Il Dio di Giobbe, ferita e benedizione

Il Dio di Giobbe, ferita e benedizione

Recensioni - L’ultimo saggio di Recalcati offre nuove domande e nuovi sguardi sul grande racconto biblico: centrale la critica alla teologia economico-retributiva

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 29/05/2021

«Facendosi uomo e indossando la nostra sofferenza ben oltre il limite stesso patito da Giobbe, il Dio assente si è fatto Dio presente, ha rimediato all’assurdo della sua inaccessibilità, si è giustificato, si è insomma riscattato. In Cristo si redime Dio: ovvero, il Signore ha potuto pronunziare il suo perdono solo dopo che sulla croce si è fatto perdonare».

Così Mario Pomilio, nel suo romanzo Il Natale del 1833, immagina le riflessioni sulla fede che Alessandro Manzoni avrebbe maturato in seguito alla morte di sua moglie Enrichetta Blondel, avvenuta il 25 dicembre del 1833. Il libro di Giobbe è un libro che ha molto ispirato scrittori, filosofi e artisti, forse perché è il libro dove la poesia raggiunge vette molto alte, e forse perché è un libro aperto, ambivalente, quindi generativo. Per me il passaggio attraverso Giobbe ha rappresentato un salto etico nel modo di intendere il mio mestiere di studioso e di uomo. E ogni volta che torno su Giobbe - capita spesso, perché Giobbe è un amico che una volta fatto entrare dentro casa non esce più - ne colgo dimensioni nuove, rettifico idee. Giobbe si rilegge, e le seconde e terze battute sono quelle più buone.

Anche la lettura del breve e appassionante saggio di Massimo Recalcati ( Il grido di Giobbe; Einaudi, pagine 96, euro 15,00) ha offerto nuove domande e nuovi sguardi attorno al grande racconto di Giobbe. Un libro che merita di essere letto e discusso da tutti gli “amici” di Giobbe: «Di fronte al destino che si accanisce contro la sua vita, egli non sceglie però la via del sacrificio rassegnato di se stesso, quanto quella del grido. Egli desidera incontrare il Dio che ha rotto il patto per chiedere le ragioni di questa disdetta drammatica». Per Recalcati, però, «quando finalmente, al termine del libro, avviene l’incontro con Dio in persona, […] Giobbe deve così rettificare la sua posizione convertendosi a una nuova versione della fede». Questo è il muro maestro dell’interpretazione che Recalcati ci dà del libro di Giobbe.

La nuova visione della fede alla quale Giobbe si convertirebbe sarebbe una fede dove è cambiata «la sua idea della Legge. Egli stesso è stato, in fondo, il primo prigioniero dell’illusione della teologia retributiva. L’estrema rettitudine della sua esistenza era stata ripagata da altrettanta soddisfazione e fortuna. L’incontro con Dio, rivelandogli l’illimitatezza della sua potenza che non può essere ingabbiata in nessun calcolo […] costringe Giobbe a sovvertire la vecchia rappresentazione della Legge». Così allora «Giobbe può ritornare al mondo avendo visto insieme a Dio il limite del suo stesso sguardo». Ma siamo sicuri che Giobbe si convertirà con l’arrivo di Dio dentro il suo dramma? Recalcati coglie una linea ermeneutica centrale del libro di Giobbe, forse quella decisiva: la critica alla teologia economico- retributiva dominante dentro e fuori la Bibbia, oggi tornata sotto forma di meritocrazia e di povertà come colpa. Immaginare un Dio che retribuisce i giusti con beni e felicità e punisce i colpevoli con il dolore e la sventura è sempre stata una fondazione solida delle civiltà, perché semplice.

La troviamo anche in un’anima della Bibbia, che giungerà fin dentro i vangeli. Nella sua essenzialità, i dialoghi tra Giobbe e i suoi amici, che sono la parte più bella del libro (purtroppo quasi interamente saltata da Recalcati), sono una contestazione radicale da parte di Giobbe dell’idea che lui è diventato povero e malato perché colpevole, che il peccato fosse la spiegazione della sua sventura. Giobbe non accetta per tutto lo sviluppo del suo libro questa tesi, e rivendica la sua innocenza. Nel reclamare il suo stato di innocente e di sventurato, critica decisamente la logica dell’homo oeconomicus alla base della religione e dell’idea di dio-commercialista. Il primo massimizzatore di profitti non è stato l’economista ma l’uomo religioso: «Perché l’innocente può venire distrutto e il malvagio premiato?».

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