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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/02/2014
Stiamo soffrendo tutti per carestie di comunione. Rischiamo di abituarci alla sua assenza, e così smettere di desiderarla. Le comunioni avvengono dentro comunità, ma non è necessariamente vero il contrario: possono esistere ed esistono comunità senza che tra le persone ci sia alcuna forma di comunione, dove i doni diventano obblighi, senza libertà e senza gratuità. Oggi gli studi sulla felicità e sul benessere soggettivo ci dicono con molta chiarezza che la principale causa di felicità delle persone è la vita di comunione, a partire da quella prima cellula di comunione che è la famiglia. Il ben-vivere dipende decisamente dalla qualità di rapporti comunionali a tutti i livelli, compresa quell’esperienza fondamentale di comunione che è il lavoro.
[fulltext] =>Non bisogna, infatti, commettere l’errore di pensare che la comunione sia solo possibile nei rapporti intimi e familiari: la comunione è la vocazione più profonda e vera degli esseri umani in tutti gli ambiti nei quali l’umano si esercita. Ci sono dimensioni della comunione talmente intime e spirituali che per descriverle avremmo bisogno della forza poetica di Dante e dei suoi geniali neologismi ("s’io m’intuassi come tu t’inmii", Paradiso, IX); ma ce ne sono altre, non meno decisive per la qualità della nostra vita, che senza richiedere la mutua inabitazione delle anime, hanno bisogno che ciascuno senta e consideri che gli altri concittadini legati e necessari alla propria felicità – l’Europa soffrirà sempre, finché da comunità non diventerà anche comunione.
È la comunione che ci consente di poter declinare i verbi della nostra esistenza in tutte le persone, in particolare la prima plurale (“noi”). Anche perché quando nella nostra sintassi manca la prima persona plurale, manca anche la seconda singolare, scompare il volto dell’altro, e ci si ritrova in comunità abitate da anonime e sole terze persone.
La comunione, per evitare che diventi “comunionismo”, va sempre declinata assieme a uguaglianza, libertà e gratuità. A differenza della comunità, la comunione richiede una certa uguaglianza, soprattutto quando dalla comunione dei beni si risale alla comunione tra le persone. È una uguaglianza in dignità, un riconoscersi “occhi negli occhi”, sapendo che l’altro è lì, dentro quel rapporto, perché anche lui come me ha liberamente scelto di esserci (e domani magari di uscirne), e lo ha scelto con gratuità. Per questo la comunione richiede il superamento degli status, e non è completa finché ciò non accade. La comunità può esistere e durare anche nelle società feudali e ineguali; la comunione richiede molto di più. E anche quando l’esperienza di comunione inizia all’interno di comunità non ugualitarie e castali, se quell’esperienza è autentica poco alla volta le mina dal di dentro e le trasforma. Come è accaduto nelle prime comunità cristiane e in quelle nate da grandi carismi religiosi e laici, dove la gente vi arrivava nobile o plebea, e subito si ritrovano dentro una nuova realtà di vera comunione, senza "né uomo né donna, né schiavo né libero …" (Paolo ai Galati). Per questa ragione la comunione insegna ai fratelli e sorelle di sangue una nuova fraternità, dove si comprende che fratelli si diventa. La comunione è tutta libertà, perché è esperienza altissima di gratuità – non a caso abbiamo voluto chiamare l’eucaristia, l’eu-charis, anche comunione. La storia ha conosciuto e conosce comunità-senza-comunione, perché mancavano proprio questo tipo di uguaglianza, di libertà e di gratuità.
Il nostro mondo soffre soprattutto per mancanza di comunione, a tutti i livelli, a partire da quello economico. Ci sarebbe bisogno di comunione per cercare di risolvere i gravi problemi delle miserie e dell’esclusione; la filantropia non basta, e spesso è dannosa, perché è faccenda unilaterale. La comunione chiede molto a tutti, a chi dà e a chi riceve, perché è una forma di reciprocità dove tutti danno e tutti ricevono. E dove tutti perdonano – senza perdono continuo e istituzionalizzato la comunione non dura.
La comunione è felicità, ben-essere, ben-vivere. Ma la vita dentro e attorno a noi ci mostra continuamento uno spettacolo di non-comunione. Dire, e continuare a ricordarcelo, che la comunione è vocazione dell’umanità, significa avere un’idea della salute e della malattia delle società umane. L’umanesimo ebraico-cristiano, ad esempio, ci racconta di un inizio dell’umanità di comunione, un inizio che è anche il fine ultimo della storia, la meta verso cui tendiamo. La non-comunione non è né la prima né l’ultima parola sull’umano. Dire che la comunione è la salute e la non-comunione la malattia, significa avere un’idea della terapia per curarci. La cultura dominante sta invece invertendo quest’ordine, e ha trasformato la malattia in salute. Lo fa tutte le volte che dice che la rivalità, l’invidia e sopraffazione dell’altro sono i principali agenti di crescita economica, e che la concordia, la gratuità e l’uguaglianza non aumentano i Pil.
Chi invece crede nella comunione come vocazione degli esseri umani, quando non la trova realizzata ripete, con Don Zeno Saltini, "l’uomo è diverso" da come appare e, lo vediamo nella storia, è più “grande” delle sue disunità e discordie. È la possibilità reale di un “non-ancora” di comunione che rende possibili e sostenibili “già” della non-comunione. Quando questo orizzonte ampio si cancella, o viene bollato come utopia ingenua, l’umano si rimpicciolisce; mancandoci l’ideale che tira su i nostri sguardi anche quando siamo nel fango, la politica diventa cinismo, l’economia dominio, la socialità un carcere a vita. La qualità civile, morale e spirituale del III millennio dipenderà dalla capacità che avremo, a tutti i livelli, di vedere nell’essere umano di più di quanto vi abbiamo visto finora, e dotarci di istituzioni comunionali che favoriscano la pace, la concordia, il ben-essere e il ben-vivere.
Con “comunione” termina questo primo brano di nuovo lessico. Sento il bisogno di tornare a cercare nuove parole in mezzo alle strade, alla gente, ai poveri, dove ho trovato quelle che ho cercato di raccontare finora. Il grande argentino Jorge Luis Borges, nel suo racconto "La ricerca di Avverroè" immagina la crisi che visse il grande filosofo arabo quando si trovo a dover tradurre le parole di Aristotele “tragedia” e “commedia”. Non riusciva a tradurle perché nella sua cultura gli mancavano (o pensava che gli mancassero) le esperienze che quelle due parole greche significavano. Uscì di casa, si mise a camminare nelle stradine spagnole di Cordoba e ad ascoltare i viaggiatori. Tornando nella sua biblioteca gli sembrò di aver capito il senso di quelle lontane parole. Ma l’Averroé di Borges sbagliò la traduzione ("Aristotele chiama tragedia i panegirici e commedia le satire e gli anatemi"). Forse era passato troppo distratto tra le piazze e i mercanti, e non era stato capace di scoprire le tragedie e le commedie "giù, nel piccolo cortile sterrato, dove giocavano alcuni ragazzi. Uno, in piedi sulle spalle di un altro, faceva da muezzin, quello che lo sosteneva immobile faceva da minareto, un terzo, in ginocchio, rappresentava i fedeli". In questa età, mirabile e difficile, di velocissimi passaggi, ci sono parole “grandi” che non riusciamo più a “tradurre”, e così rischiamo di perderle per sempre. Dobbiamo tornare a guardare giocare i bambini sottocasa e a incontrare la gente nelle strade. Lì potremo ricomprende il senso di grandi parole perdute o logorate dal tempo, a partire dalla Parola che è diventata troppo straniera nelle nostre piazze e nei nostri mercati. È quanto cercherò di fare da domenica prossima, d’intesa con il direttore di questo giornale, con una nuova serie di riflessioni.
Grazie a chi mi ha seguito in questo primo brano di “lessico”, ai tanti che mi hanno scritto e che, me lo auguro, continueranno a farlo, donandomi ancora parole, semantiche diverse, nuove storie da raccontare, per raccontarcele l’un l’altro.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 02/02/2014
Il nostro benessere dipende molto dalla qualità delle istituzioni. Matrimonio e università, banche e Stato, Chiesa e sindacati, sono realtà evidentemente molto diverse, ma simili perché tutte istituzioni. Le società bloccate in "trappole sociali" sono caratterizzate, a un tempo, da istituzioni inefficienti e corrotte e da un’alta percentuale di persone con basso o inesistente senso civico e istituzionale. Una tenaglia micidiale, spesso decisiva, che fa soffrire tutti, e fa emigrare i giovani migliori attratti da istituzioni migliori in altri Paesi. La storia e il presente dei popoli ci dicono che le società non creano prosperità diffusa e ben-vivere sociale senza le giuste istituzioni.
[fulltext] =>La vita della gente è povera e i popoli declinano quando le società creano, selezionano e alimentano istituzioni che l’economista Daron Acemoglu e il politologo James Robinson chiamano "estrattive", dove le élite usano le istituzioni per estrarre rendite e ottenere vantaggi personali e di gruppo. Alle istituzioni estrattive questi studiosi contrappongono quelle "inclusive", presenti nei Paesi economicamente e civilmente floridi, che identificano in pratica con quelli anglosassoni ("Perché le nazioni falliscono", 2012). In realtà il confine tra istituzioni inclusive ed estrattive è molto meno netto di quanto questi due autori pensino, poiché le due forme convivono all’interno delle stesse comunità o nazioni, e, soprattutto, evolvono le une nelle altre. In tutti i contesti e ambiti sociali ci sono istituzioni nate col solo scopo di avvantaggiare pochi, estraendo risorse da altri, che convivono accanto a istituzioni generate da esplicite istanze di Bene comune. Ma è ancora più vero che molte istituzioni nate inclusive nel tempo si sono trasformate in estrattive, e istituzioni nate estrattive che sono diventate inclusive. La storia europea è molto rilevante a questo riguardo.
L’economia di mercato non sarebbe mai emersa sul finire del Medioevo senza specifiche istituzioni: gilde, corporazioni, tribunali, banche, grandi fiere, e anche quelle fondamentali istituzioni che furono i monasteri. Alcune di queste erano intenzionalmente orientate al bene comune (confraternite, ospizi per poveri, Monti di Pietà…). Ma molte altre (come le corporazioni) erano nate per proteggere e promuovere gli interessi dei propri membri (fornai, calzolai, speziali …), e garantire rendite di monopolio a specifiche classi di mercanti. La forza civile di quelle comunità cittadine fece però evolvere gli interessi di parte nell’interesse di molti, e non di rado di tutti: molte conquiste della modernità, incluse quelle politiche e civili, sono il frutto di istituzioni nate estrattive e diventate inclusive. La maggior parte delle istituzioni economiche sono all’origine estrattive e chiuse, ma è la coesistenza con altre istituzioni politiche, civili, culturali, religiose che spesso apre e sublima quegli interessi originari. Il bene comune non ha solo bisogno di altruismo e di benevolenza e delle loro istituzioni. La "sapienza delle Repubbliche", come già ricordava Giambattista Vico, sta soprattutto nel riuscire a dar vita a meccanismi istituzionali capaci di trasformare anche gli interessi di parte in Bene comune.
Quest’alchimia, però, funziona solo all’interno delle città e delle loro tante e diverse istituzioni, "dove le arti son protette, e lo spirito libero" (Antonio Genovesi, Lezioni di economia civile, 1767). Tutte le istituzioni sono destinate a diventare estrattive o a non evolvere in inclusive quando manca il pluralismo delle istituzioni, non ne nascono di nuove, e non sono poste le une accanto alle altre. La loggia dei mercanti, il palazzo dei capitani del popolo, il convento di San Francesco, formavano spesso i diversi lati della stessa piazza, dove ciascuno maturava a contatto con l’altro, senza fusioni, confusioni e incorporazioni. E su quella piazza c’erano cittadini vispi e interessati, botteghe di artigiani e di artisti, cantastorie e carri di Tespi che donavano sogni e bellezza, soprattutto ai bambini e ai poveri. La democrazia, il benessere e i diritti sono emersi da questo guardarsi gli uni gli altri, dallo scontrarsi e controllarsi reciprocamente, e dalla co-esistenza tra pari sulle stesse piazze. Oggi le istituzioni globali economiche stanno vivendo una forte deriva estrattiva (anche letteralmente: si pensi alle materie prime dell’Africa!) perché accanto ad esse mancano altre istituzioni politiche, culturali e spirituali globali che dialoghino, discutano, si controllino l’un l’altra.
C’è poi una seconda considerazione. Nella nostra società ci sono anche molte istituzioni inclusive in origine (perché sono state generate da ideali, a volte anche molto alti) che nel tempo si sono sclerotizzate, e i loro frutti da buoni si sono trasformati in selvatici, se non velenosi. Questa involuzione di antiche buone istituzioni, che in questa nostra età di passaggio epocale sono particolarmente numerose, dipende spesso dall’incapacità di cambiare le risposte storiche, di affezionarsi a quelle date decenni o secoli prima, dimenticando così le domande di Bene comune che le avevano generate. Accade così che grandi e nobili istituzioni – penso a molte istituzioni pubbliche, ma anche alle tante splendide degli ordini religiosi - progressivamente e inconsapevolmente si trasformino in realtà estrattive, che non estraggono tanto o solo risorse economiche ma enormi energie morali dei loro membri e promotori, che finiscono per esaurirle ed esaurirsi nella gestione onerosa e dispendiosa di strutture che hanno smarrito le domande originarie di ieri, e oggi danno risposte a domande che nessuno si pone più. Lo scopo iniziale e la "vocazione" dell’istituzione resta sempre più distante sullo sfondo, e la sua missione principale diventa l’auto-conservazione e il rinviare la propria morte.
Nel ciclo di vita delle buone istituzioni ci sono poi dei momenti cruciali nei quali si decide se la direzione futura sarà una maggiore inclusione o l’avvitamento involutivo su se stessa. Questi momenti sono le crisi, in particolare quel tipo di crisi che emerge per un disallineamento tra la missione dell’istituzione e la sua struttura organizzativa. Il vino inizia a sentire gli otri troppo angusti, e si cominciano ad avvertire i primi scricchiolii. Buona parte dell’arte dei dirigenti di queste istituzioni sta nel capire che queste crisi non si risolvono insistendo sulla dimensione etica e motivazionale delle singole persone, ma che occorre intervenire sulla struttura. Il dialogo tra le strutture storiche di una istituzione e le sue domande fondative è esercizio essenziale e vitale per ogni istituzione, soprattutto per quelle nate da idealità alte. Gli ideali delle persone non durano se non diventano istituzioni; ma queste istituzioni possono morire se non si lasciano convertire periodicamente dagli ideali (“le domande”) che le hanno generate.
Le istituzioni inclusive e generative sono delle forme alte di beni comuni. Come ogni bene comune richiedono accudimento, cura e manutenzione degli argini, delle falde, del sotto-bosco. La stagione di crisi istituzionale che stiamo vivendo potrebbe diventare drammatica se la sfiducia nelle istituzioni corrotte e inefficienti aumentasse l’incuria e la non manutenzione delle nostre fragili istituzioni democratiche, economiche, giuridiche, e acuisse la fuga dalle istituzioni che caratterizza la nostra stagione sociale. Dedicare tempo, passione, competenze per riformare istituzioni malate è forse oggi la più grande espressione di virtù civile. Il primo grande accudimento delle istituzioni, soprattutto di quelle malate, consiste nell’abitarle, e non lasciarle nelle sole mani delle loro élite dirigenti. E poi dar vita subito a nuove istituzioni politiche, civili e spirituali globali, che affianchino quelle economiche (da riformare perché troppo pervasive, non democratiche e potenti), e frenino la deriva estrattiva del nostro capitalismo, riportando il mercato alla sua profonda vocazione inclusiva.
Le logge dei mercanti sono cresciute troppo, hanno comprato i palazzi vicini, assunto i cantastorie, e alcune vorrebbero occupare a scopo di lucro anche i conventi. Le istituzioni economiche lasciate sole nel villaggio globale finiscono per restare gli unici abitanti di piazze sempre più vuote. Dobbiamo riempire di nuove istituzioni le nostre piazze globali, se vogliamo vedervi tornare le botteghe, gli artisti, il lavoro.
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pubblicato su Avvenire il 02/02/2014
Il nostro benessere dipende molto dalla qualità delle istituzioni. Matrimonio e università, banche e Stato, Chiesa e sindacati, sono realtà evidentemente molto diverse, ma simili perché tutte istituzioni. Le società bloccate in "trappole sociali" sono caratterizzate, a un tempo, da istituzioni inefficienti e corrotte e da un’alta percentuale di persone con basso o inesistente senso civico e istituzionale. Una tenaglia micidiale, spesso decisiva, che fa soffrire tutti, e fa emigrare i giovani migliori attratti da istituzioni migliori in altri Paesi. La storia e il presente dei popoli ci dicono che le società non creano prosperità diffusa e ben-vivere sociale senza le giuste istituzioni.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/01/2014
Comunità, una delle parole più ricche fondamentali e ambivalenti del nostro vocabolario civile, sta subendo una mutazione radicale. La comunità vera è sempre stata una realtà tutt’altro che romantica, lineare, semplice, perché in essa si concentrano le passioni più forti e profonde dell’umano, luogo di vita e di morte. Gerusalemme è chiamata ‘città santa’, ma è Caino il fondatore della prima città e il mito fa nascere Roma (e tante altre città) da un fratricidio.
[fulltext] =>La comunità può essere raccontata senza pericolose riduzioni ideologiche solo se abitiamo e non rifiutiamo questa sua ambivalenza originaria. Ce lo suggerisce la stessa radice latina del termine: communitas, cum-munus, poiché il munus è, ad un tempo, il dono e l’obbligo, ciò che è donato e ciò che deve essere dato o restituito, l’atto gratuito ma anche i munera, cioè i compiti, gli obblighi e le obbligazioni, la gratuità che evolve nel doveroso. E’ questa stessa tensione semantica e sociale che ritroviamo nel bene comune e nei beni comuni, che vivono e non muoiono finché la trama dell’obbligo si intreccia con l’ordito della gratuità. Se invece questa tensione vitale si spegne, e restano solo i (presunti) doni o solo gli obblighi, le patologie relazionali sono sempre sull’uscio (se non già dentro casa), il dono diventa faccenda irrilevante per la vita sociale, e gli obblighi si trasformano in lacci.
Una delle ragioni più profonde della dualità generativa della comunità è la sua natura non-elettiva: le persone con le quali siamo legati e allacciati nelle comunità non le scegliamo, se non in minima parte. Il ‘cum’ non lo creiamo noi con le nostre scelte, ma ci precede, è più grande di noi. I nostri compagni di comunità ce li troviamo accanto, alcuni non ci piacciono, molti non li sceglieremmo come amici; eppure sono inevitabilmente lì, noi dipendiamo da loro e loro da noi. La non-elettività e l’interdipendenza sono la sostanza della comunità, e accomunano tra di loro la classe scolastica, i luoghi di lavoro o la comunità cittadina. Il compagno di classe, la collega, il vicino di casa condizionano la mia vita per il solo fatto di insistere sul mio stesso terreno, anche quando cerco di evitarli, e anche se non li amo, li ignoro o li combatto. Così possiamo utilizzare la stessa espressione ‘comunità’ per chiamare famiglia, scuola, impresa, il nostro Paese, finché ci sentiamo dentro gli stessi cum e gli stessi munera.
La non-elettività della comunità inizia già nella prima comunità originale, la famiglia. Non scegliamo né i genitori, né i figli, né fratelli e sorelle. E anche se è vero che scegliamo la moglie o il marito, è ancora più vero che ciò che negli anni dell’innamoramento scegliamo dell’altro coesiste con tutta una parte dell’altro che non abbiamo scelto, perché sconosciuta ad entrambi. Una parte non scelta che cresce negli anni, fa fiorire l’innamoramento in agape, e dà una dignità immensa all’amore coniugale fedele, perché la fedeltà più preziosa e costosa è quella alla parte non conosciuta e non scelta dell’altro (e di se stessi). In generale, i rapporti che nascono elettivi (amicizia, innamoramento …) diventano capaci di generare buone comunità quando si aprono alla dimensione non elettiva degli amici e di accogliere i non-amici. Altrimenti restano consumo, che può anche nutrire ma che non genera.
I gruppi umani dove esercitiamo le dimensioni più significative della nostra umanità non sono elettivi, non li scegliamo. E’ nella convivenza quotidiana con questa non-elettività che apprendiamo i codici relazionali e spirituali cruciali della vita, combattiamo il narcisismo (che oggi è pandemia sociale) e diventiamo adulti. Un apprendistato permanente, che assume un valore altissimo quando si resta, per una misteriosa fedeltà a se stessi, in comunità nelle quali non ci si riconosce più, quando arriva una sorta di ‘risveglio’ e si ha l’impressione forte di aver sbagliato comunità e quasi tutto. A chi riesce a restare dopo questi risvegli dolorosi può accadere che da figli di quella comunità si ritrovano madri e padri di essa.
La diversità è il lievito della comunità. Senza di esso la vita comunitaria non si eleva, il suo pane quotidiano resta azzimo.Oggi è molto forte la tendenza a creare comunità elettive, ad uscire cioè da comunità non scelte e ad entrare in comunità scelte. Con un ruolo decisivo del web, stiamo assistendo al proliferare delle cosiddette ‘comunità di senso’, quei gruppi che nascono attorno ad interessi comuni, dal cibo agli hobbies, dagli interessi letterari all’amore per alcune specie di animali, e molto altro, e spesso anche molto buono. Nuove ‘comunità’ di simili, spesso senza corpo, che sostituiscono le comunità corpose di dissimili che sono in rapido dissolvimento. Si fugge dalle nuove diversità difficili dei nostri quartieri multietnici, e ci si ripara da quella diversità non scelta creando altre comunità. E’ questa un’espressione del cosiddetto ‘comunitarismo’, un eterogeneo movimento che ha nella costituzione di ‘comunità di simili’ la sua cifra tipica. Scuole, condomini, quartieri, web-communities, luoghi nei quali si cerca di costruire comunità senza le ‘ferite’ delle diversità sottocasa. Ma uno dei grandi messaggi che ci arriva dalla sapienza millenaria della nostra civiltà è l’insufficienza delle comunità di simili per la costruzione di una buona vita. Se continueremo ad abbandonare le comunità naturali, e quindi i territori e i corpi politici, precipiteremo presto in una forma di neo-feudalesimo castale, che era la condizione in cui si trovava l’Europa dopo il crollo dell’impero romano. Uno scenario che si sta già compiendo nei tanti ‘Davos’ del capitalismo finanziario, dove nuove caste, totalmente separate e immuni dalle comunità, ci governano ma non ci vogliono né possono vedere né toccare. Quando imprenditori manager e finanzieri non toccano più i corpi delle comunità vitali e meticce, producono danni immensi, a volte fatali per le comunità dei nuovi intoccabili e fuori-casta. Nel vecchio feudalesimo i pochi ricchi vivevano in rocche fortificate, e attorno ad essi scorribande, degrado, deserto. Può non essere lontano il giorno in cui questi nuovi feudatari e bramini usciranno dalle loro roccaforti, e fuori non troveranno più strade, sicurezza, beni comuni, e neanche eliporti sgombri dove atterrare.
Un grande racconto fondativo sul decadimento della comunità dei diversi nel comunitarismo dei simili è la Torre di Babele (Genesi 11). La comunità salvata e rinata dopo il diluvio si radunò in un solo luogo, con una sola lingua, con una alta torre. Dopo ogni ‘diluvio’ (crisi epocale) è sempre forte nelle comunità la tentazione di chiudersi tra simili, di espellere i diversi, di non disperdersi sulla terra. Dove non c’è diversità, promiscuità, contaminazione non c’è fecondità: i figli non nascono, le comunità diventano incestuose, e presto scompaiono. La comunità senza diversità si trasforma presto in una forma di fondamentalismo, di idolo a se stessa. E’ stata la convivenza conviviale e litigiosa delle nostre città di diversi a generare quell’architettura, arte, cultura, economia che a distanza di secoli continua ad amarci, nutrirci e a salvarci. Questa Europa post-feudale della cittadinanza e delle diversità oggi è minacciata dalle nuove Babele della finanza e delle rendite, chiuse nelle loro cittadelle fortificate.
Noé il giusto aveva costruito un’arca (barca-cesto) per salvare la varietà e molteplicità delle specie e dei viventi, una varietà-diversità che gli uomini radunati a Babele volevano, e vogliono, eliminare. La dispersione del comunitarismo di Babele è la pre-condizione per l’edificazione delle mille comunità popolate da molteplici lingue, colori, varietà, diversità, bellezza: “Sia data gloria a Dio per la varietà delle cose” (Gerard M. Hopkins).
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/01/2014
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stdClass Object ( [id] => 8556 [title] => Via dall’economia di Flatlandia per tornare a generare futuro [alias] => via-dall-economia-di-flatlandia-per-tornare-a-generare-futuro [introtext] =>Tempo - Lessico del ben-vivere sociale/17
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/01/2014
Siamo dentro una eclissi del tempo. La logica dell’economia capitalistica, e la sua cultura che sta dominando incontrastata su molta parte della vita sociale e politica, non conosce la dimensione temporale. Le sue analisi costi-benefici coprono pochi giorni, mesi, qualche anno – nella più generosa delle ipotesi. Una tendenza radicale di questo capitalismo è infatti il progressivo accorciamento dell’arco temporale delle scelte economiche, e quindi di quelle politiche sempre più guidate dalla stessa cultura economicistica.
[fulltext] =>La rivoluzione industriale, prima, quella informatica poi, e infine quella finanziaria hanno sottratto tempo alle scelte economiche, fino ad arrivare alle frazioni di secondo di alcune operazioni altamente speculative. Eppure, ce lo ricordava Luigi Einaudi, "nel Medioevo si costruiva per l’eternità"; si agiva e pensava in un orizzonte infinito che era sempre presente e orientava le scelte concrete, dall’onorare i contratti fino ai pentimenti e lasciti in punto di morte di mercanti e banchieri. La profondità del tempo, quello da cui proveniamo (storia) e quello verso cui andiamo (futuro), è assente dalla nostra cultura economica, e, come conseguenza, anche dalla nostra cultura civile, dalla formazione degli economisti, dal sistema educativo.
Stiamo così precipitando in un mondo troppo simile a quello descritto in Flatland (terra piatta) dall’inglese E. A. Abbott (1884). In quel racconto, un abitante della terra a due sole dimensioni, Flatland, entra un giorno in contratto con un oggetto a tre dimensioni (una sfera) proveniente da Spaceland. Molto suggestivi e attuali i dialoghi e le riflessioni del libro, tra cui l’intuizione che in un mondo a due dimensioni, non essendoci la profondità e la prospettiva, la socialità è molto povera, rivale, posizionale, gerarchica. Le donne vengono descritte da Abbott come delle rette (una sola dimensione), in polemica con la società maschilista del suo tempo che non riconosceva alle donne la dimensione politica e pubblica.
Un ipotetico viaggiatore del tempo, che oggi arrivasse dal Medioevo, arrivando nella nostra società farebbe una esperienza molto simile a quella della sfera descritta in Flatland, perché sarebbe fortemente impressionato dall’assenza della terza dimensione, quella del tempo.
Quando, qualche decennio fa, affidammo il disegno e il governo della vita sociale alla logica dell’economia capitalista, rinunciando al primato del civile e del politico sull’economico, quando l’homo oeconomicus con la sua tipica logica divenne via via l’unico abitante che conta e comanda nelle stanze del potere, iniziò la progressiva e inevitabilmente caduta in una nuova flatlandia, in una terra a due sole dimensioni: dare e avere, costi ricavi, profitti e perdite, qui e ora, base e altezza. Una tale terra piatta dove resta solo lo spazio.
Una prima conseguenza di una cultura piatta e senza tempo è la produzione di massa fondata sull’effimero e sulla non durata delle cose e dei rapporti. Gli oggetti devono essere velocemente sostituiti, altrimenti si inceppa la macchina consumo-produzione-lavoro-crescita-Pil. Chi in altre epoche non dominate dall’economico iniziava a costruire una cattedrale, o chi adornava con opere d’arte una piazza, non aveva come obiettivo il consumo e il deterioramento veloce di quell’opera, non voleva che “scadesse” per essere presto ricostruita. Se non fosse stato così, non avremmo la Cappella Sistina, il Flauto Magico di Mozart, San Luigi dei Francesi. Lo scopo di quelle antiche costruzioni erano la magnificenza e la durata: si volevano produrre beni durevoli, che non si consumassero. La costruzione artistica e artigiana erano costruzioni di durata, e la “regola d’arte” e la reputazione del loro autore erano commisurate prima di tutto su questa durata. E così quelle antiche opere durevoli sono ancora capaci di farci vivere, di renderci felici, di amarci.
Tutte le civiltà (quantomeno quelle che sono sopravvissute) hanno avuto tre grandi “custodi del tempo”: le famiglie, le istituzioni pubbliche, le religioni.
Le famiglie sono l’argilla con cui il tempo dà forma alla storia. Un mondo che perde la dimensione del tempo non capisce i patti, l’amore fedele, il “per sempre”, non dà valore alla memoria e al futuro. E quindi non capisce e combatte la famiglia, che è tutto questo messo assieme.
Le istituzioni, poi, consentono che nella staffetta tra le generazioni, quando finisce la corsa ci sia ancora un traguardo, si siano conservate e non degradate le regole del gioco, che abbia ancora senso correre e il correre del tempo abbia un senso (direzione e significato). All’interno di queste istituzioni anche quelle economiche hanno avuto, e hanno, un ruolo importante. Le banche, ad esempio, sono state la cinghia di trasmissione della ricchezza e del lavoro tra le generazioni. Hanno saputo conservare e accrescere il valore del tempo. E quando le banche si smarriscono, dimenticano il valore del tempo perché non lo servono più ma speculano su di esso, ieri e oggi si comportano “contro natura” e vanno contro il Bene comune.
Infine le religioni, le fedi, le chiese. Per poter capire il tempo e costruire per il futuro occorre una visione del mondo più grande del nostro orizzonte temporale individuale: ecco perché le grandi opere del passato erano sempre profondamente legate alla fede, alla religione, che legava (religo) il cielo con la terra e le generazioni tra di loro, che dava senso all’inizio di un’opera che il suo iniziatore non avrebbe visto né tantomeno goduto. Le religioni e le fedi sono soprattutto il dono di grandi orizzonti nel cielo di tutti. Un homo oeconomicus senza figli e senza fede, che vive in una società con famiglie fragili e corte, non ha nessuna buona ragione per investire le sue risorse in opere che vanno oltre se stesso: l’unico atto razionale è consumare tutto entro l’ultimo giorno della sua vita. Ma un mondo di homines oeconomici con prospettive che non eccedono la loro esistenza terrena, non è capace di edificare opere grandi, né di vero risparmio che ha la sua radice profonda anche nella consapevolezza che la vita delle nostre opere e dei nostri figli deve essere più lunga e grande della nostra.
È quando manca l’asse del tempo che si compie su larga scala il peccato sociale dell’avarizia, perché la più grande avarizia è eliminare il domani dall’orizzonte. Per questa ragione non c’è atto più ir-religioso di questa avarizia sociale e collettiva.
Nell’eclisse del tempo c’è una immensa, epocale, abissale carestia di futuro. Le Chiese, le religioni e i carismi dovrebbero tornare a investire in opere più grandi del loro tempo, seminare ed edificare oggi affinché altri possano raccogliere domani. Esperti di tempo e di infinito, devono occuparsi del futuro di tutti.
Le passate generazioni di europei, soprattutto quelle a cavallo tra Medioevo e Modernità, hanno saputo fare questo, e così hanno edificato opere magnifiche che ancora ci danno identità, bellezza, e ci fanno lavorare. E i carismi hanno generato migliaia di opere (ospedali, scuole, banche …) che ancora ci arricchiscono, ci curano, ci educano, perché quegli uomini e quelle donne sapevano vedere orizzonti più grandi dei nostri. Quali grandi opere stanno edificando oggi le religioni, le chiese, le fedi, i carismi? Dove sono le loro università, banche, istituzioni? Alcuni semi ci sono, ma sono troppo pochi e il terreno nel quale sono caduti non è ancora abbastanza fertile e coltivato perché quei semi possano diventare un giorno grandi alberi e foreste, per ridonare tempo e futuro al nostro mondo piatto: "I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae. Da qui emerge un primo principio per progredire nella costruzione di un popolo: il tempo è superiore allo spazio" (Evangelii Gaudium).
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Lessico del ben-vivere sociale/17
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/01/2014
Siamo dentro una eclissi del tempo. La logica dell’economia capitalistica, e la sua cultura che sta dominando incontrastata su molta parte della vita sociale e politica, non conosce la dimensione temporale. Le sue analisi costi-benefici coprono pochi giorni, mesi, qualche anno – nella più generosa delle ipotesi. Una tendenza radicale di questo capitalismo è infatti il progressivo accorciamento dell’arco temporale delle scelte economiche, e quindi di quelle politiche sempre più guidate dalla stessa cultura economicistica.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/01/2014
Le parole che non invecchiano sono quelle capaci di morire e di risorgere in ogni epoca. Una di queste è mitezza, che era già grandissima nei salmi, nel vangelo e nelle antiche civiltà orientali, ed è stata resa ancora più sublime dai grandi mansueti della storia - Padre Kolbe, i tanti martiri di ieri e di oggi, Gandhi - e da tanti altri sconosciuti alle cronache che con la loro mitezza umile rendono ogni giorno migliore la terra di tutti.
[fulltext] =>La mitezza è la risposta virtuosa al vizio dell’ira, che mai come nei nostri tempi domina la sfera pubblica, incattivisce i nostri uffici, le nostre riunioni di lavoro o di condominio, il traffico urbano, le aule politiche. Se non ci fossero i miti, le nostre ire produrrebbero molte più guerre e ferite delle tante che producono già, e renderebbero invivibili le nostre città, che sarebbero dominate dalla reciprocità di Lamek, assassini, per un graffio, di fanciulli.
La mitezza di pochi cura e accudisce l’ira di tanti. Basterebbe questo per spiegare la preziosità indispensabile dei miti, che sono la prima minoranza profetica che eleva il mondo, il lievito madre, il sale primo della terra. Sono i veri non-violenti, perché con la loro fortezza impediscono alla violenza di dominare il mondo e i nostri mondi. La mitezza poi fa vivere, e vivere a volte gioiosamente, i malati cronici, fa invecchiare e morire bene, fa resistere nelle lunghe e dure prove della vita senza adirarsi e incarognirsi con gli altri e con se stesso, ma lasciandosi passare docili la mano sopra: sono i mansueti, coloro che “ad manum venire sueti”.
Quando a un certo punto, spesso improvvisamente e senza preavvisi, nella nostra vita arrivano la sventura e il dolore grande, l’allenamento alla mansuetudine rende i pesanti gioghi sostenibili. È la mitezza di Giobbe, che, seduto sul mucchio di cenere, non segue il consiglio della moglie ("maledici Dio, poi muori"), e continua a vivere, a resistere, docilmente a lottare. In queste fase decisive della vita, la mitezza diventa esercizio doloroso e lieto di calarsi dentro la propria interiorità, trovarvi, nascoste, risorse e valori più profondi di quelli che attorno stanno vacillando o sono scomparsi.
E si impara a dire “amen”. Per dire bene, senza ira e cattiveria, gli “amen” più importanti della vita, l’ultimo soprattutto, è necessaria la virtù-beatitudine della mitezza. Un giorno un mio amico e maestro mite mi disse: "Se la vita ti mette in ginocchio una volta, rialzati; se ti ci mette una seconda volta, rialzati ancora. Ma se ti mette in ginocchio una terza volta, forse è arrivato per te il tempo della preghiera" (Aldo Stedile). Anche il perdono vero, quello che non è solo dimenticare per poi star meglio, che non è prendere (for-get) ma un dare (for-give), richiede la mansuetudine. Il mansueto è capace di perdono perché mentre perdona già si ripone docile, pronto a ricevere di nuovo la mano.
Nella tradizione ebraico-cristiana, la mitezza è associata all’eredità della terra. Di quale terra? La prima terra che i miti ereditano è la “terra promessa”, la terra dell’avvento di un regno di pace e di giustizia, agognato da ogni uomo e civiltà, ieri, oggi, domani. Ereditano prima di tutto il dono di occhi capaci di “vedere” questa Terra, e quindi desiderarla e amarla. Non si inizia, né continua, nessun viaggio, e non si attraversa nessun deserto se prima non si intravvede, e ancora prima desidera, al di là di esso il compimento di una promessa. Se non avessimo di fronte una terra promessa, nuova e migliore, come potremmo lottare, mitemente, per migliorare la nostra terra ferita?
L’eredità della terra, però, è anche quella che riceveranno domani i nostri figli se noi, oggi, saremo miti. C’è, infatti, una mitezza nell’uso della terra, delle sue risorse, dei suoi beni, dell’acqua, dell’aria, una mitezza di cui avremmo un estremo bisogno. Tutte le volte che siamo violenti con la terra e con le sue risorse stiamo diminuendo il valore della sua eredità. La mitezza è direttamente legata alla custodia: il mite Abele e il non-custode Caino sono ancora di fronte di noi come scelte radicalmente alternative, e sempre possibili. Chi è mite custodisce l’oikos (la casa) e quindi fa una oikonomia mite. Una economia mansueta usa le risorse sapendo che le ha ereditate e che le deve lasciare in eredità. Se fossimo miti faremmo calcoli diversi per misurare la nostra crescita e il nostro benessere. In quegli algoritmi daremmo molto più peso al consumo di risorse non rinnovabili e a tutte quelle che abbiamo trovato sulla terra e che dobbiamo lasciare in eredità. La “destinazione universale dei beni”, principio base della dottrina del Bene comune, riguarda senz’altro lo spazio ma interpella, soprattutto, il tempo. Se facessimo così, la preoccupazione per il “dopo di noi” diventerebbe una cultura generale che ci porterebbe a usare tutti i beni comuni con la stessa cura con cui si usano le cose dei figli.
E invece il capitalismo individualista, che proprio in questi tempi di “crisi” si sta allargando incontrastato, è troppo spesso violento nell’uso delle risorse, e quindi baratta qualità dell’ambiente, dell’aria e dell’acqua di domani, il futuro di interi popoli (penso in particolare all’Africa), con qualche grado di temperatura in più o in meno nelle case del nord del mondo, e continua a mangiare, con golosità, terra, ambiente, poveri; non include le periferie, ma le divora. La mitezza economica significherebbe, poi, soprattutto per le grandi imprese, ridurre l’aggressiva presenza della pubblicità in tutti i momenti della nostra vita, smettere di spremere i neolaureati che, in questa fase di scarsità grave di lavoro, sono molto ricattabili. Ridurre la velocità e l’aggressività della finanza speculativa, mitigare i linguaggi arroganti e volgari dei potenti, piegare e ammansire la mano di troppe banche verso imprenditori e famiglie, o quella della pubblica amministrazione con chi ha sempre pagato le tasse e ora, caduto in sventura, non riesce a farlo più.
La mitezza, allora, ci dice col suo linguaggio tipico, diverso ma profondamente legato a quello delle altre virtù e beatitudini, una verità antica, che si pone al cuore della vita in comune. Quando guardiamo lo spettacolo della vita che si compie ogni giorno di fronte ai nostri occhi, la prima impressione forte è che sono i furbi, i violenti e i malvagi a prevalere e ad aver successo. I miti appaiono come perdenti, scartati e soccombenti sotto i colpi dei potenti e dei violenti, un’iniquità che originò anche il grido deluso di dolore di Norberto Bobbio: "Guai ai miti: non sarà dato loro il regno della terra" (“Elogio della mitezza”). Le storie e la verità della mitezza ordinaria e straordinaria ci dicono invece che questa prima impressione, pur reale, non è necessariamente quella più vera. Quando si fanno i conti dei ricavi e costi veri della vita individuale e sociale, che non si misurano principalmente in moneta, sono sovente le persone e le comunità mansuete a segnare il profitto più alto: "Io sono stato giovane e son anche divenuto vecchio, ma non ho visto il giusto abbandonato, né la sua progenie accattare il pane" (salmo 37).
Se domani avremo una economia migliore dell’attuale, nella quale i giovani potranno lavorare e non più "accattare il pane", non sarà dovuto alle promesse dei potenti, ma all’azione forte, silenziosa e tenace di tanti mansueti. Beati i miti, perché erediteranno la terra.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/01/2014
Le parole che non invecchiano sono quelle capaci di morire e di risorgere in ogni epoca. Una di queste è mitezza, che era già grandissima nei salmi, nel vangelo e nelle antiche civiltà orientali, ed è stata resa ancora più sublime dai grandi mansueti della storia - Padre Kolbe, i tanti martiri di ieri e di oggi, Gandhi - e da tanti altri sconosciuti alle cronache che con la loro mitezza umile rendono ogni giorno migliore la terra di tutti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 05/01/2014
“La crisi ha dato tante e tali smentite a previsioni in apparenza rigorosamente scientifiche, avanzate da economisti, e non c’è da stupirsi se qualche profano abbia potuto credersi autorizzato a proclamare la bancarotta dell’Economia politica ... Alle voci, certo calunniose, non fa difetto un’attenuante: molti economisti hanno peccato d’immodestia”. Queste parole di Robert Michels, politologo e autore del primo libro intitolato “Economia e felicità” (1917), sono state pronunciate nel 1933, ma sembrano scritte oggi.
[fulltext] =>L’immodestia, o la superbia, non è prerogativa della sola scienza economica, poiché è una nota antropologica universale. In certe epoche, però, la comunità degli economisti è stata affetta da un’immodestia particolarmente pervicace e diffusa. Di fronte ad evidenti deficienze ed errori della loro disciplina, invece di farsi mettere in crisi dalla forza dei fatti e, umilmente, rivedere antiche certezze e dogmi, hanno ostinatamente rispedito le critiche al mittente. L’attuale è una di queste epoche, ed è sempre più forte il bisogno di una profonda revisione di molti dogmi e assiomi della prassi e della teoria economica.
L’economia nasce interamente definita dai confini della casa (oikos), distinta e separata dalla politica (polis). L’economia terminava quando l’uomo (maschio, adulto, libero, non lavoratore manuale) lasciava l’oikos e si recava nella polis. L’oikos con le sue regole di gestione era il regno della gerarchia ineguale e della donna, mentre la politica quello del maschio e dei rapporti tra uguali. Per tutta l’antichità e l’età pre-moderna, l’oikonomia ha conservato questa accezione domestica, pratica, interna, e normalmente femminile. A partire dal Settecento il sostantivo ‘economia’ iniziò ad essere accompagnato da nuovi aggettivi: politica (Smith e Verri), civile (Genovesi e molti altri), pubblica (Beccaria), sociale (molti autori), nazionale (Ortes). Aggettivi qualificativi che volevano sottolineare che l’economia non era più l’amministrazione della casa, ma neanche l' "oikonomia della salvezza" né la "Trinità economica", l’altro significato di oikonomia molto diffuso dai Padri della chiesa fino alla modernità. L’aggettivo politico (e simili) ha qualificato molto l’economia moderna in rapporto a quella antica. Fondendo assieme l’economico con il politico (economia politica), due campi che erano rimasti separati per millenni, alcune categorie tipiche della politica sono entrate dentro l’economia. Ma più forte è stata l’influenza opposta, se pensiamo alla forza con la quale il linguaggio, la razionalità e la logica economica stanno trasmigrando dall’economia alla politica, con effetti normalmente deleteri. Tra questi la forte tendenza a leggere tutta la vita pubblica dalla prospettiva dei vincoli di bilancio, dell’efficienza e dei costi-benefici economici, che sta producendo un dumping democratico senza precedenti, che è uno dei tratti culturali più generali e preoccupanti del nostro tempo.
Ma c’è un secondo elemento decisivo, su cui dovremmo collettivamente e politicamente riflettere molto di più. La contaminazione tra economia e politica non ha portato con sé un protagonismo politico o pubblico della donna cui era originariamente associata l’oikonomia. Abbiamo invece continuato a pensare alla ‘casa’ come il regno del femminile e dell’economia domestica; e l’economia, diventando politica e pubblica, nei suoi principi teorici e assiomi antropologici è rimasta priva della donna e del suo specifico sguardo sul mondo e sui viventi – con conseguenze gravi e sottovalutate.
Questa (di)visione la troviamo teorizzata con estrema chiarezza da Philip Wicksteed, un importante economista inglese del secolo scorso, nonché pastore protestante e traduttore di Dante. A cuore del suo più noto e influente trattato (Commonsense of political economy, 1910) troviamo proprio l’analisi del comportamento della “donna di casa”. Questa, finché si muove all’interno delle mura domestiche, è mossa dalla logica del dono e dell’amore dei “tu” che ha di fronte a sé. Ma non appena esce dall’economia domestica per andare al mercato, dismette i panni di casa e indossa quelli dell’economia politica, la cui logica deve essere quella che con un neologismo Wicksteed chiama “non-tuismo” (dal ‘tu’ latino). A quella casalinga, infatti, è consentito (dagli economisti) di cercare tramite il mercato il bene di tutti, tranne il bene di chi ha di fronte in un incontro economico: “La relazione economica non esclude dalla mia mente tutti tranne me [egoismo]; essa include potenzialmente tutti tranne te [non-tuismo]”. Così l’economia supera l’egoismo (“tutti tranne me”) ma perde la relazionale personale dentro l’economica (“tutti tranne te”).
Le note tipiche dell’incontro vero col ‘tu’ - gratuità, l’empatia, la cura … - la ‘donna di casa’ le deve esercitare solo nella sfera privata; non in quella pubblica, che resta tutta definita dal registro della strumentalità, dall’assenza del “tu” e dalla presenza di soli e solitari ‘lui’, ‘lei’ e ‘loro’. E tutto questo perché qualcuno ha stabilito con un apriori che quelle caratteristiche relazionali ed emotive, più tipiche (ma non esclusive, ovviamente) della donna, non fossero faccende serie e razionali per la seria e razionale sfera economica. Peccato, però, che quando manca il volto del “tu” che ho di fronte manca, in ogni ambiente umano, l’unico volto veramente concreto, e così non rimane che una economia senza volto, e quindi disumana. Ma soprattutto produciamo un’economia che non vede, e quindi non capisce, i tipici beni che avrebbero bisogno di categorie diverse dalla logica non-tuistica, e tra questi i beni comuni, i beni relazionali, la logica dell’azione plurale, le razionalità non strumentali, e molto, troppo, altro. Il non-tuismo è ancora un pilastro dell’attuale scienza economica. E tutte le volte che nell’economia reale un fornitore guarda l’altro in volto e, mosso a compassione, gli concede una dilazione di pagamento, o un lavoratore va oltre il contratto e si prende cura di un cliente in difficoltà, l’economista “puro” considera queste eccezioni degli attriti, dei contratti incompleti, costi che devono essere ridotti possibilmente a zero. E infatti, più le imprese e le banche diventano grandi, burocratiche e gestite razionalmente, più questi attriti ‘tuistici’ si riducono – ma non scompaiono mai del tutto, e non scompariranno finché le organizzazioni saranno abitate da umani.
Ma le cose stanno diversamente. Sappiamo che le azioni ‘tuistiche’ non sono attriti o semplici costi, ma compongono quell’olio invisibile ma realissimo che non fa inceppare le nostre organizzazioni e che fa girare i complessi ingranaggi umani anche nei tempi di crisi quando i contratti e l’efficienza non bastano più. Provvidenzialmente, l’economia reale va avanti nonostante le teorie economiche e manageriali; ma oggi dobbiamo avere il coraggio culturale di denunciare questa sofferenza, per buona parte evitabile, prodotta da una antropologia obsoleta e da una ideologia economica ad una sola dimensione. Non dimentichiamo che a differenza dei secoli passati quando la sfera pubblica era monopolio dei maschi (che la teorizzavano e la occupavano), oggi le donne si trovano a vivere in istituzioni economiche e politiche nelle quali restano, di fatto, periferie culturali e teoriche. I dati ci dicono che nelle nostre imprese e banche sono soprattutto le donne a soffrire, perché si ritrovano in luoghi di lavoro pensati, disegnati e incentivati da teorie mancanti ‘dell’altra metà’ del mondo e dell’economia. Cambiare l’economia per renderla a ‘misura di donna’ comporterebbe – lo accenno soltanto – rivedere anche la teoria e la prassi della gestione della casa, l’economia della famiglia, l’educazione dei figli, la cura dei vecchi. E molto altro ancora.
Le difficoltà del tempo presente dipendono anche dal non riuscire a valorizzare l’immensa energia relazionale e morale delle donne, che sono ancora troppo spesso ospiti e straniere nel mondo produttivo degli uomini, e così non riescono ad esprimere tutte le loro potenzialità e talenti. Anche l’economia attende di essere vivificata dal genio femminile.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 05/01/2014
“La crisi ha dato tante e tali smentite a previsioni in apparenza rigorosamente scientifiche, avanzate da economisti, e non c’è da stupirsi se qualche profano abbia potuto credersi autorizzato a proclamare la bancarotta dell’Economia politica ... Alle voci, certo calunniose, non fa difetto un’attenuante: molti economisti hanno peccato d’immodestia”. Queste parole di Robert Michels, politologo e autore del primo libro intitolato “Economia e felicità” (1917), sono state pronunciate nel 1933, ma sembrano scritte oggi.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/12/2013
La centralità del consumo non è un fatto inedito né tipico della nostra società. Ciò che è invece nuovo e rilevante è la nostra incapacità di cogliere la pervasività della cultura del consumo e delle rendite, che purtroppo ha caratterizzato, accomunandole, molte civiltà decadute. Il fenomeno del consumo ha radici molto antiche, e in generale è cosa buona, perché quando sono negati i beni per il consumo sono negati anche i diritti e le libertà.
[fulltext] =>L’homo sapiens non solo ha dovuto consumare per sopravvivere, ma ha sempre parlato con le parole e con i beni, dalle perle donate ai popoli venuti dal mare, fino al panettone che abbiamo trovato la mattina di Natale sul tappetino di casa per avere appeso la notte prima un biglietto di auguri sulla porta dei nuovi vicini: quelle due ‘cose’ hanno parlato prima delle nostre (timide) parole.
Le civiltà precedenti la nostra avevano però imparato, spesso a caro prezzo, che il consumo delle cose va educato, orientato, e anche limitato. Nella cultura medioevale questa verità era centralissima. Basta pensare alla sostanza delle ‘leggi suntuarie’ nelle città medioevali, cioè quelle normative che limitavano i consumi dei beni di lusso - dalla lunghezza degli strascichi dei vestiti (che arrivavano a diversi metri) all’altezza di torri e campanili.
Normalmente oggi si leggono queste antiche leggi da una prospettiva puramente moralistica. In realtà c’era un messaggio da raccogliere ancora oggi, che parte dalla constatazione, empirica e non ideologica, dei danni individuali e collettivi che producono consumi intemperati, illimitati, sfrenati, soprattutto di quei beni che oggi gli economisti chiamano ‘beni posizionali’. Ci sono, infatti, dei beni di consumo che non vengono acquistati per l’uso tipico del bene, ma per gareggiare e confrontarci con gli altri, o per ‘posizionarci’ nelle gerarchie sociali. Ieri erano i vestiti, le case e le carrozze che venivano usati per gareggiare e rivaleggiare con i ‘concorrenti’ della città. Oggi questi ‘beni posizionali’ sono aumentati a dismisura, e non sono soltanto le auto e le barche di lusso, ma anche smart-phone e molti altri beni che consumiamo anche per competere e confrontarci con gli altri.
È qui che occorre aprire un discorso sui consumi dei nuovi beni tecnologici che accendono le nostre fantasie, che associamo a immagini del sé post-moderne e ‘smart’, e che ci mettono in fila per ore di fronte ai negozi quando vengono lanciati nuovi modelli. Guardando questi nuovi consumi un po’ in profondità, potremmo scoprire cose di cui non si parla, forse, abbastanza. Innanzitutto prenderemmo coscienza che questi nuovi beni di consumo sono il frutto di una potentissima industria che muove capitali immensi, che mentre è post-moderna per tipologia di beni è molto tradizionale in tema di elusione fiscale. L’enorme investimento pubblicitario potenzia questi consumi e li pone al centro del sistema capitalistico, che cresce alimentandoli.
Gli effetti collaterali di questa grande ‘macchina posizionale’ sono molti. Il primo è l’immiserimento delle classi più fragili che sperperano in consumi posizionali i loro sempre minori redditi. È impressionante la crescita dell’usura tra i poveri per acquistare questi nuovi ‘beni’ di consumo che finiscono per rubare il pane ai loro e ai nostri figli. Un secondo effetto ha a che fare con lo spiazzamento di risorse che l’enorme investimento per migliorare efficienza e comfort di telefonini e tablet produce nei confronti di quei settori ‘non posizionali’ o comuni (es. arte) o dove non c’è sufficiente ritorno economico ma che sono fondamentali per la qualità morale della nostra società (es. le malattie rare). Un terzo effetto chiama direttamente in causa il nostro benessere. Molti studi, tra i quali quelli del premio Nobel Daniel Kahneman, ci mostrano ormai da oltre un decennio che il denaro e le energie spese per consumi posizionali procurano un aumento di piacere che dura finché dura l’esperienza della novità, cioè pochi giorni (telefonini) o pochi mesi (auto e case).
Dovremmo, infatti, essere coscienti che molte delle innovazioni nei settori delle nuove tecnologie hanno come principale scopo quello di aumentare la dimensione ‘comfort’ di questi beni, e ne riducono la dimensione di ‘creatività’ (pur presente). Per quanto simpatiche e anche molto comode, le apps e i tablet riducono il nostro impegno nel processo che va dalla produzione al consumo di beni e servizi, e riducono creatività e felicità – cominciamo a vederlo anche nei bambini. Non sempre, ma spesso. “Uso lo stradario e non il navigatore per non perdere abilità”, mi confidò un giorno un tassista romano. In altre parole, la rivoluzione tecnologica di ultima generazione sta, almeno in questa fase, aumentando la nostra tendenza ad essere consumatori, non produttori e lavoratori. Discorso diverso quando le nuove tecnologie, apps e tablet aumentano la nostra creatività produttiva e l’uso dei beni comuni.
Non si tratta di mettere in dubbio l’importanza di questi nuovi beni, ma solo di usare il pensiero critico e prendere atto che quelle grandi multinazionali usano le innovazioni tecnologiche non per aumentare la creatività e l’autonomia dei cittadini, ma per creare sempre più comfort e consumatori che sostituiscono velocemente quei beni che devono invecchiare ancor più velocemente. Dobbiamo, perciò, fare di tutto affinché la rivoluzione delle nuove tecnologie non ci tenga dentro casa ‘intrattenuti’ e comodi. La qualità delle democrazie dipenderà molto dalla nostra capacità di non appaltare le nuove tecnologie al solo capitalismo for-profit, ma di considerarle come nuovi diritti di cittadinanza, accessibili a tutti, soprattutto ai più poveri, e regolarne l’uso e la gestione come accade oggi per i beni di utilità pubblica. E di potenziare la dimensione di dono e di gratuità sempre presente anche in questi nuovi beni di consumo, contrastando la forte tendenza a privatizzare e mercantizzare i nuovi beni tecnologici (l’uso gratuito di reti wifi nelle nostre città, stazioni e aeroporti è in preoccupante calo).
La storia (dall’impero romano al tardo Rinascimento) ci dice che le società progrediscono quando le persone orientano la loro natura competitiva e agonistica nella produzione e nel lavoro; degradano e precipitano in trappole di povertà quando competono principalmente con il consumo e per le rendite che lo rendono possibile senza lavoro. Quando – ieri e oggi – per dire chi siamo ed essere stimati lavoriamo meglio e di più, la dinamica sociale produce benessere per tutti; quando invece acquistiamo la nuova auto di lusso o il nuovo modello di tablet per ottenere l’apprezzamento (o l’invidia?) degli altri, le nostre relazioni diventano sterili, cadiamo in dilemmi sociali, alla lunga ci incanagliamo, e soprattutto investiamo le nostre risorse in modi e luoghi improduttivi. Anche perché la logica posizionale nega la natura vera e civile del mercato, che non è una gara sportiva ma mutuo vantaggio (A. Smith), mutua assistenza (A. Genovesi).
Infine, nei Paesi latini, dove ancora è ben viva l’arcaica ‘cultura della vergogna’ e della ‘bella figura’, cadiamo più facilmente in queste trappole posizionali. Come ci ha mostrato per primo Amintore Fanfani (che fu storico economico notevole), nelle società di matrice cattolica e comunitaria le persone tendono a competere consumando, mentre in quelle nordiche, protestanti e individualiste, competono soprattutto producendo e lavorando. L’attuale capitalismo ha fuso insieme, con un colpo di genio (ancora tutto da esplorare), il ‘meglio’ di questi due umanesimi, dando vita ad una cultura del consumo individualista e posizionale, che ci sta impoverendo e intristendo. “La felicità” – mi ha sussurrato la vigilia di Natale, con un filo di fiato, il mio vecchio maestro Giacomo Becattini – “non sta nel consumare molti beni. La felicità sta nel possedere gioiosamente alcuni beni, avendoli prodotti gioiosamente”.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/12/2013
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/12/2013
L’insufficienza morale e civile del nostro tempo è anche la conseguenza dell’espulsione dei carismi dalla vita pubblica, e di carismi che troppo tranquillamente hanno accettato la loro emarginazione, ritirandosi. E quando mancano i carismi, o quando sono considerati soltanto faccenda “religiosa” e quindi irrilevante per la vita civile, l’economia la politica la società si smarriscono, perché manca loro la risorsa essenziale della gratuità. C’è, infatti, un nesso inscindibile tra i carismi e la gratuità.
[fulltext] =>La gratuità arriva nel mondo, trasformandolo ogni mattina, attraverso due grandi vie. La prima alberga dentro di noi, poiché ogni essere umano ha una capacità naturale di gratuità. La vita stessa, il nostro venire al mondo, è la prima grande esperienza di gratuità; ci ritroviamo vivi, chiamati all’esistenza, senza averlo scelto, come dono primigenio e fondativo di ogni altra gratuità. Anche per questa ragione non c’è, forse, atto di gratuità più grande di quello di una madre che consente a un bambino, non cercato, di venire alla luce. È questa nostra vocazione naturale alla gratuità che ci fa attribuire un immenso valore alla gratuità degli altri, e ci fa soffrire molto quando la nostra gratuità non è riconosciuta, apprezzata, ringraziata. Forse non c’è dolore spirituale più acuto di chi vede la propria gratuità calpestata dagli altri, offesa, fraintesa. Se la gratuità non fosse già in noi, non potremmo riconoscere né apprezzare la gratuità degli altri, resteremmo intrappolati dentro il nostro narcisismo, e saremmo incapaci di vera bellezza e di ogni virtù. Per questa ragione la gratuità è dimensione costitutiva dell’umano, di tutto l’umano, di ogni umano, anche dell’homo oeconomicus, che oggi invece sistematicamente la nega, la scaccia via. Senza gratuità il signor Rossi resta sempre e soltanto cliente, collega o fornitore: è la gratuità che lo fa diventare Mario. Oppure la relega nei luoghi dei professionisti della gratuità (non-profit?), dove muore mancandole l’aria aperta delle piazze e il rumore vivo delle fabbriche. La pasta ha bisogno del lievito, ma anche il lievito della pasta.
La seconda via maestra di gratuità sono i carismi, i doni della charis (grazia, gratuità). Ogni tanto, molto più spesso di quanto si pensi, arrivano in mezzo a noi persone con una vocazione speciale di gratuità. Questi portatori di carismi “non ordinari” un tempo operavano soprattutto all’interno delle religioni, o delle grandi filosofie. Oggi si trovano anche in altri luoghi dell’umano: dall’economia alla politica, dall’ambientalismo ai diritti umani. Ce ne sono molti, ma raramente abbiamo la capacità culturale e spirituale per riconoscerli. Senza gratuità non c’è carisma, e quindi i tanti fenomeni che sulla scia del sociologo Max Weber oggi chiamiamo “carisma” o “carismatico” sono altra cosa, spesso ambivalente, ogni tanto pessima. I carismi aumentano e potenziano la gratuità sulla terra, e la fanno risvegliare o risuscitare in quelli che li incontrano. Trovano il “già” della nostra gratuità e fanno fiorire il “non ancora”. Ogni incontro vero con un carisma è l’incontro con una voce che interpella la nostra gratuità, e se sembra morta le dice: “Talitha kumi”, fanciulla alzati.
Dovremmo scrivere enciclopedie sul ruolo essenziale dei carismi nella vita economica e civile, incominciando dalle cose meno ovvie. Ad esempio, una dimensione dei carismi e della gratuità-charis è la loro “naturalezza”, che li affratella alla terra e ci rivela la gratuità nascosta, misteriosamente ma realmente, nella natura. Quando si incontra un autentico portatore di carisma, sia esso un cooperatore sociale o una fondatrice di una comunità religiosa (ne ho incontrati e ne incontro molti, e mi hanno sempre migliorato), la prima e più radicale esperienza che si fa è la sensazione fisica di incontrarti con persone che ti vogliono bene, e fanno bene al mondo, con il loro esserci. Non vedi persone più buone o altruiste di altre, ma gente che è e fa ciò che è. Il carisma non è primariamente una faccenda etica, ma antropologica e ontologica: è l’essere che si manifesta e splende. La gratuità è esercizio ordinario della sua vita quotidiana (anche se sono necessarie molte virtù per non perderla lungo il cammino). Così i carismi sono, a un tempo, la pura spiritualità e la pura laicità. Come sono la più grande mitezza e la più radicale denuncia e azione per <rovesciare i potenti dai troni>. Questa dimensione “naturale” dei carismi, ad esempio, fa sì che chi si sente beneficiato da questa gratuità non si senta debitore. Questa gratuità toglie dai doni il loro demone (lo hau, come lo chiamano i polinesiani); e così ci libera, e rende questa reciprocità un incontro di libertà.
È molto importante questa amicizia tra la gratuità e la natura. L’albero cresce e porta frutto perché è fatto così, non potrebbe fare altro. Il ruscello si getta nel lago perché obbedisce ad una legge naturale. Così il carisma: chi lo riceve agisce perché “è fatto così”, e perché “non potrebbe fare altro”. Sa che deve custodire e alimentare quel “qualcosa” che lo abita, ma ancor prima sa che quel qualcosa o qualcuno che gli parla dentro e lo guida agisce per una forza propria, sebbene, paradossalmente, quel carisma è anche la parte migliore e più vera di sé. È questa dinamica di “intimità-alterità” che impedisce al suo portatore di impossessarsi del proprio carisma, di usarlo a proprio vantaggio (e quando lo fa, il carisma scompare), che garantisce la gratuità. Una dinamica che vale per i fondatori di comunità carismatiche, ma anche per ciascun membro di queste comunità, che quindi non è un seguace di movimenti, né un associato di una organizzazioni, ma persona guidata dal di dentro perché abitata dallo stesso carisma del fondatore. I francescani non seguono, né tantomeno, imitano Francesco, ma con Francesco seguono il suo stesso carisma, e diventano nel tempo quello che già sono. In questo si nasconde il mistero dei carismi, di tutti i carismi religiosi e di quelli laici (se proprio vogliamo distinguerli), e della loro tipica libertà.
È qui che si scopre anche una profonda analogia tra il carismatico e l’artista: sono entrambi “servitori” di un daimon, di uno Spirito, obbediscono a una voce, sanno vincere la morte. Teresa d’Avila e Caravaggio sono state realtà morali molto diverse, ma tutti e due hanno fatto migliore e più bello il mondo, ci hanno amato e ci amano, gratuitamente. È qui che la gratuità si incrocia anche con la bellezza, che tanto le assomiglia (è forse questa l’etimologia di “grazioso”?). Entrambe dicono il valore intrinseco della vita, che viene prima di qualsiasi prezzo, prima della reciprocità e persino dello sguardo dell’altro. È la bellezza-gratuità che faceva abbellire e decorare i locali dei palazzi e le volte delle cattedrali, o che oggi fa preparare con bellezza la tavola a Giovanna che rimasta vedova e sola non la può condividere con nessuno.
I carismi arrivano nel mondo per il bene di tutti, anche di chi i carismi non li vede, o li disprezza. Ma vengono soprattutto per i poveri. Se non ci fossero i carismi, i poveri non sarebbero visti, amati, curati, salvati, stimati: <Oggi arriva la salvezza nella nostra comunità: una famiglia con cinque figli, tutti handicappati> (Don Lorenzo Milani). È lo sguardo diverso dei carismi che dona ai poveri speranza, gioia, e spesso li risorge. Ed è lo sguardo dei poveri che rende il carisma vivo, non lo fa morire né diventare una semplice istituzione.
Sono i carismi e la loro gratuità che ci svelano il Natale. Ed è il Natale che ci dischiude la charis. Lieto Natale a tutti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/12/2013
L’insufficienza morale e civile del nostro tempo è anche la conseguenza dell’espulsione dei carismi dalla vita pubblica, e di carismi che troppo tranquillamente hanno accettato la loro emarginazione, ritirandosi. E quando mancano i carismi, o quando sono considerati soltanto faccenda “religiosa” e quindi irrilevante per la vita civile, l’economia la politica la società si smarriscono, perché manca loro la risorsa essenziale della gratuità. C’è, infatti, un nesso inscindibile tra i carismi e la gratuità.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 15/12/2013
Innovazione sta diventando la nuova parola d’ordine del XXI secolo. Ma, come spesso accade, le cose più interessanti e davvero rilevanti cominciano con i predicati, i verbi e gli aggettivi, perché se manca la capacità di articolare un buon discorso attorno all’innovazione, presto questo affascinante sostantivo farà la fine di tante grandi parole che stiamo logorando e quindi banalizzando (merito, efficienza, e tra poco democrazia).
[fulltext] =>Il padre della teoria dell’innovazione è Joseph A. Schumpeter, che poco più di un secolo fa (La teoria dello sviluppo economico, 1911) ci presentò una visione dell’economia di mercato dinamica, storica e capace di spiegare che cosa stava veramente accadendo al capitalismo del suo tempo. I classici sono importanti, lo sappiamo, non tanto per le risposte che hanno dato (che sono legate al loro periodo storico, e quindi provvisorie) ma per le domande che hanno posto. Alcune domande di Schumpeter sono tra quelle fondamentali: quale è la natura del profitto e dell’imprenditore? Da dove nasce lo sviluppo economico? Quale la funzione del credito e della banca? Il centro logico di queste domande è proprio la categoria di innovazione, perché se non ci fossero imprenditori e banchieri innovatori, ma solo istituzioni routinarie e cercatori di rendite, non ci sarebbe vero sviluppo economico.
Sulla semantica dell’innovazione ci sono però molte altre cose da dire.
Oltre 26 milioni di disoccupati in Europa, tra i quali troppi giovani, la vulnerabilità e la tristezza crescenti di troppa gente, sono segni inequivocabili che il nostro tempo avrebbe bisogno di innovazioni grandi, di ‘crinale’. Non quelle che si insegnano nelle business school, né quelle che si inventano i nostri poveri giovani per poter partecipare a complicatissimi bandi europei (bandi scritti sempre più sovente da funzionari che le innovazioni vere non le hanno mai viste, né odorate e toccate nei luoghi fuori dagli uffici), né quelle raccontate nei noiosi libri o siti web di buone pratiche innovative.Le grandi innovazioni non si apprendono in nessuna scuola. Hanno bisogno di vocazioni, e quindi di quella risorsa sempre più scarsa e consumata dal nostro capitalismo che vorrebbe le innovazioni: la gratuità.
Spesso la grande innovazione, nella scienza ma anche in economia e nella vita civile, arriva cercando altro. E’ quanto successo e succede in alcune importanti scoperte scientifiche (es. la penicillina), molte volte nella ricerca matematica, ma anche più semplicemente in libreria, dove entro per cercare un libro e l’occhio mi va sul libro accanto che mi apre un mondo nuovo (le librerie e le biblioteca sono indispensabili anche per questo). È una versione della cosiddetta serendipidity, che prende il nome dal racconto Il Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo, di Christoforo Armeno, viaggiatore originario di Tabriz (Venezia, 1557). Altre volte le innovazioni grandi arrivano come ‘riciclo’ per un uso diverso di qualcosa nato in origine per altre funzioni. È quel fenomeno che i biologi evolutivi chiamano exaptation, che spiega, tra l’altro, la storia evolutiva delle ali, che si svilupparono originariamente per regolare la temperatura corporea, e poi vennero ‘riciclate’ per il volo. Qualcosa di simile è avvenuto con internet, e in altri casi (dal magnetofono ai CD).
La serendipity e l’exaptation sono importanti anche perché incorporano qualcosa di analogo alla gratuità. La gratuità non è il gratis (prezzo zero) ma il valore infinito, non è il disinteresse ma l’interesse per tutti e di tutti. Quando si agisce con questa gratuità non si segue la logica del calcolo strumentale mezzi-fini, ma si ama quella data attività o persona per sé e prima dei risultati che porta, per un’eccedenza etica, antropologica, spirituale. Se lo scienziato non si immerge nelle sue ricerche e si fa guidare dalla legge intrinseca della scienza, se l’artista non ama l’opera che sta creando per se stessa, se l’imprenditore non si appassiona alla sua impresa, se il futuro santo non si dimentica del premio della santità e ama con agape, è molto difficile che arrivino grandi scoperte, imprese, opere d’arte, la santità. Si possono forse generare persone per bene, piccole opere, e le innovazioni ‘di vallata’ come sono quelle che nascono ogni giorno nei dipartimenti di ricerca e sviluppo o di marketing. Ma nei centri di ricerca e sviluppo non nascono la Divina Commedia, la Sesta sinfonia di Tchaicovsky, Nelson Mandela non diventa Madiba. Per queste innovazioni c’è bisogno di gratuità, dell’eccedenza gratuita che sa creare valore infinito.
Anche le grandi innovazioni economiche e sociali hanno bisogno di questa gratuità. Soprattutto ne hanno un bisogno essenziale le innovazioni di ‘crinale’ che, diversamente dalle innovazioni di ‘vallata’, nascono da chi si trova, per vocazione, sui crinali delle montagne, e da lì vede e apre nuovi orizzonti. Fu l’eccedenza gratuita di Benedetto che riscattò il lavoro dalla schiavitù, e quella dei francescani e di tanti parroci e cooperatori che diede vita alle grandi innovazioni delle banche per i poveri. Fu la gratuità eccedente di Francesco di Sales o di Camillo di Lellis che inventarono lo “stato sociale” per gli scarti del loro tempo, e quella delle tante fondatrici di scuole per fanciulle povere, che iniziarono coll’abecedario il lungo viaggio della donna verso l’uguaglianza di diritti e di opportunità, un lungo viaggio che continua con le tante Malala Yousafzai. Fu la gratuità eccedente di Gandhi a liberare l’India e a combattere il sistema castale, dando così vita ad uno dei più grandi miracoli civili ed economici della storia. Per queste innovazioni occorrono i carismi, religiosi e laici, persone capaci di vedere diversamente, dai crinali dell’agape, le pietre scartate del loro tempo e trasformarle in testate d’angolo.
Di eccedenza gratuita e innovativa è piena la terra. Forse nessuno si potrebbe salvare e riscattare dalla mediocrità se non facesse durante la sua vita almeno un’azione di eccedenza gratuita. Ma oggi avremmo bisogno anche di nuove grandi innovazioni ‘di crinale’, che diano una svolta alla nostra storia. Per queste innovazioni c’è bisogno però dell’energia, quasi infinita, della gratuità. Le innovazioni di crinale sono sempre meticce, promiscue, contaminate e intrecciate; soprattutto quelle economiche, non nascono dai laboratori, ma sono il frutto della generatività di popoli, generazioni, culture. Quando queste innovazioni fioriscono nel terreno dell’economia, chi le compie sa guardare più in alto e più lontano della sola economia, e in quell’‘altrove’ trovano anche nuove risorse economiche. Nella nostra storia economica e civile abbiamo avuto innovazioni di crinale, quando abbiamo saputo guardare, grazie a carismi anche politici ed economici, in territori dove nessuno guardava, o dove chi vi guardava vedeva solo problemi.
Torneremo a fare buona economia se saremo capaci di guardare altrove e scorgervi nuove opportunità, di includere gli scartati da questo sistema, che oggi si chiamano immigrati, giovani, anziani, e tutti i poveri di ieri e di oggi. La chiesa di Papa Francesco sta creando un ambiente adatto per possibili nuove grandi innovazioni sociali ed economiche di crinale. Ma perché questo ambiente sia popolato di nuovo lavoro, diritti, vita, occorrerebbero la forza di Isaia e di Geremia, o la forza dei carismi. Una Caterina da Siena, un don Bosco, un Martin Luther King oggi guarderebbero dai loro crinali le nostre città. Scorgerebbero nelle folle la fame di lavoro e di vita vera, la paura del presente e del futuro dei loro figli. Si commuoverebbero, ci amerebbero col loro sguardo diverso e alto, e si metterebbero subito all’opera, innovando veramente. Ma dove sono, oggi, i profeti?
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 15/12/2013
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire l' 08/12/2013
Nel sottosuolo della nostra cultura civile ed economica crescono due tendenze opposte. La prima è l’avvicinamento progressivo tra la cultura e i linguaggi del mercato capitalistico e quelli dell’economia sociale. La seconda, opposta, tendenza è una contrapposizione crescente sulla valutazione etica del mercato, che porta alcuni a vedere il mercato capitalistico come la soluzione di tutti i nostri mali economici e civili, e altri a considerarlo invece come il feticcio di ogni male morale, sociale e politico.
[fulltext] =>I primi vorrebbero una società guidata e gestita soltanto, o principalmente, dai valori e dagli strumenti del mercato (dalla privatizzazione dei beni comuni alla compravendita di organi), i secondi lo vorrebbero bandire da quasi tutti gli ambiti umani moralmente rilevanti, arginarlo in un alveo molto stretto e controllato. Con la globalizzazione e con la crisi finanziaria ed economica questa contrapposizione ideologica, che ha almeno duecento anni di vita, sta vivendo una nuova stagione.
Dieci anni fa sarebbe stato impensabile che libri di economisti, pro e contro i mercati, diventassero dei best seller. Questa nuova stagione, però, non ha la forza spirituale e comunitaria degli antichi umanesimi popolari, dei loro intellettuali, perché avendo perso contatto con i luoghi vitali non ha il sapore caldo del pane e l’odore salato del sudore. E la contrapposizione, molto rilevante e trascurata dalla nostra cultura, sta diventando uno dei grandi freni nella ricerca di una nuova fase di concordia e di unità, che sarebbe invece indispensabile. Che impedisce, tra l’altro, di capire e combattere le storture e malattie dei mercati concreti (e non di quelli immaginari).
L’impegno a dar vita a questa concordia e dialogo non è un’operazione facile, perché va nella direzione opposta alla prima tendenza di avvicinamento, che sta invece sempre più producendo un appiattimento e un livellamento culturale verso il basso.
Le imprese tradizionali hanno assunto un linguaggio “sociale” che sa troppo di retorica e poco di convinzione. E tutto un movimento di economia tradizionalmente non capitalistica, da anni prova a scimmiottare linguaggio (in finto inglese), cultura, consulenti, categorie del pensiero economico dominante, in un dannoso processo di sincretismo. Un’imitazione che nasce spesso da un complesso di inferiorità culturale.
La nuova sintesi e il nuovo dialogo costruttivo di cui abbiamo bisogno sono altra cosa, molto più faticosa e profonda. Dovremmo innanzitutto riconoscere che la storia del mondo reale ci ha mostrato mercati reali molto più vitali, promiscui, non-ideologici e inattesi di quelli immaginati e previsti da quelle teorie. Le esperienze economiche più rilevanti e durature, quelle che hanno aumentato il benessere vero della gente, la democrazia e il Bene comune, sono state tutte esperienze meticce di mercato e di sociale. Il mercato reale ha funzionato veramente quando si è contaminato nei luoghi sociali, quando ha saputo abitare e includere le periferie. E quando non lo ha fatto, e non lo fa, produce malessere e diventa nemico della gente e dei poveri, per fare profitto anche con “lo scarto del grano”. Il nostro migliore passato remoto e prossimo è frutto dell’intreccio di mercati e di reciprocità. Il movimento cooperativo, i distretti industriali, le imprese famigliari sono figli di incontri tra i linguaggi del mercato e quelli del dono.
Le famiglie hanno sempre saputo che le imprese sono faccende molto importanti ed essenziali per il loro bene. È da lì che viene il lavoro e il salario; è in quei luoghi promiscui e duri dove si alimentano i sogni e la vita veri. La gente ha sempre abitato e vissuto i mercati reali come luoghi umani, piazze e negozi popolati di gente, di odori, di sapori e di parole – non dimentichiamo, poi, che per decenni i mercati sono stati tra i pochissimi luoghi di vita pubblica, di sovranità e di protagonismo di molte nostre mamme e nonne.
La grande e lunga storia del rapporto tra mercati e vita civile è soprattutto una storia di amicizia e di alleanza. Anche quando si litigava e lottava nelle fabbriche, la parte migliore del Paese, che operava nei diversi partiti, sapeva che dentro quelle fabbriche si producevano cose buone, per loro e per tutti. Si litigava e si lottava, ma si sapeva che il mondo, loro e di tutti, sarebbe stato peggiore senza quelle fabbriche. Lottavano anche perché le amavano.
Gli intellettuali e i politici contrapponevano capitale a lavoro, mercato a democrazia, libertà a uguaglianza; ma la gente sapeva, con una maggiore verità, che la realtà era diversa, perché quel lavoro, anche duro e aspro, stava liberando loro e i loro figli, e li stava allontanando dal feudalesimo dal quale erano venuti. Recitavano liturgie sociali, ciascuno indossava la propria maschera nella commedia e nella tragedia della vita realissima, ma ancora più vero era il legame tra lavoratori, padroni, classi sociali, che davano contenuto vero all’espressione Bene comune. Fino a quando quegli antichi “padroni” non sono diventati, in tempi recenti, proprietari di fondi speculativi sempre più anonimi, lontani e invisibili. Quando quei critici del capitalismo vollero dar vita ad un’altra economia, inventarono in Europa le cooperative e le banche rurali, ma non pensarono mai, o mai seriamente e in tanti, che quelle loro cooperative e quelle banche fossero l’antitesi delle altre banche e imprese del Paese. Erano certamente diverse, ma l’operaio della grande impresa sapeva che il cooperatore-lavoratore faceva un’esperienza molto simile alla sua, e quindi si capivano e lottavano insieme, ed erano anche soci delle stesse casse e spacci.
Siamo stati capaci di resistere nelle stagioni durissime del dopoguerra, del terrorismo, delle contrapposizioni ideologiche e politiche radicali e violente, perché il Paese reale faceva una esperienza di unità nelle fabbriche, nella terra, negli uffici, nelle cooperative, e ha intessuto un legame sociale che regge e ci sorregge ancora. Siamo sopravvissuti lavorando insieme, lavoratori, casalinghe, sindacati, contadini, imprenditori, banchieri, politici. Discutendo e lottando nelle fabbriche e nelle piazze; ma soprattutto lavorando e soffrendo insieme – anche per questa ragione è urgente tornare a generare nuovo lavoro. E sopravvivremo se saremo capaci di trovare ancora unità lavorativa, economica, civile.
All’origine delle civiltà, il dono e lo scambio interessato erano indistinguibili. Si donava come via allo scambio, che un giorno divenne il mercato. Questo dato antropologico ci dice molto anche sul nesso inverso: ci svela che nel mercato esiste e resiste molto dono. Se così non fosse, ben poca e triste cosa sarebbe recarsi per decenni ogni mattina al lavoro, per chi ha il “dono” del lavoro, o donare i nostri anni migliori in una fabbrica o in un uffici; ben triste e poca cosa sarebbero i nostri progetti e sogni lavorativi, troppo poveri i nostri rapporti di lavoro, troppo poche le ore di vita vera. Lo sappiamo tutti, lo abbiamo sempre saputo. Ma in questa fase di pensiero economico e sociale debole e superficiale, dobbiamo ricordarlo a noi stessi, e a tutti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire l' 08/12/2013
Nel sottosuolo della nostra cultura civile ed economica crescono due tendenze opposte. La prima è l’avvicinamento progressivo tra la cultura e i linguaggi del mercato capitalistico e quelli dell’economia sociale. La seconda, opposta, tendenza è una contrapposizione crescente sulla valutazione etica del mercato, che porta alcuni a vedere il mercato capitalistico come la soluzione di tutti i nostri mali economici e civili, e altri a considerarlo invece come il feticcio di ogni male morale, sociale e politico.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01/12/2013
I beni comuni stanno progressivamente diventando sempre più scarsi e decisivi, ma sono,ancora troppo assenti dalla cultura e dalla prassi economica e politica. In economia i beni comuni fanno la loro comparsa nel 1911, e sono ritornati, dopo una lunga eclisse, solo alla fine del secolo scorso con Elinor Ostrom, Nobel per l’economia 2009. In quel primo articolo ritroviamo tre principali note dei beni comuni: era uno studio sull’acqua, con una prospettiva storica e fu scritto da una donna, Katharine Coman.
[fulltext] =>L’acqua è ancora oggi al centro del dibattito sui beni comuni, e ne rappresenta il paradigma anche perché a differenza dei beni economici non ha sostituti - nota è la battuta di Lanny Bruce: “Ho inventato l’acqua in polvere, ma non so in che cosa scioglierla”. La prospettiva storica è poi essenziale, perché per capire come gestirli dobbiamo sempre domandarci come sono sorti e come si sono conservati nel tempo.
Senza la risorsa della memoria, che non è né la nostalgia né il ricordo ma un passato al servizio del presente e del futuro, non si capisce né il sostantivo (beni) né l’aggettivo (comuni). Per gestire bene questi beni occorre avere figli e nipoti, amare gratuitamente quelli degli altri, e saper intravvedere con gli occhi dell’anima quelli che non sono ancora nati, o che sono nati altrove. Ogni bambino è una forma specialissima di bene comune, che per crescere e non morire, ce lo ricorda la cultura africana, richiede “l’intero villaggio”.
Per custodire un bosco occorre saper curare e amare ogni singolo arbusto, che ha già in sé tutta la foresta di oggi, di ieri e di domani. E infine la terza nota, la dimensione femminile. All’inizio e alla fine (per ora) della teoria dei beni comuni troviamo due donne. E non a caso. I beni comuni sono essenzialmente una faccenda di relazioni, perché sono un rapporto tra persone mediato dai beni. Senza un’attenzione alla dimensione relazionale della vita e dell’economia, una relazione che attraversa il tempo e le generazioni, i beni comuni prima non si vedono, poi non si comprendono e infine si distruggono. La donna ha per vocazione un primato nell’attenzione intrinseca al rapporto e quindi alla trasmissione della vita; il suo sguardo e la sua carne legano tra di loro le generazioni e le affratellano. L’economia capitalistica fa una grande fatica a comprendere i beni comuni perché non affronta, in genere, i problemi in prospettiva storica (né geografica), non vede relazioni ma individui separati, ed è tutta definita all’interno del registro maschile della razionalità. Così la principale, se non unica, prospettiva economica sui beni comuni è la loro distruzione, a partire dall’ormai classico testo di Hardin sulla ‘tragedia dei beni comuni’ del 1967 - articolo molto, troppo, citato, ma raramente letto in tutta la sua complessità e ambivalenza.
Se vogliamo, invece, comprendere, salvare i beni comuni e soprattutto crearne di nuovi, saper vedere la dimensione relazionale è essenziale. Essendo beni creati, usati e custoditi insieme, per poter dire ‘è mio’ siamo costretti a pronunciarlo coralmente, trasformando il ‘mio’ in ‘nostro’, e in ‘di tutti’, i cinque pani e due pesci che sfamano le folle. Nella creazione e gestione dei beni comuni c’è dunque inscritta una norma di reciprocità. Come ci ha mostrato il filosofo inglese Martin Hollis (Trust, 1998), la tipica reciprocità dei beni comuni risponde alla “logica dell’abbastanza”. Quando decido di donare del mio per realizzare un ‘nostro’, non pretendo garanzie contrattuali né rassicurazioni che tutti gli altri miei concittadini facciano altrettanto; al tempo stesso, ho bisogno però di pensare e di credere che ‘abbastanza’ concittadini facciano come me, perché se pensassi di essere l’unico, o quasi, a donare sangue o a pagare le tasse, sarei fortemente tentato a non farlo più. Molti, infatti, fanno proprio così. Molti, sì, ma non tutti. Se in una comunità non esistono delle persone che, per qualche ragione, sono capaci di andare oltre questa logica di reciprocità (pur importante e necessaria), i beni comuni non nascono e non si mantengono. Se si vuol far partire un’azione ecologica in città, dar vita ad una forma di economia condivisa, smettere di pagare il pizzo alle mafie, se si vuol salvare dalla morte un bosco o una associazione, se si vuole tracciare e mappare i sentieri di montagna, è necessaria la presenza di un gruppo di cittadini, anche piccolo, che fanno da starter, che iniziano cioè ad impegnarsi senza garanzie né di reciprocità né di successo. In questi ‘cittadini starter’ è all’opera un tipo particolare di logica, quella che possiamo chiamare del “meglio io solo che nessuno”. Sanno che la loro azione donativa è rischiosa, spesso soggetta a derisione perché considerata ingenua, e forse sfruttata dagli opportunisti; ma, avendo a cuore quel bene comune e il Bene comune, preferiscono essere i soli ad occuparsi di quel bene piuttosto che vederlo morire, sperando (non pretendendo) che la loro azione sarà imitata domani. Cruciale poi che fra questi starter civili ce ne siano alcuni con il dono speciale della cura e accudimento dei conflitti relazionali, perché usando insieme i beni comuni i conflitti sono inevitabili.
E’ la presenza indispensabile della gratuità rischiosa e vulnerabile, incorporata soprattutto negli ‘starter’, che spiega e svela l’etimologia del bene comune. Comune proviene da cum-munus, dove ‘cum’ ci dice l’insieme e 'munus' dice, ad un tempo, dono e l’obbligo. I beni comuni sono faccenda di doni ma anche di obblighi verso gli altri, le future generazioni e quelle passate che ci hanno lasciato in custodia i loro patrimoni (patres-munus), ma anche l’obbligo nei confronti di se stessi, l’obbedienza al richiamo tenace della nostra interiorità e coscienza.
Per tutte queste ragioni i beni comuni sono difficilmente gestibili dal solo mercato capitalistico. E’ quantomeno molto triste, se non scandaloso, continuare ad assistere silenti e rassegnati agli speculatori che si stanno appropriando di acqua, terra comune, foreste, materie prime, ma anche del suolo pubblico delle nostre città, dove la loro ricerca del massimo profitto su beni non loro perché di tutti, diventa un’ulteriore tassa implicita per i cittadini, una tassa però che non alimenta le casse del comune ma quelle di lontani azionisti. Quando i nostri Comuni daranno vita ad un’alleanza con la società e le imprese civili per gestire senza scopo di lucro ma in modo efficiente il suolo, l’acqua, il verde, le strade; e quando gli Stati prenderanno coscienza che la mercificazione (molto più di privatizzazione) dei beni comuni (dalle autostrade ai trasporti pubblici) è una via miope e senza pensiero economico e sociale profondo?
La società di mercato capitalistico, invece, sa produrre molto bene, e sempre di più, i ‘beni di club’, quei beni che a differenza dei beni comuni sono esclusi per chi non è proprietario o associato. I beni di club (pensiamo ai quartieri privati) sono creati e gestiti tenendo a bada e ben lontani gli esclusi, soprattutto i poveri, da cui si proteggono con diritti di proprietà, cancelli, e sempre più guardie private. E’ la regola fondamentale della ‘porta aperta’ che ha impedito alle cooperative di diventare beni di club. Non dimentichiamo, poi, che nella nostra epoca una alta forma di bene comune è dar vita ad un’impresa vera, dove qualcuno corre dei rischi per creare lavoro e ricchezza per tanti, e beni per tutti - una malattia del nostro tempo, dovuta al dominio della finanza e della sua cultura, è la trasformazione delle imprese da beni comuni a beni di club. Un’impresa-bene comune è quella che arricchisce i proprietari assieme all’intera comunità, e che quindi ha bisogno dell’‘intero villaggio’ per non morire; l’impresa-club, invece, è quella che nasce e muore, e fa morire, per i soli vantaggi speculativi di chi la possiede.
Saremo capaci di vivere insieme, e di vivere bene, finché sapremo vedere, creare, amare e non distruggere i beni comuni, che sono la pre-condizione e l’humus dei beni privati. Ma abbiamo un estremo bisogno di antichi e nuovi ‘starter’, cittadini capaci per vocazione di generare e custodire i beni comuni, il Bene comune, di segnare sentieri di vita per tutti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01/12/2013
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/11/2013
Le comunità fioriscono quando sono capaci di cooperazione. Se non avessimo iniziato a co-operare (agire insieme) la vita in comune non sarebbe mai iniziata, e saremmo restati evolutivamente bloccati alla fase pre-umana. Ma come spesso succede per le grandi parole dell’umano, anche la cooperazione è ad un tempo una e molteplice, spesso ambivalente, e le sue forme più rilevanti sono quelle meno ovvie. Tutte le volte che esseri umani agiscono insieme e si coordinano per raggiungere un risultato comune mutuamente vantaggioso, abbiamo a che fare con la cooperazione.
[fulltext] =>Un esercito, una liturgia religiosa, una lezione a scuola, un’impresa, l’azione di governo, un sequestro di persona, sono tutte forme di cooperazione, ma si riferiscono a fenomeni umani molto diversi tra di loro. Da ciò deriva una prima conseguenza: non tutte le cooperazioni sono cosa buona, perché ci sono cooperazioni che sebbene aumentino i vantaggi dei soggetti coinvolti peggiorano il bene comune perché danneggiano altri al di fuori di quella cooperazione. Per distinguere la buona dalla cattiva cooperazione è necessario innanzitutto guardare agli effetti che quella cooperazione intenzionalmente produce sulle persone esterne a quella cooperazione.
Lungo la storia, le teorie politiche ed economiche si sono suddivise in due grandi famiglie. Quelle che partono dall’ipotesi che l’essere umano non è naturalmente capace di cooperare, e quelle che invece rivendicano la natura cooperativa della persona. Il principale rappresentante della seconda tradizione è Aristotele: l’uomo è animale politico, cioè capace di dialogo con gli altri, di amicizia (philia) e di cooperazione per il bene della polis. L’esponente più radicale della prima tradizione dell’animale insocievole è Thomas Hobbes: “E’ vero che alcune creature viventi, come le api e le formiche, vivono insieme socialmente. Pertanto qualcuno vorrebbe sapere perché gli uomini non fanno lo stesso” (Il Leviatano, 1651). All’interno di questa tradizione anti-sociale si muove molta parte della filosofia politica e sociale moderna, mentre gli antichi e i medioevali (incluso San Tommaso) erano generalmente dalla parte di Aristotele. Potremmo anche dire che la principale domanda della teoria politica ed economica moderne è stato tentar di spiegare come possano emergere esiti cooperativi a partire da esseri umani che non sono capaci di cooperazione intenzionale, perché troppo dominati da interessi egoistici.
Molte teorie del ‘contratto sociale’ (non tutte) sono state la risposta della filosofia politica della modernità: individui egoisti, ma razionali, capiscono che è nel loro interesse dar vita ad una società civile con un contratto sociale artificiale. L’uomo naturale è incivile, e quindi la società civile è artificiale. La risposta della scienza economica moderna a quella stessa domanda sono le varie teorie della ‘mano invisibile’, dove il bene comune (‘la ricchezza delle nazioni’) non nasce dall’azione cooperativa intenzionale e naturale di animali sociali, ma dal gioco degli interessi privati di individui egoisti separati tra di loro. Alla base di queste due tradizioni ritroviamo la stessa ipotesi antropologica: l’essere umano è un ‘legno storto’ che, senza bisogno di raddrizzarlo, produce buone ‘città’ se è capace di dar vita a istituzioni artificiali (contratto sociale, mercato) che trasformano le passioni auto-interessate in bene comune.
E’ a questo punto che si svela un mistero del mercato. Anche la società di mercato ha una sua forma di cooperazione, alla quale però non è richiesta nessuna azione congiunta tra gli individui ‘cooperanti’. Quando entriamo in un negozio per acquistare del pane, quell’incontro tra l’acquirente e il venditore non è descritto né vissuto come un atto di cooperazione intenzionale: ciascuno cerca il proprio interesse e compie la contro-prestazione (denaro per pane; pane per denaro) solo come un mezzo per ottenere il proprio bene. Eppure quello scambio migliora la condizione di entrambi, grazie ad una forma di cooperazione che non richiede nessuna azione congiunta. Il bene comune diventa così la una somma di interessi privati di individui reciprocamente immuni che cooperano senza incontrarsi, toccarsi, guardarsi.
E’ all’interno dell’impresa dove invece ritroviamo la cooperazione intenzionale o forte, essendo l’impresa una rete di azioni congiunte e cooperative per obiettivi in massima parte comuni. Così, quando acquisto un biglietto Roma-Malaga, tra me e la compagnia aerea non c’è nessuna forma di cooperazione intenzionale ma solo interessi separati paralleli (viaggio e profitto); tra i membri dell’equipaggio di quel volo, però, deve esserci una cooperazione forte, esplicita e intenzionale. Da qui deriva che mentre (quasi) nessun economista scriverebbe una teoria dei mercati basata sull’etica delle virtù, sul lato delle teorie dell’impresa e delle organizzazioni sono ormai molte le ‘etiche degli affari’ fondate sull’etica delle virtù di Aristotele e Tommaso.
La divisione del lavoro nei mercati e nella grande società è una grande cooperazione involontaria e implicita; la divisione del lavoro dentro l’impresa, invece, è cooperazione in senso forte, un’azione volontaria congiunta. Il capitalismo di matrice anglosassone e protestante ha così dato vita ad un modello dicotomico, ad una riedizione della luterana (e agostiniana) ‘Dottrina dei due regni’. Nei mercati c’è la cooperazione implicita, ‘debole’ e non-intenzionale; nell’impresa, e in generale nelle organizzazioni, abbiamo invece la cooperazione esplicita, forte ed intenzionale - due cooperazioni, due ‘città’, profondamente e naturalmente diverse tra di loro.
Questa cooperazione non è però la sola possibile nei mercati. La versione europea della cooperazione nei mercati, in particolare di quella latina, era diversa, perché la sua matrice culturale e religiosa non era individualistica ma comunitaria. Qui la distinzione tra cooperazione ad intra (impresa) e cooperazione ad-extra (nei mercati) non si è mai prevalsa - almeno fino a tempi recenti. E’ questa la tradizione della cosiddetta Economia civile, che ha letto l’intera economia e società come una faccenda di cooperazione e di reciprocità. L’impresa famigliare (in Italia ancora il 90% del settore privato), le cooperative, Adriano Olivetti, si spiegano prendendo sul serio la natura cooperativa e comunitaria dell’economia. Ecco perché il movimento cooperativo europeo è stata l’espressione più tipica dell’economia di mercato europea. Come lo sono (stati) i distretti industriali (da Prato per i filati, a Fermo per le scarpe), dove comunità intere sono diventate economia senza smettere di essere comunità. Così, il capitalismo USA ha come modello il mercato anonimo e cerca di “mercantizzare” (rendere mercato) anche l’impresa, che sempre più è vista come un nesso di contratti, una ‘commodity’ (merce), o un mercato con fornitori e clienti ‘interni’. Il modello europeo, invece, ha cercato di ‘comunitizzare’ (rendere comunità) il mercato, prendendo come modello di buona economia quello mutualistico e comunitario, esportandolo dall’impresa all’intera vita civile (cooperazione di credito e di consumo). Assumendosi i costi e i benefici di questa operazione: un’economia più densa di umanità e di gioia di vivere, ma anche di quelle ferite che gli incontri umani a tutto tondo portano inevitabilmente con sé.Il modello USA oggi sta colonizzando anche gli ultimi territori di economia europea, anche perché la nostra tradizione comunitaria e cooperativa non è stata sempre all’altezza sul piano culturale e pratico, non si è sviluppata in tutte le regioni, e, in Italia, ha dovuto fare i conti con il trauma, non ancora del tutto elaborato, del fascismo si è auto-proclamato vero erede della tradizione dell’impresa cooperativa (il corporativismo). La ‘grande crisi’ che stiamo vivendo, però, ci dice che l’economia e la società fondate sulla cooperazione-senza-toccarsi può produrre dei mostri, e che il business che è solo business alla fine diventa anti-business. L’ethos dell’Occidente è un intreccio di cooperazioni forti e deboli, di individui che fuggono dai lacci delle comunità in cerca di libertà, e di persone che per vivere bene liberamente si legano. In una fase della storia in cui il pendolo del mercato globale tende verso gli individui-senza-legami, l’Europa deve ricordare, custodendola e vivendola, la natura intrinsecamente civile e sociale dell’economia.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/11/2013
Le comunità fioriscono quando sono capaci di cooperazione. Se non avessimo iniziato a co-operare (agire insieme) la vita in comune non sarebbe mai iniziata, e saremmo restati evolutivamente bloccati alla fase pre-umana. Ma come spesso succede per le grandi parole dell’umano, anche la cooperazione è ad un tempo una e molteplice, spesso ambivalente, e le sue forme più rilevanti sono quelle meno ovvie. Tutte le volte che esseri umani agiscono insieme e si coordinano per raggiungere un risultato comune mutuamente vantaggioso, abbiamo a che fare con la cooperazione.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/11/2013
Sta emergendo una nuova domanda di partecipazione nel consumo, nel risparmio e nell’uso dei beni. Una differenza cruciale, ad esempio, tra l’internet di 10-15 anni fa, abitato da siti web e dalle email, e il web dei social media e delle Apps, è un maggior coinvolgimento e protagonismo di noi abitanti della rete. Analogamente, la tv oggi non manda in onda soltanto programmi per ‘telespettatori’, ma ci chiede di votare il cantante o il giocatore migliore. E la cosa interessante è che la gente partecipa, investe tempo per dire la propria opinione e per sentirsi parte attiva di una nuova forma di comunicazione: per fare un’esperienza.
[fulltext] =>Molti dedichiamo tempo, e molto, per scrivere o arricchire, in modo anonimo, le voci di Wikipedia (l’enciclopedia del web), o per migliorare un software libero. È come se stessimo creando nuove ‘piazze’, dove la gente sta tornando, diversamente e con gusto, a parlare, a perder tempo disinteressatamente. Un fenomeno di certo ambivalente, ma l’ambivalenza può essere anche l’inizio di un discorso generativo.
Agli uomini e alle donne il solo consumo dei beni non è mai bastato. Da animali simbolici e ideologici quali siamo, abbiamo sempre chiesto di più alle nostre merci: dallo status sociale alla rappresentazione di futuri migliori durante presenti indigenti. Tramite i beni abbiamo voluto parlare, raccontare storie, raccontarci agli altri, e ascoltare gli altri parlare. Fare esperienze. Alcuni beni, poi, sono talmente legati ad un’esperienza che gli economisti li hanno chiamati “beni d’esperienza” (experience goods), quei beni che riusciamo a capire e valutare solo dopo averne fatto esperienza diretta e personale. Sono beni di esperienza quasi tutti i beni culturali e turistici. Posso valutare se ho speso bene il biglietto per un museo mentre lo visito, non prima; capisco se il prezzo di quel week-end all’agriturismo era congruo solo quando mi trovo sul posto, e vedo paesaggio, ambiente e incontro i padroni di casa. Il mercato non ama questa incertezza, e cerca di offrirci alcuni degli elementi decisivi per valutare ex-ante un hotel o un ristorante. Ecco allora il sito internet sempre più ricco di foto, e soprattutto il peso crescente delle recensioni dei clienti, oggi talmente importanti che rischiamo di veder nascere un mercato incivile di compravendita di recensioni positive, e negative (per i concorrenti).
E qui si aprono discorsi centrali per comprendere l’evoluzione del nostro sistema economico e sociale. Innanzitutto nei beni di esperienza sono gli elementi di contorno quelli che risultano essere decisivi. Posso avere il più bel sito archeologico del mondo, ma se non c’è un intero sistema territoriale (trasporti, hotel …) che funziona, il valore di quel bene precipita, e porta giù con sé il valore d’intere regioni. Posso trovare agriturismi marchigiani in ottime ‘location’, ma se quando arrivo non trovo quello stile relazionale frutto di secoli di cultura dell’accoglienza, che si traduce in mille dettagli concreti, il valore di quella vacanza scompare o si ridimensiona molto. In questi beni si coglie nella sua purezza uno dei tratti più complessi e misteriosi della nostra società di mercato. Quando un inglese viene in vacanza in Toscana o in Andalusia, va in cerca anche di dimensioni intrinseche a quelle culture, che non sono semplici merci. Certo, sa che il resort e il ristorante tipico sono imprese commerciali e che quindi rispondono alla logica del profitto, ma parte del benessere di quella vacanza, a volte la parte più consistente, dipende dalla presenza di contesti culturali, che sebbene entrino (eccome!) nel prezzo di quell’alloggio e di quel pranzo non sono semplici merci ‘prodotte’ da quegli imprenditori a mero scopo di lucro. Tanto che il valore di assistere ad una vera sagra paesana o ad una autentica rievocazione storica è immensamente maggiore di quelle rappresentazioni folkoristiche organizzate artificialmente, e a pagamento, dal ristoratore. Nei nostri territori esistono, in altre parole, dei patrimoni culturali che sono degli autentici beni comuni (e non beni privati), accumulati nei secoli, che diventano anche vantaggio competitivo delle nostre imprese e che generano profitti. Occorre custodirli, perché da loro dipende molto della nostra forza economica e civile presente e ancor più futura.
Un secondo ambito è poi il cosiddetto consumo critico e responsabile. Ciò che ci porta nelle botteghe civili e speciali del commercio equo è soprattutto la ricerca di una esperienza. Per questo è essenziale parlare con chi vi lavora, farsi raccontare le tante splendide storie dei beni, far ‘parlare’ la gente che li ha prodotti; intrattenersi magari a scambiare qualche parola sul nostro capitalismo, o incontrare qualche altro cliente che è lì per fare la nostra stessa esperienza. Il valore di questo consumo non è contenuto soltanto nel bene (e nei rapporti di produzione che esso incarna), ma anche nell’esperienza interpersonale che facciamo quando ci rechiamo in un negozio, in una filiale di una banca, in un mercato. L’etica senza esperienza è solo ideologia.
Infine, dobbiamo prendere coscienza che tutti i beni di mercato stanno diventando beni di esperienza. È questo un paradosso cruciale nell’economia di mercato contemporanea. Da una parte, il mercato ha bisogno di produrre una massa crescente di beni senza troppe varianti, poiché le economie di scala e le esigenze di costo portano a consumi di massa di merci simili per poterli riprodurre, con poche varianti e a basso costo, in tutto il mondo. E così si sono mosse le imprese del XX secolo. Ma queste imprese si trovano oggi a fronteggiare anche una tendenza opposta. La democrazia e la libertà generano milioni di persone con gusti e valori diversi, dove ciascuno sa di essere unico e non omologabile. Ecco allora che le grandi imprese cresciute con la mentalità del consumo di massa, devono ripensarsi profondamente. Da una parte siamo attratti dall’avere anche noi esattamente quel tipo di computer o telefonino status simbol; al tempo stesso, però, vorremmo che il nostro pc avesse qualcosa di unico disegnato sulla mia persona; vorrei, cioè, che l’esperienza che io faccio con quel pc sia unica e solo mia, perché soltanto io sono io. Ecco allora che si aprono prospettive intriganti per il prossimo futuro industriale ed economico. Le imprese di successo, anche su scala mondiale, saranno quelle capaci di mettere assieme prodotti che possono essere venduti su mercati sempre più globali (e oggi la rete consente anche a piccolissime imprese di operare a Madras, Lanciano e a Lisbona), ma soprattutto capaci di coinvolgere il ‘consumatore’ in un’esperienza nella quale non si sente uno dei tanti anonimi e cloni possessori e utenti, ma un pezzo unico. Si capisce allora che ci attende un grande sviluppo di ‘fai da te’ più sofisticati degli attuali, fatti di un intreccio di beni standardizzati, di assistenza tecnica e della nostra creatività nel personalizzare abitazioni, giardini, siti internet, e domani quartieri e città. Se sappiamo guardare dentro l’ambivalente mercato televisivo di ultima generazione, ad esempio, possiamo già trovarvi qualcosa del genere, o almeno tentativi, più o meno felici, di andare in questa direzione.
Quando usciamo di casa per scendere nei mercati, cerchiamo esperienze più grandi delle cose che compriamo. Troppo spesso, però, i beni non mantengono le loro promesse, perché quelle esperienze sono troppo povere rispetto al nostro bisogno di infinito. E così, delusi ma capaci di dimenticare le delusioni di ieri, ricominciamo ogni mattina le nostre liturgie economiche, in cerca di beni, di sogni, di rapporti umani, di vita.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/11/2013
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/11/2013
C’è una legge economica e sociale tanto importante quanto dimenticata. È quella che Luigi Einaudi chiamava “La teoria del punto critico”, che egli definiva “fondamentale nella scienza, sia economica sia politica” (Lezioni di politica sociale, 1944), che attribuiva al suo conterraneo Emanuele Sella (un economista e poeta, che scrisse anche un trattato di economia “trinitaria”). L’idea è l’esistenza di una soglia invisibile ma reale, di un punto critico, superato il quale un fenomeno da positivo diventa negativo, cambiando segno o natura. La legge del punto critico potremmo oggi applicarla alla finanza, ma anche alle tasse (che quando superano una soglia finiscono per penalizzare gli onesti che le pagano).
[fulltext] =>Scriveva Einaudi: “è ragionevole che ogni famiglia aspiri al possesso della radio. Ma la radio può diventare strumento perfettissimo di imbecillimento dell’umanità. Il passaggio dalla radio che allieta e istruisce e fa dimenticare i dolori, alla radio che è causa d’imbecillimento dell’umanità è graduale”. Se cambiamo l’oggetto del suo discorso e al posto di ‘radio’ (oggi tra i media più creativi e critici) scriviamo ‘TV’, la logica della sua analisi diventa attualissima, e può essere estesa a tutti i beni di comfort.
Nelle prime fasi dello sviluppo, la disponibilità di beni che aumentano il comfort è importante per il benessere. Gli esempi sono tanti. Basti pensare a che cosa ha rappresentato l’invenzione della lavatrice per il benessere delle nostre nonne e mamme: quel bene di comfort divenne un alleato del loro bene, e di quello di tutti. O all’introduzione della pay-tv che consentì di vedere la partita a casa al caldo e senza rischi. Qualcosa di analogo è poi accaduto con l’avvento dei social media, ma anche con i telefonini, comode automobili e grandi case. Ma sono ormai molti gli studi che ci dicono che gli effetti dei beni di comfort sul benessere cambiano di segno, o di natura, quando si supera un punto critico. Utilissimi sono i cibi pre-cotti quando facciamo tardi e abbiamo venti minuti per preparare la cena; ma se col tempo diventano l’unico cibo presente nel frigo, e ci tolgono la gioia di preparare un pranzo (sano), magari insieme, è probabile che la nostra vita peggiori in qualità. Ottimo è trascorrere un po’ di tempo su facebook, soprattutto se ‘chattiamo’ con chi abbiamo già incontrato off-line. Ma se le ore giornaliere sul web diventano sei o otto, l’effetto dei nuovi media sul benessere cambia radicalmente. E se il consumo di calcio sul divano di casa dovesse crescere al punto da svuotare gli stadi, il benessere che trarremmo dal guardare in TV una partita giocata in spalti semivuoti diventerebbe ben poca cosa, e porterebbe alla fine di quello sport (e di quel mercato).
Ma perché – è questa la domanda cruciale – dovremmo cadere in simili trappole, e non fermarci prima di superare il ‘punto critico’? Le ragioni sono molte. Una prima ce la fa intravvedere lo stesso Einaudi: la gradualità. Il punto di svolta si supera un po’ alla volta e senza accorgersene, o accorgendocene troppo tardi. Una seconda spiegazione si chiama “salienza”: c’è in noi una forte tendenza a vedere di più i beni di comfort e a veder meno beni come quelli relazionali e civili. Nel calcolo del peso relativo che i diversi tipi di beni hanno per la nostra felicità, sovrastimiamo le merci e sottostimiamo i beni non di mercato, che essendo più ordinari e feriali (pensiamo ai rapporti di famiglia, o alla democrazia) li vediamo meno, sono meno salienti – tranne poi accorgerci del loro valore, e del loro prezzo, una volta che li perdiamo. Infine c’è il nostro mercato capitalistico: esiste tutta un’industria, sempre più agguerrita, orientata razionalmente a venderci beni di comfort, ma nessuno paga per pubblicità che ci incoraggi ad investire in beni relazionali o in libertà – interessante è, a questo riguardo, lo “spot impossibile” (su you tube) ideato dal mio amico e collega Stefano Bartolini.
C’è poi un altro ambito toccato da quello scritto di Einaudi: “Una società di gente ubbidiente diventa presto vittima del tiranno o di impiegati e di mandarini. Chiamavasi ‘Regola’ quella che S. Benedetto, S. Francesco e gli altri grandi fondatori avevano dato agli ordini monastici. Finché i conventi furono poveri, solo gli uomini pronti al sacrificio vi entravano. Così il convento prosperava; e le donazioni dei fedeli affluivano; e molti desideravano dedicare ad esso sé e la famiglia e i beni. Ma la ricchezza partorisce la corruzione. … Dappertutto, a distanza di cento anni dalla fondazione, più o meno, si assiste alla medesima vicenda”. Qui il superamento di un punto critico produce lo snaturamento di un elemento che nel tempo da buono si trasforma nel suo opposto (sudditanza, accumulazione di ricchezza …). È, questa, un’espressione di un’antica regola aurea: i comportamenti viziosi spesso non sono altro che primitive virtù pervertitesi per aver voluto salvare la forma e non la sostanza che le aveva generate - il prudente risparmio che diventa avarizia, o il giusto profitto che evolve in rendita parassitaria. La fedeltà incondizionata alla lettera del fondatore di movimenti culturali o spirituali, ad esempio, che nella prima generazione era stato un elemento vitale ed essenziale per la nascita e crescita di quelle esperienze, ad un certo punto fa innescare un meccanismo auto-distruttivo che impedisce il vitale bisogno di rinnovamento e di riformatori, fino a morire in nome di antiche virtù (fedeltà) tramutatesi gradualmente in vizi (immobilismo). I movimenti monacali, francescano o domenicano vivono ancora a distanza di secoli anche perché sono stati capaci di generare molti riformatori, creativamente fedeli.
Esistono, infatti, degli accorgimenti da adottare per evitare, prevenire o quantomeno gestire, queste crisi, che a volte diventano vere e proprie ‘morti da superamento del punto critico’. Una prima regola fondamentale è prendere coscienza individuale e collettiva, e nei tempi ancora felici, che il punto critico esiste, e che lo si può superare senza accorgersene. Sapere che si potrà facilmente cadere in tali trappole è il primo antidoto che può salvare, soprattutto se diventa anche regole di governance e accortezza istituzionale. Ma ancora più importante è la presenza, o l’introduzione, di una culturale giubilare. Nel popolo d’Israele ogni cinquant’anni i beni tornavano agli antichi proprietari, i debiti si cancellavano. Se i movimenti e le comunità nati da idealità periodicamente tornassero poveri, smobilitando e rimettendo in circolo i beni accumulati nei decenni, e si rimettessero “lungo la strada”, lì ritroverebbero quella forza profetica che nel frattempo hanno naturalmente perso; e lì incontrerebbero, nelle periferie, tanti in ricerca di quegli stessi ideali che non trovano più nei luoghi della vita ordinaria del loro tempo.
Infine, non è difficile accorgersi che alcuni punti critici in Occidente li abbiamo già superati, probabilmente senza accorgercene, o senza ascoltare chi ce lo diceva o gridava – anche perché quando il punto critico viene superato, questo scompare dall’orizzonte visivo delle civiltà, resta dietro le loro spalle. Lo abbiamo superato, o vi siamo molto vicini, nell’ambiente naturale, nei capitali spirituali, nell’uso dell’acqua, nel consumo di suolo pubblico, in molti tessuti comunitari, nell’uso di incentivi, dei controlli, della concorrenza, o nella sopportazione dell’ingiustizia del mondo. Abbiamo di certo oltrepassato il punto critico della vita esteriore (consumi, merci, tecnica), e così ci appare normale la nostra grande carestia e incapacità d’interiorità, di meditazione, di preghiera nella quale siamo precipitati, gradualmente. Stessa sorte è quella capitata all’immunità. La buona conquista moderna di spazi e momenti di vita privata immuni dai potenti e dai padroni, si è trasformata in una ‘cultura dell’immunità’ dove non ci si abbraccia e non ci sfiora più, che sta facendo sfiorire tutti e tutto; e così una piena di solitudine sta inondando le nostre città, le nostre vite. Ci stiamo abituando a soffrire soli, a morire soli, a diventar grandi da soli in stanze chiuse, vuote di persone amiche ma piene di demoni che ci rubano i nostri figli.
Parlare insieme di questi grandi temi civili è un primo passo decisivo per prenderne coscienza e per non oltrepassare altri punti critici all’orizzonte. Per fermarci e perfino retrocedere: in alcuni rari ma luminosi casi i popoli sono stati capaci di farlo.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/11/2013
C’è una legge economica e sociale tanto importante quanto dimenticata. È quella che Luigi Einaudi chiamava “La teoria del punto critico”, che egli definiva “fondamentale nella scienza, sia economica sia politica” (Lezioni di politica sociale, 1944), che attribuiva al suo conterraneo Emanuele Sella (un economista e poeta, che scrisse anche un trattato di economia “trinitaria”). L’idea è l’esistenza di una soglia invisibile ma reale, di un punto critico, superato il quale un fenomeno da positivo diventa negativo, cambiando segno o natura. La legge del punto critico potremmo oggi applicarla alla finanza, ma anche alle tasse (che quando superano una soglia finiscono per penalizzare gli onesti che le pagano).
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