo sviluppo economico e per la pace dei popoli. Il messaggio, tanto forte quanto inascoltato, è insomma esplicito: dobbiamo rallentare. Il pianeta da qualche decennio non sta più al passo con la fame di benessere di una minoranza dell’umanità. Siamo entrati in una dinamica simile al famoso gioco che gli economisti chiamano "Dilemma del prigioniero": ogni Paese vuole crescere, ma la crescita di tutti i Paesi sta producendo una insostenibilità globale, cioè per tutti e per ciascuno. La teoria ci insegna che in questi casi la strada maestra per evitare l’implosione è un patto sociale mondiale dove ciascun soggetto si auto-limiti e crei un sistema che gli impedisca di cambiare idea nel tempo, mentre a livello individuale occorre sviluppare una ’etica del limite’ interiorizzata da ogni cittadino del pianeta.

È in questo contesto che va letta la crisi dei prezzi dei prodotti agricoli, che sono appunto una fotografia di una crisi più profonda di relazioni. Nelle grandi civiltà della storia si è arrivati a comprendere che le risorse più preziose per la vita individuale e collettiva non vanno date in balìa dei cercatori di profitti, e per questo si è data vita a sistemi sociali e giuridici molto articolati per gestire, soprattutto nei tempi di crisi, l’acqua, i mulini e la terra, che era fonte di cibo, di energia, di materie prime.

In questa nostra età virtuale e tecnologica dobbiamo ritrovare un nuovo rapporto di reciprocità e amicizia con la terra (e quindi con cibo, con le materie prime e con l’energia), se vogliamo evitare di diventare ostaggi di speculatori che usano a loro vantaggio i grandi cambiamenti ambientali e sociali. Perché - l’abbiamo già intravisto all’alba della "primavera araba" - quando si arriva al punto che non solo isolati speculatori, ma un intero sistema economico-finanziario specula sul cibo e sulla terra, a scapito soprattutto dei più poveri, dobbiamo fermarci tutti e ricominciare. Dobbiamo ridare fiato alla terra, come ben sapeva la tradizione contadina fondata sulla cultura del maggese. Senza la cura e la custodia della terra, non c’è più cura e custodia nella convivenza umana: non a caso il Genesi usa lo stesso verbo (shamar) quando si riferisce ad Adamo "custode" della terra (2,15) e a Caino che non fu "custode" di suo fratello (4,9).

Il nostro modello economico ha dunque un urgente bisogno di una "cultura della cura", perché dove non c’è la cura dell’altro, della terra, del pane, da qualche parte si nasconde e si prepara il fratricidio.

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Commenti - Gli alimenti e una cultura da ritrovare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 14/08/2012

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Il prezzo più ingiusto

Commenti - Gli alimenti e una cultura da ritrovare di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 14/08/2012 Si sta profilando all’orizzonte una nuova crisi nei prezzi delle materie prime alimentari. Il prezzo del pane è sempre stato qualcosa di più di un gioco fra domanda e offerta. 
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Commenti - Reinventiamo la vita adulta

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/08/2012

logo_avvenire Se mettiamo insieme lo spettacolo di queste Olimpiadi con i dati sulla disoccupazione giovanile, ci accorgiamo subito che la nostra società ama la gioventù, non i giovani

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E mentre apprezza sempre più i valori associati alla giovinezza, alla wellness e la forma fisica, capisce sempre meno e disprezza i valori, che pur sono tanti, della vecchiaia, che cerca in tutti i modi di eclissare o di allontanare dal suo orizzonte, che così si impoverisce e si intristisce. Una civiltà che non valorizza gli anziani e non sa invecchiare è stolta come lo quella che non capisce e valorizza i veri giovani: la nostra società è la prima che sta sommando queste due stoltezze. Che la nostra cultura non ami i giovani lo si vede da come li tratta nel mondo del lavoro, nelle istituzioni, nei partiti politici, dove i giovani sono sempre più assenti e tenuti distanti.

È questo il paradosso di un mondo adulto che vorrebbe restare giovane e di giovani che non riescono a diventare adulti, determinando così una patologia sociale che complica la vita degli adulti e dei giovani. Mia madre non hai vissuto il Sessantotto, sebbene avesse 25 anni, e perché nella campagna marchigiana non esisteva ancora la gioventù. Certo esisteva l’età biologica corrispondente, i giovani si innamoravano e sognavano; ma non c’era quella sorta di categoria o gruppo sociale che oggi chiamiamo "gioventù": questa l’hanno in un certo senso inventata il rock, il Beatles e il Sessantotto. Prima con il matrimonio o con il militare si passava direttamente da ragazzi ad adulti. Quella della gioventù è stata una delle più grandi invenzioni sociali della storia, che ha cambiato società, politica, economia. Oggi però è urgente re-inventare la vita adulta, perché finché non si lavora davvero non si è pienamente adulti, perché non inizia effettivamente l’età della responsabilità, compresa quella alta forma di responsabilità individuale e sociale che ci si assume sposandosi. E un lavoro che arriva tardi, e che – se e quando arriva – è troppo spesso insicuro, frammentario, precario e fragile, non fa altro che alimentare artificialmente e prolungare una giovinezza oltre i suoi orizzonti biologici. Tutto ciò fa perdere al mondo dell’economia e delle istituzioni l’energia vitale e morale fondamentale che proviene dai giovani, e rende per questi accidentato e troppo rischioso quel processo e passaggio fondamentale che dallo studio dovrebbe portare, presto, al lavoro vero.

Non è semplice uscire da questa trappola epocale e collettiva. Ma dobbiamo innanzitutto vederla, e poi rifletterci di più, adulti e giovani assieme, e a tutti i livelli. Certamente occorre ripensare, e profondamente, il significato del lavoro e del lavorare per un giovane oggi. Ci sono due tradizioni consolidate che oggi vanno cambiate. La prima è la radicata convinzione che un giovane quando sceglie di intraprendere un indirizzo di studio dovrebbe chiedersi di che cosa il mercato del lavoro ha bisogno, e quindi scegliere di conseguenza. Questa pratica di buon senso, che forse funzionava in un mondo più statico e tradizionale, sta progressivamente perdendo qualsiasi rilevanza effettiva, anche se facciamo fatica ad accorgercene, imprese e famiglie. La probabilità che esista una correlazione significativa tra la mia scelta di oggi e il mio lavoro tra 5-7 anni è sempre più bassa, per le semplici ragioni che in questo lasso di tempo cambia troppo velocemente il mondo economico, e cambio molto velocemente anch’io. Quando un amico mi chiede qual è la facoltà migliore per il proprio figlio, rispondo con sempre maggiore convinzione: «È quella che più ama e per la quale si sente portato; e se tuo figlio/a non lo sa ancora, dedicagli più tempo, ascoltalo, ascoltala, e soprattutto invitala ad ascoltarsi con più attenzione e più in profondità. E poi, qualsiasi scelta faccia, la sola cosa davvero importante è che studi bene e seriamente». Non si può scegliere di intraprendere una professione soltanto, o soprattutto, perché il mercato tra qualche anno avrà, forse, bisogno di qualcosa, e quando pensiamo e agiamo così finiamo senza volerlo per assomigliare ai servi se non agli schiavi. La ricerca genuina della propria vocazione nella vita e nel lavoro è la ricerca più importante dell’intera esistenza.

È qui però che va introdotto il secondo cambiamento culturale, che completa questo primo discorso, che riguarda il rapporto che dobbiamo imparare ad avere con gli studi e con i titoli. Un consiglio che dovrebbe essere dato, soprattutto in questa età di crisi, a un neo-laureato è il seguente: «Non far diventare il titolo appena conseguito un ostacolo. Considera quanto studiato soprattutto un investimento su di te, che ti sarà utilissimo per la tua libertà e felicità, ma non farlo diventare una pretesa per accettare solo i lavori che tu consideri adeguati. Se riesci a trovare subito il lavoro che senti come tuo e per cui hai studiato, bene; ma se non lo trovi subito accetta qualsiasi lavoro che sia utile alla società e a chi ti remunera; ma mentre lavori con serietà e impegno non smettere di coltivare le sue speranze profonde, i tuoi sogni, il tuo daimon».

Il "mercato del lavoro" di domani sarà sempre meno legato ai titoli di studio e sempre più alla nostra capacità di rispondere e anticipare i bisogni e i gusti degli altri, dimostrando ai nostri interlocutori che, qui ed ora, abbiamo qualcosa di valido e utile da scambiare con loro, in rapporti di mutuo vantaggio, dignità e reciprocità.

Avremo presto giardinieri umanisti, artigiani con il dottorato, imprenditori filosofi, e gli anni di studio e i titoli saranno soprattutto investimenti in libertà, opportunità e cultura, e sempre meno associati al "pezzo di carta" e al posto di lavoro. Queste trasformazioni sono molto profonde e complesse, e non dobbiamo lasciare i giovani da soli ad attraversare questo guado. Altrimenti continueremo ad amare la giovinezza, ma a rendere molto difficile il futuro e il presente dei nostri giovani.

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Commenti - Reinventiamo la vita adulta

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/08/2012

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Rispettare i giovani

Rispettare i giovani

Commenti - Reinventiamo la vita adulta di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 12/08/2012 Se mettiamo insieme lo spettacolo di queste Olimpiadi con i dati sulla disoccupazione giovanile, ci accorgiamo subito che la nostra società ama la gioventù, non i giovani. 
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Commenti - Italia e Unione europea, spread e valori

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/08/2012

logo_avvenire Immaginiamo, con un esperimento mentale, che la Sicilia, il Lazio e la Lombardia possano emettere Brd (Buoni regionali decennali), totalmente indipendenti, e poi immessi sul mercato internazionale. Ci dovremmo aspettare dai mercati gli stessi interessi per i tre titoli? Perché allora ci stupiamo dello spread tra Bund teschi e Btp italiani? Lo spread continua, sostanzialmente, a rappresentare un cambio ombra lira/marco e continua ad essere ben presente tra gli operatori dei mercati (amplificato, ma non creato, da una lunga stagione di speculazione).

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In una Europa con una politica confusa e fiacca, ci sarebbe bisogno di un vero processo politico che dicesse con la forza dei fatti che l’Italia, la Germania e la Spagna sono regioni di un’Unione – anzi, come è stato di recente auspicato dal presidente della Cei, cardinal Bagnasco, una vera Comunità – che non è solo una "espressione geografica", ma una realtà economica, finanziaria e quindi politica.

Tutto ciò si nasconde dietro i controversi "eurobond", cioè, per tornare alla metafora, la scelta politica di superare i Brd siciliani, laziali e lombardi. Ci sarebbe però bisogno di un’azione politica estremamente lungimirante e coraggiosa da parte soprattutto della Germania, qualcosa di simile a quanto fatto negli anni novanta con l’ex Ddr, quando la scelta della unificazione politica fu dettata senz’altro dalla lungimiranza economica, ma anche, e forse soprattutto, da quel principio di fraternità che dovrebbe stare sempre a cuore dell’Europa moderna. Ci sarebbe bisogno di fare altrettanto con l’intera Europa, e compiere così un passo decisivo in quella "europeizzazione della Germania" (e non una "germanizzazione dell’Europa"), che Helmut Kohl annunciò alla nascita dell’euro. Questo coraggio oggi non c’è. Ma nell’invocarlo non dobbiamo dimenticare le ragioni profonde dello spread tra Germania e i Paesi mediterranei, Italia inclusa, ragioni che rendono molto difficile, se non impossibile, orientare la politica europea verso una maggiore unità.

Queste ragioni sono molte e strutturali. Come di tanto in tanto Avvenire non manca di ricordare, il modello economico italiano (e di altri Paesi a matrice cattolica) ha tratti di diversità rispetto a quello anglosassone o nordico, tratti che negli ultimi decenni non riusciamo più a tradurre in sviluppo economico. Il modello economico italiano ha funzionato quando ha messo assieme le sue grandi anime culturali, sostenute dal basso dalla famiglia e dall’alto dallo Stato: il made in Italy, il movimento cooperativo, ma anche le poche grandi imprese, sono stati soprattutto il frutto di questo modello integrato. La crisi delle ideologie (e con esse dei grandi partiti di massa) e la crisi della famiglia, il tutto amplificato da un notevole invecchiamento del Paese, hanno innescato una decadenza strutturale del nostro modello di sviluppo, che è prima di tutto decadenza etica e morale. Una crisi che si manifesta in troppi imprenditori trasformatisi in speculatori smarrendo così la loro vocazione territoriale e sociale, e in una crescente sfiducia nei confronti della classe dirigente, che è alla base anche della parte più preoccupante e grave dell’evasione fiscale.

L’avventura dell’euro, iniziata quando questa crisi sociale ed etica del nostro Paese era appena partita, è stata un importante tentativo di dar vita a una nuova era, allargando lo sguardo, guardando a Nord (e forse troppo poco a Sud, nel Mediterraneo). Oggi possiamo e dobbiamo dire che il progetto Eurolandia non è da solo sufficiente per ritrovare una vocazione economica in un mondo che negli ultimi trent’anni è cambiato molto, troppo, velocemente. Se vogliamo ridurre lo spread finanziario, malattia oggi seria ma che se non curata può diventare presto fatale, dobbiamo più decisamente ridurre gli altri spread che l’Italia ha accumulato nei confronti degli altri grandi Paesi.

Il primo spread, che è fondativo di tutti gli altri, è sempre di carattere morale o etico. Chi gira il mondo sa che la Germania, l’Inghilterra, gli Stati Unitihanno tassi più alti di virtù civili, di lealtà con le proprie istituzioni, di onestà. I valori su cui l’Italia ha fondato la propria identità e successi - laboriosità, cooperazione, creatività - sono invece affievoliti se non quasi scomparsi dall’orizzonte, e non se ne intravvedono altri. Ma senza valori non si genera neanche valore economico, come ci ricordava nel 1927 l’economista civile Luigi Einaudi: «Prima e al fondo di ogni ricchezza materiale esiste un fattore morale. I genovesi e i veneziani non dominarono per secoli il commercio del Mediterraneo e del levante perché fossero ricchi. Che ricchezza v’era per le rocce sterili del genovesato o sulle palafitte della laguna veneta? Ma vivevano per quelle rocce e tra quelle lagune uomini laboriosi, tenaci, ardimentosi i quali acquistarono potenza, e nel tempo spesso ricchezza». Possiamo e dobbiamo ripartire da qui.

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Commenti - Italia e Unione europea, spread e valori

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/08/2012

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Liberiamoci dall'ombra

Liberiamoci dall'ombra

Commenti - Italia e Unione europea, spread e valori di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 05/08/2012 Immaginiamo, con un esperimento mentale, che la Sicilia, il Lazio e la Lombardia possano emettere Brd (Buoni regionali decennali), totalmente indipendenti, e poi immessi sul mercato internaz...
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Commenti - Purchè siano veri, e sappiano produrre anche concordia

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/07/2012

logo_avvenireGli imprenditori oggi non debbono solo chiedere piu garanzie al governo, ma debbono chiedere, e ottenere, una loro nuova centralità nel patto sociale. E' necessario: perché non si esce da nessuna crisi economica senza nuovi imprenditori e senza imprenditori nuovi. Imprenditori, però. E' necessario ri-semantizzare questa parola perché, a essere sinceri, quando oggi si parla di "imprenditori" spesso ci si riferisce a speculatori e a cercatori di protti di breve termine.

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La crisi in cui si trova in Italia non l’hanno creata gli errori di Angela Merkel né un euro malamente piazzato nelle nostre tasche di europei (certo, possono averla complicata, ma in Italia siamo ottimi nell’attribuire ad altri la colpa delle nostre disgrazie).  La crisi l’hanno prodotta soprattutto scelte precise di grandi imprese che trent’anni fa pensarono, sbagliando, di fare soldi facili lasciando il loro progetto imprenditoriale e buttandosi sulla nanza.

La grave crisi di produttività e di obsolescenza tecnica di non poche imprese italiane, non meno grave della crisi dello spread, è anche frutto di "imprenditori" e banche (complici Stato e partiti) che hanno smesso di investire nelle imprese e nel lavoro. In Italia ci sono ancora luoghi di eccellenza produttiva e tecnologica, e sono questi luoghi che ci tengono ancora lontani dal precipizio; ma ce ne potevano essere di più e di più forti. A patto che la classe imprenditoriale e industriale italiana avesse continuato a innovare nell’impresa e nel lavoro.

Ecco perché servono, e urgentemente, nuovi imprenditori. Nuovi anche nel pensiero, nelle motivazioni, e soprattutto negli ideali. Senza ideali possono, infatti, nascere operazioni speculative, ma non nascono imprese, che sono generate e alimentate da ideali piu grandi dei profitti. Per concepire e dare vita a un’impresa, a qualsiasi impresa (non solo economica), non bastano i protti, perché gli esseri umani chiedono molto di piu alla vita, e il denaro è troppo poco. E gli ideali si generano e si rigenerano soprattutto nei tempi di crisi e di dolore: difcilmente in Italia avremmo avuto il miracolo economico senza la sofferenza del fascismo, della guerra e della resistenza. Prezzi e costi altissimi, ma risultati civili, morali ed economici straordinari, miracolosi. Un patrimonio che stiamo deteriorando e consumando in questi ultimi due tre decenni.

E', questa, una strana, paradossale e per qualcuno anche ingiusta regola della vita. Si sa che le cose alte necessitano del pungolo del dolore, come ben sapeva Antonio Genovesi che vedeva nel dolore (e non nel piacere) la molla delle azioni umane, soprattutto di quelle grandi, come sono le azioni che fanno nascere le imprese, e che poi le fanno durare e non morire (e molto triste e preoccupante vedere quanto breve sia la vita media delle nuove aziende in Italia negli ultimi anni).

La grande crisi sta creando, insieme a tanto dolore per tanti, anche enormi opportunità, inedite solo qualche anno fa. La gestione creativa e innovativa dei beni comuni, dall’acqua all’energia rinnovabile, dall’abitare all’alimentazione: sono settori che non aspettano altro che imprenditori civili, magari giovani e possibilmente in squadra (la forma cooperativa e forma d’impresa ideale soprattutto quando si passano crisi, perché il principale capitale richiesto dalle cooperative sono le persone). Nuovi  imprenditori che creino opportunità e che creino lavoro,  con motivazioni piu grandi del protto.

ll lavoro oggi non va cercato, ma va creato. Dal basso. Dalla gente. Da imprenditori veri. L’imprenditore fa impresa non solo perché vuole rispondere ai bisogni della gente (questo potrebbe farlo anche la pubblica amministrazione o uno Stato collettivista), ma perché vuole dire qualcosa di sé, vuole raccontare una storia, vuole parlare, comunicare.

L’artista lo fa dipingendo o suonando, l’imprenditore facendo manufatti, agriturismo, macchinari, energia eolica, inclusione lavorativa di giovani immigrati... Se, invece, fosse vero che le imprese rispondono a bisogni già presenti ed evidenti nella popolazione, avremmo imprese routinarie e molto poco creative. Come ricordava Ford, se i suoi esperti avessero fatto un’indagine di mercato per conoscere i bisogni di trasporto degli americani, e avessero chiesto di che cosa avevano bisogno, gli avrebbero risposto: "Cavalli e carrozze piu veloci", non l’automobile.

L’imprenditore ha come principale dote l’anticipazione, e quando non anticipa ma segue e asseconda gusti e desideri, non è un buon imprenditore o imprenditrice.

L’ltalia e stata una grande realtà economica e civile quando ha generato migliaia di questi imprenditori, anche se li chiamavamo mercanti, artigiani, artisti o monaci, che hanno visto nelle crisi opportunita per nuove intraprese, risorse da valorizzare per crescere, per vivere. Come creare qui ed ora questi nuovi imprenditori? Forse tanti ci sono già, e aspettano solo che li vediamo, e che si lasci loro un po’ di spazio. Altri sono latenti, e con più concordia civile e visione politica potrebbero orire.

Anche perché i luoghi generativi di ogni imprenditore / imprenditrice sono la comunità, i territori, gli ambienti vitali: è qui, non dalle business schools, che nascono i valori, anche il valore economico. L’ltalia ha bisogno di riattivare presto i luoghi, di riabitare i territori, oggi troppo deserti di passioni positive e pieni di rivalità e particolarismi.

Anche per questo ciò che sta accadendo a Taranto è grave, perché quando si mettono in conitto tra di loro il diritto al lavoro con il diritto alla salute, si stanno facendo due operazioni di una gravità inedita. Si sta portando il conitto sociale dentro le famiglie, dove convivono sotto lo stesso tetto persone che vogliono e devono lavorare con i gli e le mogli e i mariti che non vogliono e non devono ammalarsi. In secondo luogo quel conitto che nell’era industriale era fra Capitale che inquinava e  ambiente, diventa anche un conitto fra famiglie e terra, dove si porta inimicizia fra i lavoratori e la salvaguardia del creato.

Solo se sapremo ricreare concordia nei  territori e fra impresa, lavoro, famiglia,  politica e ambiente ripartirà anche l’economia, che non è altro che la rappresentazione delle relazioni sociali nei luoghi del vivere.

 

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Commenti - Purchè siano veri, e sappiano produrre anche concordia

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/07/2012

logo_avvenireGli imprenditori oggi non debbono solo chiedere piu garanzie al governo, ma debbono chiedere, e ottenere, una loro nuova centralità nel patto sociale. E' necessario: perché non si esce da nessuna crisi economica senza nuovi imprenditori e senza imprenditori nuovi. Imprenditori, però. E' necessario ri-semantizzare questa parola perché, a essere sinceri, quando oggi si parla di "imprenditori" spesso ci si riferisce a speculatori e a cercatori di protti di breve termine.

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Imprenditori al centro

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Commenti - Scuole popolari di economia, ora

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/07/2012

logo_avvenirePer vedere chiaramente cosa sta accadendo in questi giorni nei mercati finanziari, dobbiamo dotarci di occhiali con lenti giuste, possibilmente bifocali. Occorre infatti veder meglio da vicino ciò che in questi mesi e giorni destabilizza e perturba i mercati delle economie europee più fragili (e su queste pagine di analisi, anche originali, ne sono apparse ormai molte), ma occorre anche curare la miopia che porta spesso a veder male o non vedere affatto i grandi cambiamenti epocali di lungo periodo da cui discendono questi di breve.

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Non capiremo mai, ad esempio, che cosa sta accadendo in Spagna, senza guardare alla grave crisi morale e sociale che attraversa quel Paese da qualche decennio, un Paese cresciuto troppo e male, puntando su turismo e servizi e dimenticando (anche a causa di una politica europea non lungimirante) i settori primario (agricoltura) e secondario (industria).

Le economie fondate sul terziario e commercio sono e saranno sempre più fragili e instabili. Questa crisi deve farci riflettere sulle vocazioni economico-produttive dei Paesi mediterranei, se non vogliamo diventare soltanto un enorme parco-giochi dove i cittadini di altri Paesi, quelli ricchi davvero, fanno vacanza e si riposano.

Se vedessimo meglio da lontano, capiremmo, poi, che l’operazione euro – per come è stata condotta istituzionalmente – ha finito per indebolire gli Stati europei più deboli, cheoggi non dovrebbero aspettare di essere messi dalla Germania in una "Eurolandia di serie B", ma giocare d’anticipo e chiedere, subito, una revisione dei Trattati che impedisca attacchi speculativi come quelli di questi giorni.

Come capiremmo – lo abbiamo detto ormai troppe volte – che l’Europasalverà i suoi Paesi in crisi, e quindi se stessa, solo spendendo la sua forza politica per unarevisione della architettura finanziaria mondiale, che a cinque anni dalla crisi è rimasta di fatto la stessa, e questo è davvero troppo grave.

Sono convinto che l’opinione pubblica debba fare di più: il bombardamento di indici di Borsa, spread, numeri che sta dominando l’orizzonte della nostra civiltà sortisce un effetto ipnotico, che blocca sul nascere ogni iniziativa civile e popolare tesa a chiedere più partecipazione nelle scelte, manovre, a chiedere più democrazia. E una delle ragioni, credo, è la quasi totale ignoranza economica-finanziaria dei cittadini, che crea insicurezza di fronte alla classica risposta dell’esperto: "La questione è molto più complessa". Ma la complessità non va subìta, va affrontata, perché è vero che una delle lezioni più grandi del mondo contemporaneo è averci mostrato un cambiamento radicale, forse sostanziale, dell’economia e quindi del mondo.

La vita economica come la conosciamo oggi è profondamente diversa da quella che conoscevamo fino agli anni Settanta: il mercato sta diventando sempre di più la principale grammatica delle relazioni sociali (basterebbe considerare linguaggio e cultura delle scuole, degli ospedali, della politica per capire cos’è il mercato oggi).

Continuare a leggere il mondo senza capire la centralità di questa nuova economia è semplicemente sbagliato, e quindi producediagnosi e terapie errate, come lo sono la grande maggioranza di quelle che ascoltiamo in questi giorni. Si continua a pensare all’economia, ai suoi linguaggi alle sue tecniche, come a qualcosa che riguarda un ambito separato dalla vita civile, competenza di addetti ai lavori, per poi venire sommersi quotidianamente da tutta un’informazione (e una simbolica) economica che riempie le nostre colazioni, pranzi e cene.

C’è allora un urgente bisogno di investire in educazione economico-finanziaria, perché l’unico modo per ridurre il peso e l’invadenza dell’economiae della finanza nelle nostre vite, e magari governarle con la democrazia, è conoscerle bene o almeno meglio. Dovremmo inserire la conoscenza dell’economia e della finanza nelle scuole di ogni ordine e grado, e trasformare profondamente quella esistente nelle facoltà di economia, dove si studia troppo business, ma non diamo strumenti adeguati per orientarsi nel mondo, per imparare a «parlare economia», come dice l’economista americano Robert Frank. I nostri laureati in economia fanno un’esperienza simile a quella che facevamo nella mia generazione con lo studio dell’inglese: nella prima gita scolastica all’estero scoprire drammaticamente che, dopo anni di grammatica e sintassi, si era totalmente incapaci di qualsiasi primitivo dialogo con gli inglesi veri. È infatti molto amaro constatare che oggi si può arrivare a una laurea in economia senza mai aver sentito parlare, se non in qualche accenno fugace, delle cose più importanti degli ultimi quarant’anni di ricerca in questa scienza: le asimmetrie informative, la finanza comportamentale, i beni comuni, che sono strumenti essenziali, non solo utili, per capire che cosa sta accadendo oggi al mondo e in Europa (che cosa sta producendo l’impennata degli spread in questi giorni se non l’uso di asimmetrie informative da parte di alcuni grandi attori speculativi?).

Questa crisi dovrebbe portare a riscrivere interamente i manuali di economia e di finanza, aggiornandoli, ma anche cancellando teoremi e dogmi errati che sono anche alla base della crisi di questi tempi. Ma non basta: c’è bisogno di far partire scuole popolari di economia e di finanza (ma di quelle "buone" e non di quelle vecchie e sbagliate) nelle comunità, nelle associazioni, nelle parrocchie. La democrazia è cominciata veramente nei banchi di scuola, con la letteratura, con la poesia, con la matematica, che ci hanno trasformato da servi in cittadini. Oggi la nuova democrazia richiede di formarsi anche all’economia e alla finanzase vogliamo essere veramente liberi e non in balia di tecnici, di indici e di "ferree leggi". La nostra libertà sostanziale oggi passa anche per una maggiore e migliore cultura economica e finanziaria, se non vogliamo tornare sudditi di nuovi re e nuovi principi, senza volto ma non meno spietati.

Tutti i commenti di Luigino Bruni su Avvenire sono disponibili nel menù Editoriali Avvenire

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Commenti - Scuole popolari di economia, ora

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/07/2012

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Occhiali giusti

Occhiali giusti

Commenti - Scuole popolari di economia, ora di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 24/07/2012 Per vedere chiaramente cosa sta accadendo in questi giorni nei mercati finanziari, dobbiamo dotarci di occhiali con lenti giuste, possibilmente bifocali. Occorre infatti veder meglio da vicino ci...