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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 11//11/2023
L’epoca dei mercanti medievali, delle loro compagnie dove nel Libro della ragione si trovava il conto mastro intestato a “Messer Domineddio”, fu il tempo quando l’alleanza tra i mercanti e i frati mendicanti generò Firenze, Padova o Bologna. Un’epoca straordinaria che non riuscì a diventare la cultura economica italiana e meridiana moderna, perché la Riforma luterana e la Controriforma cattolica spezzarono in due l’Europa e impedirono che i semi civili medioevali fiorissero in pienezza. Fu, paradossalmente, il mondo nordico protestante a raccogliere una parte di eredità della prima economia di mercato medioevale (ma senza i suoi carismi, senza Francesco e Benedetto), sebbene fosse nato in polemica con le ricchezze della cristianità romana dei Papi rinascimentali. I Paesi cattolici, e tra questi l’Italia in modo speciale, vissero la Riforma protestante come un trauma religioso e civile, e i frutti furono quelli tipici di un grande trauma collettivo. Non possiamo sapere cosa potevano diventare la società e l’economia italiane e meridiane se quell’alleanza tra francescani e mercanti fosse continuata dopo il Cinquecento, se la Chiesa cattolica non si fosse impaurita, a tratti terrorizzata, di fronte a ogni forma di libertà individuale, convinta che il “foro interno” privo del controllo dei pastori fosse troppo esposto ai venti dell’eresia del Nord. Tutta quella classe di mercanti umanisti cresciuta tra Dante e Masaccio, Michelangelo e Machiavelli, le imprese e banche dei toscani e dei lombardi, si infransero sullo scoglio del Concilio di Trento, e con la fine del Cinquecento iniziò quell’età barocca che ha donato qualche eccellenza artistica e letteraria ma non ha generato figli e nipoti all’altezza di quei primi mercanti amici dei frati e delle città. La storia barocca dell’Italia è la storia di un sentiero interrotto, di una incompiuta civile, religiosa ed economica, che ha avuto effetti decisivi sulla forma che l’economia e la società moderne hanno assunto sotto le Alpi. Quell’insieme di teologia, norme giuridiche e morali, pratiche e divieti, paure e angosce che chiamiamo Controriforma (non uso l’espressione di Riforma cattolica, anche se esiste una Riforma nella Controriforma cattolica e una Controriforma nella Riforma protestante) non ha solo condizionato la nostra vita religiosa, ha cambiato e plasmato anche le nostre imprese, la politica, le banche, le comunità, le famiglie, le tasse.
[fulltext] =>In questa Italia della Controriforma qualche dimensione dell’ethos economico medioevale e rinascimentale comunque riuscì, nonostante tutto, a sopravvivere alla restaurazione. Qualche spirito antico si infilò negli aditi nascosti tra le pieghe della vita della gente, negli spazi vivi e non occupati dal potere religioso. Spazi spesso sommersi, veri fiumi carsici, dove alcuni mercanti e banchieri riuscirono a incunearsi senza essere scoraggiati e vinti dai manuali per confessori e dai catechismi anti-economici e anti-civili del Seicento e Settecento. In questi secoli molti Monti di Pietà si estinsero, altri però si trasformarono in banche commerciali. I Monti frumentari, lo abbiamo visto, sopravvissero più a lungo, per quattro secoli, e furono risorse povere ma decisive per il Sud Italia. Furono pochi, ma non mancarono studiosi di faccende di economia che destreggiandosi tra divieti e condanne ecclesiastiche scrissero belle pagine di teoria economia. Dapprima Antonio Serra e Tommaso Campanella, quindi Ludovico Muratori e Scipione Maffei furono quel ponte ideale che unì la sponda dell’Umanesimo civile con l’Illuminismo riformatore di Genovesi e della sua scuola civile napoletana (di Dragonetti, Longano, Odazi, Filangieri, Galanti...), che è stata una delle stagione più luminose della storia italiana. Il Settecento economico si scontrò presto con la restaurazione dei primi decenni dell’Ottocento, e poi l’anti-modernismo tra Otto e Novecento, gli anni del Non expedit di Pio IX e della Pascendi dominici gregis di Pio X (1907), che fu culturalmente qualcosa di simile al clima creato dalla Controriforma nei secoli passati.
Venendo direttamente all’economia, il napoletano Francesco Fuoco negli anni 20 e 30 dell’Ottocento scrisse testi di sapore ancora tutto genovesiano, e quindi umanisti, pagine eredi dei mercanti-banchieri umanisti del Trecento e Quattrocento toscano. Ma con Fuoco termina la tradizione genovesiana dell’Economia civile, perché con metà Ottocento i nostri economisti migliori rifondarono la tradizione italiana su basi francesi e inglesi, senza nessun legame vitale con il Settecento napoletano e italiano. Avremo ancora buoni economisti ma ormai tutti distantissimi da Genovesi e inseriti dentro il flusso principale di una scienza nuova, internazionale e sempre più a guida anglosassone. L’Italia diventa periferia, sebbene ancora rispettata fino alla seconda Guerra mondiale (grazie soprattutto alla stima enorme di tutti per Vilfredo Pareto).
Alcuni pochi economisti italiani, anche di talento, tentarono però tra Otto e Novecento di ricollegarsi alla tradizione italiana classica, senza seguire il carro unico della scienza nei suoi nuovi binari. Uno di questi, e forse quello più interessante, è Achille Loria (1857-1943), mantovano, che abbiamo lasciato la settimana scorsa con la sua “teoria della rendita”, simile a quella di Francesco Fuoco. Loria fu tra i pochi economisti del suo tempo cui non sfuggirono i Monti frumentari: «I Monti frumentari, che prestavano in natura il grano, dando al mutuatario, al momento della semina, uno staio di grano calante e ricevendo, al momento del raccolto, uno staio di grano ricolmo: la differenza fra le due staia rappresentava l'interesse. Ma nel tempo questo prestito si fece per lo più in favore dei grandi proprietari e quindi perdette tutto il carattere filantropico, che costituiva il suo pregio» ( Corso di Economia politica, 1927, p.695). L’interesse di Loria per la rendita, che pose al centro del suo sistema, era espressione di una visione dell’economia e della società centrate sui profitti, e quindi sugli imprenditori, sulla classe produttiva, dunque critica della tendenza parassitaria della cultura italiana, cresciuta esponenzialmente durante la Controriforma. Il Seicento fu infatti un tempo di ritorno alla terra, della nobiltà del sangue, dei conti e dei marchesi, di una classe di nobili che vivevano senza lavorare, e tutto il resto della società che lavorava senza vivere: «Viene poi un'altra suddistinzione delle classi sociali, plasmata sulla distinzione del capitale in produttivo e improduttivo: quella dei capitalisti produttori, esclusivamente dediti all'industria, e quella degli improduttivi che non aumentano la ricchezza sociale ma speculano sui valori, formando il loro reddito con prelevazione sui redditi altrui» ( La sintesi economica, 1910, p. 211).
Resta comunque una domanda. Loria è continuatore della tradizione civile italiana, ma non era cattolico (era di famiglia ebrea): dove si orientò allora il pensiero economico cattolico del Novecento? Loria scrisse anche di cooperazione e sul movimento cooperativo. Fu, infatti, negli scritti sulla cooperazione, sulle casse rurali, e poi sulle casse di risparmio dove troviamo alcune delle pagine più belle di Economia civile di scrittori italiani, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, incluse alcune bellissime di Giuseppe Mazzini. Come, in tempo di Controriforma, gli italiani cattolici si dedicarono all’edificazione di Monti di Pietà, dei Monti frumentari, di una enorme quantità (e qualità) di opere sociali, scuole, ospedali, anche la notte del pensiero libero tra l’Otto e il Novecento anti-modernisti vide una grande proliferazione di opere sociali, istituzioni, cooperative, banche, e di scrittori non accademici ma bravi costruttori di bene comune.
Ciò non toglie però che l’ondata anti-modernista della Chiesa cattolica coinvolgesse pesantemente anche i pochi economisti cattolici della prima metà del XX secolo, a cominciare da Giuseppe Toniolo per arrivare ad Amintore Fanfani. Questa tradizione cattolica, che ebbe nella prima stagione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano fondata da Agostino Gemelli un centro importante, continuò a guardare il Medioevo come l’età dell’oro e la Scolastica di Tommaso come il punto più alto della cultura e della filosofia cristiana, anche in ambito economico. Per Fanfani, un autore con una sua genialità e originalità, il vertice etico dell’etica economica si raggiunse tra il Duecento e il primo Trecento, quando, con le prime avvisaglie dell’Umanesimo – letto come rigurgito di paganesimo – iniziò il declino della civiltà cristiana che darà vita, già a fine Trecento, allo spirito del capitalismo, che per Fanfani era uno spirito maligno. Fanfani, criticando (forse senza capirlo) Max Weber, affermava infatti che il capitalismo non nasce nel mondo protestante ma in Italia tra Trecento e Quattrocento, quando la prassi economica abbandona gli insegnamenti della Scolastica e inizia a seguire strade diverse e lontane dall’autentico umanesimo evangelico: «Lungo il Trecento e il Quattrocento cresce il numero di coloro che nell’acquisto della ricchezza adottano metodi illeciti secondo le regole tomistiche... Il vicino perde la fisionomia del fratello e acquista quella del concorrente, cioè del nemico» ( Le origini dello spirito capitalistico in Italia, Vita e Pensiero, 1933, p.162). Quindi, mercanti come Marco Francesco Datini, si redimono da una vita sbagliata «cercando di riparare in punto di morte» (p.165). Perché, ormai, «la ricchezza è un mezzo unicamente atto a soddisfare le proprie necessità» (p.165). Invece, fino a metà Trecento, l’economia era per Fanfani cristiana perché «l’attività economica, come tutte le altre attività umane, doveva svolgersi attorno a Dio... Tutti si incontravano in un’idea: quella della teocentricità» (p.158). Il Quattrocento fu dunque la nascita dello spirito del capitalista che «che altro limite di condotta all’infuori dell’utilità non conosce» (p.155).
Così, tutto il lavoro della scuola francescana tra Duecento e Trecento (che Fanfani e Toniolo ignorano o non prendono sul serio), che aveva portato a una nuova concezione del profitto civile e del mercante come amico della città, viene considerato degenerazione e decadenza dallo spirito cristiano vero, quello dominato dal tomismo, quando si operava solo per il bene comune, perché, si dice, operare per il bene privato è solo una forma di egoismo e di ricerca della propria utilità personale. Quindi una visione, la sua, che legge l’Umanesimo contro la Scolastica, e soprattutto considera la centralità di Dio in concorrenza con la centralità dell’uomo, come se Dio avesse voluto un mondo tutto orientato a sé, un Padre che non godrebbe dell’autonomia dei suoi figli per volerli tutti al suo servizio esclusivo – quale padre non incestuoso lo farebbe mai? Si dimenticò così che il Trecento, Quattrocento e Cinquecento furono invece i secoli dove l’alleanza tra francescani e mercanti aveva operato autentici miracoli economici, civili, artistici, spirituali, e ritorna nel Novecento quella inimicizia tra la centralità di Dio e la centralità degli uomini che aveva dominato nella Controriforma.
Molti documenti della Dottrina sociale della Chiesa risentono di questi decenni anti-moderni, anti-mercato, anti-imprenditore e anti-banca (non stupisce che né la parola imprenditore né banca siano presenti nella nostra Costituzione). Ecco perché oggi sarebbe non solo urgente ma molto necessario che gli studi di Dottrina sociale ripartano davvero dall’Umanesimo, da quel periodo quando il mercato nacque dallo spirito cristiano, da mercanti e mendicanti insieme, dal Vangelo, non contro di esso. È quanto abbiamo provato a fare in queste settimane. Grazie a chi ci ha seguito in questo cammino, impegnativo ma, forse, anche un po’ utile.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 04//11/2023
La Controriforma è stata una stagione ambivalente, dove i luminosi esempi dei Monti dei francescani si intrecciarono con fenomeni bui in altri terreni. Per la scienza economica italiana fu però un buon tempo. Mentre la teologia e la filosofia diventano luoghi rischiosi a causa del controllo capillare da parte del Santo Uffizio, le arti, la musica, le scienze e anche l’economia restavano luoghi più sicuri dove gli uomini di pensiero potevano esprimersi con maggiore libertà. E così, un’età povera di grandi teologi e filosofi (soprattutto se paragonata all’Europa del Nord) generò molti letterati, musicisti, artisti ed economisti eccellenti.
[fulltext] =>Fu il Regno di Napoli dove più si espresse il genio economico mediterraneo e cattolico. La tradizione economica napoletana inizia già tra Cinquecento e Seicento, grazie al cosentino Antonio Serra che scrisse un Breve trattato (nel 1613) da molti considerato il primo studio di economia moderna, e non solo per l’Italia. Poi arrivò la grande stagione del Settecento napoletano, quella di Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi, Filangieri, Dragonetti e altre decine di ottimi economisti che scrissero di moneta, credito, e soprattutto di “Pubblica felicità”. Una tradizione rimasta viva e vivificante fino alla prima metà dell’Ottocento con Francesco Fuoco, che può essere considerato l’ultimo degli autori classici italiani.
Poi, la nascita del Regno d’Italia generò una forte tendenza a considerare la “vera” scienza economica solo quella inglese e francese, e quindi la tradizione napoletana finì per essere giudicata obsoleta e retrograda. Nel frattempo la scienza economica anglosassone stava cambiando binario; presto lasciò i grandi temi dello sviluppo e del benvivere dei popoli e si concentrò sull’individuo e sulla sua utilità. In questo contesto culturale, il paradigma napoletano della Pubblica felicità, interessato più alla società che ai singoli, apparve ancor più lontano ed estraneo, e presto venne dimenticato.
Francesco Fuoco, «spirito bizzarro e acuto» (T. Fornari, Teorie economiche delle province napoletane, p. 615), non fu solo un ottimo scrittore di credito e banche. Vergò pagine notevoli in molti altri settori della scienza economica. Sulla scia di Genovesi, Fuoco considerava il mercato come una forma provvidenziale di “mutuo soccorso” e di reciprocità. Quindi la ‘divisione del lavoro’ non divide ma unisce le società: « La divisione del lavoro non è opposta alla riunione, anzi la presuppone e serve a renderla più forte e durevole» ( Scritti Economici, 1825, I, p. 205). In particolare le varie professioni sono un grande linguaggio di cooperazione e di mutualità, il primo cemento delle società: « La divisione del lavoro non è altro che la distinzione delle professioni. Quanto più l’industria si perfeziona più le suddivisioni si moltiplicano, e più le professioni diventano numerose» (p. 207).
Quindi l’industria e l’economia è vista da Fuoco come una fitta rete cooperativa dove ciascuno soddisfa, lavorando, i bisogni degli altri, nella reciprocità. Il lavoro è un linguaggio civile di cooperazione, grazie al quale migliaia, oggi milioni di persone si assistono e cooperano senza neanche conoscersi. E in un tempo, il nostro, quando la narrativa del business è tutta centrata sulla concorrenza, sul battere i competitor, sulle virtù antagoniste e guerriere, Fuoco e la scuola napoletana ci raccontano una storia opposta: il mercato è civiltà perché favorisce le virtù cooperative e gentili, perché è basato sulla legge aurea della reciprocità positiva: « A questo modo, i popoli sono diventati membri di una vastissima famiglia, e una specie di comunità si è stabilita tra tutti gli abitanti della terra» (p. x).
Ma è sulla ‘teoria della rendita’ dove Fuoco concentrò le sue energie teoriche. Nel suo soggiorno francese conobbe il recente dibattito inglese sulla rendita delle terre. In particolare, studiò la teoria di David Ricardo che nei suoi Principi di Economia Politica (del 1817) propose una teoria della distruzione del reddito e del capitalismo diversa da quella di A. Smith, incentrata sulla rendita come chiave per capire le dinamiche del capitalismo. Fuoco, pochissimi anni dopo, scriveva un suo saggio sulla rendita (nel 1825), dove esponeva il dibattito, emendando e completando. Quale è il centro del discorso di Fuoco?
La teoria della rendita poggia su due pilastri: (i) la centralità degli imprenditori (o capitalisti) per la ricchezza e lo sviluppo delle nazioni; (ii) il conflitto strutturale tra imprenditori e proprietari terrieri (o rentiers). Le classi sociali sono tre, e tre sono i rispettivi redditi: il salario va agli operai, il profitto agli imprenditori, la rendita ai proprietari terrieri. Dato che i salari sono fissati al livello della sussistenza, le due variabili del sistema economico sono i profitti e le rendite, che stanno tra di loro in un rapporto rivale: se crescono le une diminuiscono gli altri. Da qui l’idea fondamentale: lo sviluppo economico incontra il suo limite nel conflitto radicale tra redditieri e imprenditori, un conflitto vinto dai redditieri perché le dinamiche del capitalismo portano ad un grande incremento delle rendite a scapito dei profitti. Ed essendo gli imprenditori il motore dello sviluppo, la riduzione dei profitti portano allo stallo del sistema: «Come crescono le rendite i profitti diminuiscono, e come diminuiscono i profitti si rendono più difficili i risparmi e quindi le accumulazioni » ( Scritti Economici, I, p. 57).
Fuoco è convinto che la Pubblica felicità dipenda dalla crescita dell’industria e quindi degli imprenditori e di conseguenza dalla diminuzione del potere dei redditieri; anche perché, diversamente da Ricardo e da Malthus, Fuoco era convinto che la crescita delle rendita schiacciasse verso il basso anche i salari e impoverisse lavoratori e “consumatori“ (parola presente nel suo sistema). Da qui deriva anche la sua proposta radicale in materia fiscale: «Se la rendita del governo [la tassazione] si ricavasse solo dalla rendita fondiaria, l’industria non ne riceverebbe alcun danno» (p. 67). Una tesi che resta ancora oggi una profezia, se pensiamo alla scarsa tassazione dei patrimoni e delle rendite di ogni tipo. Da qui Fuoco si spinge ancora più oltre, toccando il buon territorio dell’utopia sociale: «Se le terre non appartenessero ad alcuno, la rendita totale di esse potrebbe servire alle spese dello Stato» (p. 67). Una tesi che prefigura la teoria della ‘terra libera’ del mantovano Achille Loria (1857-1943), altro grande economista italiano, dimenticato.
È infatti lo stesso Loria a lodare il suo predecessore napoletano: « Francesco Fuoco, illustratore acuto della teoria Ricardiana della rendita e notevole per la preminenza che assegna ai rapporti della distribuzione su quelli della produzione» (A. Loria, Verso la giustizia sociale, 1904, p. 90). In realtà, per Fuoco la produzione era molto importante ma era convinto, e noi con lui, che se il meccanismo che assegna le quote di reddito alle varie classe sociali (cioè “la distribuzione”) è distorto e perverso, la produzione si inceppa.
Loria è un autore estremamente importante nella nostra storia alla ricerca dello “spirito meridiano” del capitalismo. Mentre il carro della scienza economica si spostava sulle preferenze del consumatore e diventava una matematica applicata alle scelte dell’individuo, Loria con una tenacia infinita mise la “vecchia” rendita al cuore della sua teoria. E lo fece per tutta la vita come una autentica vocazione, dai primi studi universitari a Siena fino alla morte che lo colse nella sua casa di Luserna San Giovanni (To) mentre i fascisti cercavano di catturarlo perché ebreo. Nella sua tesi di laurea infatti scriveva: «La rendita fondiaria non è solo il fenomeno più importante di tutto l’organismo sociale, ma ne è essa stessa la sintesi» ( La rendita fondiaria, 1880, p. xiii). Loria è stato un critico del capitalismo simile e diverso da Karl Marx. Come Marx anche lui voleva capire i grandi movimenti della società a partire dalle relazioni economiche; ma mentre per Marx l’asse del capitalismo di trovava nel conflitto tra salari e profitti, per Loria (e Fuoco) il conflitto decisivo era quello tra rendite e profitti: « La vera scissione basica delle due classi della ricchezza è quella esistente fra la classe dei proprietari terrieri e la classe dei capitalisti aventi interessi antitetici e opposti, e quindi in perenne conflitto » ( La sintesi economica, 1910, p. 211).
Loria, tra Otto e Novecento, scrisse opere monumentali per dare sempre maggiore fondamento alla sua tesi e così presentare una teoria del materialismo storico alternativa a quella di Marx e F. Engels - con il quale ebbe polemiche pubbliche feroci, in parte riportate nella sua Prefazione al terzo volume di Il capitale di Marx. La storia di Loria è la storia di una sconfitta. La sua teoria della rendita rimase schiacciata “a sinistra” dalla crescita del marxismo (A. Gramsci coniò, sarcasticamente, l’espressione “lorianesimo”) e “a destra” dalla nuova economia neoclassica liberale rappresentata in Italia da Pantaleoni e soprattutto da Pareto (che, con la sua nota spocchia, considerava Loria un ciarlatano). Loria, sempre più solo ed emarginato (e stimato da pochi, e tra questi Luigi Einaudi), continuò però a credere nella sua teoria della rendita, che col passare del tempo non riguardò più soltanto la rendita fondiaria ma si estese ad ogni forma di reddito che arriva oggi grazie ai privilegi di ieri (questa è, in sostanza, la rendita). P er questo scrisse anche di rendite finanziarie e di banche - oggi si sarebbe occupato anche delle rendite della consulenza a scapito degli imprenditori? La teoria della rendita era dunque lo strumento con il quale Loria criticava un capitalismo che stava diventando sempre più speculativo e lontano dal lavoro: « La verità è che al di sotto del mondo economico sano e normale che la scuola classica si compiace di dipingere, al di sotto dei poderi e dei latifondi, delle officine e delle fabbriche, in sotter’ranei tenebrosi si agita e baratta una turba di falsi monetari, che manipola e traffica la ricchezza altrui e ne ritrae con frode larghissimi guadagni» ( Corso di Economia Politica, 1910, p. 303).
Possiamo così comprendere una delle sue affermazioni più belle: «Chiunque osservi con animo spassionato la società umana, avverte facilmente come essa presenti lo strano fenomeno di una assoluta, irrevocabile scissione in due classi rigorosamente distinte; l’una delle quali, senza far nulla, s’appropria redditi enormi e crescenti, laddove l’altra, più numerosa d’assai, lavora dal mattino alla sera della sua vita in contraccambio di una misera mercede; l’una, cioè, vive senza lavorare, mentre l’altra lavora senza vivere, o senza vivere umanamente» ( Le basi economiche della costituzione sociale, 1902, p. 1). I l sistema classico di Ricardo, Fuoco e Loria era tridimensionale: terra, lavoro, capitale. La scienza economica neo-classica di fine Ottocento divenne invece bidimensionale: lavoro e capitale. Questa trasformazione non generò soltanto la perdita della profondità teorica che la terza dimensione della terra portava con sé. L’eclisse della terra nel capitalismo è una delle cause principali della distruzione del pianeta e della perdita delle radici. In un’intervista (a “L’ufficio moderno”) che rilasciò in occasione del suo ritiro dall’insegnamento nell’Università di Torino, alla domanda «Che cosa stimola più fortemente il suo interesse scientifico?», Loria rispose con una frase che dovremmo scrivere in tutti i Dipartimenti di Economia del mondo: « Il dolore umano».
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Achille Loria, seguendo Fuoco, criticò la rendita quale elemento di ingiustizia
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 04//11/2023
La Controriforma è stata una stagione ambivalente, dove i luminosi esempi dei Monti dei francescani si intrecciarono con fenomeni bui in altri terreni. Per la scienza economica italiana fu però un buon tempo. Mentre la teologia e la filosofia diventano luoghi rischiosi a causa del controllo capillare da parte del Santo Uffizio, le arti, la musica, le scienze e anche l’economia restavano luoghi più sicuri dove gli uomini di pensiero potevano esprimersi con maggiore libertà. E così, un’età povera di grandi teologi e filosofi (soprattutto se paragonata all’Europa del Nord) generò molti letterati, musicisti, artisti ed economisti eccellenti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/10/2023
L’idea che lo scambio sia un ‘gioco’ dove le vincite di una parte sono uguali e contrarie alle perdite dell’altra, è spesso la prima difficoltà in cui s’imbatte un docente nelle prime lezioni di economia. Gli studenti si avvicinano alla scienza economica con la convinzione che il mercato sia un luogo dei rapporti a ‘somma zero’ (+1/-1). È infatti difficile trasmettere l’idea che nello scambio economico la legge aurea è il mutuo vantaggio, e quindi ai guadagni di una parte corrispondono guadagni anche per l’altra, e quando questo mutuo vantaggio non si verifica si sta snaturando e negando il mercato, che finisce per somigliare alla guerra, alla rapina o all’atletica (la metafora sportiva per l’economia è quasi sempre sbagliata). Dietro alla cattiva fama di cui hanno goduto per secoli gli operatori economici c’era lo stesso errore dei miei studenti di oggi. Se, infatti, il mercato è davvero una relazione dove una parte si arricchisce a spese dell’altra, diventa necessario tutelare la parte debole, ristringere l’area degli scambi e poi guardare con grande diffidenza etica mercanti e banchieri. I divieti religiosi del prestito ad interesse hanno solo rafforzato una negatività che c’era già. In realtà, i mercanti e gli operatori economici e finanziari sapevano bene che il mercato era un ‘gioco a somma positiva’; lo sapevano perché era basato sui contratti, che quando si svolgono nella libertà rivelano la natura di mutuo vantaggio delle parti (perché dovrei dare il mio libero consenso ad un rapporto predatorio?); come sapevano che spesso il mutuo vantaggio era asimmetrico (+4, +1) per le informazioni diverse e per i rapporti di forza. Quando però il contratto arrivava a generare un meno da qualche parte (+2,-1), sapevano che si stava uscendo dall’economia e si entrava nel furto, si lasciava la fisiologia e si entrava nella patologia del mercato.
[fulltext] =>Il vero problema stava dunque altrove, cioè soprattutto tra i teologi e i filosofi. Chi infatti scriveva di prezzi, mercati o interessi erano, in larga quota, intellettuali che (tranne la felice eccezione dei francescani e di qualche domenicano) predicavano di commerci e di imprese senza avere, in genere, la più pallida idea di cosa fossero i mercati veri, i prestiti veri, i contratti veri, le botteghe e gli imprenditori veri (un problema che, in parte, sussiste ancora). E così l’idea fu superiore alla realtà, e i trattati morali e i manuali per confessori raccontavano un mondo commerciale distorto e distante dalla vita vera della gente. Tanto che mentre si moltiplicavano i trattati contro i commerci e le usure, il Medioevo si riempiva di decine di migliaia di banchieri e di mercanti cristiani, che facevano profitti, prendevano e prestavano a usura, e facevano stupende le nostre città.
Infatti, descrivendo la grande diffusione dell’usura nel Duecento e Trecento in Italia, A.L. Muratori ricorda che il prestito a interesse era previsto negli statuti delle città, dove esisteva spesso perfino un publico registro degli usurai: “Nessuna persona in Siena poteva prestare a usura in nessun modo, se prima non si iscriveva nel libro detto Usuraio di Bischerna” (Opera Omnia, 1790[1738-1743], XVI, p. 310), si legge in un documento del 1339 citato dal Muratori - la ‘Bischerna’ era l’antica magistratura. Quindi continua: “Chi prestava ad usura, faceva il prestito solamente per sei mesi, e chi riceveva il denaro, contribuiva con un dono all’usuraio; cioè pagava tosto [subito] il frutto dei sei mesi”. Passati i sei mesi, “se il debitore non soddisfaceva, l’interesse che pro danno era tenuto a pagare era di un quarto di denaro per ogni lira per ogni singolo mese” (p. 311), cioè il 4% mensile pari a quasi il 50% annuo (e qui si capisce perché il 5% annuo sui prestiti al Monte di Pietà era davvero un tasso da istituzione non-profit). Colpisce il linguaggio: si parlava di dono all’usuraio, perché presentare l’interesse come dono rendeva più semplice aggirare le proibizioni ecclesiastiche contro l’usura. Ogni mercante sapeva però molto bene che la realtà era molto diversa dalle parole con le quali veniva chiamata, e che lì il dono non c’entrava nulla. Le parole belle sono le prime vittime di ogni allontanamento della realtà dall’idea della realtà. E così l’ipocrisia e la doppia morale divennero l’ambiente dei mercanti e dei banchieri dal Medioevo fino all’altro ieri.
Una ipocrisia civile rafforzata e amplificata dai teologi della Controriforma, che dopo secoli ripresero le antiche astratte proibizioni di profitti e usura, che in buona parte erano state superate dai francescani e dai mercanti tra il Duecento e il Cinquecento. Nel Seicento si riacutizzarono la distanza e la reciproca diffidenza tra mondo economico e mondo ecclesiastico, inclusi i cristianissimi banchieri dei papi. La religione divenne faccenda per il culto e per le feste, per le confraternite e per le processioni, per le nascite e le morti, per le mogli e le donne, ma mercanti e banchieri si tenevano ben distanti da confessionali e prediche. Tra i molti predicatori e teologi controriformisti, spicca il gesuita Paolo Segneri (1624-1694), stimato letterato (collaborò alla terza edizione del Vocabolario della Crusca), autore di molti manuali per confessori e di trattati di morale. Tra questi il più celebre è Il cristiano istruito secondo la sua legge, del 1686. Qui leggiamo parole durissime sui mercanti, “che vendendo ai poveri la roba in credenza fanno poi loro questo bel privilegio che dacché non hanno danari la paghino più cara”. Quindi il credito-credenza è un imbroglio creato dal venditore al solo scopo di aumentare i suoi guadagni a spese dei poveri. E aggiunge: “So che i mercanti si difendono con quei titoli loro tanto preziosi di ‘lucro cessante’ e di ‘danno emergente’…, ma dubito fortemente che siano per loro molte volte un semplice uncino di cui si vagliano per tirare a forza quei frutti che non arrivano a cogliere con la mano” (Ed. Veneziana, Carlo Todero, 1765, vol. 1, p. 207). Queste eleganti frasi rivelano un’idea di mercato davvero moralmente infima, svolto in botteghe oscure: “Il compratore cerca de’ vantaggi illeciti, o nella scarsità del prezzo che offre o nella debolezza delle monete. Il venditore procura d’occultare i difetti della mercanzia ch’egli espone, e interrogato non gli scuopre altrimenti, eleggendo ad arte le botteghe prive di luce, affinché meno possano comparirvi” (p. 209). Quindi continua con i suoi dubbi (che sono in realtà certezze): “Dubito, che molte volte altresì che né pur si verifichi questo pericolo grande da loro appreso, di non esser pagati vendendo a tempo, perché non di rado vogliono il Mallevadore [fideiussore]; e quasi che sia poco il Mallevadore, vogliono il pegno” (p. 207). È evidente che qui Segneri parla di mercanti ma anche di banchieri, che nell’antico regime erano spesso le stesse persone. E conclude: “Il negoziare assai e non danneggiare altri nel suo negozio, è cosa molto difficile” (p. 208). Emerge infine chiarissima l’idea dello scambio come ‘gioco a somma zero’: “In ogni contratto tra la compra e la vendita, si pone di mezzo il peccato, come un palo incastrato tra muro e muro … Quasi che l’ingiustizia tra quei due termini sia ridotta tanto alle strette, che non si possa andar libera benché voglia. Di qua è tenuta forte dal compratore, di là è tenuta forte dal venditore” (p. 208).
Non deve allora stupirci, data questa idea dominante in tema di commerci e credito, che nella nostra bella Costituzione italiana non compaiano né la parola imprenditore né banca.
L’Economia civile napoletana e italiana nasce nel Settecento con un’altra idea di mercato e di credito. Lo abbiamo già visto con Genovesi, e ora lo vediamo con un suo erede, il casertano (Mignano) Francesco Fuoco (1774-1841). Fuoco, oggi dimenticato nella sua stessa patria, fu un autore estremamente originale, a tratti geniale. Sacerdote, rivoluzionario partenopeo del 1799, pedagogista, matematico, fisico, geografo latinista e filologo nella prima fase della sua attività, divenne poi economista in seguito al suo confino politico francese (1821-23), dove studiò con il grande economista J.B. Say. In questa fase francese iniziò la sua complicata collaborazione con l’uomo d’affari comasco Giuseppe de Welz, per il quale scrisse, forse per necessità economiche, le sue prime opere di economia e finanza (che uscirono a firma del de Welz: una controversia di attribuzione ancora non del tutto risolta). Tra queste il libro La magia del credito svelata (1824), dove troviamo una teoria del credito e della banca innovativa e a tratti sorprendente. Il suo punto di riferimento è Antonio Genovesi, di cui cita ampi brani nei suoi Saggi Economici (1825-27), dove, tra l’altro, parlando di massimi e di minimi in economia (Fuoco è uno dei primi economisti matematici), così scrive: “La nozione di salario minimo è il punto in cui l’operaio si rifiuta al lavoro per insufficienza di salario” (Vol. II, p. 11), a ricordarci che il salario minimo è tutto fuorché un tema recente o bizzarro.
Nell’introduzione a La magia del credito, Fuoco inizia il suo discorso dicendo di essersi imbattuto in una tesi di un autore francese così bizzarra da sembrargli, all’inizio, un delirio: “Chi ha il talento di contrarre debiti possiede l’arte di divenire ricco” (p. 1). Il possibile delirio nasceva dal ricordo, che Fuoco da fine letterato aveva ben presente, di testi satirici come Il debitor felice, di Ser Muzio Petroni da Trevi che a fine ’500 affermava che “non potersi dare in questa vita felicità maggiore che haver debiti”, e lodava chi viveva senza lavorare, facendo lavorare per sé gli altri. Chiaramente la lode del credito (non tanto del debito) che Fuoco condivide aveva radici molto diverse e opposte.
Qualche anno dopo, infatti, nei suoi Saggi economici scriverà sul credito pagine di grande bellezza e attualità: “I mezzi che danno al lavoro di un popolo la massima energia si creano e si moltiplicano per virtù del credito e il credito si fortifica a proporzione che il lavoro si perfeziona” (II, p. 395). Parla quindi di un’“alleanza tra lavoro e credito”, basata sul mutuo vantaggio, essenziale per la pubblica felicità. Un’alleanza che chiama ‘intima’, grazie alla quale “la morale si diffonde”.
Per quanto riguarda gli interessi sul prestito, per Fuoco “nulla è più giusto che ricevere un compenso dal prestito” (p. 397). Citando poi largamente Genovesi, “al quale nulla potremmo aggiungere di meglio”, conclude dicendo che “il capitale è una ricchezza sterile quando non si impiega ad un uso produttivo, cioè ad un ramo qualunque d’industria. Il prestito perciò è una condizione necessaria per volgere i capitali ad usi produttivi” (II, p. 415).
Molto bella la conclusione del suo ragionamento: “La creazione e l’uso de’ capitali poggiano sul credito, e perciò sulla morale che ne fu e ne sarà sempre il fondamento. Se i principi della morale fossero generalmente riconosciuti, e rispettati, basterebbe il solo credito a dar vita all’economia generale dei popoli” (II, p. 416). Una economia dunque di solo credito, una economia di pura credenza, un mercato di sola fede. Oggi sembra un’utopia di ieri: e se fosse invece una profezia di domani?
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L' Economia Civile napoletana del Settecento ed il pensiero di Francesco Fuoco
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/10/2023
L’idea che lo scambio sia un ‘gioco’ dove le vincite di una parte sono uguali e contrarie alle perdite dell’altra, è spesso la prima difficoltà in cui s’imbatte un docente nelle prime lezioni di economia. Gli studenti si avvicinano alla scienza economica con la convinzione che il mercato sia un luogo dei rapporti a ‘somma zero’ (+1/-1). È infatti difficile trasmettere l’idea che nello scambio economico la legge aurea è il mutuo vantaggio, e quindi ai guadagni di una parte corrispondono guadagni anche per l’altra, e quando questo mutuo vantaggio non si verifica si sta snaturando e negando il mercato, che finisce per somigliare alla guerra, alla rapina o all’atletica (la metafora sportiva per l’economia è quasi sempre sbagliata). Dietro alla cattiva fama di cui hanno goduto per secoli gli operatori economici c’era lo stesso errore dei miei studenti di oggi. Se, infatti, il mercato è davvero una relazione dove una parte si arricchisce a spese dell’altra, diventa necessario tutelare la parte debole, ristringere l’area degli scambi e poi guardare con grande diffidenza etica mercanti e banchieri. I divieti religiosi del prestito ad interesse hanno solo rafforzato una negatività che c’era già. In realtà, i mercanti e gli operatori economici e finanziari sapevano bene che il mercato era un ‘gioco a somma positiva’; lo sapevano perché era basato sui contratti, che quando si svolgono nella libertà rivelano la natura di mutuo vantaggio delle parti (perché dovrei dare il mio libero consenso ad un rapporto predatorio?); come sapevano che spesso il mutuo vantaggio era asimmetrico (+4, +1) per le informazioni diverse e per i rapporti di forza. Quando però il contratto arrivava a generare un meno da qualche parte (+2,-1), sapevano che si stava uscendo dall’economia e si entrava nel furto, si lasciava la fisiologia e si entrava nella patologia del mercato.
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stdClass Object ( [id] => 19600 [title] => Prestare, ma senza far disperare nessuno [alias] => prestare-ma-senza-far-disperare-nessuno [introtext] =>La terra del noi/5 - Anima dell'Economia Civile, l'abate Antomio Genovesi fu perseguitato per le sue idee
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 21/10/2023
I dibattiti attorno all’usura, che hanno accompagnato molti secoli della storia europea, sono la punta di un iceberg molto profondo e vasto, che riguarda direttamente il bene comune, i poveri e la giustizia sociale. Non era, né è, una faccenda per soli specialisti di finanza o di etica economica, ma il cuore del patto sociale, e quindi della vita e della tenuta delle comunità. Non deve quindi stupirci che di usura hanno sempre scritto non solo economisti e teologi ma anche filosofi, letterati, umanisti.
[fulltext] =>La Riforma di Lutero, e la conseguente Controriforma cattolica, condizionarono molto anche l’etica economica e l’atteggiamento nei confronti dell’usura. I teologi e predicatori cattolici dalla seconda metà del Cinquecento, molto preoccupati, a tratti terrorizzati dagli effetti nefasti della libertà di coscienza individuale non mediata dall’autorità ecclesiastica, diedero vita ad un capillare sistema di controllo di tutte quelle azioni eticamente sensibili, tra questa quelle relative all’economia e alla finanza. E così, più o meno intenzionalmente, la dottrina sulle usure (e in generale sulla libertà d’impresa e sui profitti) regredì di almeno quattro secoli. Dimenticarono le riflessioni dei maestri francescani e riportarono il tenore e livello dei dibattiti e divieti su interessi e profitti a quelli che si leggevano nei trattati della fine del primo Millennio.
La metà del Settecento conobbe una nuova età dell’oro dell’etica economica. Autori come Muratori o Genovesi ripresero il dibattito su profitti, moneta e interesse dove l’aveva lasciato l’Umanesimo civile, e scrissero pagine bellissime. Non dimenticarono i danni dell’usura, anzi li studiarono molto, li combatterono, ma non dimenticarono neanche l’essenzialità del credito per una nuova società finalmente libera dai lacci del feudalesimo. E nacque l’Economia civile, uno dei capitoli più luminosi della storia italiana ed europea, e l’abate Genovesi ne fu l’anima.
Antonio Genovesi fu prima teologo e poi economista. Non ebbe vita facile con la Chiesa del suo tempo, che gli tolse l’insegnamento di teologia (1745) consigliandoli di passare alla cattedra di etica. Ricevette denunce di ateismo e eresia, fu amatissimo dagli studenti e dalla gente, ma “fu perseguitato così ferocemente ed oltre la morte se ad evitare danni maggiori fu prudente seppellirlo di nascosto, senza lapide e con la pietosa “complicità” dei Cappuccini di Sant’Efremo Nuovo” (Lina Sansone Vagni, Studi e Ricerche Francescane 23, 1994). Le sue Lezioni di Economia civile furono messe all’Indice con decreto del 23.6.1817. Nella sua auto-biografia scriveva: “Io, che era cominciato a tediarmi di questi intrighi teologici e che cominciava ad avere in orrore studi sì turbolenti, e spesso sanguinosi, feci di più: mi ripresi i miei manoscritti, e deliberai permanentemente di non pensare più a queste materie (Autobiografia, lettere e altri scritti, p. 22).
Le grandi difficoltà teologiche che Genovesi incontrò lo portarono a diventare economista, e ad occupare per primo una cattedra di Economia. Insegnando, studiando e girando per il suo Regno di Napoli, scrisse pagine importanti anche sull’usura e sulla moneta, dove la sua competenza teologica e biblica gli fu essenziale. La sua sofferta carriera accademica forzatamente meticcia generò pagine stupende. Guardiamone qualcuna.
Genovesi conosce bene, da teologo, le obiezioni filosofiche e teologiche al pagamento dell’interesse sul denaro - usura o interesse, che lui comunque distingue (Lezioni, Vol. II, Cap. 13, §1) - ma sa che queste proibizioni astratte avevano complicato molto la vita ai mercanti onesti e avevano creato una cultura cattolica ipocrita, dove nessuno poteva prestare ma tutti prestavano e prendevano in prestito. Da qui la sua lotta tenace e libera per smascherare queste ipocrisie e modernizzare la sua gente di Napoli.
Il capolavoro teorico e retorico sull’usura e sul credito lo troviamo quando discuta coi teologi, che chiama ‘i miei nemici’: “Ci si fanno dunque da’ teologi due difficoltà. 1. Che la dottrina delle usure ripugna alle dottrine bibliche. 2. Ch’è opposta all’autorità de’ padri e de’ teologi”. Sulla seconda difficoltà rimanda “alla dotta opera, del fu marchese Maffei”, dove si dimostra “che non è poi vero, che i padri e i teologi sieno tutti stati di questo loro sentimento, purché si sappia esporre lo stato della questione” (§XIX). E poi affronta direttamente i teologi, con uno stile meraviglioso: “Vorrei esser in un concilio di quei dottissimi e santissimi padri e far loro due domande. 1. Se uno, che non ha bisogno, mi chiede un beneficio per puro lusso, per delizie, per avidità di ricchezza, son io, padri, obbligato a prestargliene? 2. E se io ho del bisogno, né posso vivere che con far valere il mio, posso a quest’uomo dire, fratello, soccorriamoci scambievolmente; io farò il piacer tuo con la mia roba, ma tu mi darai in contraccambio il prezzo corrente del comodato; posso, dico, fargli giustamente questa domanda? Finché io non oda la risposta di questo concilio alle mie due domande, ho per certo, che né i padri né i teologi furono mai contrari all’usura ne’ termini della nostra questione” (§XIX). Leggendo la qualità di questi antichi dibattiti aumenta la tristezza di fronte alla ‘qualità’ dei nostri talk show.
Quindi continua ed entra nel terreno dell’esegesi biblica, mostrandoci un Genovesi allievo di Erasmo e soprattutto del Muratori, veri pionieri dello studio scientifico e libero delle Scritture, che, vedremo, si spinge fino a rettificare le traduzioni ufficiali dei Vangeli: “Cominciamo dal Vecchio Testamento. La legge di Mosè nel Deuteronomio (23,20) è: «Non foeneraberis fratri tuo pauperi; foeneraberis alienigeno» (non darai in prestito a tuo fratello povero, farai prestito allo straniero). Esponghiamo questa legge. 1. Egli dà o lascia il diritto di dare ad usura a quei che non erano Ebrei (quest’è l’alienigeno o straniero)”. E da qui magistralmente conclude: “Dunque non ebbe l’usura come contraria al jus e alla legge di natura. Dio non annulla la legge di natura, perché Dio non può né annullare, né smentire sé medesimo. 2. Proibisce di prestare ad usura al fratello (Giudeo) povero” (§20).
E così formula la sua teoria generale sul prestito e usura: “Dunque la proposizione principale è: tu hai il diritto di dare ad usura a’ tuoi fratelli; l’eccezione, posto che non sieno poveri.” (§20). Questa è la sua unica soluzione: la Bibbia proibisce l’interesse applicato ai prestiti ai poveri, ma non lo condanna in generale.
Dopo aver confutato i suoi critici che citavano l’Antico Testamento per negare ogni interesse, passa al Nuovo Testamento. Innanzitutto fa una operazione molto attuale e correttissima: legge il vangelo insieme a tutta la Bibbia ebraica. Così la famosa frase di Luca sul prestare senza chiedere interesse (Lc 6,35), che i teologi usavano per condannare qualsiasi interesse, Genovesi la colloca dentro il discorso che ha appena fatto sul libro del Deuteronomio e quindi nel contesto del divieto di prestito a interesse al povero. Genovesi parafrasa Luca 6,35 ss. e ci offre una sua traduzione affascinante: “«Voi non fate del bene, dice loro, che a coloro onde ne sperate. Il vostro principio è dunque, non si dee fare quel che non ci rende. Massima infame e che sovverte l’umanità. Tutt’i bricconi, gli scellerati, gli avidi, i ladri, ne fanno altrettanto. In che sarà dunque posta la grazia che vi si dee? Qual gratitudine meritate per ciò voi da Dio? Vedete questi pubblicani prestano a coloro, donde sperano più usure; sarete voi in niente da essi distinti, se farete anche voi a’ poveri di questi uncinati benefici per trarre a voi le loro sostanze? Dunque a voler esser giusti e virtuosi, siccome richiede l’Altissimo, e pretendere di esser chiamati suoi figli, amate anche i vostri nemici, fate loro del bene: prestate senza deludere i bisognosi e i poveri della speranza che hanno avuto nella vostra liberalità, e senza mettergli in disperazione». (§21).
E ora arriva il suo vero colpo di genio (e di cultura). Da maestro di greco e latino, Genovesi dà ai suoi colleghi teologi una lezione, ancora attualissima e tutta da meditare. Vediamo come. Scrive: “Questo precetto è dunque conforme alla prima parte della legge del Deuteronomio. V’è niente che favorisca i nostri teologi?” (§21). Genovesi però si rende conto che ha fatto una traduzione con qualche elemento di libertà che può apparire intruso - cioè il suo discorso sui poveri e bisognosi. E scrive: “Ma rendiam ragione di alcune parole che io ho poste nella mia parafrasi, le quali da coloro che leggono le versioni, si crederanno per avventura intruse. Ho detto in prima che Gesù Cristo parli nel luogo presente de’ bisognosi e poveri, che non è espresso nel precetto” (§22). Genovesi sostiene che il riferimento del divieto sia rivolto ai poveri perché tale il contrasto originario nel Deuteronomio (che Luca implicitamente cita), e perché, aggiungo io, queste parole vengono dopo il discorso delle Beatitudini che si apre con ‘beati i poveri’ (6,20). Da notare poi che il testo latino della Bibbia (la Vulgata) in quel passaggio di Luca aveva la parola ‘indiget’, cioè ‘bisognoso’, ‘indigente’, una parola che nella traduzione italiana è invece saltata.
Ma la parte più bella, davvero commovente, della sua esegesi coraggiosa e innovativa è sulla parola sperare. Le traduzioni correnti, a partire da quella latina della Vulgata, traducono apelpizo (la parola greca in Luca) con ‘senza sperare nulla’ in cambio. Genovesi fa invece un’altra traduzione, che qui riporto interamente: “Ho messo: senza deludere i bisognosi e i poveri della speranza, che hanno avuto nella vostra liberalità, e senza mettergli in disperazione, perché, ancorché i compilatori delle varianti del Nuovo Testamento l’abbian omesso, certi critici sacri hanno osservato che essendo dunque accusativo mascolino, l’απελπιξω (apelpizo) viene ad esser preso in senso attivo, e vale a dire di non far disperare, nella qual forza trovasi usato da molti de’ migliori scrittori greci”. E quindi propone di emendare anche la versione di Gerolamo (che qui recita ‘nihil inde sperantes’: prestate senza sperarne nulla): “La versione latina poteva essere: mutuum date, neminem desperare facientes” (§22), cioè: date in prestito, senza fare disperare nessuno! Per questo Genovesi conclude il suo ragionamento con queste parole: “Perché in questo precetto manifestamente si parla di prestare a’ poveri e perché è più convenevole al testo, leggere il verbo apelpizo in senso di non ridurre niuno alla disperazione” (§22). Stupendo! Quando, ormai molti anni fa, iniziai a studiare e a scrivere di economia, e poi di etica e infine di Bibbia, speravo che sarebbe arrivato un giorno quando avrei potuto trovare, capire, gustare e far gustare ad altri una pagina, difficile e bellissima, come questa di Genovesi. Magari la sua esegesi biblica non sarà la migliore né tantomeno l’unico, ma la sua esegesi economica di quei brani biblici resta insuperata e carica di speranza civile.
L’usura è un grande male sociale perché riduce la gente, i poveri, alla disperazione. È la disperazione dei poveri il primo misuratore delle nostre usure, da quelle di alcune banche a quelle di una civiltà irresponsabile che depreda la terra e getta i suoi figli e nipoti nella disperazione.
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Anima dell'Economia Civile, l'abate Antomio Genovesi fu perseguitato per le sue idee
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 21/10/2023
I dibattiti attorno all’usura, che hanno accompagnato molti secoli della storia europea, sono la punta di un iceberg molto profondo e vasto, che riguarda direttamente il bene comune, i poveri e la giustizia sociale. Non era, né è, una faccenda per soli specialisti di finanza o di etica economica, ma il cuore del patto sociale, e quindi della vita e della tenuta delle comunità. Non deve quindi stupirci che di usura hanno sempre scritto non solo economisti e teologi ma anche filosofi, letterati, umanisti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 14/10/2023
La nascita dell’Economia Politica moderna è profondamente legata all’affermarsi di una nuova idea sul Bene comune. Il pensiero antico e medioevale lo faceva nascere dalla rinuncia voluta e consapevole al bene privato delle singole persone. Nel Settecento si iniziò invece a dire che il Bene comune è il risultato (non-intenzionale) della ricerca dei propri interessi, senza bisogno di alcuna rinuncia. Nessuno nel mercato perde nulla, tutti guadagnano. È questo il cuore del discorso nascosto dietro la metafora della “mano invisibile” di Adam Smith, introdotta qualche anno prima dal napoletano Ferdinando Galiani (Della Moneta, 1750) e già presente, in nuce, anche nell’altro grande napoletano Giambattista Vico. Una rivoluzione ben espressa da Smith: « Non ho visto mai fare nulla di buono da chi si prefiggeva di operare per il Bene comune» ( La Ricchezza delle Nazioni, 1776).
[fulltext] =>Su questo l’Economia Civile napoletana e italiana la pensava, e la pensa, diversamente: pur riconoscendo ai meccanismi di mutuo vantaggio del mercato lo statuto di legge aurea della vita economica e sociale, non ha però mai pensato che il solo mutuo vantaggio della mano invisibile fosse sufficiente per il Bene comune. Conoscevano il mutuo vantaggio ma non ne facevano l’unico linguaggio sociale né economico per l’incivilimento dei popoli. Chi su questo aveva le idee molto chiare è Antonio Ludovico Muratori (1672, Vignola - 1750, Modena), una figura immensa. In quegli anni, dopo il Seicento che era stato anche il secolo d’oro della Controriforma e dell’Inquisizione (di cui, tra l’atro, si occupò Muratori), inizia in Europa un movimento di riforma. Nell’ambito ecclesiale, prima l’elezione di Benedetto XIII (nel 1724), che abbiamo già incontrato negli articoli precedenti per la sua grande azione per i Monti frumentari, e poi, dopo la breve parentesi di Clemente XII, di Benedetto XIV (nel 1740), segnarono una vera stagione di rinnovamento anche sociale ed economico. Benedetto XIV, oltre a scrivere l’encliclica Vix pervenit (1745) sulla legittimazione del prestito a interesse, fu un riformatore economico, e fece una riforma agraria per reintrodurre l’istituzione biblica della “spigolatura” per i contadini poveri.
L’età muratoriana fu una stagione di maggiore tolleranza per le idee nuove e divergenti, un clima che favorì l’emergere di grandi intellettuali sociali che il Seicento non aveva generato – i talenti cattolici di quel secolo si orientarono negli ambiti meno “pericolosi” dell’arte, della musica e della poesia. Muratori fu una figura di intellettuale impressionante e gigantesca. Diede contributi fondamentali negli studi storici, tra i quali 27 volumi delle Rerum Italicarum Scriptores, 6 volumi delle Antiquitates Italicae Medii Aevi, 12 volumi degli Annali d’Italia. Fu maestro del giovane Antonio Genovesi, scrisse pagine economiche importanti sia ne La carità cristiana (1723) che in Cristianesimo felice (1743) dove descrive e loda l’esperimento socio-economico delle “reduzioni” dei Gesuiti in Paraguay. L’anno prima della morte pubblicò una sintesi del suo pensiero ne Della pubblica felicità, un libro il cui titolo ha rappresentato per almeno un secolo il motto del progetto di ricerca degli economisti italiani, oggi di nuovo vivo. Tra i molti campi toccati e rinnovati da Muratori, due sono molto importanti: il lavoro teologico per riformare la vita economico-civile e la compresenza dell’idea di mutuo vantaggio e quella di dono.
Dopo quasi due secoli di Controriforma, Muratori capisce che senza una riforma profonda della “devozione” (divozione) e della pietà popolare, che in quei secoli era intrecciata con la magia e la superstizione, la società cattolica sarebbe rimasta definitivamente bloccata. E quindi il sacerdote Muratori criticò le devozioni per salvare la devozione: «Abbondano nella Chiesa cattolica libri di devozione e di pietà, autori che propongono ogni dì qualche novella devozione e divonzioncelle» (Della regolata devozione dei cristiani, Prefazione, 1747). Le sue critiche gli procurarono molte reazioni durissime, accuse di protestantesimo e di giansenismo, sorte comune ai riformatori veri.
Molto importante è la ragione principale della sua critica religiosa: «Bisogna mettersi bene in capo una verità importantissima: Dio nulla ci comanda che non sia il nostro proprio bene, cioè amare e cercare la nostra felicità anche nella vita presente» (p. 5). Perché, spiega, tutta la Rivelazione è orientata alla nostra felicità: «Vuol Dio che resistiamo ai soffi della disordinata lussuria, dell’ira, della gola, della vendetta, e di simili altre vigorose passioni: non è forse questo per vantaggio nostro?» (p. 35). In una Chiesa tutta centrata sulle anime del purgatorio, sulla valle di lacrime, sulle penitenze, sul dolore e sulla teologia dell’espiazione, l’opera di Muratori risplende come un inno alla vita e alla persona, come un Umanesimo, dove Dio è il primo alleato con l’uomo per la sua felicità. Una visione tutta biblica ed evangelica. Il rapporto Dio-umani va letto come mutuo vantaggio e reciprocità: il Suo bene è il nostro, il nostro è il Suo. Bellissimo. Da questo umanesimo nasce la sua critica al culto dei santi e della Madonna, e arriva persino a dire qualcosa di rivoluzionario: che la devozione dei santi «non è necessaria ed essenziale al cristiano» (p. 205).
Molto importante è poi la ragione economica della sua lunga battaglia per la riduzione delle troppe feste di precetto nella Chiesa cattolica. Nei giorni di festa i cristiani non potevano lavorare, quindi «la molteplicità delle feste torna in evidente pregiudizio ed aggravio di chi si ha da guadagnare il pane colle arti e colle fatiche delle sue braccia» (p. 10). E aggiunge: « I santi niun bisogno han della gloria nostra, e al contrario i poveri han necessità di pane, né è mai da giudicare che i santi sì pieni di carità amino che per far loro un onore non necessario restino defraudati i poveri della loro necessaria porzione di vitto» (p. 211). Ancora la mancanza del mutuo vantaggio. E conclude magistralmente: «La nostra divozione è per il nostro profitto» (p. 212). Qualche anno dopo, il suo allievo Antonio Genovesi non manca nelle sue Lezioni di approvare questa visione di Muratori sulla religione (cap. 10, IX, vol. 2). La sua battaglia teologica pastorale più complessa e lunga fu quella contro il “voto sanguinario” (o voto dei “palermitani”) che teologi, vescovi e i Gesuiti consigliavano ai cristiani. Chi faceva quel voto doveva difendere a prezzo della propria vita la dottrina dell’Immacolata Concezione della Vergine. Muratori giudicava questo voto superstizioso e illecito. La sua battaglia iniziò nel 1714 con il libro De ingeniorum moderatione (I7I4). La ragione della sua opposizione risiede, anche qui, nella mancanza del mutuo vantaggio: anche se fosse certa l’immacolata concezione (che Muratori non considerava certa ma solo probabile), Maria non ottiene vantaggio se i cristiani danno la vita per difendere un dogma: «Maria non ha bisogno di dubbie lodi, né di un sacrificio imprudente. E di contro, tu hai invece bisogno della tua vita» (p. 269). Muratori criticava dunque una Chiesa che vedeva il sacrificio umano come moneta per dar gloria a Dio. Da qui la sua critica agli eccessi delle “divozioni mariane”, della proliferazione delle «Confraternite degli schiavi della Madre di Dio» (Regolata Divozione, p. 280). Le sole devozioni buone sono quelle, come dice chiudendo il suo libro, «che tornano a gloria della religione e in profitto del popolo» (p. 283). Alfonso Maria de’ Liguori, che pur stimava Muratori, fu un critico durissimo della sua stigmatizzazione del “voto sanguinario”: appellandosi all’autorità dell’Angelico, scriveva: «È certo ancora che un tal culto può esser causa di martirio» (A. Maria de Liguori, Delle Glorie di Maria, cap. V, 1750).
Venendo ora al secondo aspetto del suo pensiero, nel suo bel libro La carità cristiana, troviamo anche i Monti di Pietà: « Altri Monti di Pietà ha poi inventato l’industriosa carità de i fedeli. Tale è il Sacro Monte della Farina, del quale fu principalmente istruttore in Modena, e in altre città, il Beato Gerolamo da Verona». Il Monte della Farina era una variante dei Monti frumentari – quanto ci sarebbe da studiare su queste antiche istituzioni?! E poi continua: «L’assunto dei direttori di siffatti Monti dee consister nel comperar grani, e di buona qualità, col maggior vantaggio possibile a convenevoli tempi, e di adoperare in ciò non meno diligenza che si trattasse di un proprio affare, per rivenderli, senza interesse alcuno, convertiti in farina, in chi del popolo ne abbisogni... Piacendo a troppa gente quel facile mestiere di far fortuna succhiando il sangue dei poverelli». E poi ci dice anche che «fu eretto in Bologna, città abbondante di Opere pie, un Monte della canapa» (p. 315). Sui Monti di Pietà così continua: «Monti Sacri de i Pegni, fondati in questi ultimi secoli dalla pietà dei cristiani, per gloria del Cattolicesimo in Italia e nelle Fiandre» (p. 310). Quei Monti furono davvero una gloria del “cattolicesimo”, anche in secoli ambivalenti per la Chiesa cattolica. Importante è come Muratori spiega il funzionamento di questi Monti, dove chi presta denaro lo fa «con l’intenzione di ricevere non altro che il capitale prestato..., e il pretendere di più sarebbe cercare soltanto l’interesse nostro e non il beneficio del prossimo» (p. 311). L’unico interesse lecito nei Monti dei poveri è quello che serve «per il rimborso delle spese per il mantenimento degli Ofiziali» (p. 312). Un Muratori, quindi, talmente amante del “mutuo vantaggio” da metterlo persino al centro della sua critica alla religione, che però riconosce che in alcuni ambiti della vita economia e sociale il mutuo vantaggio è troppo poco, perché c’è bisogno del registro del dono. Il mutuo vantaggio, nella religione, era dalla parte dei poveri; nei Monti, solo il dono era invece dalla loro parte, e quindi del Bene comune.
Muratori (con Scipione Maffei) riconosceva la liceità dell’interesse nella maggior parte degli affari commerciali, ma sapeva che ci sono delle azioni umane dove il mutuo vantaggio non agisce bene. A ricordarci che la “mano invisibile” funziona in molte cose ma non in tutte, sennò quella mano diventa soltanto uno strumento ideologico per “succhiare il sangue dei poverelli”. Il Bene comune “buono” non nasce solo dagli interessi: nasce anche dal dono, che è il lievito della massa formata degli interessi. Come emerge dal suo Della pubblica felicità, dove leggiamo: «Il più ordinario desiderio, e padre di tanti altri, è quello del nostro Privato Bene... Di sfera poi più sublime, e di origine più nobile vi è un altro Desiderio, quello del Bene della Società, del Bene Pubblico, o sia della Pubblica Felicità» (p. vi). Dal desiderio del Bene Privato nascono molti beni, ma non tutti i beni, perché ce ne sono altri che nascono dall’amore del Bene Comune. Due beni diversi, entrambi essenziali. Nel museo civico di Modena, c’è un ritratto del beato Gerolamo da Verona. Il santo ha in mano un solo drappo con su scritto: Mons charitatis. In piena Controriforma, la Chiesa capiva che esisteva una santità legata alla costruzione dei Monti, alle banche, e che edificare un Monte per i poveri poteva essere l’unica insegna di un santo, non serviva altro di più “religioso”.
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I limiti del mutuo vantaggio del mercato, l'aria nuova nell'età del Muratori
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 14/10/2023
La nascita dell’Economia Politica moderna è profondamente legata all’affermarsi di una nuova idea sul Bene comune. Il pensiero antico e medioevale lo faceva nascere dalla rinuncia voluta e consapevole al bene privato delle singole persone. Nel Settecento si iniziò invece a dire che il Bene comune è il risultato (non-intenzionale) della ricerca dei propri interessi, senza bisogno di alcuna rinuncia. Nessuno nel mercato perde nulla, tutti guadagnano. È questo il cuore del discorso nascosto dietro la metafora della “mano invisibile” di Adam Smith, introdotta qualche anno prima dal napoletano Ferdinando Galiani (Della Moneta, 1750) e già presente, in nuce, anche nell’altro grande napoletano Giambattista Vico. Una rivoluzione ben espressa da Smith: « Non ho visto mai fare nulla di buono da chi si prefiggeva di operare per il Bene comune» ( La Ricchezza delle Nazioni, 1776).
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/10/2023
Le istituzioni economiche delle nostre terre meridiane sono nate meticce, e tali sono restate finché il modo di fare economia nelle terre sotto le Alpi ha avuto tratti tipici e diversi, che oggi stanno scomparendo nella distrazione generale. Mentre, infatti, il Nord protestante distingueva, seguendo Agostino e Lutero, la ‘città di Dio’ dalla ‘città dell’uomo’, e quindi il mercato dal dono, il contratto dalla gratuità, la solidarietà dall’impresa, il profit dal non-profit, l’Umanesimo latino rafforzava nell’Età della Controriforma la promiscuità tra questi mondi e ambiti. E così ha generato parroci gestori di cooperative e di casse rurali, famiglie imprenditrici, frati che sposavano l’altissima povertà mentre fondavano banche per i poveri.
[fulltext] =>Sono ormai molti a pensare che l’economia comunitaria, mediterranea e cattolica, quella ‘terra del noi’ fatta di relazioni fitte e di legami caldi, dove i venditori ambulanti intonavano canti nelle piazze (l’abbanniata siciliana) e nei mercati si scambiavano soprattutto parole, non abbia più nulla di buono da dire; che sia tramontato per sempre quel capitalismo latino dove la solidarietà non era affidata al 2% dei profitti perché la solidarietà era inserita dentro le ordinarie dinamiche di imprese, banche e cooperative - la nostra era la solidarietà del ‘durante’, non quella del ‘dopo’. Quel mondo mediterraneo dove i salari non erano lasciati al solo gioco del ‘mercato del lavoro’ perché quel ‘sale’ era qualcosa di più e di diverso di una merce. La vita e il dolore avevano insegnato che quando il lavoro diventa merce il suo salario-sale diventa troppo sciocco per insaporire i pasti buoni e degni. E così, ciò che resta di economia comunitaria è sempre più visto e trattato come la vecchia Singer della zia o la Lettera 35 del nonno.
La comunità è ambivalente, lo sappiamo bene, perché è la vita vera ad esserlo. E quindi la comunità è vita e morte, fraternità e fratricidio, amicizia e conflitti, abbracci e lotte, lacrime di gioia e di dolore, insieme. E una società che nei legami vede solo lacci, che adora l’individuo libero perché liberato da ogni relazione umana che non siano quelle del mercato, dei contratti e dei social (che poi sono la stessa cosa: il ‘mi piace’ di Facebook è il ‘mi piace’ del consumatore sovrano), non può che fuggire dalla comunità, da ogni comunità fatta di carne e sangue.
Eppure in tutto questo discorso, un discorso che sta diventando l’unico, ci deve essere qualcosa di sbagliato che nulla più della crisi ambientale ci sta ogni giorno di più rivelando.
In queste settimane stiamo vedendo che francescani avevano un’altra idea di persona, di comunità e di economia. Fecero la scelta, tutta carismatica, di andare a vivere nel cuore delle nuove città commerciali medioevali e rinascimentali, lasciarono le valli e scesero nelle piazze e divennero amici dei mercanti e dei cittadini, e spesso li capirono. E quando scrissero di economia e di moneta, non guardarono il mondo dall’altezza dei trattati di teologia, scritti in genere da chi i mercanti e i banchieri veri non li vedeva mai (l’impressione che i teologi che scrivevano di economia facevano ai mercanti è molti simile a quella che fanno oggi i politici che scrivono leggi per una economia che non vedono). Si misero invece all’altezza bassa dei banchi dei mercati, e lì incrociarono gli occhi dei mercatores, e nacque un’altra economia, sorsero banche diverse, altri Monti.
Quei francescani furono capaci di innovare perché si sporcarono le mani con le faccende economiche, anche rischiando di commettere errori, perché la terra la cambia solo chi ci cammina sopra e non si rifugia della purità eterea dei cieli - i cieli nuovi non si trovano senza le terre nuove. E di errori ne fecero, come quello, grave, del tono anti-semita delle loro battaglie contro l’usura, sulla base dell’idea che fossero soltanto gli ebrei a prestare denaro a usura. Quell’idea era sbagliata, perché tanta usura, soprattutto quella grande, era fatta da buoni cristiani, ricche famiglie di banchieri che prestavano ai ricchi mercanti cristiani, ai cardinali e ai papi; ai ebrei restavano quasi soltanto i piccoli prestiti, seduti sui loro banchetti sotto la tenduccia col tappeto rosso. Lì tutti li vedevano, mentre i grandi contratti usurai dei potenti Strozzi, Medici o Chigi restavano invisibili ai più, frati inclusi - la grande finanza ha sempre avuto nell’invisibilità la sua forza. Molti usurai cattolici fecero brillanti carriere politiche (Massimo Giansante, L’usuraio onorato, 2008), in una finanza europea che, diversamente dalla cattiva leggenda anti-giudaica, era anche, e in certi casi soprattutto, in mani cristiane (F. Trivellato, Ebrei e capitalismo: storia di una leggenda dimenticata, 2021).
Noi facciamo molta fatica a capire le ragioni profonde dell’antica lotta morale all’usura. Quella principale è un principio chiaro e forte: ‘non puoi lucrare sul tempo futuro, perché quello è il tempo dei figli e della discendenza’. Ecco perché la nostra generazione è una generazione usuraia, perché non sa “pensare al bene comune e al futuro dei figli” (Laudate Deum, 60), quei “figli che pagheranno per i danni delle nostre azioni” (LD, 33). Usuraio è chi oggi specula sul tempo dei figli. I poveri di oggi sono allora anche e soprattutto i bambini nati e quelli che nasceranno, che vanno protetti dalle nostre usure individuali e collettive.
Torniamo alla meravigliosa storia dei francescani, che oggi qui ad Assisi dove mi trovo per celebrare ‘Economy of Francesco’ risalta con una luce abbagliante di futuro - Francesco è il nome di domani, non solo di ieri.
Quando con il Concilio di Trento si attenuò l’azione dei frati minori di fondazione dei Monti di pietà (che nelle città si trasformarono via via in banche), i frati cappuccini raccolsero il testimone e per oltre due secoli edificarono centinaia di Monti frumentari. I minori operavano prevalentemente nelle città del Centro-Nord, perché in quelle economie monetarie era essenziale aggirare l’usura con la grande intuizione (di origine ebraica) dei monti dei pegni che divennero i loro Monti di Pietà. Lì gli oggetti delle famiglie (vestiti, mobili, strumenti di lavoro, gioielli: quasi tutto, tranne le armi) venivano liquidati in moneta, che era essenziale in città dove vigeva la divisione del lavoro. Erano infatti pochi gli oggetti dati in pegno al Monte (impegnati) che venivano riscattati alla restituzione del prestito, perché quei Monti svolgevano una funzione mista di prestito-acquisto. In campagna e al Sud, invece, dove l’economia era soprattutto non-monetaria, nacquero i Monti frumentari, con la semplice e straordinaria innovazione del grano usato come moneta. Nelle campagne e in quelle economie di sussistenza erano pochi i beni da poter dare in pegno, e così le garanzie, che pur ci vogliono in ogni forma di finanza, erano quelle personali, come la fideiussione. Il credito tornava così alla sua antica etimologia di credere, di fidarsi e credere soprattutto in qualcuno, quindi nelle persone. In caso di insolvenza, i Monti di pietà vendevano gli oggetti impegnati, e i Monti frumentari si ‘incartavano’: “Non essendoci infatti alcun oggetto da vendere in caso di mancata restituzione del prestito, i monti si ‘incartavano’” (Paola Avellone, All’origine del credito agrario, p. 33). Le comunità sono fatte anche di queste fragilità.
Una grande, lunga e sconosciuta storia di amore, tutto evangelico e tutto civile, una delle pagine più luminose della nostra storia economica e sociale. Aggiungiamo allora ancora qualche pagina.
Eufranio Desideri (1556-1612), che diventerà San Giuseppe da Leonessa, fu uno di questi instancabili frati cappuccini costruttori di decine di Monti frumentari nei villaggi dei Sibillini e dei Monti della Laga, da Amatrice a Norcia, in quasi tutti i villaggi e le cittadine di quelle terre fragili. Così leggiamo nelle testimonianze dei suoi compagni: “Quando fra Giuseppe predicò a Borbona, io ero suo compagno e in quella terra c’era una grande carestia. Furono portate da due donne due ceste piene di pane. Arrivò in chiesa padre Giuseppe, benedisse il pane e ordinò di distribuirlo ai poveri: erano circa 200. Cominciammo la distribuzione del pane. Nel frattempo era accorsa molta gente, ma alla fine fu sufficiente per tutti, anzi avanzò e fu custodito nelle case: nella nostra ne restarono da 3 o 4 infilate di 12 pagnotte l’una” (http://www.manoscrittisangiuseppe.it/la-vita/). Le moltiplicazioni dei pani e pesci hanno accompagnato la nostra storia cristiana, si sono ripetute mille volte in quei luoghi dove ‘due donne’ o ‘un ragazzo’ hanno donato qualcosa, e qualcun altro ha creduto ancora nel miracolo del pane per i poveri.
Fra Giuseppe fu proclamato santo da papa Benedetto XIV nel 1746, il Papa che riprese il nome di Benedetto XIII, cioè quel Francesco Orsini di Gravina, il ‘papa agricoltore’, ispiratore di centinaia di Monti frumentari. L’anno prima Benedetto XIV aveva scritto la Vix Pervenit, la prima enciclica papale che rendeva legittimo l’interesse sul prestito. In quella Enciclica si menziona anche il prestito in ‘frumento’ (VP,3.V), a testimonianza di quanto presente e importante fosse ancora l’esperienza dei Monti frumentari. E, sebbene sia un documento passato alla storia come la legittimazione del prestito a interesse, la quasi totalità dell’Enciclica è invece dedicata a ribadire l’illiceità dell’usura e del prestito ad interesse, che è legittimo solo in particolari e precise condizioni (varianti degli antichi ‘danno emergente’ e ‘lucro cessante’) e “da questi derivi una ragione del tutto giusta e legittima di esigere qualcosa in più del capitale dovuto per il prestito” (VP,3.III). Per il resto ribadisce che “ogni guadagno che superi il capitale è illecito ed ha carattere usuraio” (VP,3.II), che dovrebbe far “vergognare” chi così guadagna - era quello un mondo dove l’etica della vergogna ancora era efficace. Qualche anno dopo, all’interno della stessa tradizione civile e spirituale, così scriveva Antonio Genovesi: “La regola: tu hai il diritto di dare a interesse a’ tuoi fratelli; L’eccezione: posto che non sieno poveri.” (Lezioni di Economia Civile, 1767, II, cap. XIII, §20). Ai poveri non si chiedono gli interessi: basta la restituzione del capitale. Tutto questo quell’antica tradizione civile la sapeva bene, noi lo abbiamo dimenticato.
Il francescanesimo ci ha donato molte cose, alcune stupende. Tra queste la dignità del povero, che prima di essere aiutato va stimato, perché senza la stima di ciò che il povero è già non si crea nessun buono non-ancora: “Mi ricordo che la Domenica, quando di solito entra nei nostri Conventi grande quantità di pane bianco, fra Giuseppe mi chiese perché portavo il pane scuro ai poveri che bussavano alla porta. E con grande enfasi mi disse: ‘Voglio che tu dia ai poveri quello bianco’”. Il valore del pane bianco per i poveri lo poteva capire solo Francesco, e i suoi amici di ieri e di oggi.
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Nel capitalismo latino i legami sono nelle dinamiche ordinarie di imprese e banche
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/10/2023
Le istituzioni economiche delle nostre terre meridiane sono nate meticce, e tali sono restate finché il modo di fare economia nelle terre sotto le Alpi ha avuto tratti tipici e diversi, che oggi stanno scomparendo nella distrazione generale. Mentre, infatti, il Nord protestante distingueva, seguendo Agostino e Lutero, la ‘città di Dio’ dalla ‘città dell’uomo’, e quindi il mercato dal dono, il contratto dalla gratuità, la solidarietà dall’impresa, il profit dal non-profit, l’Umanesimo latino rafforzava nell’Età della Controriforma la promiscuità tra questi mondi e ambiti. E così ha generato parroci gestori di cooperative e di casse rurali, famiglie imprenditrici, frati che sposavano l’altissima povertà mentre fondavano banche per i poveri.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 30/09/2023
La politica dei governi centrali, prima Borbone poi quello Piemontese, con l’intento di sottrarre il controllo degli Istituti di credito agrario alla Chiesa, produsse molti danni al Sud e nei piccoli villaggi
L’età della Controriforma ha conosciuto, insieme a pagine buie, anche alcune pagine luminose. Perché la ‘terra del noi’ è la terra della comunità, e la comunità è sempre intreccio di luce e ombra. Una delle pagine lucenti è quella scritta dai cappuccini, da vescovi e tanti cristiani che diedero vita alle centinaia di Monti di Pietà e di Monti Frumentari, e si misero decisamente dalla parte della gente più misera, soprattutto nel Sud Italia. Pagine tanto luminose quanto sconosciute e non raccontate dalla stessa Dottrina Sociale della Chiesa, che nascendo, formalmente, nel 1891 (Rerum Novarum) quando i Monti erano già in decadenza, li ha sistematicamente trascurati. E così non sappiamo che i 114 Monti frumentari della Repubblica Veneta di fine ’700 “verranno sostituiti dalle casse rurali volute da Leone Wollemborg” (Paola Avallone, Alle origini del credito agrario, 2014, p. 85). Però questa trasformazione dei Monti funzionò in parte nel Nord, meno nel Centro e sostanzialmente fallì nel Sud Italia, dove il vuoto lasciato dai Monti restò vuoto. Vediamo perché.
[fulltext] =>Nella storia dei Monti frumentari c’è una specifica Questione meridionale, che inizia con i Borboni e poi passa allo Stato unitario. Nel Regno di Napoli i Monti frumentari si svilupparono grazie all’impulso decisivo dato dalla Chiesa, sia di quella istituzionale (vescovi) sia di quella carismatica (cappuccini). Una figura fondamentale fu il vescovo domenicano Pierfrancesco Orsini (Gravina 1650, Roma 1730), il futuro Papa Benedetto XIII. A Manfredonia (Siponto), dove fu vescovo, eresse nel 1678 il suo primo Monte Frumentario, e quando divenne vescovo di Benevento lì fondò un Monte frumentario nel 1686 e fece sì che in ogni borgo e città ne nascesse almeno uno, e ne nacquero più di cento. E una volta Papa, ne incoraggiò ovunque l’istituzione.
Ed è proprio attorno al ruolo della Chiesa nella gestione dei Monti dove si sono giocate le partite decisive della loro storia nel Sud Italia. Nel 1741, infatti, ci fu un Concordato tra i Borboni e Papa Benedetto XIV, che portò ad una laicizzazione dei Monti frumentari, per ridurre l’ingerenza della Chiesa nella vita economica delle città. Con quali risultati? Qualche decennio dopo, Francesco Longano, economista e filosofo assistente alla cattedra di Antonio Genovesi, nella sua relazione dopo un viaggio in Molise (e Foggia), scriveva parole chiarissime e importanti: “Da tempo immemorabile per pubblico sollievo de’ popoli ritrovavasi in ogni Provincia del Regno una moltitudine grande di Monti di Pietà [Monti frumentari], o Luoghi Pii. Eran essi così sottoposti ai Vescovi, e la loro amministrazione era così esatta, che aveano all’estremo prosperato. La loro rendita per lo più consisteva in grano, ma altresì in vaccini, e pecore, e rendite in denaro. Una sopra vigilanza è stata quella che cogli amministratori annuali l’ha in pochissimo tempo tutti taglieggiati, predati, impoveriti… Otto o dieci privilegiati poveri o ricchi hanno formato una spezie di monopolio. I ricchi per avarizia, i poveri saccheggiano per bisogno” (Viaggio dell’abate Longano per la Capitanata, 1790, pp. 188-189). L’operazione dei Borboni aveva quindi prodotto “la perdita irreparabile di un’opera di pubblica utilità estrema quasicchè in ogni città, terra e villaggio della Provincia” (p. 259). E quindi Longano concludeva: “Subito si capisce la necessità di doversi ristabilire, col dichiararli nuovamente beni ecclesiastici, e assoggettabili alla Direzione Vescovile” (p. 260). Una contro-riforma, questa, che non avvenne.
Come ricorda la storica Paola Avallone, “i monti frumentari godettero di una certa floridezza fino a quando furono liberi di operare in base agli statuti che si erano dati e fino a quando vennero gestiti localmente da persone nominate dal parroco e tenute a dare conto della loro gestione all’autorità vescovile, così come era stato indicato da Papa Benedetto XIII dopo il 1724. Prosperarono fino a quando in pratica riuscirono ad adattarsi alle esigenze della comunità locale” (cit., p. 24). La politica dei governi centrali, prima Borbone poi quello Piemontese, con l’intento di sottrarre il controllo dei Monti alla Chiesa, produsse molti danni, in particolare al Sud, dove la Chiesa svolgeva da secoli anche molte funzioni civili ed economiche, soprattutto nei piccoli villaggi e tra i più poveri. Vollero accentrare la gestione dei Monti, non riconoscendo la loro fragile ma essenziale struttura locale e comunitaria, e li fecero morire.
Emblematico è a riguardo il fallimento del ‘Monte frumentario Generale’ del Regno di Napoli, una mega istituzione centrale (con sede a Foggia), che avrebbe dovuto gestire tutti i Monti sparsi nel regno come delle filiali periferiche, anche per superare la piaga dei famigerati ‘contratti alla voce’ nelle campagne. Fondato nel 1781 non decollò mai. Aumentò solo la burocrazia, accrebbe la distanza tra chi governava i Monti e i contadini poveri, e si cercò di separare la componente finanziaria da quella caritativa, minando quella natura duale che invece costituiva l’anima e il segreto del loro successo. Fu dunque una riforma anti-sussidiaria, rafforzata dal periodo francese post-rivoluzionario, dalla restaurazione e infine dallo Stato unitario che cercò di trasformare i Monti in ‘casse di prestanze agrarie’ o in ‘casse di risparmio’, istituzioni lontane dalla tradizione dei paesi del Sud, dallo spirito di quei luoghi. Ho rintracciato due decreti regi, del 31.1.1878 e del 14.7.1889, che trasformavano rispettivamente “i due Monti frumentari e il monte pecuniario di Roccanova (PZ), ed inverte i loro patrimonio a favore della Cassa di prestiti e risparmi”, e “i monti frumentari di Maltignano (AP) in una Cassa di prestanze agrarie”. Il verbo usato dal burocratese del decreto - ‘inverte’ - oggi risuona come verbo profetico: fu proprio una inversione del senso dei Monti quella generata da leggi che non li capirono. Dai decreti leggiamo che nel piccolo comune lucano di Roccanova c’erano tre Monti, e nel borgo di Maltignano si parla genericamente al plurale di ‘Monti’, a testimonianza di quanto diffuse e capillari fossero quelle benedette istituzioni. Inoltre, “la manovra di trasformazione dei Monti Frumentari in Casse di Prestanza, attraverso la conversione del frumento in denaro, favorì particolarmente le classi non direttamente interessate al lavoro dei campi… L’usura finì con l’avere il sopravvento” (Michele Valente, “Evoluzione socio-economica dei Sassi di Matera nel XX secolo”, 2021, p. 29).
La trasformazione dei Monti in queste nuove casse ‘del Nord’ comportò quindi una finanziarizzazione dei Monti frumentari i quali, diversamente dai Monti pecuniari che sovente li affiancavano, usavano il frumento come moneta. Era il grano usato come moneta la grande innovazione di quelle banche diverse, la novità era proprio la riduzione di un passaggio di intermediazione, elemento cruciale in un mondo con pochissimo denaro e quindi detenuto dagli usurai. Le nuove leggi costrinsero i Monti ad abbandonare il grano-moneta e trasformarsi in istituti finanziari ordinari. E lì morirono. Inoltre, le leggi dello Stato non capivano la natura ibrida di questi istituti - credito e carità, contratto e dono - e la combatterono, senza capire che osteggiare questa natura meticcia significava rinnegare la storia dei Monti, che vivevano in quanto e fino a quando spuri, mescolati, contaminati. Vollero separare ciò che era unito per natura e vocazione, e li fecero morire. Certo, tutti sappiamo che dietro ad una estinzione di massa di migliaia di Monti ci sono molte ragioni iscritte nell’evoluzione della società italiana ed europea attraverso i secoli, ma le riforme anti-sussidiarie, l’atteggiamento ideologico anti-clericale, la distanza culturale tra i nuovi governanti e i contadini, furono elementi decisivi per questa ecatombe economica e sociale: chissà cosa poteva essere la finanza, l’economia e la società meridionale se i Monti fossero stati capiti e custoditi? Giustino Fortunato, politico e intellettuale meridionale, fu molto contrario alla riforma dei Monti e in generale alla politica agraria ed economica dello Stato unitario nel Sud. In una lettera a Pasquale Villari del 18.1.1878, così scriveva: “Una riforma fatta capo a fondo su idee preconcette, su apriori… La confusione è grande. Primo esempio: la trasformazione dei Monti frumentari in Casse di prestanza agraria” (Carteggio (1865-1911), pp. 11-12). La riforma fu, per Fortunato, una vera “pietra sepolcrale” sui Monti e sui “cafoni”.
E qui dobbiamo tornare alla vocazione e natura dell’economia ‘cattolica’ e meridiana. L’azione pastorale della Controriforma aveva rafforzato e sviluppato la presenza capillare della Chiesa nelle campagne che, soprattutto nel Sud, si trovavano in condizione di grave degrado, anche economico. La costante presenza di frati, suore e sacerdoti in ogni villaggio, nelle pievi, nei molti conventi rurali, aveva portato la Chiesa a capire i bisogni veri delle persone vere, e così divenne competente delle povertà e dell’economia concrete. E nacquero i Monti Frumentari: “Fin quando quelle istituzioni vennero amministrate da ecclesiastici, i beni in essi conservati erano ritenuti sacrosanti e quindi intoccabili. Dal momento in cui vennero laicizzati furono saccheggiati senza alcun ritegno (Paola Avallone, cit., p. 27).
Ciò che resta ancora in Italia e nell’Europa meridiana della tradizione sociale e civile, delle istituzioni di finanza solidale, rischiano oggi di subire la stessa sorte dei Monti frumentari, dove i governanti non sono più i Borboni e i Piemontesi ma gli algoritmi di Basilea e delle istituzioni finanziarie nazionali e internazionali, che separano il credito dalle comunità, che allontanano le scelte dai territori, che non ascoltano più i bisogni veri delle persone concrete e quando provano ad ascoltarle non le capiscono perché parlano lingue troppo diverse, e senza traduttori.
Termino dando la parola a Ignazio Silone, che ha riscattato l’onore della parola ‘cafoni’, una parola troppo carica di ingiustizia, dolore e di speranza, che attende ancora il giorno in cui il dolore non sarà più una vergogna: “Io so bene che il nome di cafone, nel linguaggio corrente del mio paese è ora termine di offesa e dileggio: ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore” (Fontamara, Introduzione).
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Il vuoto lasciato dal declino dei Monti frumentari
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 30/09/2023
La politica dei governi centrali, prima Borbone poi quello Piemontese, con l’intento di sottrarre il controllo degli Istituti di credito agrario alla Chiesa, produsse molti danni al Sud e nei piccoli villaggi
L’età della Controriforma ha conosciuto, insieme a pagine buie, anche alcune pagine luminose. Perché la ‘terra del noi’ è la terra della comunità, e la comunità è sempre intreccio di luce e ombra. Una delle pagine lucenti è quella scritta dai cappuccini, da vescovi e tanti cristiani che diedero vita alle centinaia di Monti di Pietà e di Monti Frumentari, e si misero decisamente dalla parte della gente più misera, soprattutto nel Sud Italia. Pagine tanto luminose quanto sconosciute e non raccontate dalla stessa Dottrina Sociale della Chiesa, che nascendo, formalmente, nel 1891 (Rerum Novarum) quando i Monti erano già in decadenza, li ha sistematicamente trascurati. E così non sappiamo che i 114 Monti frumentari della Repubblica Veneta di fine ’700 “verranno sostituiti dalle casse rurali volute da Leone Wollemborg” (Paola Avallone, Alle origini del credito agrario, 2014, p. 85). Però questa trasformazione dei Monti funzionò in parte nel Nord, meno nel Centro e sostanzialmente fallì nel Sud Italia, dove il vuoto lasciato dai Monti restò vuoto. Vediamo perché.
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stdClass Object ( [id] => 19577 [title] => Quell'altra economia del grano solidale [alias] => quell-altra-economia-del-grano-solidale [introtext] =>La terra del noi/1 - L'origine e il significato dei «Monti frumentari»
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/09/2023
I francescani, e poi la Chiesa e la società, capirono che quando si ha a che fare con la povertà e con la scarsità di moneta, una soluzione, tanto semplice quanto dimenticata, è ridurre l’uso del denaro. Il mondo cattolico e meridiano moderno ha generato anche una sua idea di economia, diversa in molti aspetti da quella del capitalismo nordico e protestante. La reazione della Chiesa di Roma allo scisma luterano rafforzò e amplificò alcune dimensioni del mercato e della finanza già presenti nel medioevo, e ne creò ex-novo altre. Nella serie “La terra del noi”, Luigino Bruni continua la riflessione sulle origini e sulle radici del capitalismo e della società nell’età della Controriforma.
[fulltext] =>La lotta all’usura è tra i tratti costanti nella storia della Chiesa pre-moderna. Stando vicino alla gente, vescovi e monaci capirono che le prime vittime dell’usura erano soprattutto i più poveri. In oltre mille anni, tra il concilio di Elvira (circa 305) e quello di Vienna (1311), si contano circa «settanta concili in ogni contrada» con parole fortissime contro l’usura” (P.G. Gaggia, Le usure, p. 3). E mentre i papi e i vescovi diramavamo bolle e documenti contro l’usura, vescovi e carismi creavano istituzioni finanziarie anti-usuraie, affinché la denuncia dei documenti non restasse astratta – nella Chiesa la realtà è sempre stata superiore all’idea, da quando il logos decise di farsi bambino. Le radici dell’Europa sono anche questa lotta tenace all’usura e queste istituzioni anti-usuraie. Tra queste, molto importanti furono i Monti di pietà francescani, che ormai da qualche decennio sono finalmente al centro di un rinnovato interesse. Meno studiati sono invece i Monti frumentari, anche questi di ispirazione francescana – ma quanto dovremmo ringraziare Francesco e i suoi seguaci?! Istituzioni meticce, come meticcia era (ed è) “l’economia cattolica”, l’economia comunitaria e latina, quella “terra del noi” che dalla comunità riprese anche il suo meticciato, la sua ambivalenza, la sua carne e il suo sangue.
Come i Monti di Pietà, anche i Monti frumentari furono infatti un po’ banche un po’ assistenza, un po’ prestiti un po’ dono, un po’ mercato un po’ solidarietà, gratuità e interesse, individuo e comunità, onestà e corruzione, fiducia e fideiussione, città e chiesa. I Monti Frumentari furono una istituzione fondamentale per l’economia rurale italiana (e non solo), soprattutto quella del Centro-Sud, e lo furono per oltre quattro secoli (!). E come i Monti di Pietà, anche i Monti frumentari nacquero su imitazione di istituzioni preesistenti. Per i Montes pietatis i francescani dell’Osservanza si ispirarono ai deposita pietatis romani (la pietas era anche grande parola romana) e poi ecclesiastici dei primi secoli, istituzioni che erano «il fondo di deposito della pietà, usato per sostenere i poveri… e anche di quelli che hanno subìto un naufragio» (Tertulliano, Apol. 39,6). Ma di certo i francescani imitarono soprattutto i “Banchi dei pegni” ebraici, apportando innovazioni – bassi interessi, il tipo di pegni, i tempi delle restituzioni… I Monti frumentari (o monti granari, granatici, nummari, dell’abbondanza, del soccorso, delle farine, delle castagne …) nascono come sviluppo di depositi pubblici di grani e di sementi gestiti nel medioevo dai comuni o dai monasteri per far fronte ai cattivi raccolti e alle carestie – a Massa Marittima il “Palazzo dell’Abbondanza” risale al 1265, il nome del comune di Montegranaro rimanda a depositi pubblici medioevali (forse romani) di grano, orzo e cereali. Le prime icone delle banche erano monti – si pensi ai banchieri Chigi –, a dirci che il monte, il deposito, l’ammucchiare, furono la prima forma della finanza moderna.
Il grano è stato il primo nome dell’economia mediterranea (F. Braudel). Centrale per la vita di popolazioni in massima parte rurali, nei commerci, per le ricchezze e per le povertà di città, feudi, campagne; e ci voleva una guerra in Europa per ricordarci che viviamo e moriamo ancora di frumento. Anche la Bibbia può essere raccontata come storia del grano e del pane: dalla manna all’eucarestia. I Monti frumentari furono l’attualizzazione della sapienza di Giuseppe, della sua capacità di interpretare i sogni e così di far fronte agli anni di “vacche magre” accumulando depositi frumentari durante le “vacche grasse” – una delle storie più dolorose e belle sulla fraternità tradita e curata è accompagnata dall’odore del grano, che è lo stesso odore della storia di Rut, l’antenata di Gesù. La Decima e la spigolatura erano istituzioni di solidarietà in natura, tipiche di un mondo non-monetario e prevalentemente agricolo. Lo stesso tempio di Gerusalemme, e prima i santuari, svolgevano anche la funzione di raccolta, riserva e ridistribuzione di sementi.
I francescani fecero diventare i vecchi monti del grano qualcosa di nuovo e crearono i Monti frumentari. Frequentando la gente dei villaggi rurali, interpretarono i loro sogni di vita, e capirono che il piccolo e medio contadino (mezzadro o enfiteuta) era spesso in grosse difficoltà: bastava un’annata avara, un incidente, una malattia, una inondazione e il grano destinato a semente per il prossimo anno veniva mangiato per non morire di fame, e così per la nuova semina doveva indebitarsi, in genere con usurai che lo conducevano sul lastrico. I Monti frumentari nascevano anche negli stessi locali dei Monti di Pietà, ma con statuti e funzionari distinti. Non erano enti di pura filantropia: sul grano si pagava un “interesse” non monetario. In genere si prendeva “a raso” dello staio e si restituiva “a colmo”; un piccolo interesse quindi, non troppo diverso dal tasso monetario dei Monti di pietà (attorno al 5%) – i francescani non pensavano che la gratuità coincidesse col gratis. L’opera di Bernardino da Feltre fu fondamentale perché nel 1515 una bolla papale (Inter multiplices, Leone X) riconoscesse la liceità dell’interesse dei Monti di Pietà. I primi Monti frumentari francescani nascono sulla fine degli anni 80 del Quattrocento, tra Umbria e Abruzzo. I nomi di questi primi Monti – “Monte della Pietà del grano della Vergine Maria” di Rieti, o “Monte della Pietà del grano” di Sulmona – rivelano una iniziale gemmazione dei Monti frumentari dai Monti di Pietà. I francescani capirono che nel contesto rurale il prestito monetario non funzionava, e immaginarono banche non monetarie. Il frumento era infatti decisivo nella vita e nella morte della gente, e in un mondo con pochissima moneta in circolazione chi deteneva il denaro aveva un potere troppo grande per non abusarne con l’usura. Più tardi ai Monti frumentari si aggiungeranno anche i Monti pecuniari (che prestavano sempre grano e prodotti agricoli ma a fronte del pagamento in moneta), ma l’uso del grano come moneta (la “grana”) fu la grande innovazione dei Monti, e la ragione della loro longevità.
Ad oggi sembra che il più antico Monte sia quello di Norcia (1487), fondato da fr. Andrea da Faenza (il vero missionario del grano). È comunque interessante che, nel 1771, lo storico A.L. Antinori rivendicasse il primato a Leonessa: « Nel 1446 fu, per cura di Antonio di Colandrea piovano, meglio ricoverato il Monte di Pietà in Lagonessa, edificata forte stanza pè depositi e pegni presso alla piazza» (cf. Giuseppe Chiaretti, Leonessa Arte, Storia, Turismo, 1995). La pietra, un portale d’ingresso, è oggi conservata nel locale convento di S. Francesco. Il pagamento di un interesse al Monte frumentario fu più semplice da accettare dalla Chiesa, perché il nodo etico dell’usura dipendeva dall’antica tesi della sterilità della moneta, una sterilità che non sussiste nel frumento: qui l’interesse (o l’aumento) era considerato una condivisione del profitto naturale frutto della generosità della terra (semini 1 e raccogli 10).
Lo storico Palmerino Savoia, che ci riporta l’opera incessante di creazione sulla fine del Seicento di Monti frumentari da parte del vescovo Orsini, futuro Papa Benedetto XIII, chiamato «l’agricoltore di Dio» (su cui torneremo), così descrive il funzionamento del Monte frumentario di Benevento: « Il Monte veniva amministrato da due governatori e da due depositari che duravano in carica un anno e erano nominati dall’arcivescovo… Il prestito del grano si faceva quattro volte l’anno: nel mese di ottobre per aiuto alla semina, nel mese di dicembre per sovvenire i bisognosi nelle feste di Natale, nel mese di marzo per le feste pasquali, e nel mese di maggio a gloria di S. Filippo Neri» (Una grande istituzione sociale: I monti frumentari, 1973, Acerra). Un dettaglio che dice cosa fossero le feste per le nostre genti: in mezzo alla miseria, e proprio perché poveri ed esposti alla fragilità radicale della vita, nel giorno della festa si celebrava la vita, si faceva festa insieme per continuare a sperare e per sconfiggere la morte. E la Chiesa, qui davvero maestra di umanità, capiva e approvava i prestiti del grano per pasti e dolci speciali, che interrompevano fame e carestie e dicevano ai poveri: “non sei povero sempre e per sempre” – oggi abbiamo dimenticato cosa sono le feste perché abbiamo dimenticato l’arte del poco, la grande arte dei poveri. E così, nell’abbondanza della “grana”, moriamo per carestie di festa.
Qualche dato ci dice cosa sono stati i Monti frumentari. Nel 1861 nel Mezzogiorno d’Italia c’erano 1.054 Monti frumentari, il doppio di quelli del Nord, di cui circa 300 solo in Sardegna; nel centro Italia, in particolare in Umbria e nelle Marche, i Monti frumentari erano 402 (P. Avallone, «Il credito», in Il mezzogiorno prima dell’unità, a cui di N. Ostuni e P. Malanima, 2013, p. 268). Perché si sono estinti? Nel 1717, nella diocesi di Benevento – dell’allora vescovo Orsini – si contavano «157 Monti frumentari», non filiali ma tutte istruzioni indipendenti tra di loro (P. Calderoni Martini, Fra Francesco Maria Orsini e il credito agrario nel sec. XVII, Napoli, 1933). Nel Settecento tra i protagonisti dei dibattiti sui Monti frumentari c’erano i migliori economisti “civili”, da Giuseppe Palmieri a Francesco Longano, l’allievo di Genovesi che dal 1760 al 1769 affiancò e poi sostituì il maestro malato nelle lezioni di Economia civile a Napoli. I Monti furono vere e proprie istituzioni economiche, finanziarie ed etiche, non ‘operette pie’.
I francescani, e poi vescovi e cittadini capirono che quando si ha a che fare con la povertà e con la scarsità di moneta, una soluzione, tanto semplice quanto dimenticata, è ridurre l’uso del denaro. Capirono che si poteva dar vita ad una economia senza denaro: se era il grano ad essere necessario e scarso, il grano stesso poteva diventare la moneta, senza il bisogno di un altro intermediario. Saltarono un passaggio, accorciarono la filiera dell’economia e allungarono la filiera della vita. Un passaggio in meno divenne un passo in più. Innovarono togliendo, riducendo un grado di intermediazione. Oggi ci sono miliardi di persone escluse dal denaro, che avrebbero bisogno di nuove istituzioni finanziarie, locali e globali, non-usuraie. Saremo capaci oggi di imitare la creatività etica e civile dei francescani di ieri?
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L'origine e il significato dei «Monti frumentari»
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/09/2023
I francescani, e poi la Chiesa e la società, capirono che quando si ha a che fare con la povertà e con la scarsità di moneta, una soluzione, tanto semplice quanto dimenticata, è ridurre l’uso del denaro. Il mondo cattolico e meridiano moderno ha generato anche una sua idea di economia, diversa in molti aspetti da quella del capitalismo nordico e protestante. La reazione della Chiesa di Roma allo scisma luterano rafforzò e amplificò alcune dimensioni del mercato e della finanza già presenti nel medioevo, e ne creò ex-novo altre. Nella serie “La terra del noi”, Luigino Bruni continua la riflessione sulle origini e sulle radici del capitalismo e della società nell’età della Controriforma.
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