Le tenaglie dell'ingratitudine

 Le tenaglie dell'ingratitudine

La grande transizione/4 - Lavoratori non più "visti", dirigenti ridotti a tecnici

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/01/2015

Dovremmo abituarci a riflettere a fondo sul fatto che il mio io è comunione. Se possiamo definire le comunità come il ritrovarsi, in un tempo e in uno spazio, di alcuni individui ma nella loro tensione a farsi persona, dovremmo allora sentire l'insufficienza radicale delle comunità, e tendere continuamente a scioglierle, superandole, nella comunione”.

Giuseppe Maria Zanghì Poche riflessioni sulla persona

In tutte le grandi epoche di passaggio la prima indigenza è quella delle parole. In questa veloce età di transizione, il mondo del lavoro soffre anche per la mancanza di poeti, di artisti, di maestri di spiritualità che ci donino nuove parole per capire le nostre gioie, sofferenze, speranze. Ci manca il linguaggio per dire quanto stiamo vivendo, per narrarle e, narrandole, curarle.

Nei decenni passati avevamo imparato a comprendere e raccontarci i dolori e le gioie delle fabbriche e delle campagne. Nel secolo scorso abbiamo generato letteratura, poesia, cinema, canzoni, spiritualità della campagna, della fabbrica, del lavoro dei professionisti, degli imprenditori e degli impiegati, che ci hanno dato le parole per capire ed elaborare le ferite e le benedizioni di quel grande umanesimo del lavoro. Cantandolo e narrandolo lo abbiamo capito, abbiamo vissuto le sue feste e elaborato i suoi lutti, e così ci siamo salvati, quasi sempre. Non saremmo sopravvissuti senza i poeti, gli artisti e i carismi del lavoro, che ci hanno amato dandoci soprattutto le parole – la poesia, l’arte e le spiritualità sono soprattutto il dono di parole diverse e più grandi per dare nome alle nostre esperienze, che senza questi doni resterebbero mute, mal-dette, mal-vissute.

Se c’è un luogo dove è particolarmente forte ed evidente la carestia di parole nuove è la vita dentro le organizzazioni. In particolare, i dirigenti si trovano schiacciati dentro una vera e propria morsa relazionale cui non riescono a dare un nome. Da una parte sono oggetto di un’infinita domanda di riconoscenza che proviene dai loro lavoratori. Dall’altra, questi manager non trovano riconoscimento per il loro proprio lavoro. Tutti sentiamo, se e quando lavoriamo veramente, che nel nostro lavoro quotidiano c’è molto più di quanto richiesto dal contratto. A nessuna impresa può bastare l’esecuzione dei contratti, e a nessun lavoratore basta il solo stipendio per dare il meglio di sé. L’impresa ha bisogno proprio di quanto non può comprare dal lavoratore: del suo entusiasmo, delle sue passioni, della sua gioia e voglia di vivere, della sua creatività. Della sua anima, del suo cuore. Ma queste dimensioni umane sono solo e tutta libertà, e quindi l’impresa riesce ad averle solo se donate dal lavoratore, perché nessun incentivo è un buon sostituto del dono nel lavoro – anzi, in genere lo distrugge. In altre parole: l’impresa ha veramente bisogno di quanto il contratto di lavoro, con i suoi tipici strumenti – incentivi e controlli – non può comprare, perché dono. E non c’è dono sostenibile senza reciprocità. È questa la radice dell’immensa, costante, crescente domanda di stima, riconoscimento, attenzione da parte dei lavoratori che resta in buona parte insoddisfatta. Questa realtà, che è evidente a tutti, resta quasi sempre muta per mancanza di parole e di categorie per esprimerla.

Lo scarto tra domanda e offerta di stima e di riconoscimento dentro le imprese è però creato e alimentato dalla stessa cultura delle grandi imprese e organizzazioni (si veda il mio articolo di domenica scorsa), che chiedono così tanto al lavoratore da portarlo ad abbandonare progressivamente gli altri ambiti non-lavorativi della vita. Così a quell’essere simbolico e malato di infinito che è la persona, vengono chiuse tutte le finestre dell’anima tranne quella del lavoro, e gli si promette che da quella unica finestra potrà vedere paesaggi e orizzonti che per essere veramente visti avrebbero bisogno delle prospettive delle altre finestre. E nell’intreccio di queste esistenze a una sola dimensione, il manager diventa la prima vittima della malattia relazionale che egli stesso contribuisce, a volte inconsapevolmente, a creare.

Che fare? Gli studi sul benessere lavorativo ci stanno cominciando a dire che la prima ed essenziale forma di reciprocità invocata dai lavoratori è essere "visti" dai loro responsabili, che quindi dovrebbero essere più presenti nei luoghi dove si svolge il lavoro. Vedendo il lavoro e il lavoratore che lavora, si vedrebbe anche il tanto dono contenuto in quel lavoro. È questo sguardo la prima reciprocità richiesta dai lavoratori, uno sguardo di attenzione che renderebbe visibili quelle dimensioni essenziali del lavoro che restano invisibili perché nessuno le guarda, o perché non le guardano le persone che dovrebbero vederle per riconoscerle, o perché le guardano, con diffidenza, solo per controllarle. Certo, anche lo sguardo dei colleghi e il nostro stesso sguardo sono importanti, ma non bastano. Nelle comunità, comprese le comunità di lavoro, gli sguardi non sono tutti uguali, le funzioni e le responsabilità contano, e il lavoro deve essere visto soprattutto da chi ha responsabilità sul mio lavoro. Ma, come messo oggi in luce da studiosi francesi come Norbert Alter o Anouk Grevin, nelle moderne grandi organizzazioni la teoria e prassi del management porta sempre più i dirigenti a non poter vedere il lavoro perché "costretti" a passare il loro tempo in mezzo a carte e computer, a produrre grafici, indicatori, controlli; o a fare colloqui di valutazione "istituzionali" nei quali in mezz’ora si dovrebbe valutare un lavoro reale non visto nell’ordinarietà dei dodici mesi. Si vedono le tracce del lavoro, le operazioni, ma questi sofisticati strumenti non consentono di vedere l’esperienza tutta umano-spirituale del lavoratore. E così si finisce per non valutare gli aspetti più importanti del lavoro, che avrebbero bisogno soprattutto del senso della vista. La vita buona che, nella fatica e nelle contraddizioni, si sperimentava e si continua a sperimentale in molte imprese artigiane, dipende anche dal fatto che l’imprenditore lavora insieme ai suoi lavoratori, una compagnia che crea solidarietà e un circuito di riconoscimento virtuoso. Il principale modo per riconoscere il dono che c’è in ogni lavoro è vedere e riconoscere il lavoro nella sua feriale ordinarietà.

Ma c’è di più. Anche i dirigenti sono lavoratori, e anch’essi hanno un vitale bisogno di reciprocità, di riconoscimento, di essere "visti". Nelle grandi imprese anonime, però, dove i proprietari sono distanti, frammentati, a volte inesistenti, non c’è nessuno "al di sopra" del manager a vedere il suo lavoro, a riconoscerlo, a ringraziarlo. Questi si trovano inondati delle domande di attenzione e di reciprocità, ma a loro volta non hanno chi è in grado di riconoscere-ringraziare il loro lavoro, che quindi resta ir-riconosciuto, e l’organizzazione diventa una grande produttrice di ingratitudine che sta diventando sempre più insostenibile (anche quando si cerca di compensarla con alti stipendi).

Occorre, allora, imparare di nuovo a guardare e vedere il lavoro, tutto il lavoro e il lavoro di tutti.

Ma prima ancora, e più radicalmente, dobbiamo avere, collettivamente, il coraggio di compiere due operazioni che sarebbero rivoluzionarie.

In primo luogo, le imprese devono aiutare i propri lavoratori, tutti i lavoratori, a riaprire quelle finestre esistenziali che esse stesse hanno contribuito in questi decenni ad abbuiare. Perché la vita dei lavoratori possa fiorire ha bisogno della luce di tutta la casa, altrimenti anche la stanza del lavoro perde luminosità. Non possiamo chiedere alla nostra carriera e ai nostri dirigenti di soddisfare da soli il nostro bisogno di riconoscimento, di stima, di amore, di cielo, perché se tentano di farlo trasformano le nostre imprese in chiese senza Dio e senza culto, come accade in ogni idolatria. Al tempo stesso, se per le frustrazioni e le delusioni smettiamo di chiedere molto (non tutto) al lavoro, accade che la vita, l’intera vita, si intristisce e si spegne. Ridaremo aria e luce al lavoro, facendo entrare il sole in tutti gli ambienti della vita.

Ma c’è bisogno anche di una seconda operazione, ancora più radicale, difficile, decisiva. Abbiamo imparato per intere ere a lavorare e a gestire operazioni complesse nelle case e nei monasteri. Le prime organizzazioni sono stati i parti, cooperazioni di donne per la vita, per la gestione della fine del gestare, lavori di mani di donna che accompagnavano il travaglio del nascere. Donne, mani, vita: ingredienti troppo assenti dalla nostra cultura organizzativa, tutta basata sul registro maschile e senza più la cultura delle mani e la sua tipica saggezza. La cultura del lavoro in organizzazioni complesse è poi fiorita e maturata dentro le abbazie, da secoli di ora et labora: spirito a servizio delle mani, mani alleate dello spirito, che insieme nutrivano il lavoro. I primi manager di grandi organizzazioni si sono formati leggendo e copiando i codici di Cicerone e di Agostino. Cureremo le relazioni nelle nostre imprese se le metteremo nelle mani di nuovi manager umanisti, di persone esperte in umanità, capaci di ascolto, di cura, di interiorità, di accudire i tanti travagli delle organizzazioni. Ma le scuole di business sono esclusivamente concentrate sugli strumenti e sulle tecniche, quando dovrebbero far studiare ai propri allievi poesia, arte, filosofia, spiritualità, svolgendo le lezioni dentro le fabbriche, e così formarli guardando il lavoro, sentendo il suo odore e profumo vero, e non quello sintetico delle sale convegni degli hotel.

Il mercato di domani avrà un bisogno vitale di persone tutte intere, fuori e dentro le imprese, che coltivino e attivino anche quelle dimensioni fondamentali dell’umano che da millenni chiamiamo dono, reciprocità, interiorità, che rendono la vita degna di essere vissuta, a lavoro e a casa.


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