Editoriali Avvenire

Economia Civile

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Commenti - Come nel 1951 ma per la finanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire  il 15/04/2012

logo_avvenireL’instabilità e l’incertezza finanziaria ed economica che stanno caratterizzando, e caratterizzeranno ancora a lungo, l’attuale stagione dei mercati e della società, dipende anche da una grande domanda sul presente e sul futuro dell’Europa, dell’Europa economica, civile e politica. Quando nel 1951 fu creata la Ceca, la Comunità del carbone e dell’acciaio, dietro questo evento epocale, passo fondamentale verso il "Trattato di Roma" e, quindi, la Comunità Europea, ci fu un’intuizione geniale e profetica, di enorme portata politica, culturale e anche spirituale: creare un patto di comunità proprio sulle risorse strategiche che erano state al centro dei due grandi conflitti mondiali, quel carbone e quell’acciaio che avevano alimentato le guerre.

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L’Europa sta vivendo, ormai da qualche anno, la crisi civile più grave dal dopoguerra. La globalizzazione dei mercati, e stili di vita insostenibili sul piano dei consumi individuali e collettivi (debiti pubblici), hanno destabilizzato, forse minato, l’equilibrio su cui si era fondata la Comunità europea generata dai primi trattati. Se oggi l’Europa vuole veramente uscire da questa grave crisi e immaginare una nuova stagione di benessere e di civiltà, è chiamata a fare qualcosa di simile a quanto fatto nel 1951 dai nostri padri e nonni: deve veramente mettere in comune la principale risorsa strategica che sta procurando in questi anni una nuova forma di guerra tra i popoli del Vecchio continente e, sempre più, del mondo: la finanza. Quanto fatto finora con l’euro, la Bce, il fondo salva-Stati, non è evidentemente sufficiente. Un patto di comunità sulla finanza significherebbe molte cose, tra cui dar vita agli eurobond e ad una vera Banca centrale europea, che però per essere creati hanno bisogno di un elemento fondamentale, tanto essenziale quanto evidentemente assente o quantomeno insufficiente, vale a dire la fiducia vera tra Stati e istituzioni europee.

La finanza europea e mondiale ha, insomma, urgente bisogno di una vera e propria riforma strutturale. Questo capitalismo finanziario che ha sempre più in mano (o sotto scacco) grandi imprese, istituzioni e politica, sta diventando un "male comune globale", che rende insostenibile il nostro sviluppo e si basa sul dogma della massimizzazione dei profitti di breve periodo. Un dogma, che in passato era implicito e normalmente taciuto, e che oggi, invece e senza alcuna vergogna, è esplicitamente dichiarato come l’unica via possibile all’efficienza e alla crescita.

Un vero patto europeo "sulla e per la finanza", potrebbe rappresentare un primo e deciso passo verso la necessaria e urgente regolamentazione della speculazione finanziaria, richiamando le banche alle loro funzioni fondamentali per il bene comune (accesso al credito, gestione prudente dei risparmi, sostegno agli investimenti delle imprese produttive), funzioni che sono state negli ultimi decenni tradite dalla grande finanza speculativa che sta snaturando l’intero settore finanziario, e quindi l’economia e la società.

Luigi Einaudi ricordava spesso che la scienza economica dovrebbe studiare soprattutto i "punti critici", vale a dire quelle soglie superate le quali una realtà da positiva diventa negativa (e viceversa). Oggi la finanza ha certamente oltrepassato questa soglia e da fondamentale ancella dell’economia e delle famiglie, sta diventando tiranno del mondo. Sono questi i momenti nei quali l’alta politica deve tornare a svolgere il suo compito dando vita a processi istituzionali che ripongano al centro della vita civile le istanze del bene comune, un bene comune oggi talmente evidente da non dover scomodare alcuna disputa teologica o filosofica sulla sua natura. In questi anni si sta giocando una partita decisiva per la democrazia.

Il forte terremoto provocato dalla globalizzazione dei mercati e della ideologia capitalistico-finanziaria ha dato uno scossone potente all’edificio democratico. Le misure che stiamo prendendo in questi anni e mesi sono solo puntelle per impedire all’edificio di crollare definitivamente, senza che si intravvedano vere operazioni di ricostruzione delle strutture portanti.

Un patto europeo "sulla e per la finanza" ne sarebbe il primo e fondamentale pilastro, ma non si vedono negli attuali leader politici né la forza delle idee né il coraggio civile di dar vita a una tale impresa, lasciando così alle giovani generazioni una casa comune pericolante e in costante rischio di crollo di fronte alla prossima scossa. Occorre allora continuare a parlare, e sempre di più, di questi temi fondamentali e assenti dai dibattiti pubblici poiché se ci sarà una rinascita dell’Europa e un nuovo ordine economico mondiale, questa volta non potrà sorgere dalla sfera politica (troppo debole dopo la fine delle ideologie): la speranza sta tutta nella società civile e quindi nella voglia di vita e di futuro della gente.

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Commenti - Come nel 1951 ma per la finanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire  il 15/04/2012

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Nuovo patto per l'Europa

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Commenti - L’«impoverimento» in atto è anche antropologico

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 07/04/2012

logo_avvenireLa politica e la società italiana stanno soffrendo per incapacità di futuro. Lo sguardo con cui si analizzano crisi e ricette di crescita è sempre a corto raggio, mentre sarebbe necessario, proprio perché stiamo vivendo una tempo di grande cambiamento, la virtù di saper delineare, e presto, prospettive e scenari di un nuovo modello di sviluppo e di stili di vita.

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E invece si continua a ragionare anche sulla base di aspettative ingenue, come l’idea che il rilancio dell’economia italiana nascerà dai grandi flussi internazionali di capitali, che dovrebbero tornare o arrivare da noi grazie ad una più flessibile regolamentazione del "mercato" del lavoro, dimenticando la evidente verità che i grandi capitali speculativi hanno troppe ragioni "for profit" per andare a investire altrove – a meno che qualcuno voglia rendere i diritti del lavoratori italiani simili a quelli della Cina o del Kenya, e battere così la concorrenza...

Dovremmo, invece, cogliere l’opportunità nascosta tra le sofferenze di questo tempo per pensare la vita economica più in profondità.

Cresce infatti l’impressione che politica e opinione pubblica quando parlano del lavoro si riferiscano, troppo frequentemente, a qualcosa di astratto e di sostanzialmente immaginato, anche perché la classe dirigente (compresi molti capi sindacali) è sempre più lontana dai veri luoghi del lavoro e dalle sue antiche e nuove fatiche. E chi non "vede" il lavoro fa fatica a comprenderne le tante luci e le vere ombre.

C’è, in altre parole, un problema di rappresentazione pubblica del mondo del lavoro, la cui immagine corretta non arriva più a chi dovrebbe regolamentarlo. Se chi vuole e deve riformare il lavoro entrasse di più nei luoghi del lavoro, si renderebbe conto, ad esempio, che il mondo del lavoro si sta impoverendo sul piano relazionale e simbolico. Il lavoro, infatti, finché si svolge in luoghi che possiamo e vogliamo chiamare umani, vive non solo di incentivi e di sanzioni, ma si alimenta anche, e soprattutto, di riti, di simboli, di cerimonie. Nelle botteghe degli artigiani delle città italiane ed europee dei secoli scorsi, i linguaggi per riconoscere la qualità di un manufatto erano molteplici, e quelli più importanti non erano certo quelli dei denari.

L’apprendista terminava il periodo di prova con un "capo d’opera" che veniva prima giudicato da una giuria e poi esposto nel palazzo delle corporazioni, per ricevere il giudizio dell’intera città. E così per gli altri passaggi di "carriera", fino allo status di "mastro", attribuito sempre all’interno di rappresentazione simboliche e in un certo senso artistiche (fino a tutto il Settecento, la parola 'artista' era usata in italiano indistintamente per gli artisti e per gli artigiani). Esisteva, poi, una grande varietà di premi (molto più che monetari) per riconoscere il valore di un’opera che dipendeva non tanto dalla qualità tecnica ma da quanto essa fosse "viva", poiché, come ci ricorda Richard Sennett nei suoi libri, al manufatto ci si rivolgeva come a un "tu" non come a un "esso".

La cultura capitalistico-speculativa sta intristendo i luoghi del lavoro anche perché sta eliminando tutta questa dimensione simbolica, rituale e premiale del lavoro. In realtà, a guardar bene, le grandi imprese multinazionali sembrano ricorrere molto a riti, premi e cerimonie, perché colgono che per legare i lavoratori al destino dell’azienda (un elemento essenziale per ogni successo), non bastano i contratti: occorre la forza dei simboli. Ma queste pratiche hanno perso ogni valore intrinseco e di gratuità, e vengono usate prevalentemente (anche se non sempre) a fini strumentali, e quindi finiscono per rendere ancora più tristi e poveri i luoghi del lavoro. Il problema cruciale, invece, è che i simboli producono appartenenza a un destino comune solo quando sono gratuità, quando hanno cioè un valore intrinseco (come ben sa chi vive – e legge – bene una liturgia nelle nostre chiese). Ma una cultura che perde i densi linguaggi dei simboli-gratuità, o perché non ne coglie più il senso o perché, peggio, li strumentalizza, non sa più capire, né parlare, né motivare adeguatamente l’animale simbolico homo sapiens.

La cultura della fabbrica aveva costruito, nelle sue contraddizioni, un suo codice simbolico e i suoi rituali, essenzialmente religiosi e ideologici, in buona parte ancora eredità del mondo contadino, che hanno reso sopportabile la fatica del lavoro, e consentito a centinaia di milioni di lavoratori di crescere in luoghi faticosi, duri, aspri, ma 'vivi' e quindi umani. L’indigenza simbolica del nostro tempo va oltre il mondo del lavoro, sebbene la cultura economica sia forse la principale responsabile della morte del simbolo-gratuità.

Penso, per un esempio autobiografico, a molte delle nostre università dove le sedute di laurea hanno perso tutta la loro dimensione rituale (cura della cerimonia, degli abiti dei professori, e degli studenti…), e in pochi minuti, o secondi, si liquida uno dei riti di passaggio più importanti della nostra tradizione umanistica. Ed è triste, o commovente, vedere parenti, nonne e nonni che ancora continuano tenaci ad assistere alle lauree dei nipoti, ormai totalmente disorientati da queste nostre non­cerimonie, dove il posto del simbolo e del rito lo sta occupando la goliardia banale, alta espressione della cultura del frivolo, che è l’anti­simbolo. Non possiamo pretendere che questo governo riformi il lavoro a questo livello antropologico e culturale; ma come cittadini responsabili dovremmo sempre porre queste domande difficili. Saremo noi, con le nostre domande e scelte, a determinare se i luoghi del lavoro del futuro saranno più simili a "botteghe" di artigiani post-moderne e creative, o ai non-luoghi della finanza con i loro finti simboli.

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Commenti - L’«impoverimento» in atto è anche antropologico

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 07/04/2012

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L’altra riforma del lavoro: restituirgli luoghi e simboli

L’altra riforma del lavoro: restituirgli luoghi e simboli

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Commenti - Il lavoro e le lenti sbagliate

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/04/2012

logo_avvenireDi lavoro si discute molto, ma ci si sofferma troppo, se non esclusivamente, sui suoi aggettivi: precario, dipendente, autono­mo, nero, eccetera. Mentre è elusa la do­manda decisiva: che cosa è il lavoro? Eppu­re senza tentare di rispondere a questa domanda si resta solo sulla superficie del "fat­to tutto umano" del lavoro, terminando co­sì il discorso proprio sull’uscio dei suoi luo­ghi più rilevanti. Innanzitutto, dovremmo ricordarci che il la­voro è sempre attività spirituale, perché pri­ma e dietro una qualsiasi attività lavorativa, da una lezione universitaria alla pulizia di un bagno, c’è un atto intenzionale di libertà, che è ciò che fa la differenza tra un lavoro ben fatto e un lavoro fatto male. Ed è quindi atti­vità umana altissima in ogni contesto nel quale si compie.

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Persino, e paradossalmen­te, in un lager, come ricordava Primo Levi in una sua memoria molto nota: «Ma ad Au­schwitz ho notato spesso un fenomeno cu­rioso: il bisogno del "lavoro ben fatto" è tal­mente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore i­taliano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i na­zisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guer­ra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale».

Sono proprio la "dignità professionale" e il "bi­sogno del lavoro ben fatto" che si stanno pro­gressivamente e inesorabilmente allontanan­do dall’orizzonte della nostra civiltà, che era stata invece fondata eminentemente su quei pilastri. L’etica delle virtù, che ha dato vita nei secoli anche all’etica delle professioni e dei me­stieri, si basava su una regola aurea, una vera e propria pietra angolare dell’intera fabbrica civile: la prima motivazione del lavoro ben fat­to si trova nella dignità professionale stessa.

La risposta alla ipotetica domanda: «Perché questo tavolo o questa visita medica vanno fatti bene?» era, in una tale cultura, tutta in­terna, intrinseca, a quel lavoro e a quella de­terminata comunità o pratica professionale. La necessaria e importante ricompensa, mo­netaria o di altro tipo, che si riceveva in con­traccambio di quella opera, non era – e qui sta il punto – la motivazione del lavoro ben fat­to, ma era solo una dimensione, certamente importante e co-essenziale, che si poneva su di un altro piano: era, in un certo senso, un premio o un riconoscimento che quel lavoro era stato fatto bene, non il suo "perché".

La cultura economica capitalistica domi­nante, e la sua teoria economica, sta ope­rando su questo fronte una rivoluzione si­lenziosa, ma di portata epocale: il denaro di­venta il principale o unico "perché", la mo­tivazione dell’impegno nel lavoro, della sua qualità e quantità. Tutta la teoria economica del personale, che si basa esattamente su questa ipotesi antropologica, sta producen­do lavoratori sempre più simili alla teoria.

È questa la cultura dell’incentivo, che si sta estendendo anche ad ambiti tradizional­mente non economici, come la sanità e la scuola, dove è divenuto normale pensare, e agire di conseguenza, che un maestro o un medico diventano buoni (eccellenti), solo se e solo in quanto adeguatamente remunera­ti e/o controllati. Peccato che una tale antropologia, parsimo­niosa e quindi errata, sta producendo il triste risultato di riavvicinare sempre più il lavoro u­mano alla servitù se non alla schiavitù antica, perché chi paga non compra solo le presta­zioni, ma anche le motivazioni delle persone e quindi la loro libertà. E dopo oltre un seco­lo e mezzo in cui abbiamo combattuto batta­glie epocali di civiltà per la difesa dei diritti dei lavoratori dalla loro mercificazione e asservi­mento, oggi restiamo silenti e inermi di fron­te al capitalismo contemporaneo che nel si­lenzio ideologico sta riducendo veramente il lavoro a merce, e non solo quello degli operai ma anche dei manager, sempre più proprietà delle imprese che li pagano, e li comprano.

Il disagio del mondo del lavoro è anche il frut­to del dilagare incontrastato di questa anti­cultura del lavoro, che non vedendo il 'biso­gno del lavoro ben fatto' come la vocazione più radicale presente nelle persone, tratta i lavo­ratori come moderni animali domabili con ba­stone (sanzione-controllo) e carota (incentivo).

E se trasformiamo così i lavoratori, non dobbiamo poi stupirci se le imprese si ritrovano persone pigre, opportuniste e (o perché?) infelici. Il capitalismo, a causa degli 'occhiali antropologici' sbagliati che ha purtroppo inforcato, non capisce che quell’animale simbolico che chiamiamo homo sapiens ha bisogno di molto di più del denaro per dare il meglio di sé al lavoro, ha pensato di poterlo "addestrare" (parola oggi di nuovo troppo usata da manager e ministri) e controllare, senza ancora riuscirci del tutto.

Grazie a Dio. C’è, allora, un urgente bisogno di una nuova-antica cultura del lavoro, che, senza guardare nostalgicamente indietro guardi politicamente avanti, torni a scommettere sulle straordinarie risorse morali presenti in tutti i lavoratori, che si chiamano libertà e dignità, che non possono essere comprate, ma solo donate dal lavoratore. Risorse morali che bisogna valorizzare e alle quali bisogna saper educare, con la parola (anche quella che transita per le leggi) e con l’esempio. Senza questa nuova­-antica cultura del lavoro, continueremo a discutere di articolo 18 e dintorni, ma resteremo troppo distanti dalle officine, dalle fabbriche, dagli uffici, che ancora vanno avanti perché, in barba alla teoria economica, tanti continuano a lavorare e a tirar su "muri dritti" prima di tutto per dignità professionale, anche quando non dovrebbero farlo sulla base degli incentivi monetari. Fino a quando resisteranno?

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Commenti - Il lavoro e le lenti sbagliate

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/04/2012

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La cultura dei muri dritti

La cultura dei muri dritti

Commenti - Il lavoro e le lenti sbagliate di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 01/04/2012 Di lavoro si discute molto, ma ci si sofferma troppo, se non esclusivamente, sui suoi aggettivi: precario, dipendente, autono­mo, nero, eccetera. Mentre è elusa la do­manda decisiva: che cosa è il lavo...
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Commenti - Lavoro, altro che conflitto di classe

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 22/03/2012

logo_avvenireOra che è stato raggiunto un accordo sul "mercato" del lavoro – faticoso, cruciale e ampio sebbene non del tutto condiviso per l’opposizione di un sindacato importante come la Cgil – non dobbiamo dimenticare una verità tanto evidente quanto trascurata: nella società contemporanea il centro o l’asse della dialettica sociale non è più il conflitto imprenditore-lavoratori, ma quello tra rendite e mondo dell’impresa.

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Chiunque guarda la distribuzione dei redditi e, soprattutto, quella della ricchezza e dei patrimoni, si accorge subito che la fetta di torta che si spartiscono imprenditori e lavoratori è sempre più piccola, poiché la parte del leone la fanno le grandi rendite finanziarie, ma anche quelle dei top manager, e quelle delle varie corporazioni e categorie protette.

Uno dei dati che distingue l’era moderna da quella post-moderna (o della globalizzazione) è proprio lo spostamento dell’asse del potere economico. Oggi il grande capitale è in mano ai finanzieri e agli speculatori, che dominano non solo la finanza, ma l’intera economia. Che il conflitto fondamentale del capitalismo non fosse tra profitti e salari ma tra rentier e imprenditori, era la tesi del più influente economista liberale inglese della prima metà dell’Ottocento, David Ricardo.

Questo grande economista dimostrò che era proprio la crescita della quota di valore economico assegnato alle rendite a caratterizzare il capitalismo, una crescita che andava a ridurre inesorabilmente la quota di valore aggiunto destinato all’impresa, e quindi allo sviluppo dell’economia. I lavoratori, invece, non potevano entrare in conflitto con le altre classi sociali semplicemente perché questa quota era fissata al livello della "sussistenza".

Quella duplice intuizione di Ricardo è oggi tornata decisamente cruciale, quando osserviamo l’aumento esponenziale delle rendite, ma anche il progressivo ritorno dei salari dei lavoratori ai livelli di sussistenza, grazie al continuo aumento delle imposte indirette e dei tagli al welfare. Certo, in molte imprese capitalistiche, soprattutto quelle multinazionali, la proprietà appartiene sempre più alla finanza speculativa, che tratta il lavoratore spesso solo come un costo (e sempre meno come un investimento), una considerazione che dovrebbe portare, tra l’altro, a porre soglie tra tipologie di imprese non semplicemente sulla base al numero di lavoratori (15), ma anche sulla base della proprietà del capitale.

Nei dibattiti di questi giorni attorno all’articolo 18 si ha l’impressione forte che si stia continuando a leggere il sistema socio-economico attuale a partire dal conflitto imprenditore-lavoratori, ancora visto come il fulcro dell’anatomia della società. Si perde così un’ottima occasione (la crisi) per rifocalizzare i grandi temi dell’economia e del lavoro nella nostra società.

Oggi, il mondo dell’impresa soffre non tanto perché non riesce a licenziare i lavoratori fannulloni, ma soffre per un’eccessiva, abnorme tassazione del lavoro, e per una profonda crisi di speranza e di fiducia che non spinge la gente a intraprendere nuove attività economiche. Le imprese che vivono sui territori, e che non sono predatori, ma abitanti dei luoghi, sanno molto bene che i lavoratori prima di essere un costo sono il loro primo capitale, e che se non investono nel lavoro l’impresa non cresce e involve.

C’è poi un secondo aspetto di cui si parla troppo poco. Il "mercato" del lavoro risente della cultura e della storia di un Paese. L’Italia ha una forte vocazione comunitaria e territoriale. Da noi il lavoro è stato sempre visto all’interno di un patto sociale più ampio, nel quale l’impresa non viene confinata in una "zona industriale" lontana e immune dalla "città", ma come un luogo del vivere, un brano di vita che ospita le stesse virtù e gli stessi vizi della società intera.

Non dobbiamo inseguire il sogno di costruire aziende abitate dalle sole virtù (merito, efficienza, flessibilità), espellendo tutti i difetti ("fannulloni", fragilità, inefficienze) al di fuori della zona industriale. Fuori dove? Nella famiglia? Nello Stato? Dove?

È questo il modello che il capitalismo contemporaneo sta provando e imponendo ai vari Paesi, che però, dove è applicato massicciamente, sta sempre più lasciando lungo la strada una fiumana di vinti, che sono fuori non solo dalla cittadella del lavoro, ma dalla città e dalla dignità. Le fragilità, i limiti, le imperfezioni ci sono nell’impresa perché ci sono nella famiglia, nelle comunità, nella scuola: e ci sono perché sono la condizione dell’umano, e quindi sono anche la condizione dell’economia finché la vogliamo tenere dentro il territorio dell’umano.

L’accordo sul lavoro è importante: c’è tutta una serie di vizi da estirpare che si sono insediati nel mondo dell’impresa in questi decenni di mal governo, di mal società civile e di mal sindacato. Ma attenzione a non farsi vincere sotto la pressione dei mercati e degli spread dalla tentazione di una sfera economica pura, al riparo dalle scorie della storia, che è l’eterna tentazione del "perfettismo", che ha prodotto e produce luoghi invivibili e alla lunga disumani.

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Commenti - Lavoro, altro che conflitto di classe

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 22/03/2012

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Tra rendite e perfettismo

Tra rendite e perfettismo

Commenti - Lavoro, altro che conflitto di classe di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 22/03/2012 Ora che è stato raggiunto un accordo sul "mercato" del lavoro – faticoso, cruciale e ampio sebbene non del tutto condiviso per l’opposizione di un sindacato importante come la Cgil – non dobbiam...
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Commenti - Valori che ci uniscono e ci servono

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/03/2012

logo_avvenireIl rapporto Censis sui "valori degli italiani" è una buo­na notizia per il Paese. Emerge un familismo mora­le, che è meno raccontato e famoso del familismo a­morale di cui si parla e straparla per descrivere il mo­dello italiano. Le relazioni, quelle familiari e comuni­­tarie, sono poste in cima ai valori. E – ciò che il Censis non dice ma che è emerso da una ricerca svolta con un collega dell’Università di Milano-Bicocca (Luca Stan­ca) – le persone che attribuiscono im­portanza alla famiglia e alle relazioni sono mediamente anche quelle più felici.

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Dopo alcuni decenni che han­no visto l’ipertrofia della finanza e del consumismo, questi primi anni di crisi stanno risvegliando una vo­cazione nazionale che non era morta, ma che si era soltanto assopita, covando viva e calda sotto la cene­re.

L’Italia ha una storia di relazioni che dura da oltre due­mila anni: la cultura mediterranea, il cristianesimo, lo scambio e il commercio, la cultura cittadina e borghi­giana, hanno creato nei secoli una identità dove il va­lore della relazione è al centro del suo dna. È stata que­sta rete di 'relazioni tra diversi' che ha fatto grande l’I­talia quando è stata grande (Umanesimo civile, Sette­cento riformatore, Risorgimento, Ricostruzione...); e anche le sue patologie (come certi familismi amorali e alcune forme di mafia), possono anche essere lette co­me malattie e degenerazioni di questa stessa vocazio­ne alle relazioni. Oggi, allora, in questi tempi di crisi e in questi giorni duri, ci stiamo accorgendo che è molto più interes­sante e appagante investire tempo nelle relazioni che consumare denaro negli ipermercati. Un secondo da­to del rapporto, infatti, si sposa perfettamente con il pri­mo (relazioni): il 57% degli italiani ritiene che nella pro­pria famiglia il desiderio di consumare è meno inten­so rispetto a qualche anno fa. E, cosa molto importan­te, lo pensa indipendentemente dalla diminuzione del proprio reddito.

È come se ci stessimo accorgendo del bluff di un mo­dello di economia fondato sui consumi: il gioco di pen­sare di rilanciare una economia in crisi di fiducia e di entusiasmo civile e spirituale rilanciando consumi è durato poco, e ha lasciato tutti scontenti e delusi. È dav­vero bizzarro, se non offensivo, pensare che in questi tempi di seria diminuzione del reddito reale delle fa­miglie qualcuno possa pensare che una strada di ri­lancio dell’economia possa essere tenere aperti i negozi 7 giorni su 7 e 24 ore su 24.

Il consumismo sostenuto dai debiti, va ricordato, è la malattia della crisi: come può diventarne ora la cura? Certo, c’è bisogno di più crescita economica, ma c’è bisogno soprattutto che la gente ritrovi l’entusiasmo delle relazioni, si rimetta assieme in modo creativo per generare posti di lavoro, e non di gente che passa le se­rate e i week end nei centri commerciali a sognare, fru­strati e con sempre meno soldi in tasca, stili di vita tri­sti e irreali. I sogni oggi vanno orientati verso la produzione e la ge­neratività, non solo verso i consumi, se vogliamo spe­rare in meglio. Dovremmo, infatti, ricordare di tanto in tanto che una economia non regge a lungo se trascu­ra i settori primario (agricoltura) e secondario (produ­zione), e punta troppo sul terziario (commercio e ser­vizi). I Paesi che oggi sono in grave crisi, lo sono anche, e forse soprattutto, perché, anche a causa di politiche europee non sempre lungimiranti, hanno nei decenni passati abbandonato settori tradizionali nei quali ave­vano saperi e competenze antichi (penso alla pesca e all’agricoltura in Portogallo), per gettarsi su servizi e commercio, settori spesso molto fragili e a basso valo­re aggiunto reale. Le relazioni familiari e comunitarie non reggono se non sono sostenute da relazioni lavo­rative serie, che generano reddito e riducono l’incer­tezza della gente, risorse queste che poi alimentano tutte le altre relazioni della vita.

Il grande economista Albert Hirschman ci ha mostra­to che i Paesi non conoscono soltanto i cicli economi­ci (recessione-espansione), ma anche i «cicli della fe­licità »: fasi storiche nelle quali prevale la ricerca della felicità privata (individuo) che si alternano ad altre nel­le quali prevale invece la voglia di felicità pubblica (re­lazioni). E, come nei cicli economici, una fase prepara l’altra, e quando si arriva al culmine della felicità pri­vata si creano le premesse per il suo superamento ver­so una stagione di felicità pubblica. Per Hirschman il principale meccanismo che produce il cambio di fase è la delusione.

Oggi siamo nel bel mezzo di uno di questi momenti di "flesso" del ciclo, ma affinché questo desiderio di "fe­licità pubblica" sia sostenibile e influenzi anche il ci­clo economico, occorre subito una nuova politica. Die­tro la loro apparente anti-politica gli italiani non stan­no chiedendo meno politica, ne stanno chiedendo di più ma diversa, sussidiaria e più leggera. Senza ade­guate relazioni politiche, le relazioni civili, comunita­rie e familiari non diventano mai motore di quello svi­luppo economico e civile di cui abbiamo un vitale bi­sogno.

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Commenti - Valori che ci uniscono e ci servono

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/03/2012

logo_avvenireIl rapporto Censis sui "valori degli italiani" è una buo­na notizia per il Paese. Emerge un familismo mora­le, che è meno raccontato e famoso del familismo a­morale di cui si parla e straparla per descrivere il mo­dello italiano. Le relazioni, quelle familiari e comuni­­tarie, sono poste in cima ai valori. E – ciò che il Censis non dice ma che è emerso da una ricerca svolta con un collega dell’Università di Milano-Bicocca (Luca Stan­ca) – le persone che attribuiscono im­portanza alla famiglia e alle relazioni sono mediamente anche quelle più felici.

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Familismo morale

Familismo morale

Commenti - Valori che ci uniscono e ci servono di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 16/03/2012 Il rapporto Censis sui "valori degli italiani" è una buo­na notizia per il Paese. Emerge un familismo mora­le, che è meno raccontato e famoso del familismo a­morale di cui si parla e straparla per...
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Commenti - Perché la cura non sia inutile

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/03/2012

logo_avvenireLa crisi dell’Europa sarà ancora lunga, perché lunga è stata la sua preparazione, e il periodo di incubazione del virus della malattia. La fretta può essere molto pericolosa. La situazione greca, nonostante l’importante sviluppo garantito ieri dall’ampia adesione dei creditori privati all’accordo sul debito, è tutt’altro che risolta. Mentre quella portoghese, può esplodere da un mo­mento all’altro, e la Spagna è in una situazione molto grave: chi può seriamente pensare che un Paese con un tasso di disoccu­pazione del 25% può dare priorità alla riduzione del debito e non alla crescita? E se qualcuno in Eurolandia oltre a pensarlo lo dice e lo raccomanda, tutto ciò è grave, economicamente ed eticamente. 

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L’Italia sta vivendo – sul piano internazionale, un po’ meno su quello politico interno – giorni di calma apparente e anche lo spread tra i nostri titoli del debito e quel­li tedeschi è tornato finalmente sotto «quota 300». Tuttavia recenti preoccupazioni espresse dal presidente Monti e dai ministri economici sono molto serie, e un po’ sottovalutate. C’è, poi, l’annosa – e ormai davvero lancinante – questione delle imposte indirette. E, nonostante la presenza del governo di eminenti economisti, su questo punto sembra si stia commettendo un errore di stima

Si fanno i calcoli sulle entrate che l’aumento dell’Iva (di 2 punti percentuali) dovrebbe generare, tenendo fermo, o quasi, l’ammontare dei consumi, e si sbaglia. Perché? Il popolo italiano, o la cosiddetta “classe media” (una “media” in caduta libera...), sta vivendo da anni una grave situazione di sofferenza economica e sociale. Per capirlo non servono i Centri studi: basterebbe che di tanto in tanto la nostra classe dirigente si recasse, in incognita, nei sempre più popolati mercati di piazza, in un’impresa industriale, in una cooperativa sociale, nei dispensari e nelle mense parrocchiali o leg­gesse bene i dati sull’aumento di furti alimentari nei supermercati.

Il Paese è sotto stress da tempo, e sta con di­gnità ma con enorme fatica assorbendo la diminuzione del potere di acquisto reale degli stipendi, e l’insostenibilmente alto (anche a causa di imposte indirette) costo della benzina. A ciò si aggiungono i tagli agli enti locali, che continuano a impoverire le persone per un peggioramento dei servizi pub­blici accompagnato dall’aumento dei costi (a Milano il prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici è aumentato del 50%!). 

Non finiremo mai di ricordare che i cittadini impoveriscono non solo quando dimi­nuisce il reddito pro-capite, ma anche quando peggiora e si riduce la quantità e la qualità di beni pubblici e di beni comuni. In un tale scenario, l’aumento dell’Iva, e magari di altre imposte indirette può allora produrre effetti molto gravi – sarebbe utile che ci si spiegasse con un po’ di calma e di argomenti perché una imposizione indiretta, che di certo è meno equa, è almeno più efficiente o efficace di un’imposizione diretta.

Innanzitutto, la gente consumerà di meno, e quindi se oggi aumento del 2% l’Iva sui consumi, non debbo stimare le entrate prendendo come base imponibile quella attuale, diciamo 1.000, ma una base ridotta, e di molto, forse in alcuni settori 700. Questo significa che la vera entrata attesa non è 20, ma 14. È ovvio che i bravi economisti che oggi sono al Governo sanno tutto ciò, ma lo dicono poco, e, soprattutto, appunto, paiono sottostimare l’effetto di riduzione dei consumi, in particolare la riduzione indiretta o di medio termine. Perché quel - 6 (20 - 14) non ha solo un effetto diretto e immediato nel reddito di chi oggi vende i prodotti (commercio). Tra breve, quell’aumento dell’Iva avrà effetti recessivi, maggiori di quelli stimati, sull’intera economia: maggiore disoccupazione, minor consumo, e così via in quella 'trappola di povertà' di cui ogni tanto la storia, anche recente, ci narra. 

Probabilmente tutto ciò è la conferma che nessuna manovra economica può davvero funzionare con la logica dei due tempi: prima i tagli e la contrazione dei consumi e dei redditi; poi le misure per la crescita. 

Occorre far subito tutto assieme, durante e non dopo, perché la seconda fase arriva sempre troppo tardi, e con costi troppo elevati. La tradizione economica italiana, con note culturali proprie e ben diverse da quella anglosassone, poggiava su un muro maestro: la rinuncia alle cosiddette «approssimazioni successive» ai problemi. Maffeo Pantaleoni, il “principe degli economisti italiani”, ma anche Luigi Einaudi o Giorgio Fuà, denunciarono ripetutamente il grave errore di rimandare dimensioni essenziali dei problemi a una seconda fase, poiché – dicevano – ciò che si perde nella prima fase non lo si recupera più, o quando arriva è troppo tardi e ha ormai perso molto della sua efficacia. Non si può, in un anno, rientrare da una situazione prodotta in decenni. 

All’Italia serve più tempo, un tempo che va anche contrattato nelle opportune sedi, un tempo che non può essere solo quello delle banche e della finanza, ma deve tornare a essere soprattutto quello della vita della gente. Ma se oggi la politica economica non abbina, mentre chiede i sacrifici, politiche serie di sostegno alle famiglie (a quando è rimandato il “fattore famiglia”?), al mondo dell’economia sociale (era proprio indispensabile chiudere l’Agenzia del Terzo Settore e si può non farsi carico delle difficoltà crescenti di questa straordinaria risorsa?), alle imprese piccole e artigiane in grande sofferenza, la cura risulterà con ogni probabilità insopportabile. E, quindi, inutile se non addirittura dannosa.

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Commenti - Perché la cura non sia inutile

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/03/2012

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Attenti alla trappola

Attenti alla trappola

Commenti - Perché la cura non sia inutile di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 09/03/2012 La crisi dell’Europa sarà ancora lunga, perché lunga è stata la sua preparazione, e il periodo di incubazione del virus della malattia. La fretta può essere molto pericolosa. La situazione greca, nonos...
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Commenti - Nodo-giovani e la fondativa importanza della fraternità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 21/02/2012

logo_avvenireL’anno che ci è di fronte può essere un periodo cruciale per iniziare a riscrivere capitoli importanti del patto sociale tra gli italiani, che si chiamano legge elettorale, "mercato" del lavoro, liberalizzazioni, riforma dei partiti, ma anche lotta alla corruzione e all’evasione, e nuovo e antico welfare. Negli ultimi decenni abbiamo attraversato una fase troppo lunga di inimicizia civile, è questa è anche una delle ragioni della gravità con la quale la crisi si è abbattuta sul nostro Paese.

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L’Italia che uscirà dalle votazioni del 2013, che saranno inevitabilmente l’inizio di qualcosa di nuovo (e ci auguriamo di migliore), dipenderà in gran parte dalla qualità dell’impegno civile che, tutti e ciascuno, metteremo nel riscrivere questi nuovi brani di patto sociale.

Simili passaggi forti (e fondativi) possono essere i più favorevoli per rendere molto concreta e operativa la teoria politica più importante del XX secolo, quella del filosofo americano John Rawls. Nel suo trattato "Una teoria della giustizia" (1971), Rawls ha introdotto, tra l’altro, una regola generale per operare le scelte politiche quando si vuol dar vita a una società giusta. Egli propone ai cittadini che stanno stipulando il patto sociale di ragionare come se fossero sotto «un velo di ignoranza», un espediente teorico che ha lo scopo di non far vedere, o non far vedere chiaramente, il posto (in termini di reddito, risorse, opportunità...) che quei cittadini occuperanno nella società di domani. In un tale contesto artificiale e reale (perché verosimile in tante esperienze storiche di fondazione di una nuova impresa o comunità), il filosofo americano dimostra che esiste una regola generale, che lui chiama del maximin, per costruire le regole del gioco.

Questa regola consiste nel prevedere nella società futura il miglior trattamento possibile (max) per coloro che si trovano agli ultimi posti della società (min). Una tale regola è per Rawls una declinazione diretta del principio di fraternità, il più dimenticato nel trittico della modernità, una regola che è espressione di giustizia sociale ma anche di razionalità individuale, poiché domani quel minimo potrei essere io, mio figlio o mia nipote. Da qui deriva il corollario che la giustizia di una società la si misura principalmente sulla base di come vengono trattati gli ultimi.

Questa grande lezione etico-razionale dovrebbe oggi essere posta al centro dei nostri dibattiti. Dovrebbe indurci a domandarci chi sono, qui e ora, i minimi della nostra società. Nel mondo che abbiamo costruito gli ultimi sono sempre più numerosi e vulnerabili, e i primi sempre meno e sempre più ricchi e forti. I minimi sono senz’altro i poveri di risorse e gli svantaggiati: quindi oggi lo sono anche, come forse mai prima, i giovani. La questione giovanile va posta al centro del nuovo patto sociale. Basta pensare al tema del lavoro, sul quale – e non a caso – su queste pagine tanto si insiste. Ma il discorso è ancora più ampio e generale. Dobbiamo fare in modo, ad esempio, che l’ondata di nuovo entusiasmo liberista (dimenticando, tra l’altro, che questa crisi finanziaria è scoppiata in America e in Inghilterra per troppo libero mercato finanziario, non per troppo poco), non finisca per estendere anche all’Italia la riforma degli studi universitari che si è realizzata in Gran Bretagna.

In quello Stato, anche in seguito a una nuova stagione ideologica, si è pensato di eliminare i contributi pubblici a fondo perduto per le università, e trasformare – nella logica del mercato – quei sussidi in prestiti agli studenti, rimborsabili nel lungo periodo (fino a trent’anni). Così le tasse, per ogni ordine e grado di studi universitari, sono lievitate enormemente, e oggi uno studente inglese non paga meno di 10-12.000 euro annui. Ciò significa che quando questo giovane uomo entrerà nel mondo del lavoro inizierà la sua carriera con un peso di almeno 50.000 euro, a cui si sommano quelli della giovane donna che è sua moglie, e quelli del mutuo per la casa (e qualcuno dovrebbe anche ricordare come sono nati i tristemente famosi mutui sub-prime...).

Inoltre, dovremmo rivedere la politica di sconti e vantaggi economici, associati in molti Paesi all’età. Un mio collega sessantenne, grande sportivo e in piena salute, ha appena ricevuto la carta argento, di cui avrebbero molto più bisogno i suoi figli vicini ai trent’anni, con lavori precari e con famiglia. Senza penalizzare ulteriormente molti pensionati (anche perché un Paese che mette in competizione tra di loro anziani e giovani non ha futuro, perché sono entrambi minimi), dovremmo però capire che la rivoluzione della longevità ha delle cose importanti e nuove da dire anche su come si assegnano le "carte" del gioco della vita e delle opportunità di futuro. Pure questo è un aspetto del patto sociale.

Tra pochi mesi, ripartirà la competizione politica: se vogliamo che non sia anche questa volta una hobbesiana "guerra di tutti contro tutti", dobbiamo ricreare presto una unità e una amicizia civile sulla quale deve poggiare la cum-petizione politica, se vogliamo che sia tesa al «bene comune», il bene di tutti e di ciascuno, e quindi anche dei giovani. Dei nostri figli e nipoti.

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Commenti - Nodo-giovani e la fondativa importanza della fraternità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 21/02/2012

logo_avvenireL’anno che ci è di fronte può essere un periodo cruciale per iniziare a riscrivere capitoli importanti del patto sociale tra gli italiani, che si chiamano legge elettorale, "mercato" del lavoro, liberalizzazioni, riforma dei partiti, ma anche lotta alla corruzione e all’evasione, e nuovo e antico welfare. Negli ultimi decenni abbiamo attraversato una fase troppo lunga di inimicizia civile, è questa è anche una delle ragioni della gravità con la quale la crisi si è abbattuta sul nostro Paese.

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Dalla parte dei "minimi"

Dalla parte dei "minimi"

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Commenti - La Grecia, il suo popolo, l'Europa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/02/2012

logo_avvenireCiò che sta avvenendo in Grecia è molto importante, e richiederebbe molta più attenzione da parte di tutti. Questa crisi ci sta gridando molte cose, tutte molto serie. Sappiamo da sempre che quando una per­sona cade in disgrazia economica la sua li­bertà è messa a repentaglio. Nel mondo an­tico si poteva diventare schiavi del credito­re per debiti non pagati. Il diritto fallimen­tare è stato introdotto non solo a garanzia dei creditori, ma anche, e soprattutto, per e­vitare la schiavitù o la tragedia globale di chi incorreva in un fallimento o in un dissesto economico.

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Esiste nei sistemi democratici moderni anche un diritto individuale al fal­limento, quando l’impresa di cui si è titola­ri non dà più speranze di potercela fare. Si pagano i debitori con quel che resta del pa­trimonio, in base a delle regole precise e ga­ranzie; e, così, non si è in balìa dei più forti, e non si diventa schiavi di nessuno. Oggi dobbiamo stare attenti perché ciò che ab­biamo conquistato sul terreno dei diritti in­dividuali rischia di essere smentito nei rap­porti tra gli Stati, che, di fatto, non potendo fallire finiscono per cadere in nuove forme di schiavitù (lo abbiamo visto nei decenni passati con il debito dei Paesi in via di svi­luppo, per i quali nel 2000 la Chiesa cattoli­ca auspicò – nella vasta indifferenza dei po­tenti, seppur con qualche coraggiosa ecce­zione – un “condono” in occasione del gran­de Giubileo).

Pochi sembrano sentire (e capire) questo rumore di catene. Ed esiste una domanda che è al centro del dibattito greco, ma non abbastanza in quello europeo e internazio­nale: è giusto che i cittadini greci siano co­stretti a non poter fallire, quando pensiamo che chi oggi più soffre in Grecia e più soffrirà per il regime imposto al Paese sono i pove­ri e i fragili, e non certo gli ex–politici e i ban­chieri? Che cosa pesa nella bilancia della nostra civiltà?

Ovviamente nella bilancia va anche messa, e lo dicono in tanti, la poca se­rietà (per usare un eufemismo) di governi greci che hanno consumato troppo, truc­cato i conti, commettendo reati da banca­rotta fraudolenta, e di cui bisogna che i re­sponsabili rispondano. Su quella stessa bi­lancia va però anche posta, e questo si dice troppo poco, la straordinaria leggerezza da parte delle istituzioni europee che hanno fatto entrare a suo tempo la Grecia nell’eu­ro quando era evidente che non era ancora pronta, anche perché il tessuto culturale tra­dizionale e comunitario di molti Paesi del Mediterraneo non era – e non è – orientato ad abbracciare l’ethos individualistico che domina sui mercati finanziari. Infine, su quella bilancia va poggiata anche la dolosa leggerezza delle banche europee e interna­zionali (speculative) che hanno investito massicciamente sui titoli del debito greco, molto redditizi sebbene evidentemente troppo rischiosi: l’offerta scellerata di titoli pubblici tossici ha incontrato la domanda altrettanto scellerata di speculatori.

Se si vuole veramente evitare il fallimento della Grecia, occorre dar vita a un progetto sostenibile e solidale, non uccidendo il ma­lato con la cura. Ma per far questo occorre che l’Europa sia più presente, e che, soprat­tutto, inizi a parlare. Quando un Paese vive un momento difficile e grave è necessario che la politica svolga la sua funzione sim­bolica, sappia parlare alla gente per rende­re comprensibili e possibili anche grandi sa­crifici. Lo hanno saputo fare alcuni leader politici del passato, da Churchill a De Ga­speri e a Mandela. Statisti che hanno sapu­to parlare al cuore della loro gente, in gran­di momenti di sofferenza individuale e col­lettiva. Ma chi sta parlando ora ai greci a no­me dell’Europa? Non può né deve parlare la Bce, non ci riesce il debolissimo Parlamen­to di Straburgo, né la Commissione di Bruxelles, i cui leader sono totalmente as­senti dai dibattiti e dai media in questi me­si cruciali, dove invece spopolano i capi dei governi nazionali. E quando parlano solo le istituzioni economiche e finanziarie, le pa­role sono spesso quelle del “servo spietato” di cui ci parla il Vangelo.

Ciò che poi più colpisce quando osservia­mo la Grecia è la solitudine di quel popolo: dov’è sono gli altri Stati fratelli? Dove sono i con–cittadini europei?

Ci sarebbe più bisogno di solidarietà orizzontale tra i cittadini europei, espressione concreta di quel principio di fraternità su cui si è costruita l’Europa moderna. Sarebbe, infatti, impensabile che davanti a una bancarotta di una regione italiana le istituzioni e i cittadini italiani abbandonassero altri cittadini italiani al proprio destino e ai propri debitori. Per l’Europa questo abbandono sembra naturale, semplicemente perché l’Europa dei popoli e della gente ancora è da costruire.

Se l’Europa fosse vissuta come terra comune di uno stesso popolo, sarebbe evidente la forza dei Patti e non solo quella dei contratti. E dire Patto significa anche dire parole come perdono: parola troppo assente (per-dono, in molte lingue rimanda a dono, for­give…), parola oggi scomparsa dal dibattito, perché cancellata da contratti, prestiti e debiti. Le istituzioni e i cittadini europei hanno una grande chance, con questa grave crisi: riattivare quel patto fondativo all’origine dell’Europa, che oggi sembra diventato una utopia, una terra di nessuno. Se non vogliamo far fallire la Grecia oggi, e altri Paesi europei più fragili domani, e se non vogliamo massacrare la vita dei popoli non bastano, né servono nel medio periodo, prestiti spietati e quindi insostenibili. Dobbiamo saper affiancare Patti ai contratti, per-doni a inter-essi e usare in modo proprio e sensato il verbo ri-sanare. Dobbiamo cercare di trasformare l’attuale utopia europea in eutopia, la buona terra comune.

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Commenti - La Grecia, il suo popolo, l'Europa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/02/2012

logo_avvenireCiò che sta avvenendo in Grecia è molto importante, e richiederebbe molta più attenzione da parte di tutti. Questa crisi ci sta gridando molte cose, tutte molto serie. Sappiamo da sempre che quando una per­sona cade in disgrazia economica la sua li­bertà è messa a repentaglio. Nel mondo an­tico si poteva diventare schiavi del credito­re per debiti non pagati. Il diritto fallimen­tare è stato introdotto non solo a garanzia dei creditori, ma anche, e soprattutto, per e­vitare la schiavitù o la tragedia globale di chi incorreva in un fallimento o in un dissesto economico.

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Il rumore delle catene

Il rumore delle catene

Commenti - La Grecia, il suo popolo, l'Europa di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 26/02/2012 Ciò che sta avvenendo in Grecia è molto importante, e richiederebbe molta più attenzione da parte di tutti. Questa crisi ci sta gridando molte cose, tutte molto serie. Sappiamo da sempre che quando...
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Commenti - Giovani, formazione, posto fisso

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  03/02/2012

logo_avvenireC’è qualcosa di sbagliato, o quanto meno di sfocato, nel dibattito che si è riacceso attorno al mondo del lavoro. Ci sono tesi condivisibili e sagge – e saggio sarà renderle ampiamente condivise – in quanto afferma il presidente del Consiglio Mario Monti, sia nelle dichiarazioni ufficiali sia nelle apparizioni televisive. Si pensi, soprattutto, a quella che sottolinea la grave asimmetria che esiste oggi in Italia tra chi sta dentro il mondo del lavoro e chi sta fuori e non riesce a entrare.

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Saggio è anche porre l’accento sull’urgenza di rendere il "mercato del lavoro" (non dimentichiamo mai le virgolette quando accostiamo la parola mercato al lavoro umano e ai lavoratori) più efficiente, più veloce, con meno rendite di posizione, e quindi più moderno e più capace di rispondere alle nuove sfide poste dalla globalizzazione. Il discorso, invece, relativo al lavoro dei giovani e al «posto fisso» avrebbe bisogno di meno fretta, di più mediazione sociale e di una valutazione più approfondita e meditata.

Il lavoro che una persona svolge è molto più di un mezzo per procurarsi il necessario per vivere: il lavoro dice a noi stessi e agli altri anche chi siamo, non solo che cosa facciamo. E in una cultura dove i luoghi identitari tradizionali sono in crisi (comunità, famiglia), il lavoro resta tra i pochi linguaggi sociali per trovare e raccontare il nostro posto al mondo. Ciò è vero sempre, addirittura anche quando si è in pensione; ma vale soprattutto, e in modo tutto speciale, per un giovane. Ma chi oggi osserva il mondo dei giovani scopre una grande sofferenza anche su questo terreno identitario, per una scuola e una università sempre meno capaci di formare lavoratori e per politiche miopi che hanno moltiplicato quei contratti di lavoro precari e frammentati che stanno caratterizzando questa fase del capitalismo. È molto triste vedere tanti diplomati e laureati che a distanza di dieci anni dal diploma o dalla laurea fanno una gran fatica a dire ad amici e parenti, e a se stessi, quali siano il proprio lavoro e le proprie competenze, quale sia il proprio mestiere.

La società tradizionale era stata capace di creare una forte etica del lavoro basata sui mestieri, che ha retto la nostra civiltà per secoli: fabbri, panettieri, maestre, operai e dottori hanno dato serietà e ordine non solo all’economia ma all’Umanesimo dell’occidente. È, infatti, il mestiere il grande tema che va posto al centro del dibattito sul lavoro, senza guardare nostalgicamente indietro, ma con la consapevolezza che senza mestieri, antichi, nuovi e nuovissimi, non c’è sviluppo. Ma che mestiere fa oggi un laureato in economia che ha trascorso due anni in stage, uno in amministrazione di una impresa, due in una società di consulenza, tre in una assicurazione? Che mestiere fa un perito (cioè un esperto diplomato) che non trova neanche un posto da apprendista? Che cosa sa fare e in che cosa è competente? Se un giovane quando si affaccia sul mondo del lavoro non ha davanti alcuni anni nei quali apprendere un mestiere, dal falegname al professore universitario, corre fortemente il rischio di ritrovarsi in età matura a non avere nessun mestiere, a non essere quindi competente in nulla. Dagli studi sul benessere lavorativo sappiamo che il sentirsi competente è ciò che più pesa nella felicità di una persona, anche più dello stipendio. Non riuscire ad acquisire un mestiere da giovani ha allora enormi effetti sull’identità delle persone, e sulla qualità della vita.

Ecco perché in questa fase critica del nostro tempo, per i giovani è fondamentale sapere che un’impresa o una istituzione sta investendo in loro, e loro in essa, dando loro del tempo per poter apprendere un mestiere, ed essere così davvero utili all’impresa e alla società civile. E se si è precari e senza competenze da giovani lo si sarà ancora di più da adulti, quando perdere il lavoro diventa un dramma anche perché il valore del proprio capitale umano è molto basso. Occorre, infatti, ricordare che il nostro valore in quanto lavoratori, quello che l’economia chiama il "capitale umano" (che è solo un sotto-insieme del valore globale di una persona), lo si accumula solo in minima parte a scuola, perché la parte più consistente di esso la si acquisisce lavorando.

Un ottimo studente universitario che a distanza di cinque anni è ancora precario, si ritrova con un capitale umano deteriorato e minore di quello che aveva il giorno della laurea. E questo è un grave fallimento per la persona, ma soprattutto per un sistema-Paese che se non apprezza (anche nel senso di aumentarne il valore) i suoi giovani, sta sperperando la sua ricchezza più grande. I giovani oggi hanno bisogno di fiducia, soprattutto in questo tempo di crisi, che loro non hanno causato ma di cui subiscono le gravi conseguenze. E il primo atto di fiducia verso un giovane è dargli la possibilità di coltivare la sua vocazione lavorativa, da cui dipende la felicità (eu-daimonia) individuale e pubblica.​

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Commenti - Giovani, formazione, posto fisso

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  03/02/2012

logo_avvenireC’è qualcosa di sbagliato, o quanto meno di sfocato, nel dibattito che si è riacceso attorno al mondo del lavoro. Ci sono tesi condivisibili e sagge – e saggio sarà renderle ampiamente condivise – in quanto afferma il presidente del Consiglio Mario Monti, sia nelle dichiarazioni ufficiali sia nelle apparizioni televisive. Si pensi, soprattutto, a quella che sottolinea la grave asimmetria che esiste oggi in Italia tra chi sta dentro il mondo del lavoro e chi sta fuori e non riesce a entrare.

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E sì, ci vuole mestiere

E sì, ci vuole mestiere

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Commenti - Terzo settore e tempo della festa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  27/01/2012

logo_avvenireÈ facile essere d’accordo con la politica di liberalizzazioni che è stata avviata. Sono infatti molte le ragioni che portano tanti ad avere uno sguardo fiducioso, generoso e simpatetico nei confronti dell’operato del Governo Monti, comprese le liberalizzazioni, necessarie in un’Italia bloccata da troppi interessi di parte che finiscono per diventare «male comune». Ma proprio per questo sguardo complessivo positivo è importante portare l’attenzione su una domanda di fondo, che riprende discorsi già impostati su queste pagine: quale idea di modello economico e sociale per l’Italia di oggi e di domani ha in mente questo governo?

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Liberalizzare un sistema economico significa, in estrema sintesi, aumentare il peso del mercato all’interno della vita civile. L’Italia ha sempre avuto meno mercato dei Paesi anglosassoni (Inghilterra e Usa in particolare), perché il posto del mercato lo hanno occupato non solo uno Stato spesso inefficiente e ipertrofico, ma anche la famiglia e le comunità. È, infatti, questa terza dimensione, che possiamo chiamare «società civile di tipo comunitario», che caratterizza il modello italiano, e in un modo più marcato degli altri Paesi europei di cultura latina. È, il nostro, un modello diverso dal capitalismo americano, ma anche da quello dei Paesi scandinavi, poiché in questi due modelli la dimensione comunitario-familiare è di fatto relegata nella sfera privata delle persone, senza che le venga riconosciuta la natura di principio e di ambito di carattere pubblico e politico.

Nelle politiche economiche che stiamo osservando, allo stato delle cose, non è purtroppo chiaro quale sia la visione relativa a questa terza dimensione, che, giova ripeterlo, è una colonna della nostra identità e storia, e che ha anche importanti effetti economici. Anche se le categorie culturali per "vedere" questa dimensione dell’Italia ci sono – ci sarebbero – si ha come l’impressione che la cura che si sta approntando per il malato Italia potrebbe essere applicata a qualsiasi altro Paese: dall’Argentina alla Finlandia. Se invece si vedesse davvero questa terza dimensione, ad esempio, si dovrebbero considerare diversamente le varie realtà del cosiddetto Terzo Settore. Innanzitutto, si capirebbe che le cooperative o le imprese sociali sono imprese a tutti gli effetti, poiché la cosiddetta economia sociale o civile in Italia non ha la stessa funzione – e, quindi, natura – del non-profit anglosassone.

Il Terzo Settore italiano ha essenzialmente una natura produttiva, non redistributiva come nel modello filantropico-restitutivo degli Usa. In Italia la cooperazione, la finanza etica, il commercio equo, il variegato mondo dell’economia comunitaria è la fioritura moderna della cultura civile che ha prodotto i Monti di Pietà nel Quattrocento, e poi le casse rurali e di risparmio, e quindi la cooperazione di produzione, rurale, di consumo. Oggi come ieri, l’economia civile è l’espressione economica di questa terza dimensione civile-comunitaria del nostro modello di sviluppo. Ma, di questi tempi, quando si sente parlare di impresa è forte l’impressione che nel Governo, in Parlamento e sui giornali ci sia chi ha in mente soltanto l’impresa capitalistica – grande, media o piccola – e che si collochi nel mondo del "sociale" o del "volontariato" quell’altra miriade di soggetti economici che pure creano ricchezza, valore aggiunto e posti di lavoro (oggi più di un milione), attingendo proprio alla nostra vocazione comunitario-famigliare. Occorre, invece, tenere ben presente che l’impresa tradizionale non potrà più creare posti di lavoro come prima della crisi, né, tantomeno, potrà farlo lo Stato. In simili momenti è stata la società civile che ha inventato nuovi lavori e nuova ricchezza (si pensi, ancora, alla cooperazione tra Ottocento e Novecento); qualcosa di simile dovrà avvenire anche oggi, purché il Governo lo veda e agisca di conseguenza anche sul piano fiscale.

È in questo contesto culturale ed economico più generale e profondo che va anche inserita la valutazione della liberalizzazione dell’orario degli esercizi commerciali.

Gli effetti di breve periodo di questa forma di liberalizzazione (diversa dalle altre, ripeto, necessarie e opportune), possono forse essere benèfici per i consumi e quindi per il Pil, anche se, dobbiamo ricordarlo, uno stile di vita centrato sull’aumento dei consumi è la malattia del nostro modello, non la cura. Ma ciò che è certo è che nel medio periodo (3-5 anni) scompariranno tutti quei negozi a conduzione famigliare che già soffrono da decenni, e che da domani non potranno certo tenere il passo di chi ha forza e capitali per gestire personale per turni "24h/7g". È il modello del grande-lontano-anonimo che prenderà sempre più piede, come sta già accadendo nei Paesi anglosassoni. Ma il piccolo-vicino-personale non è soltanto sinonimo di prezzi più alti, è anche espressione di un modello economico-civile che fa parte del nostro Dna borghigiano e cittadino, di città che si chiamano Offida e Lodi, non Miami né San Francisco. E che fa sì, tra l’altro, che i centri storici siano ancora (sebbene con fatica) abitati da persone e da incontri e non solo da uffici, e che gli anziani possano trovare merci e persone sottocasa.

Rendere possibile la vita sia alla grande distribuzione organizzata sia al negozio a conduzione famigliare non è buonismo né nostalgia, ma è questione di democrazia e di libertà, che vivono e si alimentano della biodiversità, anche nelle forme di imprese e di negozi. Trovare un negozio chiuso, magari la domenica, ci ricorda che il mercato è un pezzo di vita, non tutta, che esistono dei limiti al commercio e al consumo, che dietro quelle serrande ci sono non solo merci ma persone, e che i tempi del mercato e del lavoro – come ancora una volta ci ha ricordato lunedì il cardinale Bagnasco – vanno iscritti all’interno dei tempi del vivere e della festa, e non viceversa.

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Commenti - Terzo settore e tempo della festa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  27/01/2012

logo_avvenireÈ facile essere d’accordo con la politica di liberalizzazioni che è stata avviata. Sono infatti molte le ragioni che portano tanti ad avere uno sguardo fiducioso, generoso e simpatetico nei confronti dell’operato del Governo Monti, comprese le liberalizzazioni, necessarie in un’Italia bloccata da troppi interessi di parte che finiscono per diventare «male comune». Ma proprio per questo sguardo complessivo positivo è importante portare l’attenzione su una domanda di fondo, che riprende discorsi già impostati su queste pagine: quale idea di modello economico e sociale per l’Italia di oggi e di domani ha in mente questo governo?

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Quei tesori da «vedere»

Quei tesori da «vedere»

Commenti - Terzo settore e tempo della festa di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il  27/01/2012 È facile essere d’accordo con la politica di liberalizzazioni che è stata avviata. Sono infatti molte le ragioni che portano tanti ad avere uno sguardo fiducioso, generoso e simpatetico nei co...
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Commenti - Accettare e accogliere la vulnerabilità anche nell'impresa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  22/01/2012

logo_avvenireQuando un Paese attraversa una crisi soffrono tutti, o quasi, sebbene alcuni di più e altri meno. Sono questi i momenti nei quali si capisce, e sulla propria pelle, che una società civile e politica è anche un corpo, dove quindi c’è un legame, un sistema nervoso che trasmette sensazioni piacevoli e dolorose tra tutte le membra. L’abbiamo sempre saputo, poi, che durante una crisi economica è il mondo del lavoro, sono i lavoratori, a soffrire in una maniera tutta particolare e grave.

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Ciò che stiamo scoprendo oggi è la sofferenza degli imprenditori, di cui i suicidi di questi tempi rappresentano la punta dell’iceberg.

L’altra sera facevo un pezzo di strada in compagnia di una imprenditrice di una media azienda industriale, una delle tante che tengono ancora in piedi l’Italia grazie al 'made in Italy' che funziona e piace nel mondo. Una donna che ha ereditato l’impresa dai genitori, e cerca di portarla avanti con talento e responsabilità.

Mi ha colpito in modo tutto particolare avvertire la sofferenza psicologica e quindi profonda che questa persona vive negli ultimi tre anni, a causa della crisi che ha ridotto di metà il fatturato, mettendo a rischio decine di posti di lavoro nella sua azienda. Se questa imprenditrice fosse stata una speculatrice, probabilmente avrebbe sofferto molto meno o punto, e magari avrebbe svenduto quell’azienda al migliore offerente.

L’imprenditore, l’imprenditrice, invece patisce veramente, perché in quella impresa che soffre e rischia di non farcela c’è racchiusa una buona parte della sua vita, della sua storia, del futuro proprio e della sua famiglia. Non è normale, nella nostra cultura, vedere gli imprenditori soffrire. A vederli 'piangere' e lamentarsi siamo abituati, ma sappiamo che in certi momenti è anche una parte di un gioco nella contrattazione sociale e politica. Ma il dolore di questi tempi è un’altra cosa, alla quale non siamo invece abituati. C’è, infatti, qualcosa d’altro, e di più profondo, in questa forma di sofferenza degli imprenditori, e in generale della dirigenza.

La nostra cultura sta sempre più espellendo la vulnerabilità dalla sfera pubblica, soprattutto dal mondo delle imprese, per non parlare di quello della finanza. Nelle grandi imprese capitalistiche non c’è posto per la dimensione della fragilità, per il limite (negli orari di lavoro, ad esempio). Si fa carriera se si appare illimitati nella gestione del tempo, delle energie, dell’efficienza: guai a dire a un manager, soprattutto se si è giovani o addirittura neo-assunti, che alle nove di sera ci sono dei bambini a casa che attendono, o che la domenica si ha diritto a non lavorare; per non parlare degli effetti devastanti che produce, nei colleghi o dipendenti, l’ammissione di disagio psicologico, di una malattia seria o di una depressione. Il mondo economico vede tutto ciò che sa di vulnerabilità come una faccenda che non ha diritto di cittadinanza nel mondo, tutto maschile, dell’impresa (e delle istituzioni). È la famiglia, secondo la cultura dominante, il luogo dove scaricare le vulnerabilità e le fragilità, una famiglia che continua a essere pensata come il regno della donna, come lo spazio possibile della ferita e dell’accudimento. Ma la vulnerabilità è la condizione dell’umano, anche dell’economico, e se non viene accolta e accudita, a un certo punto esplode, e nel far di un mattino si passa da manager o imprenditori di successo a una clinica psichiatrica, completamente bruciati (l’ormai tristemente noto burn out), non più utili né all’impresa né alla vita familiare (o di ciò che ne resta).

Questa crisi potrebbe offrirci, allora, l’occasione per trovare un rapporto giusto e nuovo con la dimensione della vulnerabilità nella sfera pubblica: ne ha bisogno il mondo dell’impresa che senza persone intere non ha futuro; e ne ha bisogno urgente il mondo della famiglia, che fa sempre più fatica a curare tra le mura domestiche quelle dimensioni di vulnerabilità che, non accolte dal mondo del lavoro, stanno diventando sempre più pesanti e ingestibili. A tutto ciò è legato un grande discorso sulla donna e sul femminile nella vita economica e istituzionale, attorno al quale stanno lavorando un numero crescente di studiosi (tra cui in Italia anche l’economista Alessandra Smerilli). Un femminile che non può e non deve più essere considerato il 'monopolista' della cura delle fragilità proprie e di quelle dei mariti e figli. Solo una vulnerabilità condivisa è sostenibile e feconda, soprattutto nei tempi di crisi.

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Commenti - Accettare e accogliere la vulnerabilità anche nell'impresa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  22/01/2012

logo_avvenireQuando un Paese attraversa una crisi soffrono tutti, o quasi, sebbene alcuni di più e altri meno. Sono questi i momenti nei quali si capisce, e sulla propria pelle, che una società civile e politica è anche un corpo, dove quindi c’è un legame, un sistema nervoso che trasmette sensazioni piacevoli e dolorose tra tutte le membra. L’abbiamo sempre saputo, poi, che durante una crisi economica è il mondo del lavoro, sono i lavoratori, a soffrire in una maniera tutta particolare e grave.

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Il coraggio della debolezza

Il coraggio della debolezza

Commenti - Accettare e accogliere la vulnerabilità anche nell'impresa di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il  22/01/2012 Quando un Paese attraversa una crisi soffrono tutti, o quasi, sebbene alcuni di più e altri meno. Sono questi i momenti nei quali si capisce, e sulla propria pelle, ch...
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Commenti - Alcuni studi indicano la via per superare egoismo e cinismo di massa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  15/01/2012

logo_avvenireUn recente studio sperimentale svolto in Inghilterra (Robin Cubitt e colleghi, Journal of Public Economics, vol. 95, 2011), ha fatto emergere aspetti non ovvi e che hanno cose serie da dire anche per l’evasione fiscale in Italia. Questi ricercatori hanno mostrato che il giudizio morale nei confronti di chi non contribuisce ai beni pubblici, come nel caso dell’evasione fiscale, dipende molto dalle nostre credenze e aspettative sul comportamento degli altri. In particolare, nei vari esperimenti condotti, in tutti si riscontra una condanna morale nei confronti degli evasori, tranne che in un solo caso: quando, cioè, l’evasione fiscale di Anna avveniva dopo aver osservato l’evasione dell’altro soggetto, Bruno, con il quale Anna interagiva. Si tende, cioè, a condannare meno e a giustificare di più l’evasione fiscale, degli altri e nostra, quando si crede che le persone del nostro stesso gruppo siano anch’esse evasori.

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Generalizzando un po’ i risultati di questi esperimenti, e guardando anche a cosa dicono altri studi sui medesimi temi, è come se la società fosse, idealmente, suddivisa in tre gruppi di persone (o di comportamenti). Il primo è composto da coloro che non evadano mai in nessun contesto e a ogni costo; nel secondo gruppo ci sono invece coloro che evadono sempre e in ogni caso; nel terzo infine, normalmente il più numeroso, ritroviamo coloro che evadono se credono che nella loro comunità (locale e/o nazionale) non ci siano abbastanza persone che pagano le tasse. Le persone di questo gruppo hanno tutte un livello di abbastanza (detto anche valore soglia), ma ciascuna persona ha il suo valore.

Ad esempio, per Anna può bastare pensare che il 50% di concittadini siano onesti perché anch’essa paghi le tasse; per Bruno il 30%, e per Carla il 95%. Ciò che si dimostra è che la cultura di legalità di un Paese dipende quasi interamente da due fattori: (a) dalla numerosità del primo gruppo (gli "onesti" incondizionali): se questi sono troppo pochi, la cultura della legalità non si affermerà mai; (b) dai livelli dei valori soglia (dall’ abbastanza ) dei cittadini medi (appartenenti al gruppo 3), poiché se questi sono molto alti, se cioè queste persone hanno bisogno di credere che siano molti, moltissimi, ad essere onesti per esserlo anche loro, è molto difficile ottenere cambiamenti positivi nella cultura fiscale e della legalità della popolazione.

Va poi notato che questi valori soglia dipendono decisamente dall’educazione famigliare nei primi anni di vita, ma dipendono molto dai segnali che emettono la politica e la classe dirigente (i condoni, ad esempio, li alzano terribilmente). È mia impressione che negli ultimi decenni, e in Italia in modo tutto particolare e massiccio, si stia sbagliando nella comunicazione pubblica relativa all’evasione fiscale. Se, infatti, prendiamo sul serio questi studi, dovremmo trarne alcune indicazioni molto chiare. Innanzitutto dovremmo sottolineare di meno che in Italia ci sono tanti evasori fiscali; non perché non sia (in buona parte) vero, ma perché porre l’accento soprattutto o unicamente su questo dato non fa altro che 'convertire' alcuni dei cittadini del gruppo intermedio (il terzo), che se hanno l’impressione di essere circondati da evasori, cambiano marginalmente il loro giudizio morale sul fenomeno, ed evadono anch’essi. Quindi, per un esempio molto concreto, dovremmo ritirare o cambiare quegli spot che continuano a parlarci della presenza in mezzo a noi dei parassiti sociali. Quale dovrebbe essere il loro scopo? Non quello di convertire gli evasori incondizionali del gruppo "due", che non cambieranno di certo strategia per il senso di colpa dopo aver visto lo spot. Ciò che invece producono con certezza, al di là delle buone intenzioni di chi li ha pensati, è aumentare la credenza nei cittadini medi che il mondo è pieno di evasori.

Oggi l’Italia e l’Occidente soffrono per un cinismo e un pessimismo di massa, che è anche alla radice di questa crisi. Per curarlo può anche essere utile iniziare a raccontare di più nei media le buone pratiche di cittadini onesti, di imprenditori civili, di banche virtuose, ma senza presentarli (come si tende a fare) come eroi o eccezioni, o, peggio, come storie innocue e irrilevanti da collocare nelle apposite trasmissioni dei buoni sentimenti, ma come la normalità. Nei tempi di grave crisi morale, come sono i nostri, si ricostruisce il tessuto civile di speranza mettendo anche in luce che insieme alla zizzania, che rimarrà fino alla fine dei tempi, c’è tanto grano buono. 

Tutti i commenti di Luigino Bruni su Avvenire sono disponibili nel menù Editoriali Avvenire

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Commenti - Alcuni studi indicano la via per superare egoismo e cinismo di massa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  15/01/2012

logo_avvenireUn recente studio sperimentale svolto in Inghilterra (Robin Cubitt e colleghi, Journal of Public Economics, vol. 95, 2011), ha fatto emergere aspetti non ovvi e che hanno cose serie da dire anche per l’evasione fiscale in Italia. Questi ricercatori hanno mostrato che il giudizio morale nei confronti di chi non contribuisce ai beni pubblici, come nel caso dell’evasione fiscale, dipende molto dalle nostre credenze e aspettative sul comportamento degli altri. In particolare, nei vari esperimenti condotti, in tutti si riscontra una condanna morale nei confronti degli evasori, tranne che in un solo caso: quando, cioè, l’evasione fiscale di Anna avveniva dopo aver osservato l’evasione dell’altro soggetto, Bruno, con il quale Anna interagiva. Si tende, cioè, a condannare meno e a giustificare di più l’evasione fiscale, degli altri e nostra, quando si crede che le persone del nostro stesso gruppo siano anch’esse evasori.

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Contro l’evasione non spot ma spazio alla tanta sana normalità

Contro l’evasione non spot ma spazio alla tanta sana normalità

Commenti - Alcuni studi indicano la via per superare egoismo e cinismo di massa di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il  15/01/2012 Un recente studio sperimentale svolto in Inghilterra (Robin Cubitt e colleghi, Journal of Public Economics, vol. 95, 2011), ha fatto emergere aspetti non ovv...
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Commenti - A proposito di accumulazione e uso delle risorse, di merito e di cultura

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  10/01/2012

logo_avvenireRicchezza e merito sono parole sempre più al centro del dibattito pubblico. Parole grandi e quindi ambivalenti, per cui affermarne la loro centralità e importanza può e deve essere solo l’inizio di un discorso, non il termine, come invece accade spesso. La ricchezza non è in sé né buona né cattiva, poiché il giudizio civile sulla ricchezza dipende da come la ricchezza nasce, e da come la si usa. I recenti studi sui "paradossi della felicità", ad esempio, ci dicono ormai chiaramente che quando la ricchezza è principalmente possesso di beni di comfort produce nelle persone noia e frustrazione. Se poi la ricchezza nasce non solo da rendite, ma anche da evasione, o da sfruttamenti di ambiente, persone e futuro, o da speculazioni su prezzi dei prodotti e delle monete, questa ricchezza non è buona e certamente non ha nulla a che fare con il merito.

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La domanda più importante da fare a chi parla, legittimamente, di merito è: merito in che cosa? Le imprese e la finanza hanno remunerato, soprattutto in questi ultimi decenni, con stipendi altissimi professionisti certamente meritevoli sotto il profilo tecnico e delle competenze, ma che a causa di prassi spregiudicate nella gestione dei rischi, dell’etica e dei rapporti, hanno prodotto i disastri che tutti conosciamo. Un’azienda che deve assumere un nuovo lavoratore guarda senz’altro ai meriti del curriculum vitae e degli strumenti, ma guarda anche – e nei momenti di crisi soprattutto – al merito e alla capacità di sapere lavorare in gruppo, di risolvere e accudire i conflitti, e alla generosità nella gestione dei rapporti, cose che le imprese buone sanno molto bene. Dimensioni, queste, difficilmente misurabili e oggettive, e per questo essenziali.

La democrazia, anche quella economica e organizzativa, si gioca molto sulla nostra capacità di dar vita a più registri di meritorietà. L’arte di un manager o di un educatore è soprattutto saper far emergere la dimensione di merito racchiusa in ogni persona, i suoi talenti o il suo daimon (direbbe Socrate), perché se il merito diventa monodimensionale, la meritocrazia diventa inevitabilmente oligarchia, e confligge con la democrazia e con la libertà. Ricchezza e merito sono quindi legati ai talenti di ogni persona.

Il rapporto tra talenti e frutti (tra cui la ricchezza) dipende soprattutto dalla qualità della famiglia, delle comunità e della società nella quale cresciamo, dalle opportunità di educazione e di istruzione, dall’amore e dalla cura che riceviamo soprattutto nei primi anni di vita. Chissà quanti Mozart o Steve Jobs non sono sbocciati perché nati nel luogo sbagliato! Tutte queste dimensioni non dipendono dal nostro merito soggettivo, ma ci sono date in modo gratuito (i talenti sono "ricevuti", come ci dice la Parabola evangelica), e fanno sì che le potenzialità fioriscano e maturino.

È questa, allora, la radice umanistica profonda del principio di solidarietà nell’uso della ricchezza, che non va ascritta al registro dell’altruismo e del sacrificio, ma a quello della giustizia: la ricchezza va condivisa perché prima è stata ricevuta. Il modello sociale ed economico italiano – comunitario e cattolico – ha sviluppato nei secoli un suo modo di condivisione della ricchezza, che a differenza di quello calvinista di tipo americano, non ha al suo centro la categoria della restituzione di una parte di ricchezza alla società e agli esclusi. Mentre il capitalismo Usa distingue nettamente l’economico dal sociale (business is business), con la filantropia-restitutiva che fa da ponte tra i due, la parola-chiave del nostro umanesimo è economia civile, cioè un’economia che nasce dalla comunità e una comunità che fa impresa (si pensi al made in Italy, alle imprese familiari, o alle cooperative sociali che sono un gioiello dell’Italia di oggi). Il modello economico italiano è stato ed è ancora un meticciato tra famiglia, impresa, Stato, comunità.

Questo modello ha portato frutti straordinari in passato, ma nella modernità si è ammalato dando vita alle varie mafie e a certi ben noti e ben determinati familismi amorali, che sono una sorta di nevrosi del nostro corpo sociale. Nelle nevrosi, però, la malattia nasce spesso da una patologia di una parte buona della persona, a volte la migliore (ad esempio: il genio che diventa narcisismo); e se la terapia uccide questa parte buona, la cura si "mangia" la persona. Usciremo allora da questa crisi guardando in faccia le nostre malattie, capendo il nostro genius loci, stimandolo, accogliendo e trasformando le nostre nevrosi collettive, e non imitando altri modelli di capitalismo. Se non daremo vita a un nuovo Umanesimo civile, insieme all’Europa e al Mediterraneo, gli spread aumenteranno, e non soltanto quelli tra i titoli ma pure quelli tra le civiltà.

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Commenti - A proposito di accumulazione e uso delle risorse, di merito e di cultura

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  10/01/2012

logo_avvenireRicchezza e merito sono parole sempre più al centro del dibattito pubblico. Parole grandi e quindi ambivalenti, per cui affermarne la loro centralità e importanza può e deve essere solo l’inizio di un discorso, non il termine, come invece accade spesso. La ricchezza non è in sé né buona né cattiva, poiché il giudizio civile sulla ricchezza dipende da come la ricchezza nasce, e da come la si usa. I recenti studi sui "paradossi della felicità", ad esempio, ci dicono ormai chiaramente che quando la ricchezza è principalmente possesso di beni di comfort produce nelle persone noia e frustrazione. Se poi la ricchezza nasce non solo da rendite, ma anche da evasione, o da sfruttamenti di ambiente, persone e futuro, o da speculazioni su prezzi dei prodotti e delle monete, questa ricchezza non è buona e certamente non ha nulla a che fare con il merito.

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Ricchezza, conta il «come»

Ricchezza, conta il «come»

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Commenti - Ben oltre la «cultura» delle scommesse

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  04/01/2012

logo_avvenire«Vizi privati, pubbliche virtù» è il sottotitolo della nota Favola delle api (1714), di Bernard de Mandeville, che aprì un dibattito tra economia ed etica che coinvolse le migliori menti del Settecento europeo. L’idea che dai vizi dei cittadini si possa ricavare qualcosa di buono per la collettività è ancora tra le più radicate nella cultura contemporanea, che informa spesso anche l’azione dei governi (tassazione dei giochi e delle lotterie). Ieri il cardinal Bagnasco ha richiamato l’attenzione sulla «piaga» dei giochi d’azzardo, invitando con forza a un’azione urgente «a tutti i livelli»..

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Esistono legami evidenti, a chi li vuole vedere, tra le scommesse nello sport, il business delle slot machine, certa speculazione finanziaria, oroscopi e maghi, i giochi d’azzardo online e gli “innocui” gratta–e–vinci.

Il primo fattore che lega assieme questi fenomeni solo apparentemente distanti si chiama dipendenza (addiction): quando si è in presenza di dipendenza sappiamo che esiste un problema etico enorme, poiché se si lascia la gestione di questi ambiti al solo mercato, il risultato è lo sfruttamento a scopo di lucro dei più deboli e fragili, con gravissime conseguenze individuali, familiari e sociali. L’adrenalina che prova il giocatore di slot machine all’udire il tintinnio della cascata di monete, è molto simile a quella che prova chi specula overnight sui cambi delle monete o sul prezzo del grano. Un secondo legame è l’enorme giro d’affari che questo mondo muove: in Italia questo affare vale certamente più di 75 miliardi, in aumento esponenziale. Un terzo comune denominatore è la forte infiltrazione della criminalità organizzata in tutto questo territorio ambiguo.

La proliferazione dei giochi d’azzardo è un vero e proprio scandalo, e da troppi punti di vista, una piaga molto più pervasiva e grave di quanto comunemente si creda, e le cui radici sono profonde e serie. Stiamo, infatti, assistendo passivi a una crescita massiccia di una vera e propria “cultura” delle scommesse e della fortuna. Pensiamo, ad esempio, alla ricorrente vicenda del calcio scommesse. Questa è profondamente legata a una visione mercantile che sta trasformando il calcio da “bene relazionale” (cioè un incontro non commerciale) in bene di mercato altamente speculativo. Grazie soprattutto alla dittatura incontrastata delle televisioni commerciali, che oggi dominano il calcio professionistico determinandone vita e morte, la dimensione della gratuità è ormai scomparsa dal gioco (di cui dovrebbe invece costituirne l’essenza). Le partite di calcio stanno invadendo tutti gli altri programmi in tutti i giorni della settimana, svuotando così gli stadi per riempire le case di individui sempre più soli davanti a televisori sempre più grandi.

Uno sport ridotto a semplice merce finisce poi per rendere eticamente meno riprovevoli comportamenti invece in sé molto gravi, anche perché gli stessi tifosi vedono società di scommesse come sponsor delle loro squadre del cuore. Per non dire poi che queste imprese speculative hanno preso via via il posto dei prodotti dell’economia reale italiana che nei decenni passati erano su quelle magliette. Il mercato è un’invenzione meravigliosa, finché resta un principio accanto ad altri della vita in comune, e nei suoi spazi: diventa una grave malattia civile quando è l’unico criterio per governare tutti i rapporti sociali.

Che fare allora? Innanzitutto occorre agire “a tutti i livelli”. Un primo livello è quello politico: come mai, ad esempio, non si estende ai giochi d’azzardo (poker tv, scommesse online…) la proibizione della pubblicità che vige per il tabacco? Le dipendenze sono simili, e gli effetti di queste nuove dipendenze sono oggi forse più gravi. Perché poi non pensare anche a forme di “obiezione di coscienza” da parte di quei campioni che potrebbero rifiutarsi di fare da testimonial in tali pubblicità? C’è poi la dimensione educativa, familiare e scolastica, ma è sempre il livello civile quello davvero cruciale. Dovrebbero, ad esempio, essere gruppi di cittadini a premiare con un marchio di qualità etica quei locali e bar che rinunciano a sicure entrate eliminando le slot machine, un marchio che poi potrebbe attrarre verso quegli stessi locali più consumatori civilmente responsabili.

È la nostra ricorrente idea di «premiare gli onesti», parallelamente alla co–essenziale punizione dei disonesti. La sfida è grande. L’Occidente ha iniziato la sua straordinaria storia quando ha affermato che la «virtù batte la fortuna», che la vita buona (l’eudaimonia) non dipende dal fato, ma dalle nostre scelte improntate alla virtù, che sono la sola vera risposta di fronte alla incertezza della vita. L’invasione della cultura della fortuna dice allora, e con grande forza, la profonda crisi della cultura occidentale, e un forte ritorno di irrazionalità e di fede nel “fato”. Le pubbliche virtù, ieri come oggi, nascono solo dalle virtù private, ancor più nei tempi di crisi.

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Commenti - Ben oltre la «cultura» delle scommesse

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  04/01/2012

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La virtù batte la fortuna

La virtù batte la fortuna

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