Gli occhi e il coraggio della ripartenza

Gli occhi e il coraggio della ripartenza

Commenti - L'Italia (come gli altri Sud d'Europa) sia se stessa. La lezione di Genovesi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 28/04/2013

logo_avvenireL’economia di mercato è una fittissima rete di interdipendenze, magnifica e terribile a un tempo. Nei tempi felici la ricchezza degli uni diventa anche ricchezza degli altri, ma nei momenti di depressione i problemi di intrecciano, si amplificano, e quelle virtuose interdipendenze diventano circoli viziosi, dove ognuno tira verso il basso l’altro. I clienti non pagano, le banche non danno credito, non si pagano i fornitori, che a loro volta non pagano i propri debiti, e così via. Si alimenta in questo modo un vortice che inizia ad assomigliare a un tifone che spazza via fabbriche, lavoro, case, vite.

Tutta l’Italia che lavora – o che non riesce a lavorare – soffre, ma è il Sud dell’Italia, e dell’Europa, a soffrire di più, dove la crisi sta cancellando le timide primavere economiche dei due decenni passati. Sono convinto che se riusciremo a ripartire, a rialzare la testa, il baricentro di questo nuovo Rinascimento sarà il Meridione, proprio perché è quello che ha ancora troppe potenzialità e talenti inespressi, mortificati da tante ferite della storia, recente e remota.

Anche perché la cultura capitalistica dominante vede solo le 'ferite' delle nostre culture latine e meridiane, ma non sa vederne le 'benedizioni' che pur vi sono, e abbondanti. Un Sud che sta conoscendo di nuovo l’emigrazione di massa dei suoi giovani migliori, una emigrazione 'per pane e dignità', come fu quella di tanti altri italiani, un doloroso capitolo che qualche anno fa pensavamo, tutti, che appartenesse al passato. I Sud dell’Europa hanno bisogno di fiducia, di stima, di auto-stima, di 'coraggio', come si esprimeva uno dei grandi padri dell’Economia civile italiana, ed europea, il napoletano Antonio Genovesi, un autore che in questi giorni andrebbe letto, e ascoltato.

Nelle sue Lezioni di Economia civile del 1765 (è in uscita una nuova edizione dell’opera), leggiamo pagine sull’Italia e sul suo Meridione, che sembrano scritte non ieri, ma domani: «I suoi vini sono il nettare che beono le migliori tavole non solo degl’Inglesi, ma de’ Francesi altresì, ancorché superbi del loro Borgogna. … Paesi di lana, di lino, di canape, d’ogni sorta di animali; paese di caci, di manna ecc., paese di grand’ingegni... Noi dunque per questo solo verso, dovremmo aver quattro volte più di denaro, di quel che ha ciascuna di queste nazioni; e cinque per capo dell’olio, sei per capo del vino, sette pel seta, ecc.». E quindi si chiede, e noi con lui: perché questi denari non c’erano, e non ci sono? «Io non crederò mai che manchi l’ingegno. Chi si può persuadere che i climi temperati generino de’ cervelli più grossolani che i gelati? Neppure che manchi la voglia di faticare; … Dunque bisogna conchiudere che manchi il coraggio, e che vi si fatichi male».

La ragione di questa mancanza di «coraggio» e di buona «fatica» (lavoro), per Genovesi è chiara: «Il massimo peso delle finanze è ricaduto sulle arti, e doveva aver la base sulle terre; quindi è che le arti ne sono state scoraggiate e avvilite». Parole sante: non c’è futuro per uno Stato quando la tassazione continua ad «avvilire» e «scoraggiare» le arti, cioè gli artigiani e le imprese, e a favorire le rendite. I privilegi accordati alle rendite sono sempre il primo indicatori dei sistemi economici e sociali feudali, o neo-feudali come il nostro.

Lo abbiamo denunciato molte volte, e continueremo a farlo. Genovesi era cosciente che quelle qualità e quei primati dell’economia e dell’ingegno italiani erano un’anima – non l’unica, e forse neanche la più evidente – della sua terra e della sua gente; erano senz’altro virtù reali, ma erano mescolate a vizi non meno reali, come sempre, e come ovunque. Tanto che dopo aver elencato tutti quei meriti e virtù del suo Regno, sente di dover specificare: «Se questo articolo viene per caso in mano di qualche straniero, sappia ch’io l’ho scritto digiuno, e dopo aver preso una dramma di rabarbaro». Ma quella lettura generosa del suo Regno, ispirò le riforme e le rivoluzioni napoletane, brevi ma ancora luminose ed esemplari.

Il talento civile o lo 'spirito' di un Paese, dei suoi governanti e dei suoi intellettuali, sta nel saper creare un orgoglio e una speranza civile da segni reali presenti nel passato e nell’oggi, e da lì mostrare un non ancora' migliore del già, e del già stato. Togliete a un popolo questa capacità, e resteranno soltanto l’arte della denigrazione, la critica, il pessimismo, il turpiloquio, l’incattivimento reciproco.

Per ripartire, economicamente e civilmente, dobbiamo essere capaci di mettere a reddito arte, cultura, clima, natura, storia, cibo, vini, turismo, bellezza, dimensioni presenti in tutta l’Italia e l’Europa, ma nel Sud ancora troppo poco valorizzati, e quindi capaci di futuro. Dobbiamo inventarci una antica-nuova identità economica e lavorativa, e non ci riusciremo sognando di imitare la Germania o gli Usa, ma solo creando nuova ricchezza dai nostri antichi capitali, di cui la natura e il genio dei nostri padri e madri ci hanno dotato in quantità e qualità straordinari: «O uomini stralunati che voltate disdegnosi le spalle alla natura, mentre vi offre a due coppe e ricolme le sue ricchezze, sole vere, sole durevoli, sole beatifiche, per seguire certe bizzarre fantasie che non hanno corpo, e non vi sveglierete voi mai da’ vostri sogni?».

Certo per ripartire non bastano queste parole di Genovesi, forse neanche quelle, anche fossero sublimi, di altri filosofi o poeti. C’è bisogno di molto di più, lo sappiamo. Ma nei tempi della prova ci serve anche la compagnia dei grandi, di chi ha saputo vedere di più e diversamente nelle carni e nello spirito del proprio tempo, e con loro cercare di fare altrettanto oggi. Potremmo scoprire e vedere anche noi quel qualcosa di invisibile nascosto nelle trame morali e civili dei nostri popoli, delle nostre imprese, delle nostre comunità, che sono ancora piene di risorse, di capitali, di beni, che aspettano solo di essere trasformati in lavoro e reddito. «Ero disperato. Una mattina sono uscito di casa, e ho visto un capannone. Era lì da sempre, ma non lo vedevo più», mi ha raccontato un imprenditore agricolo.

Quasi sempre la soluzione è sotto-casa, ma nei tempi della prova, non siamo più capaci di vederla. Occorre, allora, reimparare a vedere i nostri veri capitali e veri beni, perché durante tutte le crisi la malattia più grave è quella che annebbia gli occhi dell’anima, e poi dell’intelletto.

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