Crisi aziendali, serve il «noi» per ripartire

Crisi aziendali, serve il «noi» per ripartire

Regole per affrontare le difficoltà

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/04/2015

Sono ormai in tanti a parlare di ripresa dell’economia e del Pil, come se il Pil fosse capace di parlare da solo di cose buone. La realtà vera della nostra economia dice che le imprese soffrono e continueranno a soffrire a lungo, e con esse il mondo del lavoro. E non soffrono e chiudono soltanto per mancanza di mercati e di vendite. Una causa comune di sofferenza e di fallimento si trova, infatti, in alcuni tipici errori nella gestione dei lavoratori durante le crisi. Quando si attraversano fasi difficili e lunghe, infatti, commettiamo più facilmente molti errori gravi nelle relazioni tra classe dirigente e lavoratori.

Ci sono sempre più grandi aziende che di fronte a una crisi che comporta una riduzione del personale (non dimentichiamo che ridurre il personale durante le crisi non è un dogma, ma – quasi sempre – una scelta), si muovono interamente sul piano 'politico': la proprietà incontra i sindacati, propone un piano industriale e la crisi si contratta 'politicamente' decidendo quanti lavoratori sacrificare alle esigenze della sopravvivenza, lavoratori che non vengono mai, intenzionalmente, considerati né ascoltati.

Altre imprese, invece, per licenziare seguono la strada del mercato, usando incentivi individuali e compensazioni monetarie per chi viene 'rimosso'. In entrambi i casi manca il soggetto principale: la comunità dei lavoratori, perché nel primo caso sono rappresentati e mediati, nel secondo ci sono solo i singoli individui (spesso messi in conflitto tra di loro). Una impresa, però, non è né un piccolo parlamento né un insieme di individui separati, legati ciascuno dal contratto con la proprietà: le imprese reali vivono se sono capaci di creare un organismo vivo di relazioni virtuose tra tutti i vari componenti dell’organizzazione. Quando un’impresa inizia una crisi seria, ci sono alcune regole fondamentali da seguire, se si vuole tentare un vero coinvolgimento dei lavoratori nel cercare soluzioni e cercare di superarla, a volte uscendone migliori di come vi si era entrati.

La prima si chiama tempismo: per affrontare bene una crisi è fondamentale intervenire in tempo, non quando il processo è ormai avanzato e grave. Una buona classe dirigente deve anticipare le crisi importanti, e quindi capire quale è il momento giusto per intervenire, cogliendo i segnali deboli che consentano di prevedere l’esplosione della crisi. E poi bisogna iniziare ad ascoltare i lavoratori all’inizio della crisi (esterna o interna) e non alla fine, magari solo per comunicare loro la soluzione già decisa ad altri livelli. I 'coinvolgimenti' dei lavoratori in questa fase terminale, oltre a non essere di giovamento non fanno altro che acuire le sofferenze.

Seconda regola: se si vogliono ascoltare i lavoratori questi vanno ascoltati davvero. Occorre creare un contesto di fiducia, nel quale i lavoratori possano dire e donare il loro pensiero, e percepire di essere ascoltati veramente. Un processo che richiede i suoi spazi e i suoi luoghi, e soprattutto richiede tempo (non si possono fare riunioni di un’ora per iniziare a parlare di una crisi seria). Un coinvolgimento finto è più dannoso di un noncoinvolgimento. E vanno ascoltati i lavoratori veri, possibilmente tutti, non solo i loro rappresentanti. Terzo: occorre presentarsi ai lavoratori con un discorso appena iniziato e ancora tutto aperto, dicendo che molte soluzioni sono possibili, coinvolgendo i lavoratori nel cercare le soluzioni. Ho conosciuto lavoratori che insieme sono stati capaci di atti eroici (riduzioni significative dello stipendio
per anni, pur di salvare qualche posto di lavoro), che la direzione non aveva neanche immaginato. E questo perché presi sul serio all’inizio della crisi, considerati come il grande valore dell’impresa e non solo come il principale problema. Si capisce che in questi casi il linguaggio e la scelta delle parole sono molto importanti.

Un quarto principio di chiama sussidiarietà. Qualsiasi terapia di una crisi, che voglia arrivare davvero a una guarigione (molte crisi aziendali di questi tempi, purtroppo, vogliono solo portare alla vendita delle aziende a fondi di investimento o alla liquidazione), deve partire dall’assunto che le persone che possono indicare vie possibili di soluzione sono soprattutto quelli che sono a contatto tutti i giorni con il lavoro, e non solo i membri dei Consigli di amministrazione che sono quasi sempre distanti e quindi 'incompetenti' di quel lavoro specifico, anche se sono competenti di strategia e finanza. Senza la stretta collaborazione con chi lavora veramente dentro l’impresa, le soluzioni vere e buone non si trovano, perché la competenza più preziosa è sempre quella incorporata nelle mani e nella mente di chi il lavoro lo vive e non di quelli che il lavoro lo conoscono raccontato dai manager o rappresentato dai numeri.

Infine, il principale errore da evitare è dividere la comunità dei lavoratori. La vera arte di chi deve gestire una crisi difficile in una impresa sta nel non dividere, nel tenere compatta tutta la comunità di lavoro, creare un clima simile a quello che vivono i marinai che stanno affrontando una tempesta. Ma per far questo occorre che scatti una logica del «noi» e non solo la logica dell’«io», che è possibile se i manager sono capaci di far sentire ogni lavoratore come il centro della soluzione, trattarlo come se tutto dipendesse da lei o da lui. Arte rara e difficilissima, soprattutto nel nostro capitalismo finanziario. Ognuno di noi è un intreccio di motivazioni, di interessi, di vizi e di virtù. È la cultura organizzativa, soprattutto nei tempi di crisi, con un ruolo chiave dei manager, che favorisce l’emergere nel posto di lavoro della nostra parte migliore o di quella peggiore. Ogni buon processo di coinvolgimento dei lavoratori è sempre molto rischioso, e ha bisogno di occhi giusti e buoni, della capacità di guardare i lavoratori, tutti i lavoratori, come qualcosa di positivo e di bello, e non come fannulloni e opportunisti. Se l’imprenditore, il manager o magari le stesse organizzazioni sindacali partono dall’ipotesi che i lavoratori sono solo lavativi e opportunisti, è certo che troveranno conferma alle loro ipotesi, anche solo perché creeranno un clima di sfiducia e di negatività che estrarrà dalle persone la loro parte meno cooperativa e più egoistica. La prima ricchezza di ogni impresa e di ogni organizzazione sono le persone, le loro competenze, le loro energie morali, il loro cuore. Le crisi si superano quando si hanno la saggezza e il coraggio di ripartire da questa antica, grande e trascurata verità.

Scarica articolo in pdf


Stampa   Email

Articoli Correlati

Mai soltanto  per utilità

Mai soltanto per utilità

Come beni senz'anima

Come beni senz'anima

Dove povertà non è vergogna e ricchezza è condivisione

Dove povertà non è vergogna e ricchezza è condivisione

Amore alla gente del mondo è l’«arte della mercatura»

Amore alla gente del mondo è l’«arte della mercatura»

Perdoni e seconda contabilità del capitalismo meridiano

Perdoni e seconda contabilità del capitalismo meridiano

Quell'infinita controversia che oppone l'onesto e l'utile