Bruni Varie

Economia Civile

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Diario di viaggio in Kenya,  1° puntata, Inizio Scuola Edc Panafricana, 23 gennaio 2011

di Luigino Bruni

110123_Nairobi_01_ridE’ cominciata con tanta gioia ed il clima delle grandi occasioni, serietà e felicità al tempo stesso, la prima giornata della Scuola Edc panafricana alla Mariapoli Piero: sono  presenti 160 persone tra cui parecchi giovani, da 12 paesi africani: avere rappresentati così tanti paesi è davvero un fatto da solo molto importante. Si sente entusiasmo, e ci sono tutte le premesse perché inizi per l'Africa il tempo dell'edc.

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Dopo i vari saluti, non formali  -qui in Africa l'incontro con l'altro è sempre solenne-, ho fatto una breve introduzione, che è nata dalla preparazione di questi mesi, e non ultimo da alcuni colloqui avuti al mio arrivo a Nairobi sabato, con chi vive qui la realtà africana di ogni giorno.

 Non è facile in Africa la situazione del Movimento del Focolari, come non lo è quella della Chiesa e di tutta la 110123_Nairobi_04_ridsocietà. E non è facile soprattutto l'economia, che racchiude tutte le contraddizioni e le ferite di queste terre, che per secoli sono state saccheggiate, in persone e risorse, senza pietà, e che anche oggi continuano ad esserlo. Si sente che gli africani hanno qui una gran voglia di “riprendersi in mano l’Africa” e anche se il Movimento del Focolari ha certamente agito in modo veramente diverso rispetto ad altri, con un vero lavoro di inculturazione e di servizio per l'Africa, le ferite si sentono anche qui.

Tutta l'economia è attraversata da un clientelismo e paternalismo secolare che ha creato negli africani un atteggiamento di "attesa" di aiuti, e ha mortificato iniziativa e creatività. Si può capire allora che per noi, che parliamo di nuovo modo di fare impresa, dove si inizia col dare e poi col ricevere, non è facile. Ma è sempre possibile.. Siamo partiti quindi con questa consapevolezza di grande complessità e quasi di impotenza.

Dovendo introdurre la scuola, dando un messaggio che anzitutto desse speranza, mi è venuta in mente la storia di Cristoforo Colombo, come metafora. A differenza dei tanti che avrebbero voluto attraversare l'oceano, Colombo lo fece veramente perché trovò una mappa dell'Oceano (scritta da un certo Toscanelli, che mai era uscito dall'Italia), che gli diede la forza e la speranza per avventurarsi nell'oceano aperto.

110123_Nairobi_02_ridIl carisma è come una mappa, che ci fa affrontare l'ignoto, con la speranza seria di poter trovare un "Mondo nuovo" (magari cercando Le Indie). Ma la mappa vera Colombo la scrisse al ritorno: così l'economia di Comunione africana la potranno fare solo gli africani: ora però occorre partire con l'EdC che nasce da un carisma. Occorreranno poi mariani, caravelle, capitani, ma occorrerà soprattutto la "nostalgia del mare" (del mondo unito!), il desiderio di partire, di cercare un mondo nuovo: se manca questa nostalgia non si partirà mai. Quindi “mappa” e “nostalgia del mare”.

La mattina è proseguita con le splendide testimonianze di John Mundell e di Teresa Ganzon (e famiglie), doni straordinari per l'edc: Africa, USA, Asia, Europa: tutti lì per lo stesso grande scopo.

Ora la giornata continua con i workshop del pomeriggio con Giampietro ed Elisa ParolinFrancesco Tortorella e Teresa Ganzon, che si preannunciano importanti.Vi terremo aggiornati, e intanto teniamo tutti viva la nostalgia del mare (il mondo unito) credendo nella mappa (anche senza  aver ancora visto l'oceano), in Africa e altrove!

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Mappa di un "mondo nuovo" e nostalgia del mare

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È assolutamente indispensabile che il principio di gratuità venga posto al centro del dibattito sull’economia e sul mercato

di Luigino Bruni

pubblicato nella sezione sull'Educazione al Consumo Consapevole di e-coop

Luigino Bruni: Se una persona in difficoltà viene aiutata, ma non si sente stimata e rispettata, si comporterà in modo opportunistico

Per parlare di sobrietà di consumo responsabile è necessario partire da una parola scomoda, oggi emarginata e combattuta ma senza della quale non è possibile fare alcun discorso sulla sobrietà e sul consumo critico: è la parola povertà. La parola povertà non è infatti, nella cultura cristiana e occidentale, associata ad un male assoluto: ci sono parole che sono sempre e solo negative: menzogna, violenza, razzismo… La povertà non è una di queste, poiché se c’è una povertà subita e non scelta, che significa esclusione e indigenza, c’è anche una povertà scelta e voluta, che nasce da una esigenza interiore e spirituale di liberarsi dalle merci per circondarsi di beni, tra cui soprattutto i beni relazionali.

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Senza persone che scelgono liberamente una vita povera (o sobria: anche se preferisco povera), ieri come oggi, in Africa come in Italia, è molto difficile, se non impossibile, che persone che la povertà non l’hanno scelta ma la subiscano possano uscire dalle trappole dell’indigenza e dall’esclusione. I programmi governativi e pubblici di lotta alla povertà possono anche essere implementati da funzionari muniti di panfili e maserati, che alternano convegni sulla povertà e vacanze milionarie; ma se cooperatori di ONG, missionari, o volontari internazionali non sono essi stessi persone che liberamente scelgono una vita sobria e non consumistica, raramente i loro interventi avranno successo duraturo. In altre parole, le istituzioni e i loro funzionari possono anche occuparsi di povertà senza essere poveri (e normalmente è così), e questi interventi saranno in certi casi utili nel realizzare ponti, canali, ospedali e scuole, strutture e infrastrutture. Ma se le persone che giorno dopo giorno lavorano in quegli ospedali e in quelle scuole, se le persone che condividono la vita dei poveri non sono anch’esse liberamente e coscientemente povere e sobrie, le persone aiutate tendono a comportarsi in modo opportunistico, e a sfruttare l’aiuto ricevuto che non diventa così sviluppo umano (come i tanti studi sul cosiddetto “Dilemma del Samaritano” ci mostrano). Per quale ragione? Una persona che si trova oggettivamente su di un piano di inferiorità (di beni, di diritti, di opportunità, di capacità) se quando viene aiutata non si sente prima stimata e rispettata, non trasformerà quei beni e servizi ricevuti in capacità e quindi in sviluppo, come ci insegnano Amartya Sen e Martha Nussbaum. Un povero può essere dunque aiutato solo da qualcuno che condivide una vita povera, che si sente con chi è aiutato in un rapporto di communitas e non di immunitas.

Una condizione antropologica necessaria perché si possa prima capire e poi condurre una vita (liberamente) povera è associata ad un’altra parola che mi sta molto a cuore: gratuità, una parola che oggi sta entrando anche in dibattiti puramente e autenticamente economici, ma solo in ambienti innovativi di economia sociale e civile. Porre, infatti, al cuore del discorso sull’economia e sul mercato il principio di gratuità è un’operazione molto importante, e in un certo senso di portata rivoluzionaria. Niente come la gratuità è, infatti, assente oggi dal dibattito economico, dai mercati e dalle imprese. Chi parla di gratuità in economia viene preso per ingenuo, spesso come un mistificatore («che ci sarà sotto?», ci si chiede), e in ogni caso la gratuità viene vista come un elemento dannoso per il funzionamento dei mercati e delle imprese. Occorre infatti guardare bene e da vicino che cosa è la gratuità, e che cosa non è.

Un primo errore è confondere la gratuità con il gratis (prezzo zero) o con la filantropia. Un secondo errore è identificarla con il regalo, magari con il gadget o gli sconti, che svolgono invece spesso la stessa funzione di un “vaccino”: inseriscono nel corpo un pezzettino del virus che vogliono combattere (la gratuità vera). Immettendo nella società dei “pezzettini” di dono, ci si immunizza dal dono vero, sempre tragico e doloroso, di cui la società dei consumi ha paura. Un terzo errore è associare la gratuità al puro dono, e mettendolo quindi in conflitto con il doveroso, con il contratto, con il mercato. In realtà, la gratuità rimanda alla parola greca charis, grazia, all’agape, la parola greca che i latini hanno tradotto con caritas, o, in certe tradizioni, charitas dove l’inserimento della “h” indicava ancor più chiaramente il legame tra l’agape e la charis.

La gratuità è infatti gratia, poiché è dono gratuito non solo per chi riceve atti di gratuità, ma anche per chi li compie, poiché la capacità di gratuità è qualcosa che accade in noi sorprendendoci sempre, come quando siamo capaci di ricominciare dopo un grosso fallimento, o di perdonare davvero gravi errori degli altri (e nostri). È infatti importante, anche per l’economia, l’associazione, presente in molte lingue, tra dono e perdono. Non c’è perdono senza dono, e dono senza perdono. Il perdono che nasce dall’agape è infatti sempre un dono, è un for-give. Il perdono-gratuità è sempre un dono, poiché significa perdonare pronti ad essere ancora feriti e traditi: “ti perdono ora, e sono pronto a perdonarti se mi ferirai ancora”.

È questa gratuità che il mercato capitalistico non conosce. La gratuità è la dimensione di ogni azione umana, di ogni impresa, e non solo del nonprofit. Sarebbe un errore molto grave associare la gratuità al solo volontariato, all’economia sociale, affidarla a “specialisti” che si occupano del 2% della vita economica e sociale. E che cosa ne facciamo del restante 98%? La gratuità, ad esempio, non deve essere presente solo negli sponsor o nelle fondazioni bancarie, ma in tutta l’attività ordinaria di banche e imprese.

La gratuità non è il limoncello in un pranzo: essa è il modo con cui si prepara l’intero pranzo, la qualità delle relazioni che poniamo in essere mentre viviamo dentro e fuori il mercato, con chi sarà nella nostra tavola e con chi resta fuori dai nostri pranzi opulenti (ogni sobrietà implica sempre una scelta di povertà), l’eticità e la sostenibilità ambientale della verdura e del riso che compriamo per preparare il pranzo, ecc. È in tutte queste scelte che ci giochiamo la gratuità nei consumi e nel mercato.

Che cos’è allora la gratuità? E’ quell’atteggiamento interiore che ci porta a rapportarci con gli altri, con noi stessi e con la natura sapendo che abbiamo a che fare con qualcosa da amare e da rispettare, e non da usare a fini egoistici. Quando si attiva la dimensione della gratuità la strada da percorrere è importante quanto la meta da raggiungere. Il dono può essere gratuità, ma anche no, quando nel dono prevale la dimensione dell’obbligo. Una parola che anche coglie questa dimensione necessaria della gratuità è innocenza, quella dimensione che troviamo soprattutto nei bambini: il bambino che gioca senza nessun altro scopo che non sia il gioco stesso esprime questa dimensione della gratuità. La gratuità è presente anche nel comportamento di quella persona anziana che, sebbene viva sola, si riassetta bene il letto e si prepara il pranzo con cura, per esprimere la propria dignità di persona e il “non lasciarsi andare”.

Ricordando la sua esperienza del lager, Primo Levi così scriveva: Ma ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del “lavoro ben fatto” è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i nazisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità.

Tirar su “un muro dritto” per dignità è anche espressione di gratuità, poiché dice che esiste negli altri, in sé stessi, nella natura, nelle cose, persino nei “muri”, una verità ed una “vocazione” che va rispettata e servita, e mai asservita ai nostri interessi. “Quel muro era lui”, ha commentato il liutaio Foscolo durante un incontro: Quella bellezza e quella solidità che quel muratore non vedeva più in se stesso per le condizioni disumane in cui viveva, le aveva incarnate in quel muro, come a dire: ‘anche se tutti voi vedete qualcosa di diverso, in realtà io sono come quel muro: bello e dritto’. La gratuità è dunque una dimensione che può accompagnare qualsiasi azione, dal contratto al dono. Il consumo critico vive la gratuità non perché opera sconti ai clienti o ai produttori, ma perché disegna contratti e rapporti orientati al bene e alla giustizia; quando e dove fa “muri dritti”.

Oggi l’economia non è capace di vedere la gratuità. Ma forse non la vede perchè essa è come il lievito ed il sale della terra. Il lievito, lo sappiamo, è una piccola percentuale rispetto alla farina e all'acqua, che si perde in queste; ma è essenziale per fare il pane, e per renderlo buono e mangiabile. Ecco perchè se togliamo la gratuità dall'economia, il pane dell’economia, e quindi della città, sarà sempre pane azzimo.

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È assolutamente indispensabile che il principio di gratuità venga posto al centro del dibattito sull’economia e sul mercato

di Luigino Bruni

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Luigino Bruni: Se una persona in difficoltà viene aiutata, ma non si sente stimata e rispettata, si comporterà in modo opportunistico

Per parlare di sobrietà di consumo responsabile è necessario partire da una parola scomoda, oggi emarginata e combattuta ma senza della quale non è possibile fare alcun discorso sulla sobrietà e sul consumo critico: è la parola povertà. La parola povertà non è infatti, nella cultura cristiana e occidentale, associata ad un male assoluto: ci sono parole che sono sempre e solo negative: menzogna, violenza, razzismo… La povertà non è una di queste, poiché se c’è una povertà subita e non scelta, che significa esclusione e indigenza, c’è anche una povertà scelta e voluta, che nasce da una esigenza interiore e spirituale di liberarsi dalle merci per circondarsi di beni, tra cui soprattutto i beni relazionali.

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Sobrietà, povertà e gratuità

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di Fabio Poles

pubblicato su GVonline il 24 dicembre 2010

Logo_GVonline«La relazione con gli altri è sempre ambivalente. Può cioè essere sia "benedizione" che "ferita", a seconda che ci renda felici o meno. Infatti se l'uomo felice ha bisogno di amici e l'amicizia è questione di "reciprocità" (non può cioè essere imposta per legge o per contratto), allora la felicità è sempre fragile perché dipende dalla libera risposta altrui. In questo senso il mercato è un sistema di mediazioni che hanno lo scopo di eliminare proprio la "ferita" della relazione».
Lo ha spiegato Luigino Bruni, economista dell'Università Bicocca di Milano e dell'Istituto Sophia di Loppiano, intervenendo la scorsa settimana davanti ai circa cento studenti del Master in Gestione Etica d'Azienda dello Studium Generale Marcianum. "L'ethos del mercato" il titolo della sua relazione.

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Il docente ha così continuato: «E' di fronte alla possibilità di vulnerabilità che gli uomini hanno espresso la necessità di mediazioni, una delle quali è appunto il mercato moderno».

Con quali conseguenze? Buone se pensiamo al fatto che il mercato riduce le dipendenze personali da "padroni" esterni; problematiche se consideriamo invece che l'incontro interumano è sempre più mediato da strumenti (contratti ma anche tecnologie informatiche, per esempio) e procedure (come leggi e regolamenti) che di fatto allontanano le persone le une dalla altre.

Ma il mercato è anche il luogo dove si manifestano importanti virtù come l'innovazione e la creatività, che sono alla base dello sviluppo.
Oppure l'anti-narcisismo dato che il mercato ti spinge a fare più quello che interessa agli altri che quello che interessa a te stesso. Oppure ancora la prudenza, che ti porta a fare bene e con accuratezza le cose che ti riguardano, cosa che rende a cascata sicuri anche gli altri. «La virtù principale tra quelle presenti nel mercato è però la speranza - ha concluso Bruni - in base alla quale l'imprenditore inizia una nuova impresa, una nuova attività economica, perché spera che il mondo di domani sarà migliore. Proprio per questo, stando all'adagio di un anonimo, "senza artisti, santi e imprenditori non c'è bene comune"».

Tratto da GENTE VENETA, n.49/2010

Approfondimento dell'Articolo precedente:

Bruni: Stop all'assistenzialismo. La Legge speciale per Venezia dovrebbe indurre a cercare prestiti

pubblicato su GVonline il 24 dicembre 2010

«Dovremmo cercare di non rincorrere i modelli di interpretazione del business anglosassoni che con il nostro mondo hanno poco a che fare. Così, se vogliamo dare spazio – e ce ne sarà sempre più bisogno – alle imprese animate da “moventi ideali”, anziché chiamarle “non profit” dovremmo chiamarle “for project”. Perché lo scopo di una impresa è un progetto, che in questo tipo di imprese è solitamente molto definito, mentre il profitto è un segnale che, se c’è o non c’è, conferma o meno l’imprenditore nella correttezza delle sue intuizioni. Capire questo consentirebbe alle imprese “for project” anche l’introduzione di forme di found raising (raccolta di fondi) nuove e più calate nella realtà italiana». E’ il pensiero innovativo espresso dall’economista Luigino Bruni.

Professor Bruni, stando alle sue ricerche, che hanno anche a che fare con l’etica del mercato, è “etico” proporre ancora una legge speciale per Venezia con l’intento di raccogliere risorse comuni per destinarle ad una situazione locale?

Non sono un esperto di questo tema, ma penso che la prima cosa da fare sia quella di spingere al massimo sulla sussidiarietà cercando tutti i modi in base ai quali sarà la stessa comunità locale a generare le risorse per i progetti da finanziare con la legge speciale. Poi punterei su strumenti nuovi.

Quali per esempio?
Proverei a lanciare dei “social bond”, raccogliendo capitali a prestito in tutta Europa, per finanziare progetti specifici. Anche questo investimento, come tutti gli altri, avrebbe l’obbligo di essere efficiente, di generare cioè reddito aggiuntivo per la remunerazione del capitale investito. Il che dipenderà dalla bontà dei progetti. (F.P.)

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di Fabio Poles

pubblicato su GVonline il 24 dicembre 2010

Logo_GVonline«La relazione con gli altri è sempre ambivalente. Può cioè essere sia "benedizione" che "ferita", a seconda che ci renda felici o meno. Infatti se l'uomo felice ha bisogno di amici e l'amicizia è questione di "reciprocità" (non può cioè essere imposta per legge o per contratto), allora la felicità è sempre fragile perché dipende dalla libera risposta altrui. In questo senso il mercato è un sistema di mediazioni che hanno lo scopo di eliminare proprio la "ferita" della relazione».
Lo ha spiegato Luigino Bruni, economista dell'Università Bicocca di Milano e dell'Istituto Sophia di Loppiano, intervenendo la scorsa settimana davanti ai circa cento studenti del Master in Gestione Etica d'Azienda dello Studium Generale Marcianum. "L'ethos del mercato" il titolo della sua relazione.

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Luigino Bruni: Senza imprenditori, santi e artisti non c'è bene comune

di Fabio Poles pubblicato su GVonline il 24 dicembre 2010 «La relazione con gli altri è sempre ambivalente. Può cioè essere sia "benedizione" che "ferita", a seconda che ci renda felici o meno. Infatti se l'uomo felice ha bisogno di amici e l'amicizia è questione di "reciprocità" (non può cioè es...
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di Luigino Bruni

Introduzione del Rapporto Economia di Comunione 2009/2010

Siamo entrati nell’anno del ventesimo dell’Economia di Comunione o, come diciamo più familiarmente, dell’EdC. E i compleanni, si sa, sono anche Luigino_Brunimomenti di bilanci e di prospettive. L’EdC è viva e cresce nella storia dell’oggi, nelle crisi e nelle speranze del nostro tempo. La proposta di Chiara di dar vita ad imprese e poli produttivi, e poi (nel maggio 1998) ad un movimento culturale che desse alla prassi “dignità scientifica”, non è caduta nel nulla: essa è stata raccolta da migliaia di persone, prevalentemente dentro ma recentemente sempre più anche fuori il Movimento dei Focolari, un popolo di gente diversa accumunata dal desiderio di coltivare il campo perché il seme del carisma dell’unità gettato nel terreno dell’economia moderna, cresca seguendo la legge scritta nel suo DNA, e porti i frutti tipici del carisma donato a Chiara, come dono per l’umanità di oggi e di domani.

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Quello che presentiamo è il terzo report dell’EdC, e quest’anno per la prima volta, oltre i dati sull’uso degli utili e suoi progetti, abbiamo anche un resoconto sull’intera attività EdC, che insieme a progetti di sviluppo per aiutare persone (giovani soprattutto) a liberarsi dalle trappole della miseria, sta dando vita dal basso e nel silenzio ad una nuova cultura, e sta cambiando la vita di centinaia di imprenditori e decine di migliaia di lavoratori.

Poveri, cultura, impresa, dunque, “un terzo, un terzo, un terzo”, la prima intuizione di Chiara, che non va letta come se l’EdC avesse un triplice scopo ma come tre tappe di uno stesso processo di comunione, per dare il suo contributo al progetto carismatico dell’intero Movimento dei Focolari: che tutti siano uno. Non ci sarà mai un mondo unito se l’economia non sarà di comunione, non saremo “tutti uno” finché persone non riescono a mangiare, a far studiare i propri ragazzi, a coltivare la propria umanità, vocazioni, aspirazioni, finché ci saranno grattacieli circondati da “corone di spine”. Il mondo unito sarà sempre di fronte a noi, come ogni parola del vangelo che inizia nella storia ma si compie oltre questa, poiché ogni Parola “grande” è insieme un già e non ancora. I carismi sono sempre un già che indica un non ancora: sono quindi un già.

Se l’EdC saprà dire già oggi che esistono centinaia, migliaia, di imprenditori capaci di alzarsi alle cinque del mattino per ragioni più grandi del profitto; che ci sono già lavoratori che sanno accontentarsi di un salario di mercato e non chiedono aumenti se sanno che il valore aggiunto che anche loro producono non va nelle tasche del “padrone” ma va fuori dell’impresa per sfamare, curare, istruire; se saprà mostrare già persone che non si danno pace finché la fraternità in cui credono come esseri umani non si traduce anche in uguali diritti, opportunità, capacità, per tutte le donne, i bambini, gli uomini del mondo. Se avremo qui ed ora questi già possiamo sperare seriamente nell’avvento dei tanti non ancora che ci sono di fronte. Che cosa può fare però la “piccola EdC” (e i dati del report dicono con chiarezza quanto piccoli sono i nostri numeri se confrontati ai grandi numeri della filantropia e della cooperazione internazionale) davanti ai troppi non ancora che potrebbero e dovrebbero essere dei già e che non lo sono ancora solo per la cattiveria e piccolezza nostra, del nostro tempo? Oggi l’umanità avrebbe infatti le risorse tecnologiche e finanziare per fare molto di più sul terreno del già; non tutto, ma molto di più di quanto già facciamo. Si potrebbe e dovrebbe fare di più nel campo dell’istruzione nei paesi più poveri: quando vedremo i migliori docenti del mondo opulento spendere un semestre nelle fragili università africane, della Cambogia, di Cochabamba? Quando vedremo investimenti seri (cioè più del 50% del totale) in energie rinnovabili? Quando tutte le pubbliche amministrazioni, il Vaticano e le diocesi, i movimenti e le ONG, acquisteranno soltanto auto ecologiche e di bassa cilindrata? Quando tutte le imprese e i governi del mondo investiranno il 20-30 % del loro PIL per una cooperazione seria allo sviluppo, che non si può limitare alle briciole del ricco epulone, ma diventino già spese in istruzione (dagli asili alle università), ospedali (i migliori ospedali del mondo oggi dovrebbero trovarsi in Africa), tecnologie avanzate e pulite, trasporti efficienti e sicuri, abitazioni sane e dignitose.

Senza questi già, il non ancora che ci attende nei prossimi decenni potrà vedere nuove grandi crisi globali, e forse guerre davvero mondiali, se è sempre più vera la frase di Aristotele, “non si può essere felici da soli”.

Anche l’EdC potrebbe e dovrebbe fare di più di quanto non abbia fatto in questi venti anni, pur ricchi di saporossimi frutti, non ultimi i tanti imprenditori e lavoratori EdC che hanno già concluso il loro viaggio terreno (tra i quali François Neveux, la cui biografia è a mio parere il libro EdC più bello mai pubblicato, perché scritto con l’inchiostro della vita). Come segno di un impegno maggiore e più responsabile, quest’anno, oltre all’evento del Brasile del maggio 2011 (siamo tutti invitati!), l’EdC mondiale ha lanciato un “progetto giovani”, che avrà come tappe significative due summer school internazionali: la prima in America Latina e la seconda in Africa, entrambe in gennaio. Ripartire dai giovani (che non sono il futuro ma un diverso modo di vivere e intendere il presente) è indispensabile per i tanti non ancora che chiedono di diventare già.

Nella cultura del consumo che oggi domina il mondo, l’EdC può e deve essere un luogo della resistenza, dove ogni impresa e ogni Polo sia un’oasi (non un’isola), come lo furono le abbazie nel medioevo, dove tanti possono trovare speranza e dove si custodisce il DNA della gratuità. In un mondo dove con il denaro si compra (quasi) tutto, il denaro tende a diventare tutto: ricordare e vivere in questa età dell’avere la cultura del dare e della gratuità ha allora un grande valore non solo economico, ma di resistenza culturale, di battaglia di civiltà, di amore per l’umanità di oggi, e di domani.

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Introduzione del Rapporto Economia di Comunione 2009/2010

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Per una economia del "già"

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di Luigino Bruni 

pubblicato su Il Sole 24 ore dell'8/11/2010

logo_sole24ore"Per crescere un bambino ci vuole l`intero villaggio", recita un noto proverbio africano. Perché la famiglia possa esprimere le sue potenzialità civili c`è bisogno di un nuovo patto sociale, in un mondo in continua e veloce trasformazione sociale ed economica. Per questo nuovo patto sociale occorre però un`operazione culturale preliminare: rivendicare per la famiglia il ruolo di soggetto economico globale, e non solo quello di agenzia di consumo, risparmio e redistribuzione del reddito.

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La visione del ruolo economico della famiglia è obsoleta, e con essa anche il sistema fiscale e retributivo. L`attuale visione è quella nata nella società cosiddetta "fordista", quando la famiglia offriva "lavoro" alle imprese, le quali fornivano reddito alle famiglie con il quale consumavano e risparmiavano.

La famiglia, quindi, non produceva nulla di reputato rilevante in quanto istituzione famigliare, ma consumava, offriva lavoratori (essenzialmente maschi), e risparmiava (favorendo, così, anche gli investimenti delle imprese). La sfera interna della famiglia, tutto ciò che accadeva all`interno delle mura domestiche, non era di rilevanza economica (né politica). L`interesse economico e politico per la famiglia si arrestava sull`uscio della porta di casa. Da qui anche tutto il sistema fiscale: si tassava il consumo (Iva), il reddito o il patrimonio individuale, poiché la famiglia come istituzione non era di rilevanza economica.

Da qualche decennio, in realtà, questa visione è entrata in crisi mortale, ma la cultura isti- tuzionale e fiscale (soprattutto in Italia) è sostanzialmente rimasta quella del primo dopoguerra. Si continua, infatti, avedere la famiglia come agenzia di consumo, risparmio e redistribuzione, come fornitrice di lavoro (ancora troppo "maschile"). Non si vede invece la famiglia anche come soggetto produttivo.

 L`economia cresce non solo quando ha capitali umani, finanziari e fisici, ma anche quando possiede capitale sociale e beni relazionali. Un paese, istituzioni e imprese, che non hanno fiducia diffusa, rispetto delle regole, cultura civica, non crescono economicamente. Ma chi "offre" questo tipo di capitale intangibile ma preziosissimo per lo sviluppo economico? Non solo, ma prevalentemente la famiglia, dove le persone sono educate alla cooperazione, alla fiducia, al senso civico.

Quando in una famiglia si formano persone che hanno queste capacità, questa famiglia sta contribuendo all`economia offrendo una forma di capitale non meno preziosa di tecnologia e credito.

Ma perché queste sfide nuove e complesse possano essere adeguatamente affrontate e vinte occorre una nuova alleanza tra tutti gli attori coinvolti dal gioco civile. Prendiamo, ad esempio, il grande tema della conciliazione lavoro-famiglia: non può essere giocata solo sull`asse economico. Quando una persona (troppo spesso una donna) lascia il lavoro per un congedo parentale, non ha solo il problema di mantenere il posto di lavoro, o di riuscire ad avere congedi più lunghi salvando una quota dignitosa di stipendio; ha anche il problema (sempre più urgente) di reinserirsi nel suo posto di lavoro salvando gli investimenti professionali fatti, e non ritrovarsi a svolgere mansioni più basse c/o frammentate, che producono frustrazione e portano spesso all`abbandono del lavoro. Occorre poi riconoscere la natura reciproca del problema. Quando una persona lascia il lavoro per congedi parentali, soprattutto in lavori complessi e di alto profilo, è l`intera equipe di lavoro che ne risente, non solo la singola persona. Certo quella famiglia sta contribuendo a creare futuri buoni cittadini e lavoratori, ma di questi lavoratori beneficeranno in futuro altre imprese, non quella che oggi sostiene i costi. Ecco la ragione dell`urgenza di un nuovo patto sociale, nel quale per sostenere la famiglia tutte le parti coinvolte debbono prendere atto che il mondo è cambiato.

Il nuovo patto sociale richiede allora di abbandonare la mentalità "concessoria" e riconoscere il ruolo anche economico che la famiglia già di fatto svolge: la famiglia non deve chiedere favori allo stato, ma solo il riconoscimento, civile ma anche economico, di quanto già fa senza riconoscimento.

E una questione di giustizia, di sussidiarietà, non di concessioni generose. La famiglia non è solo un "bene meritorio" è anche un bene che produce forme di capitale ad alta produttività e redditività in termini di Pil. La quota del Pil destinata alle famiglie (troppo bassa!) non è dunque un "regalo", ma è questione di equità. Ecco perché qualsiasi discorso sulla sussidiarietà economica e sul regime fiscale della famiglia deve partire da una visione della famiglia come soggetto economico post consumo/risparmio.

Se, infatti, alla famiglia viene riconosciuto lo status di istituzione economica globale, allora diventa fondato e naturale riconoscere che le tasse vadano pagate non sul reddito lordo (ricavi), ma sul reddito al netto dei costi per produrre beni relazionali, capitale sociale, trasformazione dei beni eccetera. Questi beni vanno in parte a vantaggio della stessa famiglia, ma in parte anche a beneficio di una cerchia sociale molto più ampia.

Per tutte queste ragioni e altre ancora, è sempre più urgente un`alleanza tra la famiglia e gli altri attori, perché nessun soggetto, da solo, può essere all`altezza della complessità delle sfide di civiltà che il nostro "villaggio globale" sta affrontando.

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di Luigino Bruni 

pubblicato su Il Sole 24 ore dell'8/11/2010

logo_sole24ore"Per crescere un bambino ci vuole l`intero villaggio", recita un noto proverbio africano. Perché la famiglia possa esprimere le sue potenzialità civili c`è bisogno di un nuovo patto sociale, in un mondo in continua e veloce trasformazione sociale ed economica. Per questo nuovo patto sociale occorre però un`operazione culturale preliminare: rivendicare per la famiglia il ruolo di soggetto economico globale, e non solo quello di agenzia di consumo, risparmio e redistribuzione del reddito.

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Serve un nuovo patto sociale: ecco perché

di Luigino Bruni  pubblicato su Il Sole 24 ore dell'8/11/2010 "Per crescere un bambino ci vuole l`intero villaggio", recita un noto proverbio africano. Perché la famiglia possa esprimere le sue potenzialità civili c`è bisogno di un nuovo patto sociale, in un mondo in continua e veloce trasformaz...
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di Luigino Bruni

pubblicato su Repubblica, sezione Firenze il 18/09/2010

C' è un aspetto bizzarro nei dibattiti che hanno fatto seguito alla crisi di questi ultimi due anni: si mette in discussione tutto, ma più nessuno Luigino_Brunioggi parla seriamente di mettere in discussione la sola cosa veramente importante: il sistema economico capitalistico. Dopo Pasolini o Don Milani, sembra che manchi la statura morale, nei nostri intellettuali, di parlare di andare oltre il capitalismo, senza usare le parole logore delle ideologie, di destra e di sinistra, laiche o cattoliche. Ci si limita, così, tutti, a parlare più innocuamente del bisogno di una economia più etica (qualcuno ci spiegherà un giorno che cosa questa frase significa veramente: è l' etica del lupo o quella dell' agnello? L' etica dei titolari dei titoli di Stato o quella dei rom?), di impresa responsabile, di non profit e di filantropia, tutti fenomeni che, a guardarli bene, non solo non mettono in discussione il nostro sistema economico, ma sono ad esso funzionali e necessari. Occorre osare di più, e occorre che gli intellettuali, gli economisti e gli scienziati sociali tornino a fare il loro mestiere di critici della società, anche della nostra.

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Partiamo da una domanda: ma siamo sicuri che lo scopo dell' attività di un' impresa sia massimizzare il profitto?

Innanzitutto occorre ricordare che cosa è il profitto. Se ci limitiamo soltanto all' ambito più positivo dell' economia di mercato, possiamo affermare che il profitto è la parte di valore aggiunto generato dall' attività d' impresa che viene attribuita ai proprietari dell' impresa, a quelli che una volta si chiamavano i capitalisti. Il profitto quindi non è l' intero valore aggiunto, ma solo una parte. Facciamo un esempio. Un' impresa A produce automobili, trasformando acciaio, plastica, gomma, componenti elettronici, ecc. in un prodotto finito che chiamiamo "auto". Supponiamo che la somma dei costi per produrre un' auto delle materie prime che A utilizza sia pari a 10. Se l' impresa A vende un' auto al prezzo di 30, il profitto non è evidentemente pari a 20 (30-10). Tra i costi mancano ancora importanti elementi, tra i quali uno cruciale è il costo del lavoro. Se supponiamo che il costo del lavoro sia 8 (per ogni auto), e che gli altri costi (oneri finanziari, ammortamenti ...) siano pari a 3, il profitto lordo (prima delle imposte) sarebbe pari a 9. Se l' impresa paga poi imposte per 4, ecco allora che il profitto netto diventa 5. Oggi sappiamo che nel valore aggiunto ci sono tante cose, tra le quali certamente la creatività dell' imprenditore, ma anche il lavoro umano, le istituzioni della società civile, la cultura tacita di un popolo, la qualità dei rapporti famigliari nei quali crescono i bambini nei primi 6 anni di vita (come ci ha mostrato il Premio Nobel James Heckman): certamente in quel "5" di valore aggiunto non c' è solo il ruolo creativo dei proprietari dei mezzi di produzione dell' impresa, ma c' è molto di più, che ha a che fare con la vita dell' intera collettività: c' è anche questa consapevolezza dietro all' articolo 41 della Costituzione italiana, quando dichiara la "funzione sociale" dell' impresa, una funzione che è anche una natura sociale. Una cosa è comunque certa: se l' impresa A vende le auto a 30, e 5 sono i profitti, in un ipotetico mondo "non profit" (cioè con profitti 0) le auto costerebbero 25 invece di 30. In altre parole, i profitti delle imprese sono anche una forma di tassa sui beni pagata dai cittadini che riducono il benessere collettivo della popolazione. Ecco perché una "economia non-profit" è stata spesso desiderata, sognata, e in certi momenti storici realizzata su piccola o vasta scala, sebbene creando spesso danni maggiori dei problemi che si volevano risolvere, come nel caso degli esperimenti collettivisti del XX secolo. Questi esperimenti collettivisti non hanno funzionato per tante ragioni,e tutte molto profonde, ma una di queste ragioni è l' esserci resi conto che quando si toglie quel "5"e lo si socializza, chi mette su le imprese (stato o privati) non si impegnano più nell' innovare e nel lavorare, e la ricchezza, non solo economica, della nazione diminuisce, ci si impoverisce e sparisce anche quel valore (5) che si vorrebbe socializzare. Al tempo stesso, questa grande crisi che stiamo vivendo ci sta dicendo che l' economia fondata sui profitti e sulla speculazione è altrettanto insostenibile. Che fare allora?

C' è un' altra lettura di questo movimento di economia civile: immaginare, per ora su piccola scala, un sistema economico dove il valore aggiunto, economico e sociale, venga distribuito tra tanti (e non solo tra gli azionisti), senza però che gli imprenditori e i lavoratori non si impegnino più per mancanza di incentivi, per evitare di cadere negli stessi problemi delle economia collettiviste e socialiste. La vera scommessa della nuova economia di mercato che ci attende sarà mostrare una nuova stagione di imprenditori (singoli individui ma anche comunità di imprenditori) che sono motivati da ragioni più grandi del profitto.

L' ultima fase del capitalismo (che potremmo chiamare finanziario-individualista) nasce da un pessimismo antropologico, che in realtà risale almeno fino ad Hobbes: gli esseri umani sono troppo opportunisti e auto-interessati per pensare che possano impegnarsi per motivazioni più alte (come il bene comune). Non possiamo però lasciare a questa sconfitta antropologica l' ultima parola sulla vita in comune: abbiamo un dovere etico di lasciare a chi verrà dopo di noi uno sguardo più positivo sul mondo e sull' uomo. Ma perché tutto ciò non resti scritto sulla carta ma diventi vita, occorre un nuovo umanesimo, una nuova stagione educativa dove ci si educhi tutti, giovani bambini e adulti, ad una economia della sobrietà, dove si impari che la felicità umana non sta nel consumare più merci ma nel godere, tutti assieme, di più beni collettivi, sociali, ambientali e relazionali.

Gli illuministi italiani del Settecento avevano capito e posto in cima all' agenda di riforma dell' Italia che la felicità è pubblica, perché o è di tutti o non è di nessuno. Oggi ci stiamo accorgendo, e pagando a caro prezzo, quanto quella profezia settecentesca fosse vera, quando le sfide ambientali, il terrorismo, l' energia, l' emigrazione ci dicono che ancor più nell' era della globalizzazione non si può essere felici da soli, contro gli altri. In questa sfida la grande tradizione cooperativa può e deve ancora dire molto, ne va della qualità della vita dentro e fuori i mercati dei prossimi decenni.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Repubblica, sezione Firenze il 18/09/2010

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La scommessa dei nuovi imprenditori

di Luigino Bruni pubblicato su Repubblica, sezione Firenze il 18/09/2010 C' è un aspetto bizzarro nei dibattiti che hanno fatto seguito alla crisi di questi ultimi due anni: si mette in discussione tutto, ma più nessuno oggi parla seriamente di mettere in discussione la sola cosa veramente importa...
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L’euro è in questi giorni sotto attacco da parte degli speculatori. Abbiamo chiesto un parere sulla situazione agli economisti Luigino Bruni e Stefano Zamagni

La crisi dell’euro. Mancanza di “Comunità” e nodi che vengono al pettine

di Antonella Ferrucci

Luigino Bruni, può spiegarci cosa sta succedendo?
Purtropo quello che sta succedendo dimostra che l’Europa non è ancora una “comunità” di popoli e di stati. Come è noto, le banche centrali dei singoli paesi sono per statuto prestatori d’ultima istanza cioè, in caso di attacchi speculativi, in caso di gravi crisi dello stato, devono intervenire con le riserve per evitare effetti cumulativi (è sufficiente ricordare quanto accadde in Italia nel 1993 quando Ciampi era governatore della Banca d’Italia e dovette ricorrere alla svalutazione della Lira).
La Banca Centrale Europea per statuto non ha voluto svolgere questa funzione per paura che paesi più deboli abusassero di questa funzione. Allora davanti alla crisi della Grecia invece di intervenire tempestivamente come fa una Banca Centrale in uno stato in questi casi, è intervenuta nel giro di un mese dopo mediazioni e compromessi e questo ha reso completamente inefficace l’intervento tardivo di salvataggio; ora quindi ora siamo in pieno attacco speculativo nei confronti dell’euro senza avere gli strumenti per poter reagire in modo adeguato.

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Quindi o l’Europa diventa veramente una comunità e ragiona come se fosse un popolo, oppure da questa crisi non ne usciamo e l’euro mostra soltanto, come ogni moneta, che dietro l’unità monetaria c’è bisogno di qualcosa di più sul piano politico e della solidarietà. La fragilità dell’euro è semplicemente una foto di una fragilità politica dell’Europa ed è su questo piano che dobbiamo reagire e non solo sul piano tecnico e finanziario.

Luigino_Bruni_03C'è altro che lei vede sotto a questa crisi?
Certo, detto questo è anche vero che sotto a questa crisi c’è anche un problema reale: l’occidente è troppo indebitato, dall’America all’Europa e siccome le banche non fanno altro che spostare il debito da un soggetto all’altro, tutto ciò è alla lunga insostenibile. Questa crisi si espanderà presto a dollaro e sterlina e saremo costretti ad una svalutazione mondiale e globale. Questo significherà riadeguare i nostri consumi e stili di vita ai redditi reali e non alla finanza gonfiata. Ce la faremo a superare questo momento senza troppi traumi? In questo momento ho dei dubbi, ma voglio essere ottimista.

Professor Zamagni, l’Unione Europea ha delle responsabilità in tutto questo.
Si, in questa vicenda la responsabilità dell’Unione Europea è forte e le possiamo attribuire una serie di omissioni.

  • La prima: non ha pensato a creare nei tempi precedenti alla crisi un fondo di garanzia tipo Fondo Monetario Europeo per far fronte a emergenze come questa.
  • La seconda: non ha mai creato una o più agenzie di rating europee: le agenzie autorizzate a emettere giudizi di meritorietà sono tutte americane (Standard & Poor's, Moody's e Fitch Ratings). Il risultato è sotto gli occhi di tutti: è ovvio che gli Stati Uniti abbiano interesse a destabilizzare l’euro e di conseguenza è ovvio che le agenzie americane tendano a diffondere notizie che abbiano lo stesso obiettivo.
  • La terza omissione: dopo aver creato la BCE, l’Unione Europea non ha mai provveduto ha creare una autorità europea correlata per sovrintendere alle politiche reali (non Zamagni_ridmonetarie): questo fa si che gli squilibri a livello finanziario vadano ineluttabilmente a ripercuotersi sul mondo delle imprese (con la perdita dei posti di lavoro ecc).


Cosa altro vorrebbe aggiungere sulle cause che ci hanno portato alla crisi di oggi.

Che possiamo individuare altri due “errori” che hanno prodotto le conseguenze che oggi vediamo:

  • Il primo è di natura tecnico-economica e qui gli economisti hanno una grossa responsabilità morale perché l’errore è di “impostazione teorica”. Si è supposto in pratica che il rischio finanziario fosse di natura “esogena”, cioè che con l’aumentare delle transazioni il rischio finisse per annullarsi, mentre anche uno studente di economia del primo anno sa che il rischio è di natura “endogena”: il rischio cioè aumenta con l’aumentare delle transazioni!
  • Il secondo errore è di natura etica: dopo aver sbeffeggiato l’etica per anni, sostenendo che l’economia non ha bisogno di lezioni dall’etica, ci si è resi conto dell’errore che si era commesso: si è trasferito il rischio dalle banche ai risparmiatori sparsi per il mondo senza tenere conto che la norma etica esige che il trasferimento del rischio possa avvenire solo se chi lo riceve ha spalle robuste o meglio ancora “più robuste” rispetto al soggetto dal quale il rischio proviene: quello che è avvenuto, si capisce, è l’esatto contrario: le banche hanno trasferito il rischio ai risparmiatori pur sapendo che non avrebbero potuto gestirlo. Mettendo tutto questo insieme si può avere una chiave di lettura della situazione attuale
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L’euro è in questi giorni sotto attacco da parte degli speculatori. Abbiamo chiesto un parere sulla situazione agli economisti Luigino Bruni e Stefano Zamagni

La crisi dell’euro. Mancanza di “Comunità” e nodi che vengono al pettine

di Antonella Ferrucci

Luigino Bruni, può spiegarci cosa sta succedendo?
Purtropo quello che sta succedendo dimostra che l’Europa non è ancora una “comunità” di popoli e di stati. Come è noto, le banche centrali dei singoli paesi sono per statuto prestatori d’ultima istanza cioè, in caso di attacchi speculativi, in caso di gravi crisi dello stato, devono intervenire con le riserve per evitare effetti cumulativi (è sufficiente ricordare quanto accadde in Italia nel 1993 quando Ciampi era governatore della Banca d’Italia e dovette ricorrere alla svalutazione della Lira).
La Banca Centrale Europea per statuto non ha voluto svolgere questa funzione per paura che paesi più deboli abusassero di questa funzione. Allora davanti alla crisi della Grecia invece di intervenire tempestivamente come fa una Banca Centrale in uno stato in questi casi, è intervenuta nel giro di un mese dopo mediazioni e compromessi e questo ha reso completamente inefficace l’intervento tardivo di salvataggio; ora quindi ora siamo in pieno attacco speculativo nei confronti dell’euro senza avere gli strumenti per poter reagire in modo adeguato.

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La crisi dell’euro. Mancanza di “Comunità” e nodi che vengono al pettine

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Una riflessione sulle parole del Papa all'ostello della Caritas di Roma - Intervista di Radio Vaticana a Luigino Bruni

Riscoprire nella carità "la forza propulsiva dello sviluppo". L'invito di Benedetto XVI, lanciato domenica scorsa durante la sua visita all'ostello Caritas della Stazione Termini di Roma, hanno avuto un'eco persistente. Tuttavia, riuscire a coniugare questa indicazione del Pontefice con i criteri che regolano l'economia è possibile solo se - come ripete spesso il Papa - è la persona umana e non l'interesse ad essere posta al centro dei mercati e della finanza. Una convinzione che il prof. Luigino Bruni, docente di Economia politica all'Università di Milano-Bicocca, ribadisce al microfono di Fabio Colagrande:

"E’ nella persona che agisce, la carità. E’ nella persona, non è nelle strutture. Quindi, l’idea che se l’economia dimentica che l’elemento propulsore - ciò che cambia, ciò che innova e ciò che quindi diventa la misura della verità e della giustizia di un sistema economico - è la persona umana e non sono i capitali, non sono le istituzioni, non sono la finanza, eccetera, questa economia alla lunga esce dall’umano, non è più umana. Quindi, io credo che questo richiamo del Papa sia un appello che richiama l’economia al suo umanesimo, cioè: o l’economia è aperta alla carità, cioè all’amore pieno, totale, che ha portato il cristianesimo, oppure l’economia non va semplicemente in crisi: diventa disumana. E il Papa ci ricorda: si esce da questa crisi, da ogni crisi, con la carità, che è l’eccedente, che è il di più, che è la persona capace di andare oltre il dovuto per aprirsi alla gratuità."

Citando il secondo capitolo della Caritas in veritate, il Papa ha ricordato: “La carità è il principio non solo delle micro-relazioni, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici”. E’ una frase, questa, che è anche un appello alle istituzioni …

"Sicuramente. E’ un appello alle istituzioni ed è un appello alle persone che operano nelle istituzioni, perché se le macro-relazioni non sono aperte alla carità, sono semplicemente aperte a qualcosa che è contro di essa. In altre parole: non c’è nulla di neutro in economia. Se l’economia è luogo di vita umana, non è possibile immaginare un ambito dove si possa agire in modo neutrale dal punto di vista etico. O si è per la persona, o si è per la giustizia, o si è per l’ingiustizia e, ovviamente, per i soprusi. Quindi, questo invito che le macro-relazioni o sono improntate alla giustizia e alla carità o lo sono al non-amore e all’ingiustizia, è un messaggio di grande rilevanza per l’oggi."

Professor Bruni, il Papa ha invitato a riscoprire le dimensioni del dono e della gratuità in un mondo nel quale sembra prevalere la logica del profitto e della ricerca del proprio interesse. Ma la logica del profitto è di per sé negativa, sempre?

"Assolutamente no. Intanto, va inteso bene che cos’è la gratuità, perché noi lo confondiamo oggi con “gratis”. La gratuità è un prezzo infinito, non è un prezzo zero, è qualcosa che ha un valore talmente alto che non può essere pagato con denaro, e quindi solo il dono può essere una risposta. La gratuità è un "come si agisce" in economia e nella vita, non un "che cosa si fa". E' il modo in cui vivo la vita economica che mi dice la gratuità e quindi non è da associare al regalo, non è da associare – dicevo prima – al termine “gratis”. Allora, non è vero che esiste una opposizione tra profitto e gratuità. Ovviamente, se il profitto viene inteso come il fine dell’economia, come lo scopo dell’azione economica, allora c’è un’opposizione, perché il profitto è un indicatore di efficienza, è un segnale di ricchezza prodotta, ma non può essere lo scopo ultimo. Se invece il profitto è una delle tante variabili dell’economia, è un indicatore di efficienza, allora perché no? Anzi: senza profitto c’è perdita, e un’economia che non crei profitti alla lunga distrugge la ricchezza e non penso che nessuno di noi voglia un’economia che distrugge ricchezza invece di crearla. Quindi, la gratuità è compatibile con il profitto, purché il profitto non sia l’unico fine dell’azione economica e sia un indicatore di qualcosa di più ampio che si chiama – appunto – “valore aggiunto”, “ricchezza”, “efficienza”."

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Professor Bruni, il Papa ha invitato a riscoprire le dimensioni del dono e della gratuità in un mondo nel quale sembra prevalere la logica del profitto e della ricerca del proprio interesse. Ma la logica del profitto è di per sé negativa, sempre?

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Attraverso la venerazione e l'emarginazone del corpo la società di oggi tenta di negare fragilità e vulnerabilità

di Luigino Bruni

Mai come in questi anni in Occidente il corpo riceve cure e attenzioni.  Il giro d’affari che ruota attorno alla cura del corpo (prodotti, massaggi, beauty farm, chirurgia estetica, fitness, lampade abbronzanti, farmaci dimagranti, ecc.) è impressionante: circa 15 miliardi di euro annui, per la sola Italia, ed è in continuo aumento. La cura del corpo sta diventando un vero culto, con i suoi riti, liturgie, templi, sacerdoti. Ma se guardiamo con attenzione a questo fenomeno ci accorgiamo che la questione è complessa, e presenta lati oscuri. Innanzitutto la cura del corpo che cerchiamo è soprattutto quella del nostro corpo, o di quello dei nostri cari. Dei corpi degli altri ci si interessiamo solo se belli, giovani, sani, in forma, attraenti, e se gli altri sono i nostri famigliari.

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Il consumismo, infatti, sta sempre diventando una religione che promette l’eternità: la mia attuale auto tra qualche mese non sarà più nuova, ma posso acquistarne un’altra identica (e un po’ migliore), con l’illusione di una auto eternamente nuova. Così con tutti i prodotti, corpo incluso: con le cure, i prodotti, la chirurgia vorremmo sconfiggere il tempo e l’invecchiamento.  Ma prima o poi il tempo della malattia e della fragilità, nostra e degli altri, arriva, e questa cultura non ci aiuta ad affrontarla. Ecco quindi emarginato il corpo malato, fragile, brutto, vecchio, morto: non si vedono più funerali nelle nostre città. Da bambino sono cresciuto circondato da vita, e da morte, che era una dimensione della vita: le nostre case ospitavano la vita e la morte, e si cresceva un po’ riconciliati con essa (con la morte ci si deve riconciliare per tutta la vita).

La stessa assenza del corpo la ritroviamo nei social network (facebook, ad esempio): se ci si limita ad “incontrare” “persone” costruite, virtuali, e non incontriamo invece l’altro con la sua corporeità complicata, ambivalente, queste splendide invenzioni potrebbero portarci alla lunga fuori dall’umano, poiché non c’è umano senza corpo. E’ il corpo che dice soprattutto cosa siamo e dove siamo, è il corpo che ci fa distinti e diversi davvero l’uno dall’altra/o, e che dice a noi e agli altri i nostri limiti. Emarginare, o venerare, il corpo sono dunque due lati della stessa medaglia: l’illusione che si possa vivere bene senza fare i conti con la fragilità e con la vulnerabilità, nostra e degli altri.

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Attraverso la venerazione e l'emarginazone del corpo la società di oggi tenta di negare fragilità e vulnerabilità

di Luigino Bruni

Mai come in questi anni in Occidente il corpo riceve cure e attenzioni.  Il giro d’affari che ruota attorno alla cura del corpo (prodotti, massaggi, beauty farm, chirurgia estetica, fitness, lampade abbronzanti, farmaci dimagranti, ecc.) è impressionante: circa 15 miliardi di euro annui, per la sola Italia, ed è in continuo aumento. La cura del corpo sta diventando un vero culto, con i suoi riti, liturgie, templi, sacerdoti. Ma se guardiamo con attenzione a questo fenomeno ci accorgiamo che la questione è complessa, e presenta lati oscuri. Innanzitutto la cura del corpo che cerchiamo è soprattutto quella del nostro corpo, o di quello dei nostri cari. Dei corpi degli altri ci si interessiamo solo se belli, giovani, sani, in forma, attraenti, e se gli altri sono i nostri famigliari.

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Venerare o emarginare il corpo: due lati della stessa medaglia

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Economia civile e di comunione

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.1/2010

L’economia civile è una tradizione di pensiero che vede il mercato e l’impresa non come il regno dei soli interessi individuali ma come una faccenda di reciprocità e di fraternità. Solo se leggiamo l’economia in questo modo è possibile dire che l’Economia di Comunione (Edc) è veramente economia, e non un’esperienza marginale che imprenditori buoni portano avanti per tappare i buchi dell’economia che conta. È una novità non inquadrabile nello schema dualistico “for-profit” e “non-profit”, tipico della tradizione capitalistica.

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Quando la leggiamo dalla prospettiva culturale dell’economia civile, l’Edc diventa il paradigma di quelle imprese “for project” (né “per”, né “contro” il profitto) tipiche dell’economia civile, in cui gli imprenditori sono costruttori di progetti condivisi, nei quali il profitto è solo un elemento.

 Al tempo stesso, l’Edc e la spiritualità dalla quale nasce ci hanno fornito anche le categorie teoriche per dare contenuto all’economia civile: reciprocità, gratuità, fraternità, beni relazionali. Parole che abbiamo “imparato” anche osservando la vita degli imprenditori, dei lavoratori, dei poveri del progetto Edc. Quindi senza l’esperienza e la spiritualità dell’Edc probabilmente (e almeno per la mia parte) il contenuto teorico dell’economia civile sarebbe oggi più povero e certamente diverso; senza l’elaborazione dell’economia civile l’Edc avrebbe minore dignità scientifica e sarebbe considerata una anomala eccezione, senza avere quel respiro universale che invece la prospettiva dell’economia civile le dona.

 

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Economia civile e di comunione

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.1/2010

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Economia civile e di comunione. Quali diversità?

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Intervista a Luigino Bruni

di Angelo Sconosciuto

pubblicato su Fermento (Quindicinale dell'Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni), anno 32°, n. 10 (15 novembre 2009)

L'anno scorso ha pubblicato, scritto a quattro mani, «Benedetta economia», libro nel quale la domanda di fondo riguardava il posto che hanno nell'economia la gratuità, le “vocazioni”, “i carismi”, le motivazioni intrinseche. Luigino Bruni insegna Economia politica a Milano-Bicocca è Co-editor della International Review of Economics (IREC), nonché Membro del comitato editoriale delle riviste: "Nuova Umanità", "Sophia" e "RES" e membro del comitato etico di Banca Etica. Ora insegna anche Economia politica  nell'Istituto Universitario Sophia a Loppiano ed è Coordinatore della commissione internazionale Economia di Comunione. Di lui trovi tutto su internet: anche un detto-programma di anonimo che fa riflettere: «La vita, la lezione più bella».

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Prof. Bruni, quale, secondo lei, l'autentica novità della Caritas in Veritate nell'ambito della dottrina sociale della Chiesa?

«In primo luogo, Benedetto XVI rivaluta e rilancia nel dibattito attuale il grande magistero sociale di Paolo VI, quando dice, già nell’introduzione, che la DSC non ha solo la Rerum Novarum come pietra miliare, ma anche la Populorum Progressio che rappresenta l’altro grande evento su cui poggia l’insegnamento sociale del Post-Concilio. E questa eredità e rivalorizzazione della Populorum Progressio non è solo dovuta al dato contingente del recente quarantesimo anniversario dell’Enciclica di Paolo VI, ma soprattutto ad una volontà esplicita di  Benedetto XVI di rilanciare nella DSC il grande tema del capitalismo, della giustizia mondiale e dello sviluppo dei popoli, temi forse restati un po sullo sfondo delle encicliche sociali recenti. Pertanto, riporre al centro i temi del progresso nell’età della globalizzazione, significa ridare centralità, all’interno della DSC, al grande tema della critica al capitalismo. Potremmo così riassumere questo primo elemento dell’Enciclica: se oggi vogliamo salvaguardare il contributo di civiltà tipico della tradizione civile e dell’etica del mercato (che sono frutto anche e soprattutto dell’umanesimo cristiano) diventa sempre più urgente una critica alla forma capitalistica che l’economia di mercato ha assunto negli ultimi due secoli.

Il secondo punto di novità è strettamente connesso con questo primo punto e ci viene enunciato già dalle prime righe dell’Enciclica, quando Benedetto XVI afferma che la Caritas, l’amore (eros, philia e agape) è fondamento sia della vita spirituale, ecclesiale e comunitaria, sia della vita economica e politica: essa “dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici” (n.2). Questa frase, a mio avviso, ha una portata rivoluzionaria. Infatti, una delle grandi costanti che risalgono al mondo greco e romano, è una visione dicotomica della vita: corpo - anima, spirituale - materiale, contemplazione - prassi, eros -agape. Questa visione dicotomica o dualista oggi è ancora molto forte nell’ambito economico e civile, quando si afferma, nella teoria e nella prassi, la contrapposizione tra gratuità e mercato, tra dono ed economia. Il Papa ci richiama, già dalle sue precedenti encicliche, a questa nuova unità: è l’amore, lo stesso amore, che può e deve ispirare il dono e il contratto, la famiglia e l’impresa, il mercato e la politica. Ecco quindi, che l’intero capitolo 3 dell’Enciclica è l’esigenza di una riunificazione della vita e si pone al cuore stesso del messaggio cristiano: l’incarnazione del Verbo ha superato per sempre la separazione fra sacro e profano, tra ambiti pienamente umani e non, e si può raggiungere la vita buona, la santità, certamente nella vita contemplativa e nella preghiera, ma anche facendo l’imprenditore e lavorando, o impegnandosi in politica per la propria gente. Si capisce quindi che se l’amore è la fonte sia del dono che del contratto, si può amare anche eseguendo la prestazione di un contratto. La gratuità non va associata quindi al gratis e al regalo, ma essa è una dimensione che accompagna tutte le azioni umane, e che quindi possiamo e dobbiamo ritrovare nella vita ordinaria.»

Tra i commenti della prima ora, c'è stato quello di Stafano Fontana che ha osservato: "L'enciclica sociale Caritas in veritate trasforma la dottrina sociale della Chiesa nientemeno che nel rapporto tra la Chiesa e il mondo". Penso a quanto ha scritto Giovanni Paolo II nella Sollicitudo al nr.41 e chiedo: l'ambito le sembra più ampio o più ristretto?

«Mi sembra una tesi suggestiva ma un po' forte: certamente ci sono degli elementi nuovi, ma c'è soprattutto una forte continuità con le encicliche sociali del Novecento. Ci sono delle novità certamente nella visione dell'economia e del mercato, come ho appena detto».
Annunciata per il 40° della Populorum progressio, questa enciclica è stata pubblicata a ridosso di una riunione del G8, che invece affrontava le questioni della crisi economica mondiale che ora giunge al suo secondo anno di vita. E' stata considerata da una lettura frettolosa indirizzata ai grandi della terra, mentre papa Benedetto l'ha inviata a "tutti gli uomini di buona volontà". Quali impegni questi ultimi traggono da quelle pagine?
«Non so se l'abbiamo neanche letta, anzi sono quasi certo di no. Ciò non significa che sia irrilevante, ovviamente, ma l'enciclica avrà effetti sui "grandi" e sui "piccoli" della terra se i cristiani vivono ogni giorno quelle realtà lì scritte. Le encicliche hanno forza perché sono scritte con il sangue dei martiri, con la vita di coloro che conferiscono verità storica ai principi enunciati. Se l'enciclica darà vita ad una nuova stagione di economia civile e di comunione, allora sarà influente; altrimenti resterà un documento, importante ma sempre un testo di carta».


La Chiesa non è contro il mercato, purchè esso non si riduca alla ricerca del profitto e ammetta la presenza di più forme economiche, ed anche di più Stato e società civile. Sembra, questo, il messaggio della Caritas in veritate: quale distanza esiste tra il nostro vivere quotidiano e questa  visione della società?

«Detto in altre parole, chi, come la Chiesa, apprezza e valorizza l’economia di mercato (soprattutto quando la confrontiamo con altre forme come il collettivismo e il comunitarismo o l’economia gerarchica–feudale) deve duramente criticare l’avvento di una società di mercato, cioè una vita in comune regolata unicamente dal mercato e dai suoi meccanismi e strumenti (concorrenza, contratti incentivi, ecc.). Senza mercato, quindi, non c’è vita buona, con solo mercato la vita è ancor meno buona, poiché vengono emarginati e atrofizzati altri principi e meccanismi fondativi della vita in comune, che non sono riconducibili al contratto, quali il dono e la reciprocità. Ma se, come ricorda l'enciclica, la gratuità è la dimensione fondativa dell’umano, ne deriva coerentemente che il profitto non può essere lo scopo dell’impresa, di nessuna impresa, non solo di quelle no-profit, perché quando ciò accade (come nella recente crisi finanziaria) tutto nell’attività economica e d’impresa diventa strumentale: persona, natura, rapporti, e nulla ha valore intrinseco. Ecco quindi superata l’altra grande dicotomia dell’economia attuale: impresa no-profit, impresa for-profit, o l’idea del terzo settore, poiché ogni impresa in quanto tale ha una vocazione civile e non solo quelle operanti nel  terzo settore o nel no-profit. Di qui il riferimento del Papa all’economia civile e di comunione (n.46), il cui significato si coglie solo nel quadro complessivo dell’Enciclica».

Alcuni media hanno parlato dell'enciclica della crisi economica. Poniamo che sia anche così, quando invece, ci si spende espressamente per lo "sviluppo umano integrale nella verità e nella carità". Ma passata questa crisi economica, che rappresenta il contingente, cosa resterà di queste pagine quale patrimonio perenne?

«Questa enciclica è stata pensata e scritta prima della crisi, poiché,come è noto, doveva uscire per il 40° anniversario della Populorum progressio: quindi non è una risposta al settembre 2008. Per questo durerà ben oltre questa crisi finanziaria ed economica, perché è una risposta alla crisi antropologica che è sotto queste crisi. In conclusione, all'inizio dell'enciclica il Papa si chiede come attualizzare le domande e le sfide della Populorum Progressio (n.8). Alla luce dell’Enciclica, resta ancora attuale l’idea che lo sviluppo sia la condizione necessaria per la pace, ma in questi quarant’anni abbiamo capito che non basta lo sviluppo economico per evitare le guerre, occorre anche la comunione dei beni, occorre la solidarietà tra i popoli, dal momento che le recenti guerre e il terrorismo mostrano l’insostenibilità di un sistema capitalistico che produce crescenti disuguaglianze. Per questo credo che potremmo declinare uno dei messaggi centrali dell’Enciclica come “La comunione è nome nuovo della pace”: credo che la comunione sarà anche la sfida dell’economia e della pace dei prossimi anni».

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Intervista a Luigino Bruni

di Angelo Sconosciuto

pubblicato su Fermento (Quindicinale dell'Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni), anno 32°, n. 10 (15 novembre 2009)

L'anno scorso ha pubblicato, scritto a quattro mani, «Benedetta economia», libro nel quale la domanda di fondo riguardava il posto che hanno nell'economia la gratuità, le “vocazioni”, “i carismi”, le motivazioni intrinseche. Luigino Bruni insegna Economia politica a Milano-Bicocca è Co-editor della International Review of Economics (IREC), nonché Membro del comitato editoriale delle riviste: "Nuova Umanità", "Sophia" e "RES" e membro del comitato etico di Banca Etica. Ora insegna anche Economia politica  nell'Istituto Universitario Sophia a Loppiano ed è Coordinatore della commissione internazionale Economia di Comunione. Di lui trovi tutto su internet: anche un detto-programma di anonimo che fa riflettere: «La vita, la lezione più bella».

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Bruni: «La comunione è il nuovo nome della pace»

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C’è bisogno di responsabilità anche nell’economia, il cui compito è, in ultima analisi, contribuire alla serenità delle generazioni presenti e future

intervista di Simone Baroncia a Luigino Bruni

pubblicato su www.giovanipace.org , settembre 2009

Quali rapporti ci sono tra l’agape, l’economia ed il bene comune?

La tradizione italiana della pubblica felicità concepiva l’economia in vista del bene comune. Il bene pubblico, che corrisponde all’inglese common (bene collettivo) è un rapporto diretto tra gli individui e il bene consumato. Il bene comune è esattamente il contrario: è un rapporto diretto tra persone, mediato dall’uso dei beni in comune. Nella Dottrina Sociale della Chiesa il bene comune è inteso come la “dimensione sociale e comunitaria del bene morale”, e per questo è “indivisibile perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo”, come afferma il n. 164 del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa. L’agape, una forma di amore che fa la sua comparsa con il cristianesimo, nella definizione moderna di bene comune è stata accantonata, relegandola, da una parte, alla sfera privata della famiglia; dall’altra è stata affidata allo Stato attraverso il welfare state, oppure, nella cultura anglosassone, alla filantropia. Due forme pubbliche che hanno raccolto solo una parte della ricchezza della dimensione dell’amore agapico. Una sfida della civiltà è quella di riportare la forma dell’agape al centro della vita della città.

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Ma la storia economica può essere letta in versione agapica?
La storia dell’economia non è solo storia di contratti, né solo storia di intervento pubblico e di azioni filantropiche. La storia che va dai Monti di Pietà dei francescani nel Medioevo all’economia di comunione ed al commercio equo e solidale di oggi non può essere compresa nella sua pienezza, se non si prende in considerazione l’agape che è alla base della loro nascita e sviluppo. In questo senso credo che vada rivisto in funzione agapico anche il principio di sussidiarietà, finora visto solo in versione verticale, cioè nel rapporto tra i diversi livelli della pubblica amministrazione. Credo necessaria una nuova declinazione di questo principio fondamentale della vita civile.

Come?
Non faccia il contratto ciò che può fare l’amicizia, e non faccia l’amicizia ciò che può fare l’agape. E' bene ricordare un giurista aquilano discepolo di Antonio Genovesi, Giacinto Dragonetti, che nell’introduzione del volume Delle virtù e dei premi (1766) scrisse: “Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù”. Per Dragonetti la virtù è associata al bene pubblico e l’agape è la pietra angolare della civitas.

Quindi l’agape è collegata alla felicità, che è il fondamento dell’economia civile?
L’economia civile è un’antica tradizione italiana, che ha la sua origine nell’umanesimo civile. Nel ‘400 italiano le regioni della Toscana, Umbria e Marche furono molto importanti per lo sviluppo economico e commerciale; poi nel secolo XVIII a Napoli ci fu una nuova primavera con il pensiero economico di Antonio Genovesi, che diceva che lo scopo ultimo dell’economia non è la ricchezza, ma la felicità pubblica. In questa prospettiva, la crescita di un Paese è importante solo ed in quanto migliora il benessere delle persone. Se il PIL (Prodotto Interno Lordo) che cresce dovesse impoverirci, perché si inquina l’ambiente o i rapporti interpersonali peggiorano, l’economia - direbbe Genovesi - fa del male, perché l’economia è buona quando rende la qualità della vita migliore. Quindi oggi l’economia civile sta tornando di moda in un mondo di scarsità di beni ambientali e di beni sociali come il nostro, dove abbiamo molte merci e pochi rapporti. Questa antica tradizione italiana è molto importante e molto attuale. Con altri autori la sto rilanciando nella prassi e nella teoria economica contemporanea.

Un ritorno alla felicità pubblica, che è una parola non più di moda…
Non è di moda, perché si è perso il significato pubblico della felicità. Nei giorni del terremoto in Abruzzo si è capito cosa voglia dire quando un Paese ha anche un corpo. Quando siamo nella normalità, nell’abbondanza ci dimentichiamo che il Paese è una comunità, un corpo, che la felicità quindi riguarda tutti. Quando c’è una calamità naturale si risente questa appartenenza ad una dimensione più grande della nostra famiglia. La felicità pubblica dice che questa dimensione deve essere la normalità e non l’eccezione. Pensare il Paese come una famiglia, dove stiamo bene tutti o non sta bene nessuno, dove esistono molti interessi comuni rispetto ai conflitti di interesse. Invece, negli ultimi decenni, si è sfilacciato il tessuto sociale che teneva insieme il Paese e oggi si guarda l’altro come un rivale e non come un alleato. Questo è un segnale di decadenza che va assolutamente rettificato.

La felicità pubblica implica anche il concetto del dono
.
Il dono con le sue ambivalenze è un’esperienza complessa: il dono in un certo senso obbliga. Tale concetto bisogna metterlo in conto in una civiltà che non fa più doni o che non li vuole più accettare, purché non siano gadget od offerte nei saldi. Nessuno vuole più il dono vero, perché ha paura di esporsi all’altro. E' una civiltà che si intristisce. Il grande segnale di qualcosa che non funziona oggi è la mancanza di gioia, tipica di un mondo dove la dimensione del rapporto con l’altro era importante. Ma sono ottimista: andiamo avanti, ce la faremo.

Cosa ha a che fare con tutto questo l’economia di comunione?
Ha a che fare perché è una parte dell’economia civile, perché punta alla felicità pubblica, si occupa di quelle parole chiave che hanno fatto l’umanesimo cristiano e civile. L’Economia di Comunione è un progetto importante ed innovativo di imprenditori, lavoratori, dirigenti, consumatori, risparmiatori, cittadini, studiosi, operatori economici, lanciato da Chiara Lubich nel maggio del 1991 a San Paolo in Brasile. Obiettivo: costruire e mostrare una società umana dove, ad imitazione della prima comunità di Gerusalemme, “nessuno tra loro è indigente”. Le imprese sono l’asse portante del progetto. Queste si impegnano liberamente a mettere in comunione i profitti secondo tre scopi e con pari attenzione: aiutare le persone svantaggiate, creando nuovi posti di lavoro e sovvenendo ai bisogni di prima necessità, con progetti di sviluppo; creare un’impresa, che deve restare efficiente e competitiva pur se aperta alla gratuità; diffondere la cultura del dare e della reciprocità. L’economia di comunione nasce da una spiritualità di comunione, vissuta nella vita civile; coniuga efficienza e solidarietà; punta sulla forza della cultura del dare per cambiare i comportamenti economici; non considera i poveri come un problema, ma come una risorsa preziosa.

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C’è bisogno di responsabilità anche nell’economia, il cui compito è, in ultima analisi, contribuire alla serenità delle generazioni presenti e future

intervista di Simone Baroncia a Luigino Bruni

pubblicato su www.giovanipace.org , settembre 2009

Quali rapporti ci sono tra l’agape, l’economia ed il bene comune?

La tradizione italiana della pubblica felicità concepiva l’economia in vista del bene comune. Il bene pubblico, che corrisponde all’inglese common (bene collettivo) è un rapporto diretto tra gli individui e il bene consumato. Il bene comune è esattamente il contrario: è un rapporto diretto tra persone, mediato dall’uso dei beni in comune. Nella Dottrina Sociale della Chiesa il bene comune è inteso come la “dimensione sociale e comunitaria del bene morale”, e per questo è “indivisibile perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo”, come afferma il n. 164 del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa. L’agape, una forma di amore che fa la sua comparsa con il cristianesimo, nella definizione moderna di bene comune è stata accantonata, relegandola, da una parte, alla sfera privata della famiglia; dall’altra è stata affidata allo Stato attraverso il welfare state, oppure, nella cultura anglosassone, alla filantropia. Due forme pubbliche che hanno raccolto solo una parte della ricchezza della dimensione dell’amore agapico. Una sfida della civiltà è quella di riportare la forma dell’agape al centro della vita della città.

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Riscopriamo l'economia civile

C’è bisogno di responsabilità anche nell’economia, il cui compito è, in ultima analisi, contribuire alla serenità delle generazioni presenti e future intervista di Simone Baroncia a Luigino Bruni pubblicato su www.giovanipace.org , settembre 2009 Quali rapporti ci sono tra l’agape, l’economia ed...
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Abbiamo parlato tante volte nell'EdC di dare, di cultura del dare, di dono: in questo breve testo Luigino Bruni approfondisce il legame che esiste tra dono e per-dono.

Dono e Perdono

di Luigino Bruni

Alba_del_perdonoIl perdono è una delle esperienze umane più profonde e universali. Ma nonostante ciò credo che si rifletta ancora troppo poco sulla natura di questa esperienza fondamentale, anche se autori come Jankelevitch e Derrida hanno dedicato al perdono pagine memorabili.
Il punto di partenza di un discorso sul perdono è che esiste un rapporto molto profondo fra dono e perdono, ed esiste in molte lingue. Nell’inglese ad esempio è molto bella la tensione fra forgive e forget che ci dà una prima idea di cosa sia veramente il perdono: non è un atto che si compie per togliersi un peso, per non soffrire più, per dimenticare. Non è un prendere (get) ma un dare (give). Questo perdono, il perdono per dimenticare, è molto comune, potente e importante, ma è  insufficiente per una buona vita in comune.

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C’è poi un secondo tipo di perdono, che si esprime con le parole: “Ti perdono veramente, ma questa è l’ultima volta”. E’ questo un perdono che contiene già una certa gratuità (si perdona veramente), che è molto comune nell’amicizia, nei rapporti di coppia in particolare, dove esiste una reciprocità diretta “io-tu”. Anche questo è un tipo di perdono importante, ma neanche questo perdono esaurisce l’esperienza del perdono.

Se infatti dono e perdono stanno assieme (non c’è l’uno senza l’altro) allora potremmo sintetizzare così una terza dimensione dell’esperienza solo umana e forse più che umana (come dice Derrida) del perdono: “Ti perdono e continuo a credere nel rapporto con te con tutte le sue fragilità”. In altre parole, è come se dicessimo non all’altro ma a noi stessi: “Ti perdono pronto a perdonarti domani se dovessi ferirmi ancora”.

Questo è veramente “per-dono”. Questo perdono ha poi una caratteristica straordinaria. Diversamente dalle due forme di perdono precedenti (che potremmo anche associare la prima all’eros e la seconda alla philìa) questa terza forma di perdono, che richiede la forza dell’agape, cura la fragilità dell’altro che può ritrovarsi a non sbagliare più proprio perché il nostro dono l’ha guarito dentro. E’ un perdono terapeutico.

E’ la mancanza di “questo” perdono che spesso porta la fine di coppie, di comunità, di amicizie importanti, dove ci si lascia perché non si è capaci di per-donare veramente, di riscommettere e rischiare di nuovo in quel rapporto. Ed è invece la sua presenza che fa capaci di superare le grandi prove della vita.

Ma dove si impara questo perdono? Dove sono le scuole? Chi sono i maestri?

Infine, nella vita servono tutti e tre i tipi di perdono perché ciascuno svolge una funzione diversa nelle varie fasi della vita.  Ma il terzo per-dono, quello dell’agape, è quello più prezioso, perché raro e non spontaneo; ma quando la vita in comune è giocata soltanto sui registri degli altri due perdoni, manca la gioia che è sempre il grande segno che accompagna il per-dono , di chi lo riceve e di chi lo dona.

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Abbiamo parlato tante volte nell'EdC di dare, di cultura del dare, di dono: in questo breve testo Luigino Bruni approfondisce il legame che esiste tra dono e per-dono.

Dono e Perdono

di Luigino Bruni

Alba_del_perdonoIl perdono è una delle esperienze umane più profonde e universali. Ma nonostante ciò credo che si rifletta ancora troppo poco sulla natura di questa esperienza fondamentale, anche se autori come Jankelevitch e Derrida hanno dedicato al perdono pagine memorabili.
Il punto di partenza di un discorso sul perdono è che esiste un rapporto molto profondo fra dono e perdono, ed esiste in molte lingue. Nell’inglese ad esempio è molto bella la tensione fra forgive e forget che ci dà una prima idea di cosa sia veramente il perdono: non è un atto che si compie per togliersi un peso, per non soffrire più, per dimenticare. Non è un prendere (get) ma un dare (give). Questo perdono, il perdono per dimenticare, è molto comune, potente e importante, ma è  insufficiente per una buona vita in comune.

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Dono e perdono

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Tre aspetti della crisi finanziaria

di Luigino Bruni
pubblicato su missionline.org il 26/02/2009

Le culture umane hanno da sempre sperimentato e conosciuto che la libido dell’eros e la libido del denaro sono due forze molto simili: sono essenziali per la vita e per la crescita delle comunità, ma se non gestite e regolate da istituzioni adeguate e forti fanno precipitare quelle stesse comunità nel caos. Ciò che vediamo in questo periodo con questa grave crisi finanziaria, economica e morale sono solo i frutti mortiferi di una economia e una finanza lasciate in balia delle proprie pulsioni senza regolazione comunitaria e sociale. Sta accadendo qualcosa di simile a ciò che accadrebbe in una comunità in cui l’intera socialità fosse giocata sul solo registro dell’eros, senza alcun riferimento alla philia, all’agape e alle loro tipiche istituzioni. La libido erotica e quella del denaro sono passioni forti, che vanno educate, gestite e – occorre ricordarlo – controllate, vivendo la bellissima virtù della prudenza, individuale e collettiva.

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Dopo questa premessa, vorrei soffermarmi su tre aspetti di questa crisi.
Il primo. Ciò che la presente crisi finanziaria sta mostrando è la radicale fragilità e vulnerabilità del capitalismo di terza generazione. Nel sistema economico tradizionale (dalle città medioevali all’Europa moderna) una crisi come quella attuale non era neanche pensabile. In quelle economie il consumo era fondato e legato alla produzione reale. Il reddito dei singoli e dei Paesi era un indicatore molto importante, perché diceva chiaramente e senza equivoci quanto una famiglia e un Paese potevano spendere e investire. Il reddito era il limite naturale del consumo e del risparmio. Il reddito non consumato veniva depositato, spesso (quando esistevano ed erano sicure), in banche dove, grazie all’interesse che il denaro maturava, il valore del capitale non si deteriorava nel tempo. In quel mondo, o capitalismo, le crisi economiche (come quella del ’29) potevano verificarsi solo per una crisi dell’economia reale (soprattutto fallimenti di imprese …), che producevano disoccupazione, e quindi una riduzione del reddito reale. Questo sistema economico tradizionale è entrato in crisi nel XX secolo, con la nascita del capitalismo finanziario, che ha cambiato radicalmente la natura del sistema economico e della nostra vita. Questo cambiamento ha prodotto alcune cose interessanti, ma ad un costo molto alto: ha reso il sistema economico tremendamente fragile. John M. Keynes è stato l’economista che più di tutti ha colto e denunciato, profeticamente (eravamo nel 1936), la natura finanziaria del nuovo capitalismo e la sua strutturale fragilità, un autore che oggi dovremmo tornare a leggere e a meditare profondamente. Le crisi come questa che stiamo vivendo sono quindi la regola, non l’eccezione del capitalismo finanziario, soprattutto oggi quando la globalizzazione amplifica gli effetti delle crisi. L’instabilità e la fragilità sono solo cioè l’altra faccia di un modello di sviluppo che consente ai cento dollari di reddito reale di diventare mille e oltre, senza alcun rapporto tra quel denaro e il lavoro umano.

Dovremo abituarci presto alle crisi come questa e ancora più devastanti? Temo di sì, almeno fino a quando questo capitalismo non evolverà in qualcosa di diverso. Nel breve periodo,  però, sarebbe necessario riaprire una riflessione profonda sul capitalismo, che non sia solo di tipo economico e finanziario, ma anche politico e culturale; una riflessione globale e mondiale che è ancora "ferma" agli accordi di Bretton Woods nel dopoguerra. Keynes, che era anche tra i promotori di quegli accordi, era convinto che data la nuova natura del capitalismo occorresse un nuovo “patto sociale”, nuove regole e nuove istituzioni (economico-politico) per gestire questa nuova realtà. IL FMI e la Banca Mondiale sono il risultato, molto parziale e in parte tradito, di quel nuovo patto. Negli ultimi decenni qualcosa si è mosso, e alla fine degli anni novanta la coscienza civile globale stava maturando la convinzione che il capitalismo richiedesse una diversa e più attenta governance. La Tobin tax, e il dibattito attorno ad essa, ha svolto una funzione di catalizzatore di un processo sociale che con il G8 di Genova del luglio 2001 raggiunse il suo massimo. L'11 settembre, poi, ha però deviato per anni l'attenzione della società civile internazionale dai problemi della nuova architettura del capitalismo finanziario, per orientarla sui temi della sicurezza e del terrorismo. Oggi ci accorgiamo che in questi setti anni di "distrazione" il processo è esploso (basta guardare i dati sull’amplificazione dell’indebitamento delle banche in questo ultimo decennio!), e stiamo improvvisamente prendendo coscienza che c'era un'altra "guerra" e un'altra "sicurezza" non meno gravi e urgenti dei controlli-passeggeri agli aeroporti, problemi che incombono minacciosamente sulla "post-economia di mercato" di tutte le famiglie del globo. Questa crisi attuale ci sta dunque dicendo drammaticamente che il "capitalismo finanziario" richiede una nuova Bretton Woods che ridisegni la nuova architettura del capitalismo di terza generazione, se vogliamo che queste crisi non facciano implodere il fragile sistema mondo. Speriamo solo che questi nuovi accordi siano questa volta democratici, che tengano conto seriamente dell’Africa, dell’Asia, e del Sud America.

E veniamo così al secondo punto. Con l’avvento del capitalismo finanziario la banca e la finanza hanno progressivamente mutato natura, trasformandosi sempre più in soggetti speculatori, il cui scopo principale è far profitti (e farne tanti!), smarrendo così giorno dopo giorno la funzione sociale che la banca e la finanza hanno da sempre svolto, e svolgono ancora. Le istituzioni bancarie e finanziarie sono indispensabili nell'economia moderna. Come ho avuto modo di dire anche sull’Osservatore Romano (28.9.08), la grave malattia del capitalismo contemporaneo è invece la progressiva trasformazione delle banche da istituzioni a speculatori. Lo speculatore è un soggetto il cui scopo è massimizzare il profitto. L'attività che svolge non ha alcun valore intrinseco, ma è solo un mezzo per far arricchire gli azionisti e i managers. L'economista Yunus, Nobel per la pace, fondatore della Grameen Bank ricorda sempre che nell'economia di mercato l'accesso al credito è un diritto fondamentale dell'uomo, poiché se questo diritto non è soddisfatto le persone non riescono a realizzare i propri progetti e a uscire dalle tante trappole della miseria. Se questo è vero allora la banca speculatrice deve essere l'eccezione e non la regola dell'economia di mercato, se non altro perché i prodotti che la banca gestisce sono sempre ad alto rischio, e, soprattutto, perché i capitali che essa rischia sono delle famiglie. Sono convinto che una riforma radicale che dovrebbe uscire da questa crisi è la trasformazione delle banche in istituzioni più vicine all’impresa nonprofit che all’impresa speculatrice, se è vero che la banca è un’istituzione che ha un vincolo di efficienza e di economicità, che deve salvaguardare gli interessi di molti soggetti. Non è certo un caso che, dai Monti di Pietà dei francescani del Quattrocento alle banche cooperative, la banca si è pensata anche come impresa senza scopo di lucro, proprio perché tanti erano gli interessi che doveva soddisfare. Ciò che quindi i fallimenti di questi giorni ci stanno insegnando è che la banca è un'istituzione con un grande valore sociale e con una grande responsabilità:  non può essere abbandonata al gioco rischioso della ricerca dei profitti.

E infine il terzo aspetto. Dietro questa crisi c'è anche una crisi morale, che riguarda anche il nostro rapporto con i beni e gli stili di vita. L'indebitarsi (negli USA ma sempre più in tutto il mondo opulento) ben oltre le possibilità reali di reddito, è una forma di doping simile a quella di cui sono preda i “giocatori d’azzardo” della finanza. Indebitarsi per il consumo è atto ad altro rischio, poiché mentre l’indebitamento per un investimento è sano e naturale, fondato sull’ipotesi che se l’investimento è buono il valore aggiunto remunererà anche l’interesse bancario, indebitarsi per vacanze esotiche o case di lusso può essere un atto simile a quello di Pinocchio che, seguendo i consigli del Gatto e la Volpe, seminava denaro sperando di vederlo un domani crescere moltiplicato sugli alberi. Nessuno, ovviamente, vuol negare che entro certi limiti il debito delle famiglie possa essere virtuoso per l'economia e per il bene comune. Ma è ancora più vero che la banca che presta troppo e alle persone sbagliate non è meno incivile di quella che presta troppo poco alle persone giuste. Se banchieri e consulenti finanziari si comportano come novelli Gatto e Volpe, tutti alla fine vivranno, diversamente dalle favole, “infelici e scontenti”.
Un’ultima considerazione. C'è un aspetto importante in tutta questa "bufera" che non viene mai sottolineato dai media. Chi in questi anni ha fatto investimenti etici (in Banca Etica, ad esempio, ma anche in tante banche cooperative) oggi si ritrova con un risultato al tempo stesso etico, economicamente vantaggioso e molto sicuro. Questa crisi sta rimettendo in discussione il sistema degli incentivi e dei valori in gioco, anche puramente economici. Come è avvenuto tante volte nella storia, un cambiamento climatico può determinare l'estinzione di grossi mammiferi e lo sviluppo di organismi più piccoli e agili, che nel precedente clima apparivano svantaggiati. Se questa crisi, nonostante la sua gravità e il grande dolore che sta procurando (i soldi sono importanti quando servono per poter vivere), può servire a dar vita ad un nuovo patto sociale planetario per una economia più etica, amicale e aperta alla gratuità, allora sarà stata una felix culpa. Se invece guardiamo nelle nostre comode case i dibattiti televisivi sulla crisi, alternando le notizie sui crolli di banca all’attesa per le colossali vincite all’enalotto, convinti che la colpa è soltanto dei cattivi Gatto e Volpe di Wall Streat o di Piazza Affari, allora tra qualche mese dimenticheremo tutto, e ci ritufferemo nel doping del consumo. Aspettando la prossima crisi.

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Tre aspetti della crisi finanziaria

di Luigino Bruni
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Tre aspetti della crisi finanziaria di Luigino Bruni pubblicato su missionline.org il 26/02/2009 Le culture umane hanno da sempre sperimentato e conosciuto che la libido dell’eros e la libido del denaro sono due forze molto simili: sono essenziali per la vita e per la crescita delle comunità, ma s...