Sposiamo lavoro e studio

Sposiamo lavoro e studio

Commenti - Nelle nostre vite, nello stesso tempo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/02/2013

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Dobbiamo urgentemente ripensare il rapporto tra lavoro e scuola. Il lavoro è troppo assente nella formazione dei gio­vani. Nella società tradizionale la sua as­senza era buona, per la presenza pervasi­va del lavoro in tutto il resto della vita di ra­gazzi e giovani. Per i tanti che vivevano in campagna, il lavoro li attendeva fedele al ritorno dalla scuola, e a volte la precedeva nelle primissime ore del mattino. E anche chi viveva in città era circondato dai me­stieri e dalle professioni, a partire dai gio­cattoli che riproducevano, per i piccoli, i la­vori dei grandi. La scuola, allora, era un u­tile breve intervallo di non-lavoro in un mondo di lavoro (e anche duro).

Oggi ci troviamo nella situazione opposta. Il lavoro è sempre meno presente nella cul­tura delle nostre città, e nei giochi dei bam­bini, perché il suo posto lo hanno occupa­to la finanza, i rapporti mediati dalla rete, e soprattutto il consumo. Il tour in un su­permercato, intronizzati sui carrelli della spesa, è la prima esperienza 'economi­ca' dei nostri bambini. Manca l’amicizia tra giovani e il lavoro negli anni cruciali della formazione, e così quando poi de­vono iniziare a trovare o a inventarsi un la­voro, sono prima disorientati, poi spesso disoccupati.

Ma sarebbe troppo difficile permettere che i nostri studenti, durante le scuole superiori (almeno negli ultimi anni), possano svol­gere forme di attività lavorativa alcune o­re alla settimana, o nei lunghi mesi estivi di non-scuola? Il vero ostacolo, più forte dei problemi organizzativi o della sicurez­za (l’insicurezza massima oggi si trova nei cortili dei nostri licei) va rintracciata nel­l’idea, ancora molto radicata, che il lavoro manuale non si addica alla formazione del carattere, perché la buona educazione si fa con la letteratura, la storia, la matema­tica, e non in una bottega di un artigiano, in uno studio tecnico, in una fabbrica, tan­tomeno in una fattoria agricola. Non ci sia­mo ancora liberati, nonostante San Bene­detto e l’Umanesimo civile, dell’idea vol­gare che il lavoro manuale è impuro, adat­to a servi e schiavi. L’inimicizia tra lavoro e giovani continua poi nell’Università, quando il lavoro resta ancora esperienza molto marginale, e trop­po sullo sfondo. Molti studenti universita­ri oggi fanno 'lavoretti' per mantenersi, ma pochi iniziano da studenti il mestiere che vorrebbero fare dopo la laurea. Nei de­cenni passati, quando l’economia correva e cresceva (forse troppo), poteva avere un senso studiare fino a 24-25 anni, e iniziare a lavorare dopo la laurea. Ma oggi, con u­na economia bloccata (e che lo resterà an­cora per un bel po’), se un giovane si fer­ma quattro o più anni preparandosi per la­vorare domani, è fin troppo probabile che l’economia e la società non avranno nel frattempo creato le condizioni perché quel lavoro domani esista veramente.

Un significato vero di economie e società in recessione è anche questo: la genera­zione presente non crea opportunità di la­voro per i giovani, ma le distrugge. In altre parole, se oggi un giovane non entra nel mondo del lavoro durante gli anni della formazione universitaria, rischia di non entrarci mai, o di entrarci tardi e a condi­zioni troppo sfavorevoli, perché mentre lei o lui studiano senza già lavorare, nessun al­tro sta creando opportunità di lavoro per loro. Occorre allora fare in modo che gli anni di studio nell’università non siano so­lo preparazione al lavoro che arriverà (for­se) dopo, ma siano già lavoro, non 'lavo­retti' ma vero lavoro mentre si studia.

Tutto ciò significa, me ne rendo conto, an­dare contro la tendenza in atto negli ulti­mi decenni di ridurre e formattare i per­corsi di studio, perché si considera la for­mazione come una sorta di merce che si paga oggi per lavorare meglio domani. Dobbiamo, invece, immaginare corsi di studio molto più flessibili, che affianchi­no, non sostituiscano, il lavoro, e che pos­sano durare anche molti anni, perché l’o­biettivo non è il pezzo di carta, ma la co­noscenza e l’apprendimento, che sono a­limentati anche dal lavoro, soprattutto in una società complessa come la nostra.

Ogni lavoro si impara facendolo, non a scuola, tantomeno nelle business school e con i loro master. Tutto ciò ha importanti conseguenze anche per il mondo del lavoro. Mia madre ha dovuto terminare i suoi studi alla quinta elementare, ma quei cinque anni di scuola sono cresciuti con lei, sono stati un patrimonio custodito gelosamente e fatto fruttare, e hanno accompagnato e formato la vita sua e di noi figli. Oggi invece molti dati dicono che il mondo del lavoro distrugge in pochi anni buona parte del capitale di conoscenze con cui una persona termina gli studi. Si è molto più ignoranti dopo dieci anni di lavoro che al termine dell’università, perché abbiamo costruito una civiltà del lavoro che considera gli studi come strumenti che si acquisiscono in una fase determinata della vita (giovinezza), in vista di un mondo del lavoro (adulto) che è altra cosa rispetto alla scuola e agli studi.

Tutto ciò è particolarmente vero nelle grandi imprese, che prendono bravi neolaureati, li immettono in ritmi di lavoro impossibili, non lasciano loro tempo e spazi per coltivare la loro umanità né fuori, né, tantomeno, dentro l’impresa, producendo così persone a una sola dimensione, e che anche quando studiano lo fanno per aggiornarsi e per aumentare la performance, perdendo così la cosa più vera dello studio: la gratuità. Dobbiamo riumanizzare i luoghi del lavoro post­moderni, riempiendoli di cultura, di arte, di bellezza, di gratuità, ambienti dove le persone possano fiorire in tutte le dimensioni mentre lavorano, e possano trovare il tempo per studiare cose belle e difficili anche a 40 o 50 anni, e così non si arrivi alla pensione sfiniti e persino ignoranti. Ma occorre portare più lavoro negli studi, e più studio nel lavoro.

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