Servizio non profitto

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La vocazione e il senso delle «municipalizzate», il dovere dell’efficienza

di Luigino Bruni 

pubblicato su Avvenire il 23/11/2013

 Quanto sta avvenendo in questi giorni a Genova ci sta dicendo, pur con le sue inevitabili ambivalenze (e strumentalizzazioni), qualcosa di importante per la nostra economia, e democrazia. Per comprendere qualche cosa che non emerge dalla semplice cronaca, è necessario tornare all’origine delle ‘aziende municipalizzate’, che oggi in Italia sono quasi cinquemila.

Questa forma di impresa ha fatto la sua comparsa in Italia all’inizio del ‘900. Un ruolo cruciale lo svolse l’economista Giovanni Montemartini, di Montù Beccaria (Pavia), che giustificava l’importanza della creazione di queste imprese sulla base di due principi: quello del municipio (o municipalismo italiano) e quello di efficienza economica. Montemartini, di tradizione socialista ma conoscitore dell’economia liberale, fondava la sua proposta sulla vocazione ‘municipale’ o comunale dell’Italia. I comuni, le città, hanno avuto nella nostra storia secolare una centralità molto più decisiva delle successive province, regioni e perfino dello Stato nazionale: “Solo coll'avvento della democrazia nell'impresa politica, colla conseguente conquista dell'autonomia locale, il sistema delle municipalizzazioni troverà le sue condizioni propizie di sviluppo” (1902). Anche questa è sussidiarietà. Ma il suo secondo principio era proprio l’efficienza economica: “Ogni economia, per raggiungere certi scopi, può darsi o all'impresa privata o all'impresa politica; e le due imprese devono avere la stessa produttività marginale in ogni momento”. Montemartini, insieme a molti altri economisti di ieri e di oggi, era dunque convinto che quando si ha a che fare con beni comuni e pubblici, l’impresa che lui chiama “politica” (bella espressione!) fosse in genere più efficiente di quella privata. Oggi, invece, per un’imperante, subdola, non dichiarata ideologia del capitalismo individualista e finanziario, la tesi dominante è quella opposta: efficienza è sinonimo di privatizzazione, e tutto ciò che è pubblico dice sprechi, clientelismo, inefficienza, perdite. Per Montemartini le imprese municipalizzate dovevano essere “imprese che non fanno né guadagni né perdite”, un’idea quindi di impresa civile molto più antica, e italiana, del nordamericano ‘non-profit’, alieno alla nostra cultura.

Ad oltre un secolo di distanza dall’economista pavese, resta vero che le imprese che hanno a che fare con i beni comuni non possono, né devono, massimizzare profitti. Lo scopo che le muove non può, né deve, essere la ricerca del massimo lucro. Dietro il trasporto pubblico, ad esempio, si nasconde oggi buona parte della qualità della vita dei nostri studenti, degli anziani, e soprattutto dei poveri. E invece l’ideologia dominante in tema di privatizzazioni, tema tornato oggi di moda per necessità di cassa, ci sta convincendo che metro, asili nido, musei, scuole, ospedali, siano aziende come tutte le altre, e quindi mosse dalla stessa cultura, motivazioni, strumenti, scopi: la ricerca del massimo profitto. Ma come mai, dovremmo seriamente chiederci, nessuno si preoccupa che non siano aziende, ma puri centri di costo (e di costi enormi), gli eserciti, i tribunali, i parlamenti e tante altre istituzioni? Chi decide, allora, e in quali luoghi (per favore non negli uffici dei commissari della spending review!), quali siano i beni comuni “non economici”, perché sono da assicurare a tutti i cittadini, e quelli da far gestire invece dal mercato for-profit?

Gli economisti rispondono a queste domande ripetendo che grazie alla regolazione pubblica dei beni e servizi comuni ‘privatizzati’, è possibile mettere insieme equità (accesso universalistico ai beni pubblici) e profitti per le imprese. Certo, la teoria ce lo insegna. Ma poi alcuni cittadini guardano le differenze di qualità, e di civiltà, tra i treni ad alta velocità e i treni dei pendolari; altri osservano l’efficienza, per così dire, di grandi imprese ex-pubbliche privatizzate; e altri ancora vedono i fallimenti economici, la corruzione e gli scandali (tra cui l’evasione e i paradisi fiscali) di grandi imprese private. E così tutti questi cittadini si chiedono se è proprio vero che l’impresa for-profit (chiamiamo la privatizzazione col suo giusto nome) sia più efficiente di quella pubblica; e, magari guardando a che cosa accade in Francia, si chiede se è proprio automatico che pubblico sia sinonimo di inefficienza e di sprechi.

So che ponendo queste domande alla cultura oggi imperante c’è da rischiare la scomunica dalla comunità degli economisti accademici (alla quale, ancora, appartengo). Ma la democrazia consisterebbe in massima parte nel porre al centro dell’agenda pubblica proprio queste domande, nel discutere pubblicamente quali ambiti vogliamo far regolare dal mercato for-profit e quali vogliamo invece lasciare al “municipio”, e ai suoi cittadini. Il modello di gestione delle imprese municipalizzate in molti casi (non sempre) non ha più funzionato nei decenni passati, anche perché si è progressivamente smarrito il nostro senso di appartenenza ad un municipio, ad una comunità, ad un comune (e ad un Bene comune). Non dobbiamo però pensare che la soluzione unica, o migliore, sia appaltare al mercato capitalistico i nostri tanti beni comuni. Dobbiamo invece lavorare, e a tutti i livelli, per far nascere nuove forme di imprese civili, che possano garantire l’efficienza nella gestione (e quindi la presenza anche di imprenditori), ma che abbiano scopi più grandi del profitto.

Quanto accade a Genova deve allora farci riflettere di più e di più assieme sull’importanza dei beni comuni nelle nostre città, che, come tanti beni, li apprezziamo quando rischiano di scomparire. Anche senza essere esperti di teoria economica, i cittadini sanno, o intuiscono, che quando un bene comune diventa privato, in città si riduce lo spazio del pubblico. E così ci impoveriamo tutti, perché la nostra ricchezza, e la nostra povertà, sono fatte di beni privati ma anche, e soprattutto, di beni pubblici. C’è poi un urgente bisogno civile di ripensare e rivalutare la semantica del pubblico. C’è una disistima strisciante e crescente per tutto ciò che è pubblico, inclusi i dipendenti pubblici che troppo spesso non si sentono, e non sono, rispettati. Ma se non ricominciamo a coniugare pubblico (che, pure, non è sinonimo di statale) con parole positive, civili ed alte, non faremo altro che svendere i beni pubblici  al primo mercante di profitti, e ci impoveriremo tutti.

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