L’autenticità non si simula

L’autenticità non si simula

Capitali narrativi/9 - L’infanzia nello spirito è vertice di una vita adulta

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 07/01/2018

180107 Capitali narrativi 09 rid«Ma c’è voluto del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti»

Jacques Brel-Franco Battiato La canzone dei vecchi amanti

Ogni organizzazione e ogni comunità vorrebbe membri che si identificano autenticamente con la loro missione istituzionale, che amano genuinamente le sue narrazioni, che credono veramente in quello che dicono e fanno. Dove questa difficile operazione di sincera identificazione individuale con la missione istituzionale riesce molto bene è nell’ambito delle comunità e delle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), soprattutto quando gli ideali sono talmente alti da bucare il cielo e farci intravvedere il paradiso. Qui si viene a creare una sinergia perfetta tra persona e comunità. Ciascuno crede, spera, ama, desidera le cose di tutti gli altri, senza che questa “socializzazione del cuore” sia vissuta come alienazione e espropriazione del cuore dei singoli.

Quando, infatti, si visitano simili comunità si rimane colpiti proprio da questa interiorità dilatata che si respira e si tocca. Si ha di fronte un gruppo umano, ma in realtà si ha l’impressione di incontrare una persona sola che sussiste nelle molte persone. Si crea uno stile comunitario inconfondibile, una personalità collettiva che informa di sé il linguaggio, l’arredamento, i riti collettivi, le espressioni artistiche, persino i tratti somatici. Tutti raccontano, sinceramente, la stessa storia.

C’è una fase della vita, in genere la prima e la seconda giovinezza, quando la singola persona vive questa immedesimazione io/noi con immenso entusiasmo e con una sensazione di grande pienezza, senza alcuna nota problematica. Non avverte nulla di non autentico nel sentire, pensare, parlare con i pensieri e con le parole della comunità, perché sinceramente le sente tutte proprie e le vive come intimissime. Non inizierebbe nessun cammino ideale senza questa sorta di transustansazione spirituale e antropologica, una forma di “nozze mistiche” tra l’anima individuale e l’anima collettiva. Il noi ideale diventa naturalmente e gioiosamente l’io ideale. Ci si sente a casa solo quando si allineano i propri sentimenti con quelli di tutti, quando l’inabitazione reciproca delle emozioni sfiora la perfezione. Si soffre e si gioisce per le stesse cose e allo stesso modo, si prega tutti con le stesse parole, si leggono (quasi) le stesse parole della Bibbia, le stesse parole dei fondatori. È la presenza di questa fase di totale adesione libera, intima, sincera, generosissima dell’anima alla propria comunità che dice l’essenza di quella misteriosa realtà che chiamiamo “vocazione”.

Quando una comunità o una organizzazione nasce, il suo patrimonio più grande è proprio la presenza di molte persone che, sinceramente e autenticamente, vivono questa coincidenza tra l’io e il noi. Sono convincenti e conquistano molti perché credono genuinamente e totalmente al messaggio che annunciano. La crescita esponenziale che conoscono molte comunità ideali nei primi tempi dipende moltissimo dalla perfetta identificazione degli io dei singoli con il noi comunitario – una esperienza tra le più esaltanti del repertorio umano.

Questa fase non è mai breve, può durare molti anni. Non deve però durare per sempre. Perché se a un certo punto non termina, da “benedizione” si trasforma in “maledizione”. La splendida giovinezza delle vocazioni dona la sua perla solo se è capace di morire. E invece, molte, troppe volte l’esperienza della giovinezza non termina, dura per tutta la vita e genera una della malattie collettive più gravi e frequenti.

Diventare adulti è difficile per tutti, ma è veramente difficile (e stupendo) quando si trascorre una meravigliosa giovinezza vocazionale con il nostro io diventato, sinceramente, un noi. Molte volte si resta infatti schiacciati dall’enorme ricchezza della prima bellissima stagione della nuova vita – altra espressione dell’ormai nota “maledizione dell’abbondanza”. Chi gestisce le comunità si innamora e poi si abitua troppo dell’infinita disponibilità di energia morale di questa giovinezza, e, più o meno inconsciamente, fa di tutto perché duri più a lungo possibile. Le singole persone, poi, non hanno “incentivi” a uscire da questa forma di infanzia, dove stanno molto bene. L’equilibrio è dunque perfetto e stabile. E così troppi restano adolescenti per tutta la vita credendo, magari, di aver raggiunto le vette della vita spirituale, perché confuse con le vette di plastica dei balocchi. L’infanzia nello spirito non è l’infanzia antropologica e psicologica, ma vertice di una vita adulta che torna diversamente bambina, senza averlo cercato. Il principale problema di molte comunità è avere troppe persone tranquille che non riescono nemmeno a raggiungere lo stadio antropologico del conflitto tra l’io e il noi (tanto meno a superarlo). Il primo indicatore di maturità e libertà di una comunità ideale e di qualità delle sue persone è invece la presenza di persone in crisi per questo stesso motivo e che lottano per una nuova maturità. Anche in questo caso, la gravità della patologia sta nel confondere la salute con la malattia.

Qualche volta, accade che alcune persone riescono a raggiungere la crisi, e l’armonia io-noi inizia a vacillare. Sono persone che hanno conservato qualche desiderio vivo, che hanno saputo coltivare letture diverse da quelle di tutti, che non hanno perso contatto dalle ferite vere dei poveri veri, che non hanno tagliato con gli amici di ieri, che hanno continuato a pregare con le vecchie preghiere delle nonne e non solo con quelle nuove e speciali. Queste persone possono ricevere la grande benedizione di riuscire a diventare adulti.

Ma, anche in questi felici casi, raramente la gestione di queste crisi-benedizione è buona. Gli ostacoli più alti si trovano dentro la persona, che quando avverte le prime crepe del blocco inscalfibile della prima interiorità e identità, le nega e le rifiuta. Non le vuole vedere perché, paradossalmente, invece di interpretare questi sintomi divergenti come l’inizio di una nuova autenticità, le vive come non autenticità e non verità. Si spaventa molto, e si ferma. Inoltre, alla sensazione soggettiva di inautenticità e tradimento che frena la persona, si aggiunge l’altro ostacolo, altissimo, rappresentato dai responsabili che, in buona fede, consigliano spesso il ritorno alla precedente armonia e pace. Non riescono a riconoscere la benedizione nei primi sintomi di questo tipo di crisi, e le combattono.

La grande maggioranza delle possibili crisi abortiscono prima di nascere, vengono rifiutate e respinte come tentazione o tradimento. Un infinito e immensurabile spreco di valori umani, oceani di dolore.

Anche perché – e qui sta un punto decisivo – dal giorno seguente l’arrivo delle prime crepe, tornare alla prima autenticità pacificata e sincera è impossibile. La prima crisi è un punto di non ritorno, si può, si deve, andare solo avanti. Ogni ritorno diventa, questa volta veramente, inautentico. Le persone non riescono più a ridere, a gioire, a pregare, come nei primi tempi. Sono risate e preghiere simili a quelle di ieri, ma non sono più le stesse. E così per cercare di colmare il gap tra quanto si sente e dice veramente e quanto si sente e dice quasi veramente, si inizia a simulare una parte di emozioni e di sentimenti. È cominciata la stagione della finta autenticità.

Qualche volta la crescita di questo scarto produce una nuova crisi, che in genere termina come la prima, con una nuova retromarcia sempre meno convinta e sempre più mesta. Nelle comunità convivono persone autenticamente convinte del “noi” accanto a persone che lo sono sempre meno ma che si comportano come se fossero veramente convinte. Ma quando la quota dei “come se” supera quella dei convinti veramente, il declino è rapido, perché le energie spirituali e morali della autenticità parziale sono molto minori, e ancora minore è la loro capacità di attrarre nuovi membri. L’autenticità simulata non dura a lungo, e consuma l’anima delle persone, fino a spegnerle. Molte persone lasciano le comunità (anche quando formalmente vi restano) perché sfinite da questi esercizi di simulazione. Perché se la parte di finta autenticità non evolve elaborando una nuova sintesi del primo “noi”, finisce per infettarsi e contagiare la parte di sincera fede nel messaggio originario che era rimasta, fino a non crederci più (tante persone rinnegano ideali giovanili ai quali non hanno dato la possibilità di crescere, e così sono diventati banali). Molte comunità spirituali e OMI non raggiungono una seconda generazione dopo la fondazione, perché, collettivamente, non riescono a superare questa prima sconfinata giovinezza, e il “noi” dell’infanzia – quello genuino e quello simulato – divora il possibile, bellissimo, noi della vita adulta.

Qualche rara volta, invece, una seconda (o ennesima) crisi riesce a generare finalmente una nuova vita, una nuova anima individuale e collettiva. E quando accade iniziano gli anni più belli della vita. Se è vero che ci sono poche cose più tristi di una bella vocazione giovanile sfiorita per non essere riuscita a maturare, è ancora più vero che pochissime cose sono più belle di una persona che è riuscita a generare un nuovo “noi” portando con sé il suo “primo io” e il suo “primo noi”. Ma ci sarebbe bisogno di responsabili che hanno vissuto loro stessi questa alchimia, e quindi capaci di creare le condizioni perché le persone possano arrivare almeno alla tensione tra l’io e il noi, cioè alla fase delle crepe del muro. Di aiutare le loro persone a uscire dalla terra sicura della prima autenticità collettiva, accettando e amando il rischio, inevitabile e concreto, che quell’uscita approdi in luoghi lontani, che qualcuno non torni più a casa. Di intuire che per avere persone adulte, capaci quindi un giorno di continuare e arricchire la storia collettiva, devono metterle nelle condizioni di far morire il loro “noi” di oggi perché risorga, forse, un “noi” nuovo domani. Di permettere alle persone di sviluppare i propri talenti, aspirazioni, desideri, rapporti, sogni diversi da quelli di tutti. Dare loro la possibilità di crescere diversamente, di immaginare sentieri di adultità diversi da quelli immaginati e sognati da giovani e da tutti. I noi della vita adulta sono sempre plurali e diversi, non meno veri e fedeli. Ma nelle comunità ideali il bisogno radicale di controllare l’interiorità delle persone per la paura, più radicale, di “perderle” una volta diventate adulte, eternizza la giovinezza e quindi la snatura. E così non riescono a generare neanche quel “resto fedele”, il solo capace di salvare, domani, tutto il popolo, che per essere generato ha bisogno della libertà, dell’aria aperta e della biodiversità dei terreni fertili – “chi non vuol perdere la propria vita, la perderà”.

Un’intera comunità può essere salvata anche da una sola persona che ha trovato una nuova autenticità adulta. Qualcuno che ha creduto in un sogno, ha trovato un Bambino stupendo, ha provato “una grande gioia”. Una gioia nuova e diversa che non avrebbe mai conosciuto se avesse smesso di camminare inseguendo una stella.

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