Le Virtù del mercato: La speranza

Oggi economia e mercato sono dominati dall’idea della fortuna: si ha successo per carisma personale e per coincidenze favorevoli. Invece l’imprenditore sa che è la speranza il motore dell’impresa: perché crea relazione e determina certezza nella rendita dei talenti.

Speranza: la virtù che muove il business nella stagione della crisi

di Luigino Bruni

pubblicato sul settimanale Vita del 7 gennaio 2011

Logo_virtu_newAnche se può apparire strano, la speranza è, o in ogni caso deve essere, una virtù del mercato. La speranza, come è noto, è una virtù, in particolare una virtù teologale, insieme alla fede e alla carità, poiché queste virtù in un certo senso e nella tradizione occidentale e cristiana fondano le altre virtù (coraggio, temperanza, fortezza, prudenza …).

 

La speranza, ad esempio, è una delle principali virtù che deve possedere l’imprenditore. L’imprenditore inizia una impresa, una nuova attività economica, se spera che il mondo di domani sarà complessivamente migliore di quello di oggi, che i 100 investiti oggi possono diventare 101, 105 domani.

 Chi dà vita ad una impresa, e non è soltanto uno speculatore di breve periodo, è come un vecchio che pianta una quercia, poiché sa di iniziare un’opera sulla speranza che  i suoi frutti andranno al di là e oltre a sua persona.  Se invece non sperasse ciò, farebbe meglio a godersi le sue risorse, o a fare lo speculatore. Ecco perché la speranza è legata alla fiducia (fede, fides), poiché senza la fede nella vita e nel futuro non si inizia una impresa. E si comprende perché i caratteri dell’imprenditore siano l’ottimismo, il pensiero positivo, lo sguardo generoso sul mondo, tutte espressioni della virtù della speranza.

Inoltre, la virtù della speranza si mostra in tutta la sua importanza nei momenti di crisi, nelle lunghe fasi di stallo, di difficoltà, di calunnie, di sospensioni, di tradimenti. Chi ha generato un’impresa sa che i momenti più importanti della sua storia sono stati quelli nei quali è stato capace di speranza contro gli eventi, contro i consigli degli amici (“ma chi te lo fa fare?”, “sei troppo ingenuo”, “non esagerare …”), contro le previsioni degli esperti, quando ha avuto la forza di sperare, di insistere nel suo progetto, di perseverare nel credere (fede) nella sua idea e nel suo “daimon” socratico., camminando per anni sul crinale del baratro.

La speranza è quindi una virtù, e come ogni vera virtù è sempre alternativa alla fortuna. La grande cultura occidentale nasce in Grecia (con Socrate soprattutto) quando si scoprì e si affermò l’esistenza di una lotta tra la felicità e la fortuna. Nel mondo antico la felicità era infatti legata alla fortuna: i filosofi greci, in uno dei momenti epocali della storia umana, capirono che stava iniziando l’era degli uomini, che potevano quindi essere liberati dalla dea bendata, dalla sorte, e iniziare ad essere veramente responsabili del proprio destino. Lo strumento di questa liberazione fu proprio la virtù (areté, che significa eccellenza, la stessa radice che troviamo in altre parole, come artista o acrobata), poiché solo l’uomo virtuoso può diventare felice, anche contro la cattiva sorte. L’idea che nasce in questo periodo straordinario della storia umana è che il principale protagonista della mia felicità (e infelicità) sono proprio io, non gli eventi, che certamente hanno un peso nel mio benessere, ma non sono mai decisivi nel determinare la qualità della vita, che invece dipende dalla virtù, dalla capacità di far emergere la capacità di eccellenza, che è in ogni persona, e in ciascuno a suo modo. La virtù batte la fortuna.

L’etica del mercato, in particolare l’etica imprenditoriale, nasce proprio affermando che sono l’innovazione, la responsabilità, il lavoro i protagonisti del successo della nostra opera, non la fortuna. Ed ecco perché questa cultura della virtù deve oggi resistere in un mondo che sottolinea soprattutto la fortuna, le lotterie, i gratta e vinci, i giochi, i superenalotto (è impressionante l’invasione di giochi d’azzardo in rete, in TV, negli sponsor delle squadre di calcio …).
La speranza è allora una virtù perché non ripone il ritorno del proprio investimento e della propria intelligenza nella fortuna, ma nelle virtù (eccellenza) proprie, dei propri collaboratori e di tutti i soggetti del mercato (non dobbiamo mai dimenticare che il successo di un imprenditore dipende anche dalla virtù dei propri fornitori, clienti, ma anche dei propri concorrenti, e del sistema economico nel suo insieme). La speranza non è quindi la fortuna, ma è virtù.

Infine la speranza è una virtù eminentemente sociale: si spera nelle persone: nel collega Mario, nel fornitore Giovanna, nel concorrente Andrea; la speranza non è infatti mai generica, verso ignoti, o negli eventi aleatori. La speranza è un bene relazionale, è l’investimento in un rapporto, in tanti rapporti. Per questo la speranza, come tutte le virtù sociali (fraternità, fiducia, reciprocità, philia …) è fragile e vulnerabile, poiché non controllo mai la risposta dell’altro, e posso solo “sperare” nella sua reciprocità, senza le garanzie dei contratti. Ma, a pensarci bene, la vulnerabilità è la condizione più profonda dell’umano, e se l’economia è un pezzo di vita, deve saper convivere con la vulnerabilità, con la coscienza che in questa buona vulnerabilità nei confronti degli altri si nascondono molte delle cose più belle della vita, come il perdono, la riconciliazione, la gratuità, l’incontro libero e non gerarchico con gli altri, la vera stima e il riconoscimento, la gratitudine sincera, tutti beni da cui dipende molto del benessere delle persone, comprese quelle persone che chiamiamo imprenditori, che producono benessere (e non solo ricchezza) quando sono capaci di virtù, di eccellenza relazionale, coltivatori di speranza.

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