Le buone doglie della vita adulta

Le voci dei giorni/10 - Nessun tetto di casa è alto abbastanza se non tocca il cielo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/05/2016

Margherita ridLa maturità è tutto”

W. Shakespeare, Re Lear

Diventare adulti è una esperienza meravigliosa. È un fatto tutto spirituale e morale, che genera una gioia capace di compensare e qualche volta superare quella naturale tristezza che accompagna la fine della giovinezza e delle sue tipiche bellezze. Le forme e i tempi della maturità sono molti e diversi, iscritti nelle carni e nella storia di ciascuno.

Non c’è condizione né stato di vita dove questa esperienza sia semplice e prevedibile. Quando però abbiamo a che fare con persone che vivono e crescono all’interno di comunità ideali o carismatiche, la metamorfosi della maturità è un momento cruciale e ad alto rischio di fallimento. Tocca il cuore della vocazione stessa, che una volta attraversata questa fase cambia radicalmente, anche in quegli aspetti che prima sembravano assoluti e immutabili.

L’entrata nella maturità assume la forma della crisi. Si manifesta nel disagio, nella critica, nella tensione nei confronti della comunità nella quale siamo cresciuti e fioriti. Dopo molti anni luminosi e sereni, un giorno lo sguardo del cuore muta, e la "casa"nella quale era sbocciata la nostra storia più grande inizia a mutare aspetto. Non la sentiamo più come un luogo buono e amico, e l’intimità diventa estraneità. Si spezza qualcosa dentro, e ciò che fino ad allora era stata la nostra prima bellezza e il nostro grande orgoglio, la cosa che si raccontava subito ad amici e colleghi, diventa distante, scomoda, fredda. Si torna la sera dal lavoro, si apre la stessa porta, ma non si entra più a casa.

Non è difficile capire perché. Quando una persona inizia una forte esperienza ideale e quindi vocazionale, all’inizio si identifica completamente con la comunità che la custodisce e vive. Vi vede incarnata la stessa voce luminosa che la chiama, che viene idealizzata fino a farla coincidere con l’ideale stesso. Diventa perfetta, infallibile, eskaton anticipato: se così non fosse, non inizierebbe nessuna grande storia d’amore. Affinché la critica dell’età adulta sia generativa, è necessario che sia stata preceduta da una giovinezza dove la comunità era stata amata incondizionatamente, sentita e vissuta come la cosa più grande e bella. Qualche volta il processo della crisi è lento, e dura molti dolorosi anni; altre volte, invece, è molto rapido, e nel giro di poche settimane o mesi l’anima si riempie di una sofferenza spirituale profonda, che in molti casi prende anche il corpo e la psiche.

Al culmine di questa crisi si resta dentro le stesse comunità della prima vocazione solo se a un tratto si riesce a capire che tutto quanto sta accadendo è una cosa molto buona, che è solo e tutta benedizione, che siamo dentro le doglie del buon parto della vita adulta. Che il passato non era solo inganno, ma soltanto la bella infanzia della nostra vita, anche se necessariamente diversa da come l’avevamo sognata. E così, finalmente, si riesce ad accogliere e ad amare l’idealizzazione della giovinezza, come si amano i ricordi più belli di ogni infanzia. E si ringrazia la vita e chi ci ha messo nelle condizioni di libertà per poter arrivare a vivere la crisi della maturità, e la ferita diventa grande benedizione. E poi si continua il cammino con una nuova maturità e libertà. Da figli si diventa madri e padri della propria comunità. Inizia una seconda splendida parte della vita, e i frutti che si portano sono di un altro sapore. Uno degli spettacoli più sorprendenti della terra è incontrare la bellezza e la fecondità di chi è riuscito a diventare adulto dopo aver ricevuto nella giovinezza una grande vocazione.

Questi spettacoli, però, sono rari. In molti casi, infatti, le vocazioni non riescono a raggiungere questa crisi benedetta della maturità, anche quando erano grandi, autentiche, sincere. Perché ci si ammala di una malattia tanto grave quanto comune.
Per capire la natura di questa malattia, occorre tener presente che quando una persona riceve una vocazione sente una tendenza invincibile a non volere altro che rispondere a quella voce forte, chiara, infinita. Tutti i propri talenti, passioni, interessi, affetti vengono orientati nella stessa unica direzione. Null’altro ha più valore, tutto diventa paglia. Ed è proprio in questi momenti meravigliosi, quando la sete d’infinito e il desiderio di paradiso assorbono tutte le migliori energie, che si insinua questa tipica malattia. La vocazione è una chiamata di tutta la persona, con tutta la sua dote umana, e matura bene se a rispondere è tutta la persona. Ci si ammala, invece, se una dimensione diventa l’unica dimensione identitaria. Prima Franco era un giovane amante della musica, degli studi, con molti amici e amiche, appassionato della montagna. Dopo l’incontro con la Voce, rispondere alla chiamata diventa il suo unico interesse, e vuole diventare soltanto un monaco benedettino. Vuole e chiede solo questo. Non capisce che la chiamata è un invito alla fioritura di tutto il campo della sua vita – musica, studi, amici, montagna –, di tutte le sue passioni vere, di tutti i suoi talenti che sono chiamati a moltiplicarsi e a trascendersi, perché se non sbocciano si infettano e avvelenano tutto il corpo.

Senza orientare tutte le dimensioni della vita a quella nuova e principale, non inizia nessun cammino vocazionale, ma se questa operazione di riduzionismo si compie davvero la persona appassisce e si spegne – sta qui un grande paradosso di tutte le vere vocazioni. All’inizio del cammino la persona non sa, non può e in un certo senso non "deve" sapere, che tutta la bellezza del mondo e del cielo che cerca si trova in tutta la terra e in tutto il cielo. Non può sapere che la sua vita fiorirà se non consentirà a quella prima dimensione vocazionale di assorbire e "mangiare" tutto il resto. Non lo sa, e non lo può sapere. Ma i saggi responsabili della sua comunità lo devono sapere. Sanno, devono sapere, che la fioritura e i frutti maturi di una vocazione dipendono dalla possibilità che quella persona ha, fin dall’aurora del suo nuovo giorno, di sviluppare tutte le dimensioni della sua identità che è sempre multipla: nessun marito è solo marito, nessun artista è solo un artista, nessun religioso è soltanto un religioso. Nessun religioso è un buon religioso se è solo un religioso. E allora devono far di tutto perché quella giovane donna bellissima non diventi col tempo una persona a una sola dimensione, anche quando è lei a volerlo e chiederlo con tutta se stessa. Devono proteggere la sua vocazione dalla riduzione a una monocultura intensiva che la porterebbe a esaurire le sostanze che la alimentano. Ogni vocazione per generare vita ha bisogno del tempo e dello spazio libero del maggese, di fiorire in campi diversi da quelli previsti, di dar vita a nuovi innesti e a nuove talee. Ogni giardino dove coltiviamo la nostra vita è troppo piccolo se non coincide con tutta la terra, nessun tetto di casa è alto abbastanza se non tocca il cielo.

Ma è proprio questo tipo di saggezza a scarseggiare nelle comunità ideali e carismatiche, perché è troppo rischiosa e libera per convivere con le regole e le procedure del buon governo "prudente". Troppe volte i responsabili invece di aiutare le persone ad allargare il cuore e ad aprire le finestre di casa, incoraggiano la monocoltura e la raccomandano come la sola strada buona per mettere solide basi alla vocazione. E così le persone, soprattutto quelle più belle e radicali, si ritrovano incoraggiate a "mangiare" tutte le dimensioni della propria umanità per nutrirne solo una, che dopo qualche anno muore per esaurimento del cibo. La formazione viene ridotta a sola formazione funzionale a quella unica dimensione. Le letture e i testi consentiti diventano tutti molto, troppo, simili. Negli "esercizi spirituali" vengono invitati soltanto esperti di spiritualità e teologia, e tutte le altre bellezze del mondo restano via via sempre più sullo sfondo di una vita che si impoverisce, perché perde progressivamente e radicalmente biodiversità, fecondità, generatività.

Si compie, quindi, una progressiva e sistematica semplificazione del paesaggio dell’anima e della vita sociale. Dal presepe dell’anima e delle comunità scompaiono i pastori, le pecore, i re magi, le contadine, e resta una unica e sempre più grande grotta, dalle quale vengono presto eliminati anche il Bue, l’Asinello, e qualche volta anche San Giuseppe. Accade qualcosa di simile a quelle coppie che si consumano a vicenda e appassiscono per mancanza di aria e di sole.

Anche le vocazioni a una sola dimensione arrivano a una grande crisi, ma è una crisi radicalmente diversa da quella buona della maturità. Queste crisi sono avvertite soprattutto da chi le osserva dall’esterno – amici, genitori, fratelli, sorelle. Vedono i loro amici e figli appassire, scomparire dai loro occhi la luce dei primi anni. Ma chi vi è dentro non riesce a comprendere che cosa gli sta capitando, perché gli mancano le categorie per leggere correttamente quanto vive. Avverte la diminuzione di generatività, di gioia, di entusiasmo per la vita, ma usa lo stesso repertorio "spirituale" per interpretarla, e cerca le soluzioni negli stessi testi e nelle stesse fonti che però da tempo si sono esaurite. Sono esperienze di grande dolore muto, dalle quali è molto difficile uscire.
Le comunità che non sanno generare le prime crisi buone della maturità si ritrovano inevitabilmente a gestire soltanto le cattive crisi dell’appassimento. Non è altro che la legge della vita, anche di quella vita straordinaria che nasce dai nostri ideali più grandi.

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