Messaggero di S. Antonio

Economia Civile

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Le virtù del mercato - Gli appuntamenti decisivi della vita ci aspettano nei luoghi del nostro vivere ordinario, e quindi anche nel nostro lavoro quotidiano. Qui possiamo incontrare Dio e dialogare con l'infinito.

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 07/05/2018

Nella Bibbia, molte chiamate decisive avvengono mentre le persone stanno lavorando. «Il Signore mi prese mentre seguivo il gregge, e mi disse: “Va’, profetizza al mio popolo”» (Amos 7,15). Gedeone stava lavorando quando lo raggiunse l’angelo del Signore: «Gedeone, figlio di Ioas, batteva il grano nel frantoio» (Giudici 6,11). Saul stava inseguendo le sue asine smarrite quando Samuele lo incontrò e lo unse per diventare il primo re d’Israele (1 Samuele, 9).

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L’angelo Gabriele non apparve a Maria nel tempio ma a casa sua, mentre, forse, stava facendo i suoi lavori ordinari di giovane donna. Gli apostoli vennero chiamati mentre ritiravano le reti, mentre lavoravano. Anche l’incontro decisivo della vita di Mosè avvenne durante un ordinario giorno di lavoro: «Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb» (Esodo 3,1). Mosè era un uomo straniero che lavorava per vivere. Come tanti uomini del suo tempo e del nostro. Ed è dentro questo lavoro umile e dipendente che accade l’evento che cambierà la sua storia e la nostra. 

Questa enorme stima che la Bibbia ha del lavoro ci deve dire molte cose, tutte belle. Innanzitutto ci ricorda che per le teofanie non ci sono luoghi spirituali migliori di una barca, una cucina, un roveto, un viaggio per riportare a casa le asine. Di un guado notturno di un fiume, del deserto, della strada per Damasco, di una chiesetta diroccata nei pressi di Assisi. E se oggi vogliamo avere nuove annunciazioni, nuovi incontri con Dio, dobbiamo aspettarli in un’officina, nelle corsie degli ospedali, tra i banchi di scuola.

Sono gli idoli che «funzionano» soltanto nel loro territorio sacro recintato di cui sono prigionieri; il Dio biblico non è un idolo anche perché è libero dai nostri luoghi religiosi, si sente scomodo nei templi, gli piace l’aria aperta, ama condividere la strada con noi, bazzicare i luoghi del lavoro perché sono i luoghi della vita. Noi invece continuiamo a cercare Dio nei posti dove noi abbiamo deciso debba trovarsi, e non lo troviamo, perché ci aspetta, laicamente, nei crocicchi delle strade polverose di tutti. Ci sono troppi atei, fuori e dentro le religioni, che non conoscono Dio perché, semplicemente, lo hanno cercato nei luoghi religiosi dove non si trovava.

Gli appuntamenti decisivi della vita ci aspettano nei luoghi del nostro vivere ordinario, e quindi anche nel nostro lavoro quotidiano. Possiamo partecipare a mille liturgie, fare dieci pellegrinaggi e cento ritiri spirituali, ma gli eventi spirituali che veramente ci cambiano e permangono nell’anima per tutta la vita accadono nella quotidianità, quando, senza cercarla né attenderla, una voce ci chiama per nome nelle condizioni umili del vivere. Lavando i piatti, correggendo un compito, guidando un tram. Ci siamo salvati da autentiche morti dell’anima perché sapevamo ancora preparare bene un pranzo, perché abbiamo curato per anni una pianta in giardino, o perché non abbiamo dimenticato una ultima preghiera e l’abbiamo recitata ogni sera. E quante volte dopo lutti, abbandoni, delusioni, separazioni, siamo tornati in ufficio o in negozio e abbiamo sentito dentro che la vita ricominciava, semplicemente riprendendo il nostro solito lavoro. Fratello lavoro. 

È questa la grande laicità della vita e della fede biblica, che ha un’idea talmente grande e degna dell’uomo da farlo dialogare con gli angeli nei campi, nei laboratori, nelle botteghe artigiane, rendendo così i luoghi della vita e del lavoro veramente e altamente spirituali. In questo senso il lavoro è autenticamente «vocazione».

E allora quando a una persona, soprattutto se è giovane, non è consentito, per qualsiasi ragione, di lavorare, tra le molte cose splendide che gli vengono negate, gli si riducono i luoghi dove poter incontrare gli angeli e dialogare con l’infinito.

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di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 07/05/2018

Nella Bibbia, molte chiamate decisive avvengono mentre le persone stanno lavorando. «Il Signore mi prese mentre seguivo il gregge, e mi disse: “Va’, profetizza al mio popolo”» (Amos 7,15). Gedeone stava lavorando quando lo raggiunse l’angelo del Signore: «Gedeone, figlio di Ioas, batteva il grano nel frantoio» (Giudici 6,11). Saul stava inseguendo le sue asine smarrite quando Samuele lo incontrò e lo unse per diventare il primo re d’Israele (1 Samuele, 9).

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Angeli al lavoro

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Le virtù del mercato - Troppo spesso nel passato si è fatta passare per umiltà ciò che in realtà erano vere e proprie umiliazioni. Ma la prima espressione di umiltà è quella di riscattare chi è stato umiliato.

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 09/04/2018

Umiltà è una parola fondamentale dell’umanesimo occidentale, al centro di ogni processo educativo, che è presente in ogni persona che stimiamo davvero. Ma, come tutte le parole grandi della vita, anche «umiltà» è ambivalente, perché c’è umiltà buona e umiltà cattiva.

Non possiamo dimenticare che, nei secoli passati, in nome del valore dell’umiltà sono state umiliate tante persone, tante donne, tanti poveri. Persone umiliate dai potenti, e magari veniva loro raccomandato di coltivare l’umiltà nella loro umiliazione. Questo uso dell’umiltà e dell’umiliazione è tutt’altro che virtù, e ha generato tanto dolore e ha fatto sfiorire troppe persone. Non è infatti questa umiltà-umiliazione quella che ritroviamo nella Bibbia e nei vangeli, dove invece gli umili vengono «innalzati» (Magnificat), non vengono lasciati umiliati. Nell’umanesimo del Magnificat ciò che si loda è il riscatto di chi è stato umiliato e non lasciato nella sua condizione di vittima.

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La sola umiliazione buona è quella che ci arriva dalla vita senza che nessuno la voglia. Si preparano i bambini e i giovani all’umiltà buona mettendoli in contatto con la bellezza, con l’arte, con la natura, con la spiritualità, con la poesia, con le fiabe, portandoli con noi ai funerali, facendo loro capire che può esistere un cielo più alto del tetto di casa. E poi un giorno alzare gli occhi e sentire il cielo «infinito e immortale».

Allora la prima espressione di umiltà buona è quella che vive chi cerca di riscattare chi è stato umiliato. È una virtù attiva, che non pensa tanto a coltivare la propria umiltà ma a liberare chi è umiliato. L’umiltà più alta di Gesù è quella che ha vissuto sulla croce, nella cacciata dei mercanti dal tempio dove ha liberato Dio dalla logica retributiva che lo aveva umiliato, quando ha salvato la donna dalla lapidazione. È quella del padre che rialza il figliol prodigo dalla sua umiliazione, quell’angelo che consola Agar cacciata via nel deserto dalla sua padrona (Sara), quella di YHWH che ascolta il pianto strozzato di Anna e la innalza donandole un figlio (Samuele).

L’umiltà, l’humilitas più importante è quella che sperimenta chi riesce a risollevare il suo volto dalla terra, dall’humus, e guardare di nuovo avanti e in alto con dignità. L’umiltà che salva non consiste nell’abbassare noi stessi (dietro gli auto-abbassamenti si nasconde spesso molto orgoglio), ma nell’innalzare gli altri che sono stati abbassati.

Nelle organizzazioni e nella vita in comune, l’umiltà buona si riconosce dai suoi segni.
Il primo è la gratitudine sincera nei confronti della vita, degli altri, dei propri genitori. L’umile è sempre grato. E solo l’umile sa pregare. Un secondo segnale della sua presenza è la capacità di dire «scusa» e «perdonami».

Tutti i corsi sulla leadership aziendale dovrebbero iniziare con un pre-corso sull’umiltà. Pronunciare «scusa» e «perdonami» è sempre difficile nelle imprese. È difficile dire «scusa» a un nostro responsabile. Ma è ancora più difficile dirlo a un nostro dipendente. L’umiltà vera educa alla sequela. Un responsabile che non abbia imparato la sequela – di ogni altro, dei poveri, della parte migliore di sé – non sarà mai una buona guida (lea­der) di altri. Oggi l’impresa e la politica soffrono per carenza di responsabili e leader, perché abbiamo dimenticato la cultura della buona umiltà.

Nell’umiltà si ritrova una legge universale che ritroviamo al cuore di molte virtù e di altre cose grandi della vita: si diventa umili veramente senza accorgersene. L’umiltà arriva mentre cerchiamo altro: la giustizia, la verità, l’onestà. Non può essere programmata, ma può essere desiderata, stimata, attesa. L’umiltà è una virtù radicalmente relazionale: sono solo gli altri che possono e devono riconoscere la nostra umiltà, e noi riconoscere la loro, in un gioco di reciprocità tra i più sublimi «sotto il sole».

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Le virtù del mercato - Troppo spesso nel passato si è fatta passare per umiltà ciò che in realtà erano vere e proprie umiliazioni. Ma la prima espressione di umiltà è quella di riscattare chi è stato umiliato.

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 09/04/2018

Umiltà è una parola fondamentale dell’umanesimo occidentale, al centro di ogni processo educativo, che è presente in ogni persona che stimiamo davvero. Ma, come tutte le parole grandi della vita, anche «umiltà» è ambivalente, perché c’è umiltà buona e umiltà cattiva.

Non possiamo dimenticare che, nei secoli passati, in nome del valore dell’umiltà sono state umiliate tante persone, tante donne, tanti poveri. Persone umiliate dai potenti, e magari veniva loro raccomandato di coltivare l’umiltà nella loro umiliazione. Questo uso dell’umiltà e dell’umiliazione è tutt’altro che virtù, e ha generato tanto dolore e ha fatto sfiorire troppe persone. Non è infatti questa umiltà-umiliazione quella che ritroviamo nella Bibbia e nei vangeli, dove invece gli umili vengono «innalzati» (Magnificat), non vengono lasciati umiliati. Nell’umanesimo del Magnificat ciò che si loda è il riscatto di chi è stato umiliato e non lasciato nella sua condizione di vittima.

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Umili, non umiliati

Le virtù del mercato - Troppo spesso nel passato si è fatta passare per umiltà ciò che in realtà erano vere e proprie umiliazioni. Ma la prima espressione di umiltà è quella di riscattare chi è stato umiliato. di Luigino Bruni pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 09/04/2018 Umiltà è una paro...
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Le virtù del mercato - Nel mondo del lavoro e nella vita civile non c’è bisogno solo di un linguaggio non-violento (che è già qualcosa), occorre un linguaggio mite.

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 05/03/2018

C’è una virtù molto scarsa nel mondo dell’impresa del nostro tempo, che, anche per la sua scarsità, sarebbe invece molto preziosa. Questa virtù è la mitezza, la mansuetudine. La mitezza è l’anti-violenza, ma è anche l’anti-ira, un vizio oggi parecchio popolare, che incattivisce le nostre riunioni di lavoro o di condominio, il traffico, le campagne elettorali, e che il tempo dei social ha amplificato.

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I miti sono la sola cura davvero efficace ai violenti e agli irosi, perché, come in poche altre realtà, la mitezza di pochi cura e accudisce l’ira di tanti. I miti sono il primo lievito del mondo, il «resto fedele» che salva un intero popolo. Senza mitezza non resisteremmo nelle lunghe malattie, nelle notti insonni quando, come Giobbe, ci giriamo e rigiriamo fino all’alba; affonderemmo nelle prove vere della vita, negli abbandoni, nelle solitudini infinite della vedovanza.

Il mansueto, come dice l’etimologia della parola, è come l’agnello che sa far passare docile la mano del pastore sul suo dorso, è colui che è diventato esperto (sueto) alla mano della vita, degli altri, di Dio. Nella Bibbia ai miti è promessa l’eredità della terra. Di quale terra? La prima eredità della terra è quella che riceveranno domani i nostri figli se noi, oggi, saremo miti. Nelle imprese, nella politica, nelle famiglie, verso i giovani. Nel rapporto con la terra. Tutte le volte che siamo violenti e predatori con la terra e con le sue risorse, stiamo svalutando il patrimonio che lasceremo in eredità. Chi è mite custodisce l’oikos (la casa) e quindi fa una oikonomia mite, che usa le risorse sapendo che le deve lasciare in eredità, perché ieri le ha ricevute in eredità.

I miti, nei calcoli del Pil e nelle stime del benessere, darebbero molto più peso al consumo di risorse non rinnovabili e a tutte quelle che abbiamo trovato sulla terra e che dobbiamo lasciare in eredità. Ci insegnerebbero a usare tutti i beni come fossero beni comuni (perché, in qualche modo, lo sono), e con la stessa cura con cui si usano le cose dei figli. Una mitezza economica (che ci manca) porterebbe a ridurre l’aggressiva presenza della pubblicità in tutti i momenti della nostra vita, a interrompere l’utilizzo di gratta-e-vinci e slotmachine, a mitigare i linguaggi arroganti e volgari dei capi, sarebbe più femminile e meno maschile.Il mite ha infatti il suo tipico linguaggio. Nel mondo del lavoro e nella vita civile non c’è bisogno solo di un linguaggio non-violento (che è già qualcosa), ci occorre un linguaggio mite.

Un importante àmbito dove il linguaggio mite è particolarmente prezioso è la gestione dell’invidia nei confronti di amici e colleghi. Quando un mite ascolta una critica verso un proprio amico/collega che sa nascere soltanto dalla cattiveria-invidia-violenza, protegge l’amico e non gli riferisce queste parole cattive. Le tiene per sé, le digerisce nel proprio cuore, e con la sua mitezza impedisce che quella violenza ferisca e intristisca quelle persone, e poi si moltiplichi. La blocca sul nascere, non le consente di diventare cultura e male comune. Fa invece come quegli alberi che purificano l’ambiente dai veleni e purificandolo se ne nutrono. Trasformano gli scarti della piccolezza e meschinità umane in cibo di vita. Ogni atto di mitezza nutre la mitezza del mite, e aumenta la mitezza delle organizzazioni, accresce la mitezza del mondo.

Infine, la terra che i miti certamente erediteranno è quel brano di terra che accoglierà, alla fine, il loro corpo. In quel giorno quando, dopo aver speso una vita nell’esercizio della mitezza, si ritroveranno capaci di farsi accarezzare dalla mano dell’angelo, nell’ultimo e decisivo abbraccio mite. Sarà l’ultima mitezza, quella più bella. Bea­ti i miti, perché erediteranno la terra.

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Le virtù del mercato - Nel mondo del lavoro e nella vita civile non c’è bisogno solo di un linguaggio non-violento (che è già qualcosa), occorre un linguaggio mite.

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 05/03/2018

C’è una virtù molto scarsa nel mondo dell’impresa del nostro tempo, che, anche per la sua scarsità, sarebbe invece molto preziosa. Questa virtù è la mitezza, la mansuetudine. La mitezza è l’anti-violenza, ma è anche l’anti-ira, un vizio oggi parecchio popolare, che incattivisce le nostre riunioni di lavoro o di condominio, il traffico, le campagne elettorali, e che il tempo dei social ha amplificato.

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Generatori di mitezza

Le virtù del mercato - Nel mondo del lavoro e nella vita civile non c’è bisogno solo di un linguaggio non-violento (che è già qualcosa), occorre un linguaggio mite. di Luigino Bruni pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 05/03/2018 C’è una virtù molto scarsa nel mondo dell’impresa del nostro t...
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Le virtù del mercato - Le virtù del Mercato. Genesi di una parola ricca d'amore

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 06/02/2018

Milioni di persone ogni giorno si spostano, partono, arrivano. Per visitare amici, per vacanze, ma soprattutto per «lavorare». Qualche volta, guardando i molti tir, cargo, navi mercantili, ci chiediamo: che cosa li muove? Per quale ragione questa gente si alza presto al mattino, si mette in viaggio, scambia e traffica? Per gli interessi, per il profitto, per il denaro: è questa la risposta più semplice e immediata che in genere diamo a quelle domande.

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Se però guardiamo bene, osserviamo con più attenzione e andiamo oltre le prime apparenze, ci accorgiamo che dietro un uomo che si mette in auto, un altro che guida un camion, una donna che cerca di raggiungere velocemente il suo ufficio, ci sono bambini, mogli, genitori. Ci sono persone da amare con i frutti di quel lavoro che li fa svegliare presto, dormire tardi, correre, scambiare. Se quindi fossimo capaci di purificare e ripulire la parola amore da tutte le incrostazioni e sedimentazioni con cui la nostra civiltà dei consumi e del piacere l’ha ricoperta, ci accorgeremmo che dietro i nostri affari e le nostre corse economiche c’è molto amore, e che gli interessi sono spesso il rivestimento di azioni che alimentano le nostre relazioni affettive primarie.

Gli economisti guardano il mondo e vedono consumatori nei supermercati che acquistano per massimizzare la loro utilità individuale; imprenditori che fanno nascere imprese per massimizzare i profitti; risparmiatori che investono per massimizzare le rendite finanziarie. Ma quando e se gli economisti escono dai libri astratti e dai modelli teorici e si mettono a parlare con la gente in carne e ossa, si possono accorgere che le donne e gli uomini vanno nei mercati (non sempre «super» ma anche nei negozi ordinari e piccoli del centro) perché devono far la spesa per cucinare qualcosa di buono per i loro figli o per invitare amici a cena; che la maggior parte degli imprenditori fa nascere imprese perché ha voglia di creare qualcosa di bello, o perché non vuole far morire il sogno di una vita dei propri genitori racchiuso in quella fabbrica, oppure per non licenziare i propri dipendenti; che tanti uomini e donne risparmiano per consentire ai nipoti di studiare in una buona università, o per lasciare qualche cosa ai loro figli. E poi scopriamo anche che dietro a chi lascia figli e genitori in un altro Paese per occuparsi dei nostri figli e dei nostri genitori, c’è molto di più degli interessi e del denaro. C’è anche molto, moltissimo amore. Ma dobbiamo essere capaci di vederlo, parlando, ascoltando, guardando negli occhi la gente, soprattutto i poveri. Uscire dall’economia immaginata e incontrare l’economia quotidiana di chi prepara pranzi, fa lezione in classe, ripara un’auto. Se riusciamo a vedere questa economia la scopriremo piena di umanità, di vita, di virtù. E quindi pienissima di amore.Quando i cristiani di Roma dovettero tradurre la parola greca (agape) che Paolo e poi gli evangelisti avevano scelto per dire quell’amore diverso che avevano imparato da Gesù, scelsero charitas. Presero una parola commerciale, caritas, che esprimeva (e ancora esprime) ciò che è caro, ciò che costa. Scelsero una umile parola dell’economia per dire la parola umana più alta di tutte, così alta da sfiorare il cielo. Ma ci misero una «h» (charitas), per dire che per quell’amore nuovo e diverso la vecchia parola commerciale non bastava: c’era bisogno anche della gratuità, cioè della charis.

E così inventarono la splendida parola charitas, per dire insieme amore, gratuità e… economia – c’è molta economia nella Bibbia, e molta Bibbia nell’economia: ne riparleremo –. La gratuità per poter cambiare il mondo ha bisogno dell’economia di tutti. L’economia della salvezza non è piena senza la salvezza dell’economia. Perché l’acca della gratuità senza la semplice caritas dell’economia resta un’acca muta.

@bruniluis

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Le virtù del mercato - Le virtù del Mercato. Genesi di una parola ricca d'amore

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 06/02/2018

Milioni di persone ogni giorno si spostano, partono, arrivano. Per visitare amici, per vacanze, ma soprattutto per «lavorare». Qualche volta, guardando i molti tir, cargo, navi mercantili, ci chiediamo: che cosa li muove? Per quale ragione questa gente si alza presto al mattino, si mette in viaggio, scambia e traffica? Per gli interessi, per il profitto, per il denaro: è questa la risposta più semplice e immediata che in genere diamo a quelle domande.

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Economia si scrive con l'acca

Le virtù del mercato - Le virtù del Mercato. Genesi di una parola ricca d'amore di Luigino Bruni pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 06/02/2018 Milioni di persone ogni giorno si spostano, partono, arrivano. Per visitare amici, per vacanze, ma soprattutto per «lavorare». Qualche volta, guard...
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Economia a 360 gradi - Le virtù del Mercato

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 04/01/2018

Nonostante  l’economia e il mercato ci offrano, quotidianamente, uno spettacolo di vizi, l’economia e il mercato sono abitati anche da molte virtù. Perché, semplicemente, l’economia è la vita. E quindi è piena di vizi e di virtù, come lo è la vita. In questo nostro tempo di passaggio d’epoca sono però troppe le parole spese per sottolineare i vizi dell’economia, degli imprenditori, delle banche. C’è quindi un estremo bisogno di nuove «parole buone» sull’economia, sui lavoratori, sulle imprese. C’è bisogno di bene-dizioni, che prendano il posto delle tante male-dizioni che si odono. Se non ricominciamo a parlare bene e a «riconoscere» il lavoro, potremmo immaginare tutti i sistemi incentivanti più perfetti, ma non aumenteremo la gioia di vivere nei luoghi del lavoro. Il vero bonus di cui avrebbero bisogno oggi gli insegnanti in Italia è la stima,  tremendamente  carente in un Paese che, mentre vuole incentivare maestre e professori, li tratta come dei fannulloni incompetenti. Il denaro non è mai stato un buon sostituto della gratitudine, anche se ci ha sempre provato.

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Per questa ragione, inizieremo da oggi a parlare  delle  virtù  del mercato,  delle  virtù  degli imprenditori, del lavoro, della vita economica in generale. Virtù è una parola antica come l’uomo. Ben prima che in Grecia, in Medio Oriente e in Asia circa tremila anni fa alcuni saggi iniziassero a scrivere sulle virtù, l’homo sapiens era già capace di virtù. Sapeva compiere azione buone e belle, per il solo motivo di fare cose belle e buone, e così raggiungere l’eccellenza, e condurre una vita felice. Compiere azioni virtuose è parte del repertorio umano.

Siamo  tutti  capaci  di  virtù, anche  quando  intenzionalmente scegliamo di seguire i nostri vizi. Al tempo stesso, la virtù richiede «educazione»,  altra  grande  parola  dimenticata dalla nostra società. Siamo fatti per le virtù, ma occorre formare il carattere perché questa potenzialità si traduca in azioni. Le virtù non sono faccende per soli eroi o santi. Sono  per  tutti, a condizione che ci formiamo,  mente  e  anima, per condurre una vita virtuosa. A partire dalla famiglia, dalla scuola, dai luoghi vitali dove si esercita la nostra umanità.

Anche  l’economia, essendo un pezzo di vita, ha le sue virtù, che sono in parte specifiche e in parte universali. Le virtù della giustizia, della prudenza, della temperanza, della fortezza, le cosiddette «virtù cardinali», non sono  «solo»  virtù  specificatamente economiche ma sono «anche»  virtù  economiche, benché  oggi  vengano,  troppo  spesso,  considerate  dalla nostra cultura del business come dei vizi. Come non sono prerogativa dell’economia e del mercato le «virtù teologali» della fede, della speranza e dell’agape, che comunque  restano  «anche»  virtù economiche  (che  sarebbero le imprese e il lavoro senza gente  capace  di  credere,  di sperare, di amare?).

Ci  sono  poi  virtù  «tipicamente»  economiche,  quelle che gli operatori dei mercati e delle imprese dovrebbero coltivare per raggiungere l’eccellenza  in  questo  àmbito della vita. Alcune di queste virtù oggi sono molto enfatizzate dalla cultura dominante nelle grandi imprese – efficienza,  meritocrazia,  efficacia… –. Di altre si parla molto meno, e per questo saranno le virtù di cui soprattutto  parleremo  nel  corso dell’anno.

In  genere  le  virtù  sono  associate a un’altra bella parola: felicità. Si dice che il premio della virtù sia la felicità, o che addirittura lo scopo ultimo di chi pratica le virtù sia la felicità. In realtà, sono sempre più convinto che per noi esseri umani la felicità è troppo poco. Dalla vita vogliamo molto di più della felicità. Vogliamo, vorremmo, stima, riconoscenza, verità, senso. Nella vita, e quindi nell’economia e nel lavoro. La felicità non basta per saziare la nostra fame insaziabile d’infinito. Anche in quelle cose splendide e umanissime che chiamiamo economia, mercati, lavoro.

@bruniluis

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Economia a 360 gradi - Le virtù del Mercato

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 04/01/2018

Nonostante  l’economia e il mercato ci offrano, quotidianamente, uno spettacolo di vizi, l’economia e il mercato sono abitati anche da molte virtù. Perché, semplicemente, l’economia è la vita. E quindi è piena di vizi e di virtù, come lo è la vita. In questo nostro tempo di passaggio d’epoca sono però troppe le parole spese per sottolineare i vizi dell’economia, degli imprenditori, delle banche. C’è quindi un estremo bisogno di nuove «parole buone» sull’economia, sui lavoratori, sulle imprese. C’è bisogno di bene-dizioni, che prendano il posto delle tante male-dizioni che si odono. Se non ricominciamo a parlare bene e a «riconoscere» il lavoro, potremmo immaginare tutti i sistemi incentivanti più perfetti, ma non aumenteremo la gioia di vivere nei luoghi del lavoro. Il vero bonus di cui avrebbero bisogno oggi gli insegnanti in Italia è la stima,  tremendamente  carente in un Paese che, mentre vuole incentivare maestre e professori, li tratta come dei fannulloni incompetenti. Il denaro non è mai stato un buon sostituto della gratitudine, anche se ci ha sempre provato.

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Economia a prova di felicità

Economia a 360 gradi - Le virtù del Mercato di Luigino Bruni pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 04/01/2018 Nonostante  l’economia e il mercato ci offrano, quotidianamente, uno spettacolo di vizi, l’economia e il mercato sono abitati anche da molte virtù. Perché, semplicemente, l’economia è...
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 Intervista a Luigino Bruni nell'ambito del dossier "Superstizione e dintorni"

di Laura Pisanello

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio,  gennaio 2015

Logo Messaggero SAntonioLuigino Bruni è docente di economia politica all’Università Lumsa di Roma. Fu sollecitato da Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, a «dare dignità scientifica» a Economia di Comunione. È autore di numerosi volumi e di saggi in cui partendo dalla Bibbia fornisce chiavi di lettura per il mondo di oggi.

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Superstizione, cartomanzia… possono togliere libertà all’uomo?

Certo perché – per usare il linguaggio biblico – sono espressione di «culti idolatrici», e tutti gli idoli hanno come scopo il legare gli uomini e il renderli schiavi e servi. Il grande messaggio biblico sull’idolatria è molto semplice: gli idoli vanno eliminati.

Eppure, la Bibbia ci parla di divinazione: per esempio, lei si è occupato di Giuseppe che interpreta i sogni nella Genesi.

La vocazione di Giuseppe, la sua vita e la sua giovinezza furono segnati in negativo dal fatto di aver ricevuto il «dono dei sogni». Giuseppe sognava, raccontava i sogni, fu gettato in una cisterna dai fratelli invidiosi, venduto e condotto in Egitto. Rinchiuso in carcere (perché era stato onesto), vide due funzionari che erano tristi e interpretò i loro sogni. Uno di questi, il coppiere, si ricordò di Giuseppe quando il faraone fece dei sogni cupi con le vacche grasse e le vacche magre che i divinatori d’Egitto non riuscivano a interpretare. Giuseppe venne chiamato e disse una frase molto bella: «Non io, ma Dio darà la risposta per la salute del faraone». Qui inizia, secondo me, una fase nuova per l’umanità che è quella della profezia e non della divinazione. C’è sempre stato nell’umanità chi tende a utilizzare doni, talenti, tecniche per poter manipolare le persone, ma la Bibbia è molto dura verso queste figure. Il Dio biblico libera da queste cose.

Perché oggi non abbiamo più grandi sogni?

Non abbiamo più sogni perché la scienza ci ha «disincantati». Il mondo antico aveva più registri per accedere alla realtà: uno di questi era il sogno. L’uomo antico è simbolico, non gli basta il mondo che vede, vuole l’invisibile. Oggi ci mancano anche interpreti dei sogni che svolgano questo ruolo per gratuità. Ho una grande stima delle guide spirituali, di persone sagge che, per vocazione, accompagnino il prossimo a capire la propria strada, da cui andare magari durante una crisi o quando si ha un sogno grande, un grande progetto da realizzare. Mancano «interpreti dei sogni» per vocazione (e non per mestiere). Il mondo educativo (scuola, università) dovrebbe essere molto più popolato a persone sagge che sanno ascoltare i giovani e interpretare i loro sogni per gratuità.

La poesia, la bellezza possono essere risposte alla diffusa paura del futuro?

La poesia e tutta l’arte vera non fanno altro che ricordarci che non siamo noi i padroni della nostra vita. Ci sono dimensioni come la bellezza, la poesia che apparentemente non «servono» ma hanno un valore intrinseco, ricordando «l’eccedenza» del mondo rispetto all’utile e quindi sono profondamente legate  alla speranza.  Se vogliamo avere, in futuro, una generazione di persone capaci di vita spirituale, e non solo di clienti o consumatori, dobbiamo instillare nei giovani il senso della poesia, della bellezza e dell’arte. Il formare una generazione, dopo la nostra, ancora capace di grandi sogni dipende dall’educazione che oggi siamo in grado di dare ai giovani.

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 Intervista a Luigino Bruni nell'ambito del dossier "Superstizione e dintorni"

di Laura Pisanello

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio,  gennaio 2015

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Il mondo ha bisogno di grandi sogni

 Intervista a Luigino Bruni nell'ambito del dossier "Superstizione e dintorni" di Laura Pisanello pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio,  gennaio 2015 Luigino Bruni è docente di economia politica all’Università Lumsa di Roma. Fu sollecitato da Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Foc...