Messaggero di S. Antonio

Economia Civile

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Come insegnare l'uso corretto del denaro ai figli? Ecco quattro regole che potrebbero risultare utili in famiglia...

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 04/12/2022

L’uso del denaro all’interno delle relazioni primarie è sempre molto delicato, soprattutto in famiglia, dove nel gioco monetario entrano i bambini, i ragazzi e gli adolescenti. Potrebbe essere utile seguire quattro regole, suffragate dalle ricerche della scienza economica e dalla pratica.

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Prima regola. Il denaro deve arrivare dai genitori, sono loro gli amministratori unici del denaro famigliare. E anche quando entrano donazioni esterne (cresime, compleanni...) queste devono essere conosciute e gestite dai genitori. Le Avventure di Pinocchio ce lo dicono molto chiaramente: il denaro che arriva a Pinocchio gli crea soltanto guai. Quando i ragazzi/e superano i 10 anni diventa difficile fare doni che apprezzino, e forte è la tentazione di regalare denaro. Quasi sempre questa è una scorciatoia perché non si ha il tempo di scegliere un dono insieme, perché non conosciamo abbastanza i nostri figli, perché non abbiamo tempo. I nonni amano aprire conti correnti e assicurazioni ai nipoti. Lo facciano, ma non glielo dicano: esprimano il loro amore in altre forme.

Seconda regola. Non usare il denaro come incentivo per ottenere qualcosa da figli e figlie. Occorre motivarli, certo, ma dentro casa e da piccoli occorre insegnare loro l’arte della gratuità non l’arte del commercio; per quest’ultima avranno tempo per tutta la vita, e sarà una buona arte solo se poggia sull’arte della gratuità. Perché la famiglia (con la scuola) è il primo luogo dove si impara che ci sono cose belle e buone che vanno fatte non per la ricompensa che ci danno, ma perché sono belle e buone: e basta. È l’educazione dell’«e basta» ciò che davvero conta quando si è ragazzi. Quindi pessima cosa fare un listino prezzi dentro casa (2 euro piatti, 3 cane…) o inventare la «paghetta a punti» ideata da un mio collega economista (poi pentito, quando vide che la figlia non faceva più nulla senza essere pagata: ma ormai era tardi, aveva creato un homo oeconomicus in gonnella).

Terza regola. La paghetta, che una certa cultura economica dominante sta introducendo nelle famiglia, è pericolosa. È raccomandata da molti esperti perché è vista come un’educazione alla responsabilità. Ciò che invece mostrano gli studi è che la paghetta tende ad aumentare nei figli un atteggiamento mercantile con la vita, con gli amici, con se stessi. E ciò è serio: se non impariamo da piccoli a dare un valore intrinseco a quelle che il mondo antico chiamava virtù, da grandi saremo dei cattivi lavoratori, che lavoreranno solo se e quando ci sono bastone e carota.

Quarta regola. Imparare a sviluppare ricompense non monetarie. Le ricompense sono importanti con i ragazzi, perché rafforzano il comportamento buono. I premi dunque sono importanti, purché non diventino incentivo. Il premio, non monetario e simbolico (una gita, un dono, o anche un abbraccio…), riconosce che quell’azione fatta è buona: non è un contratto, non si definisce il prezzo prima che l’azione venga fatta, non c’è sempre ma solo qualche volta, e cambia nel tempo. I premi rafforzano la gratuità, gli incentivi la erodono.

Il nostro capitalismo sta trasformando tutti i patti in contratti e tutti i premi in incentivo. Proteggiamo almeno la famiglia da questa invasione, teniamo il tempio innocente del cuore dei fanciulli libero dai mercanti. Molti errori in questo campo si fanno per mancanza di pensiero e di attenzione, soprattutto da parte di pedagogisti e moralisti, che hanno sempre sottovalutato il peso economico nella formazione dei bambini. Dobbiamo dedicare più tempo all’economia, non fosse altro che per difendersi dalla sua logica potente.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 04/12/2022

L’uso del denaro all’interno delle relazioni primarie è sempre molto delicato, soprattutto in famiglia, dove nel gioco monetario entrano i bambini, i ragazzi e gli adolescenti. Potrebbe essere utile seguire quattro regole, suffragate dalle ricerche della scienza economica e dalla pratica.

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Più tempo all’economia (e ai figli)

Più tempo all’economia (e ai figli)

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Oggi la terra è piena di samaritani e donne siro-fenicie che ci attendono ai crocicchi della strade per spiegarci il Vangelo che loro non conoscono ancora: quando ci chineremo per ascoltarli?

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio l'8/11/2022

La parabola del «Buon Samaritano» è tra le più belle dei vangeli (Lc 10). Papa Francesco ha scelto questa parabola come pietra angolare biblica della sua enciclica sulla fraternità, Fratelli tutti. Il primo messaggio del buon Samaritano è la differenza tra il «vicino» e il «prossimo». Il Samaritano che passava lungo la strada non era il più vicino della vittima che si era imbattuta nei briganti; anzi, era il più lontano da ogni punto di vista (per religione, etnia, geografia). I vicini erano invece il sacerdote e il levita, che, al contrario, non si fermano. Dunque, il Samaritano si fece prossimo di quella persona sebbene non fosse suo vicino.

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La regola aurea del Vangelo sgancia allora l’amore dalle molte forme di vicinanza: non si ama il prossimo perché mi è accanto, o perché mi è più vicino di un altro, ma perché è una persona che mi trovo davanti e si trova nel bisogno, perché è una vittima. Altrimenti, come ci ha ricordato l’economista Amartya Sen (L’idea di giustizia), avremo sempre persone che ci sono più vicine di altre, e quindi non saremo giusti perché ogni idea di giustizia porta con sé una idea di equità di trattamento. Se tratto i più vicini meglio rispetto ai meno vicini viene meno la prima regola della giustizia. Frasi e politiche che si basano allora su espressioni come «prima gli italiani», «prima gli europei», «prima i cattolici» sono radicalmente contrarie alla logica e alla politica del Vangelo, che ci consente soltanto di dire: «Prima c’è chi incontro sulla strada e si trova in una condizione di bisogno».

Gesù stesso impara la logica del buon Samaritano, quando (come narra il vangelo di Marco al capitolo 7,24-30) incontra la donna siro-fenicia. Quella donna, di un altro popolo e di un’altra religione, quindi una «lontana», gli chiede di cacciare via un demone dalla sua bambina. E Gesù come prima risposta confonde il prossimo con il vicino, e le dice: «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». Qui Gesù ripete quello che ogni persona di buon senso direbbe. L’occuparsi prima dei figli propri e poi di quelli degli altri è parte del diritto naturale: non va bene occuparsi degli altri senza avere ancora risolto i problemi della famiglia.

Ma il Vangelo non è né buon senso né diritto naturale: è agape, è altro. Allora quella donna straniera e lontana, anche se non lo sapeva, stava raccontando a Gesù la parabola del buon Samaritano, gli stava insegnando il suo Vangelo. Gesù si lasciò convertire da lei: «Ma lei gli replicò: “Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”. Allora le disse: “Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia”». È stupendo vedere Gesù che impara il suo Vangelo da una donna pagana, da una madre, commovente e umanissimo vedere che anche Gesù cambia idea, che anche Dio si converte.

La Chiesa segue ancora Gesù se continua a farsi convertire dalle vittime, se e quando è capace di riscoprire il Vangelo incontrando i poveri lungo la strada, quei poveri e lontani che hanno spiegato e spiegano alla Chiesa il suo stesso Vangelo, con parole che parlano di diritti umani, di rispetto, di uguaglianza, di fraternità e sororità. La Chiesa si è convertita a un Vangelo più cristiano grazie alle parole umane di vittime e lontani. Perché nella Bibbia l’uomo impara il cielo da Dio ma Dio impara la terra dagli uomini, dalle donne e dai bambini. Oggi la terra è piena di samaritani e donne siro-fenicie che ci attendono ai crocicchi della strade per spiegarci il Vangelo che loro non conoscono ancora: quando ci chineremo per ascoltarli?

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio l'8/11/2022

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I poveri ci spiegano il Vangelo

I poveri ci spiegano il Vangelo

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Non è più il tempo di nascondersi dietro «le leggi del mercato», perché il mercato siamo noi: il mercato sono le nostre scelte, è la foto dei nostri valori, della nostra dignità, del nostro onore.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 03/10/2022

«È vero che nelle imprese esiste la gerarchia, è vero che esistono funzioni e salari diversi, ma i salari non devono essere troppo diversi. Se la forbice tra gli stipendi più alti e quelli più bassi diventa troppo larga, si ammala la comunità aziendale, e presto si ammala la società». Queste parole sono tra quelle donate da papa Francesco agli imprenditori di Confindustria il 12 settembre scorso. Donate, si’ potremmo titolarle: perché le parole di Francesco sono state soprattutto un dono, in particolare di fronte alle difficoltà di questi anni straordinari, difficili per tutti e anche per gli imprenditori, almeno per quelli che ha accostato al «buon pastore» (non certo per quelli simili ai «mercenari»), che quindi soffrono quando le loro comunità aziendali soffrono.

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Questo tema dei salari dei manager in rapporto a quello dei lavoratori è molto importante. Non può esserci un rapporto di cento o mille a uno... È sempre più decisivo per la qualità del capitalismo di oggi e di domani. L’impresa è anche una comunità, sebbene un certo «pensiero» economico oggi lo voglia negare, in nome di una visione dell’impresa come un mercato dove i «contratti» fanno tutto senza alcun bisogno di «patti». Il patto non è solo incontro di interessi: è incontro di destini, di anima, di vita. E chi lavora sa che le imprese senza questi patti sociali, spesso impliciti, non funzionano; e se anche generano profitti, non generano vita buona e benessere della gente che lavora. I patti, diversamente dai contratti, hanno bisogno di una certa uguaglianza. Non una uguaglianza perfetta su tutte le dimensioni. 

Ogni lavoratore sa che le responsabilità, le funzioni, i talenti e la produttività dei vari soggetti di una impresa sono diversi; lo sa e non pretende di avere lo stesso stipendio del direttore generale. Ma ogni lavoratore, incluso quel «lavoratore» che si chiama imprenditore (e manager) come ha ancora ricordato Francesco, sa anche che per quanto diversi sono i vari lavoratori, alla fine sono tutti dentro la stessa realtà, al servizio dello stesso bene comune chiamato impresa. Come sa che, senza la parte di ciascuno, più o meno piccola, l’impresa non funziona, o funziona male. Stanno in questa consapevolezza di co-essenzialità, la dignità, l’onore, il rispetto, l’auto-stima di ogni lavoratore. «Non sono il padrone, non ho studiato come l’ingegnere; lo so: ma anche io so fare il mio lavoro, anche io sono importante, e se mi fermo l’impresa non è più bella come ora. La bellezza e la qualità della nostra azienda dipende anche da me». Sono questi ragionamenti che ci tengono in piedi ogni giorno, che ci fanno aprire il pc ogni mattina con orgoglio; e quando mancano, ci spegniamo, prima nell’anima e poi del tutto. E con noi si spengono le nostre imprese.

I lavoratori hanno bisogno di questa stima come dello stipendio. E se manca non danno la loro parte migliore. E, continua Francesco, «quando i salari e gli stipendi sono troppo diversi si perde nella comunità aziendale il senso di appartenenza a un destino comune, non si crea empatia e solidarietà tra tutti; e così, di fronte a una crisi, la comunità di lavoro non risponde come potrebbe rispondere, con gravi conseguenze per tutti». Ci aspettano tempi difficili, forse molto difficili. Perché non siano troppo difficili e quindi impossibili, occorre che nelle imprese cresca questo senso di «destino comune», che ciascuno si senta co-protagonista dell’impresa collettiva della sua azienda. Tutto ciò si chiama politica. Non è più il tempo di nascondersi dietro «le leggi del mercato», perché il mercato siamo noi: il mercato sono le nostre scelte, è la foto dei nostri valori, della nostra dignità, del nostro onore: quello di tutti e di ciascuno.

Nella foto, l'impresa Edc Todobrillo

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di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 03/10/2022

«È vero che nelle imprese esiste la gerarchia, è vero che esistono funzioni e salari diversi, ma i salari non devono essere troppo diversi. Se la forbice tra gli stipendi più alti e quelli più bassi diventa troppo larga, si ammala la comunità aziendale, e presto si ammala la società». Queste parole sono tra quelle donate da papa Francesco agli imprenditori di Confindustria il 12 settembre scorso. Donate, si’ potremmo titolarle: perché le parole di Francesco sono state soprattutto un dono, in particolare di fronte alle difficoltà di questi anni straordinari, difficili per tutti e anche per gli imprenditori, almeno per quelli che ha accostato al «buon pastore» (non certo per quelli simili ai «mercenari»), che quindi soffrono quando le loro comunità aziendali soffrono.

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«Donate si’»: parole agli imprenditori

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Il mercato è una faccenda di relazioni e le relazioni positive sono quelle che fanno crescere tutti e in cui non perde nessuno. In questo il mercato è davvero diverso dallo sport.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 23/09/2022

Da sempre lo sport viene accostato ai mercati e all’economia, ma non sempre i parallelismi sono proposti con una sufficiente attenzione e con uno sguardo che sa discernere. Infatti, le parole e le ispirazioni che lo sport può offrire ai mercati sono diverse: alcune sono buone e utili, altre meno, qualcuna è semplicemente fuorviante. Iniziamo da quelle buone. Una prima riguarda il rapporto che c’è negli sport individuali tra il singolo atleta e la propria squadra di appartenenza o la squadra nazionale.

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Questo rapporto è complesso, perché vive di un intreccio di cooperazione e di competizione, di molta cooperazione e di pochi momenti di competizione. Durante gli allenamenti, nelle staffette, è la cooperazione e l’amicizia che domina: il bene di tutti e quello di ciascuno coincidono. Durante le gare decisive, invece, le relazioni diventano giochi a somma zero, e la competizione diventa solo posizionale: la vittoria di un atleta significa la sconfitta di altri. Anche nelle relazioni di mercato tra i vari agenti (imprese, consumatori, fornitori…), la stragrande maggioranza dei rapporti è di tipo cooperativo e di mutuo vantaggio (giochi a somma positiva), e sono davvero molto rare, quando ci sono, le gare in cui qualcuno vince a scapito degli altri. Perché?

Immaginiamo che Giovanni sia un giovane idraulico che inizia la sua attività come piccolo imprenditore artigiano. Il migliore – per me l’unico – atteggiamento intelligente con cui deve iniziare la sua impresa è chiedersi: «A chi servono nella mia città i miei servizi?», e quindi cercare dei clienti con cui cooperare in un rapporto di mutuo vantaggio. Se invece iniziasse domandandosi: «Dove si trovano i concorrenti che voglio battere?», difficilmente Giovanni diventerà un buon imprenditore, perché investirà le sue energie in passioni rivali e non generative. Perché mentre nello sport, forse, un atleta può anche crescere orientando le sue energie per battere i suoi concorrenti (ho comunque qualche dubbio), il mercato è una faccenda di relazioni e le relazioni positive sono quelle che fanno crescere tutti e in cui non perde nessuno. In questo il mercato è davvero diverso dallo sport.

Un secondo ambito di vicinanza tra mercato e sport è il ruolo dei concorrenti. Nello sport avere concorrenti forti è essenziale per far crescere i singoli atleti e raggiungere risultati eccellenti. Analoga situazione nel mercato, dove la presenza della concorrenza è essenziale per migliorare: i monopoli fanno male a ogni sistema economico e sociale, e alla lunga anche al monopolista. Le parole sbagliate sono invece quelle che diciamo quando pensiamo che lo sport sia solo concorrenza in un gioco a somma zero e quindi utilizziamo le espressioni «vincente» e «perdente» (pessime parole sempre e ovunque) e le applichiamo alle imprese.

Così non capiamo più che cosa siano i mercati – e lo sport –, perché perdiamo di vista la legge aurea dell’economia: il mutuo vantaggio. Quando usciamo da una pizzeria e al nostro «Grazie» il proprietario risponde: «Grazie a lei», stiamo semplicemente dicendo che l’economia nella sua vera natura è una forma di reciprocità civile. Questa caratteristica dei mercati era nota anche ai primi economisti del Settecento, che speravano che lo sviluppo dei mercati avrebbe portato alla fine delle guerre, proprio perché ogni mercante sa che la crescita degli altri è la precondizione per la sua propria crescita. Oggi purtroppo lo stiamo dimenticando e neghiamo così nei fatti la natura pacifica dell’economia utilizzando le sanzioni come armi da guerra.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Il mercato è una faccenda di relazioni e le relazioni positive sono quelle che fanno crescere tutti e in cui non perde nessuno. In questo il mercato è davvero diverso dallo sport.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 23/09/2022

Da sempre lo sport viene accostato ai mercati e all’economia, ma non sempre i parallelismi sono proposti con una sufficiente attenzione e con uno sguardo che sa discernere. Infatti, le parole e le ispirazioni che lo sport può offrire ai mercati sono diverse: alcune sono buone e utili, altre meno, qualcuna è semplicemente fuorviante. Iniziamo da quelle buone. Una prima riguarda il rapporto che c’è negli sport individuali tra il singolo atleta e la propria squadra di appartenenza o la squadra nazionale.

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Sport e mercato

Sport e mercato

Il mercato è una faccenda di relazioni e le relazioni positive sono quelle che fanno crescere tutti e in cui non perde nessuno. In questo il mercato è davvero diverso dallo sport. di Luigino Bruni pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 23/09/2022 Da sempre lo sport viene accostato ai merc...
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Per quarant’anni ci siamo ubriacati di privatizzazioni, abbiamo smantellato beni pubblici e beni comuni e li abbiamo affidati al mercato capitalistico. Ma il privato non è la Terra promessa...

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 01/07/2022

La pandemia, prima ancora la crisi climatica, la guerra in Ucraina e le sue implicazioni sui costi e sui prezzi di quasi tutto, dovrebbero farci riflettere molto di più sul rapporto tra il privato e il pubblico. Per quarant’anni ci siamo ubriacati di privatizzazioni, abbiamo smantellato beni pubblici e beni comuni e li abbiamo affidati al mercato capitalistico, convinti che il movente del profitto privato fosse l’unica motivazione per far impegnare lavoratori e imprenditori. E così ferrovie, energia, acqua, autostrade, e sempre più sanità, scuole e università sono gestite da capitali e capitalisti privati, e i profitti che da questi beni comuni nascono finiscono in pochissime mani già molto ricche.

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Il paradosso di tutto ciò è che la prima entusiasta di questo dogma religioso – più privato uguale più motivazioni e quindi più efficienza – è stata e continua a essere la sinistra europea, che è nata da una critica al capitalismo e al profitto. E così, di fronte all’aumento del costo dei carburanti che, insieme all’inflazione, giorno dopo giorno sta affamando le famiglie a medio-basso reddito (ce ne accorgeremo tra qualche mese), si sarebbe potuto ridurre almeno il pedaggio delle autostrade, se, come ci fu promesso dopo il crollo del ponte Morandi, queste fossero tornate in mani pubbliche. Se c’è un business a profitto sicuro questo è proprio la gestione delle autostrade, ancor più in un Paese lungo e turistico come l’Italia.

Ci hanno convinti che il privato è il paradiso della nuova economia, il pubblico è l’inferno, e il non-profit il purgatorio. Da economista e da storico del pensiero economico non riesco ancora a capire come questa idea malsana e sbagliata si sia potuta affermare. Conosco le ideologie e i demagoghi, ma aspetto ancora qualcuno che mi dimostri perché i beni comuni sono gestiti meglio da privati che dal pubblico. L’Italia ha inventato i liberi comuni, ha inventato già con i Romani e poi nel Medioevo la gestione comune delle risorse collettive. Abbiamo fatto autentici miracoli economici, civili e artistici, perché le città erano forme di cooperative, consorzi di cittadini che gestivano insieme molte attività politiche e anche molte imprese.

Il capitalismo delle privatizzazioni è prodotto d’importazione, da Paesi (come gli USA e l’Olanda) che poi in industrie chiave e importanti sono anti-liberisti, come tutti sappiamo. Dobbiamo ripensare, subito e profondamente, il rapporto tra il pubblico e il privato. I beni comuni globali ambientali gestiti con la logica privata non solo non sono più efficienti ma vengono distrutti: a riguardo basterebbe leggere quanto ha scritto l’ecologo Garrett Hardin circa la «tragedia dei beni comuni». E lo stiamo vedendo, e ogni giorno lo vediamo di più.

La sanità e i trasporti sono altri beni comuni dove il profitto privato è troppo poco, c’è bisogno di principi, norme e valori che tengano presente la dimensione del Bene comune: in alcuni settori anche gli interessi privati possono generare il Bene comune (scarpe, vestiti, forse nella frutta), ma in altri ambiti i valori da tutelare sono talmente importanti e decisivi da doverli gestire senza essere guidati dagli incentivi dei profitti privati, che sono troppo deboli per le cose davvero cruciali. Queste cose le sapevamo in passato. Poi sono arrivati i nuovi consulenti, figli delle business school, con poca cultura umanistica e molto inglese, e hanno deciso che il privato fosse la Terra promessa. Ci hanno convinto, hanno convito anche i politici, e ora stanno convincendo praticamente tutti, persino le Chiese. Quando ci accorgeremo di questo imbroglio e lo chiameremo bluff? 

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Per quarant’anni ci siamo ubriacati di privatizzazioni, abbiamo smantellato beni pubblici e beni comuni e li abbiamo affidati al mercato capitalistico. Ma il privato non è la Terra promessa...

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 01/07/2022

La pandemia, prima ancora la crisi climatica, la guerra in Ucraina e le sue implicazioni sui costi e sui prezzi di quasi tutto, dovrebbero farci riflettere molto di più sul rapporto tra il privato e il pubblico. Per quarant’anni ci siamo ubriacati di privatizzazioni, abbiamo smantellato beni pubblici e beni comuni e li abbiamo affidati al mercato capitalistico, convinti che il movente del profitto privato fosse l’unica motivazione per far impegnare lavoratori e imprenditori. E così ferrovie, energia, acqua, autostrade, e sempre più sanità, scuole e università sono gestite da capitali e capitalisti privati, e i profitti che da questi beni comuni nascono finiscono in pochissime mani già molto ricche.

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Il grande bluff

Il grande bluff

Per quarant’anni ci siamo ubriacati di privatizzazioni, abbiamo smantellato beni pubblici e beni comuni e li abbiamo affidati al mercato capitalistico. Ma il privato non è la Terra promessa... di Luigino Bruni pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 01/07/2022 La pandemia, prima ancora la cri...
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Molte comunità e molti movimenti dei nostri giorni sono nati nel Novecento come comunità-sfera e oggi si trovano nella necessità di avviare una transizione verso il poliedro: è una sfida decisiva, che deve essere vinta.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 02/06/2022

Il poliedro è una immagine molto cara a papa Francesco (Evangelii Gaudium, n. 236). Applicandola alle comunità, possiamo, in linea astratta (si tratta di modelli), parlare di comunità-sfera e di comunità-poliedro. Le comunità che nascono da un fondatore tendono a essere comunità-sfera. In esse, come nella corrispondente figura geometrica, una volta che conosco un qualsiasi punto della sfera e un suo «intorno» conosco il tutto, poiché la sua struttura regolare e simmetrica e l’equidistanza dal centro non riservano sorprese. Le persone sono tutte simili, tutte orientate nello stesso modo nella stessa direzione (il centro), di fatto tutte uguali negli aspetti carismatici e si conformano sulla personalità e sul carisma del fondatore. Basta così conoscere un singolo membro per farsi una idea precisa dell’intera comunità. Certo, come nella figura geometrica della sfera, ogni punto della superficie ha coordinate uniche diverse da tutti gli altri, ma la conoscenza dei diversi punti non mi fa scoprire altro, perché ogni punto mi dà le stesse informazioni di superficie e di volume.

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Nelle comunità-poliedro, invece, per conoscere una comunità devo conoscere tutte le sue facce-persone, perché ognuna è diversa da tutte le altre pur appartenendo tutte alla stessa realtà. In queste comunità non posso prescindere dai talenti e dai carismi di ogni singolo e da questi bisogna partire per conoscere e capire il tutto (solo le comunità-poliedro sono sussidiarie). Ogni nuova persona che incontro mi rivela nuove dimensioni della comunità, e non conosco veramente la comunità finché non conosco tutti i suoi membri, uno per uno, e la mancanza di uno solo mi impedisce di conoscere la natura della comunità intera e quindi del carisma.

Le comunità-sfera sono particolarmente efficienti e performanti finché vive il fondatore, che dà forma alla sfera e a tutti i suoi componenti, simmetrici, equidistanti, tutti simili tra loro. Non ci sono increspature, discontinuità, asimmetrie, salti, scarti, spigoli, disallineamenti né eccedenze. La comunità-sfera riproduce se stessa generando altre sfere, tutte simili a quella madre. Le comunità-poliedro, invece, a causa delle loro asimmetrie e disallineamenti, sono difficili da gestire, da controllare, da orientare tutte agli stessi obiettivi. Creano attriti, urti, disarmonie, dovute semplicemente alla diversità e ai molti modi con cui ciascuno sente e vive lo stesso carisma. Crescono più lentamente, dedicano più tempo all’attivazione di processi e meno all’occupazione di spazi, devono imparare ad accudire i conflitti, perché ciascuno dei membri è uguale e diverso da tutti gli altri.

È nelle generazioni successive a quelle del fondatore che si manifestano le differenze più importanti tra queste due tipologie di comunità. Le comunità-sfera hanno grandi difficoltà a trovare una nuova conformazione quando il fondatore viene meno, perché sono costitutivamente nate e cresciute simmetriche e orientate, isomorficamente, al centro. Quelle poliedro, invece, hanno costi più alti nella prima generazione, soprattutto costi di coordinamento e di allineamento dovuti alle molte forze centrifughe, ma se riescono a non disfarsi nella prima fase poi sono molto più capaci di dar vita a quella innovazione e creatività necessarie per continuare nel tempo dopo i fondatori. Molte comunità e molti movimenti dei nostri giorni sono nati nel Novecento come comunità-sfera e oggi si trovano nella necessità di avviare una transizione verso il poliedro: è una sfida decisiva, che deve essere vinta.

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Molte comunità e molti movimenti dei nostri giorni sono nati nel Novecento come comunità-sfera e oggi si trovano nella necessità di avviare una transizione verso il poliedro: è una sfida decisiva, che deve essere vinta.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 02/06/2022

Il poliedro è una immagine molto cara a papa Francesco (Evangelii Gaudium, n. 236). Applicandola alle comunità, possiamo, in linea astratta (si tratta di modelli), parlare di comunità-sfera e di comunità-poliedro. Le comunità che nascono da un fondatore tendono a essere comunità-sfera. In esse, come nella corrispondente figura geometrica, una volta che conosco un qualsiasi punto della sfera e un suo «intorno» conosco il tutto, poiché la sua struttura regolare e simmetrica e l’equidistanza dal centro non riservano sorprese. Le persone sono tutte simili, tutte orientate nello stesso modo nella stessa direzione (il centro), di fatto tutte uguali negli aspetti carismatici e si conformano sulla personalità e sul carisma del fondatore. Basta così conoscere un singolo membro per farsi una idea precisa dell’intera comunità. Certo, come nella figura geometrica della sfera, ogni punto della superficie ha coordinate uniche diverse da tutti gli altri, ma la conoscenza dei diversi punti non mi fa scoprire altro, perché ogni punto mi dà le stesse informazioni di superficie e di volume.

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Comunità-sfera e comunità-poliedro

Comunità-sfera e comunità-poliedro

Molte comunità e molti movimenti dei nostri giorni sono nati nel Novecento come comunità-sfera e oggi si trovano nella necessità di avviare una transizione verso il poliedro: è una sfida decisiva, che deve essere vinta. di Luigino Bruni pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 02/06/2022 Il po...
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Il Vangelo di Marco (Mc 15) ci dice che sotto la croce c’erano soltanto donne, e tra queste Maria Maddalena; donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea a Gerusalemme. Le donne stanno, sanno stare sotto le croci degli amici.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 02/05/2022

Le guerre sono anche delle pesti dell’anima. Il loro virus di violenza si allarga, contagia, agisce a distanza e infetta i cuori di molte più persone di quelle coinvolte direttamente dal conflitto armato. È un male comune globale dell’umanità, che riduce il bene di tutti, aumenta la cattiveria, fa perdere bellezza alla Terra. Eravamo già usciti divisi dal covid, avvelenati gli uni contro gli altri e ora una divisione si sta moltiplicando, su assi diversi, con la guerra in Ucraina, fino a toccare per rovinarlo un gesto stupendo di due donne sotto una croce.

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Non solo alcuni politici, ma anche intellettuali e professori cattolici hanno criticato infatti la scelta di papa Francesco di far portare, insieme, un brano di croce a due donne, una ucraina e l’altra russa, due cristiane, due discepole del crocifisso lungo la sua via dolorosa. Eppure non c’è gesto più cristiano e biblico di quello che abbiamo visto il venerdì santo al Colosseo. È passato ormai un po’ di tempo da quel giorno, ma la forza di quel gesto rimane intatta, e lo resterà in futuro.

Il Vangelo di Marco (Mc 15), il più antico dei vangeli e quindi quello più vicino ai fatti storici, ci dice che sotto la croce c’erano soltanto donne, e tra queste Maria Maddalena; donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea a Gerusalemme. I maschi erano scappati tutti. Non lo aveva tradito solo Giuda, lo avevano tradito, in altri modi ma realmente, anche Pietro e tutti i suoi apostoli. Le donne no: tutti fuggono dal crocifisso, le donne restano. Forse furono quelle donne che raccontarono a Marco e agli evangelisti la scena della passione e così è arrivata fino a noi: tra i nostri occhi e quei fatti ci sono occhi di donne, che hanno visto, amato e raccontato. Una compagnia fedele femminile stupenda.

Le donne stanno, sanno stare sotto le croci degli amici. Lo hanno sempre fatto e continuano a farlo. Questo quadro di carne che Marco salva e ci dona è un omaggio a tutte le donne, una lapide eterna eretta per tutte quelle donne anonime e dimenticate che hanno saputo stare sotto le croci. Lo stabat è il verbo della madre, è il verbo delle donne. Quando papa Francesco ha voluto proporre a quelle due donne di accompagnarlo in una stazione della via crucis, stava citando un vangelo di carne, stava ricreando una scena viva della passione vera, incarnata, crocifissa. Quelle due cristiane e amiche hanno fatto rivivere il Golgota, hanno fatto uscire quel racconto dalla letteratura e lo hanno fatto risorgere.

Papa Francesco sarà ricordato per i suoi gesti, sarà ricordato per questo gesto, ecclesiale, umano e profetico, che i politici della terra, amanti degli equilibri, non avrebbero fatto. L’agape è imprudente, parziale, partigiano, squilibrato e per questo è stato crocifisso. Altri al posto di Gesù avrebbero trovato una via d’uscita dal calvario, avrebbero trovato compromessi e salvezze più economiche. Gesù no, la sua fedeltà alla propria vocazione lo ha portato fino in fondo, fino alla cima, e lì inchiodato veramente, morto veramente, e quindi risorto veramente.

Grazie papa Francesco per questo gesto, grazie Albina e Irina che ci avete riportato al 7 aprile dell’anno 30 a Gerusalemme. Con voi, nuove cirenee, siamo saliti anche noi sul monte, abbiamo sentito sulla nostra carne i troppi chiodi che continuano a crocifiggere uomini e donne, abbiamo finalmente visto l’uomo dei dolori. Lo abbiamo capito meglio, abbiamo compreso meglio i crocifissi della storia. Nel venerdì santo di questo 2022, la resurrezione è iniziata due giorni prima, sotto quel legno più vivo del solito. Perché le resurrezioni vere non iniziano nel sepolcro vuoto: iniziano sui Golgota.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Il Vangelo di Marco (Mc 15) ci dice che sotto la croce c’erano soltanto donne, e tra queste Maria Maddalena; donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea a Gerusalemme. Le donne stanno, sanno stare sotto le croci degli amici.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 02/05/2022

Le guerre sono anche delle pesti dell’anima. Il loro virus di violenza si allarga, contagia, agisce a distanza e infetta i cuori di molte più persone di quelle coinvolte direttamente dal conflitto armato. È un male comune globale dell’umanità, che riduce il bene di tutti, aumenta la cattiveria, fa perdere bellezza alla Terra. Eravamo già usciti divisi dal covid, avvelenati gli uni contro gli altri e ora una divisione si sta moltiplicando, su assi diversi, con la guerra in Ucraina, fino a toccare per rovinarlo un gesto stupendo di due donne sotto una croce.

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Con occhi di donne

Con occhi di donne

Il Vangelo di Marco (Mc 15) ci dice che sotto la croce c’erano soltanto donne, e tra queste Maria Maddalena; donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea a Gerusalemme. Le donne stanno, sanno stare sotto le croci degli amici. di Luigino Bruni pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 02/05/2022...
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Se le madri e le donne potessero dire la loro nei tavoli dei negoziati maschili, direbbero che la sola guerra giusta è quella che non abbiamo fatto, perché tutta la geopolitica del mondo non vale la vita di un bambino. 

di Luigino Bruni

pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 21/04/2022

La storia la dovrebbero scrivere le madri, diceva Tanino, un mio amico scrittore. La dovrebbero scrivere le madri e la dovrebbero generare le donne, se fossero più presenti nei tavoli delle grandi decisioni politiche ed economiche, se fossero protagoniste nei trattati internazionali, nei negoziati per porre fine alle guerre o, meglio ancora, per non farle iniziare. Abbiamo tradito quelle poche Madri costituenti che dopo l’approvazione dell’articolo 11 della nostra Costituzione, con ancora la guerra, i morti, i lager negli occhi e nel cuore, scesero nel centro dell’emiciclo dell’aula, si presero per mano e ripeterono il loro «mai più la guerra», suggellando con quell’abbraccio di mani miti le parole tra le più belle della nostra Carta: «L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Lo abbiamo tradito come umanità, lo abbiamo tradito come Europa e Italia inviando armi in Ucraina, per di più continuando a inviare denaro alla Russia in cambio di gas e petrolio, vivendo così alla lettera la parodia della parola del Vangelo: «Non sappia la mano destra ciò che fa la sinistra».

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La gestione dei conflitti lasciata interamente nelle mani dei maschi è spietata, «testosteronica», muscolare, vendicativa, rivale, competitiva; valori qualche volta utili in determinate circostanze e ambiti (lo sport, ad esempio), ma pessimi quando «si gioca alla guerra» e quindi con il sangue e con la morte. Una guerra in Europa ha tolto il velo sulla nudità delle nostre istituzioni e della nostra civiltà. Siamo stati anestetizzati dal consumismo, dalla ricerca del benessere privato. Abbiamo disinvestito drammaticamente in politica, la meglio gioventù si è occupata d’altro (non-profit, organizzazioni, cooperazione, Ong…), e lo spazio della mediazione della politica è stato occupato da sciacalli e iene. Non abbiamo più custodito i confini, le sentinelle notturne si sono addormentate nel loro posto di vedetta mentre guardavano l’ultima puntata dell’ultima serie di Netflix; abbiamo pensato che il bene comune fosse affidato ai soli interessi privati, senza preoccuparci degli interessi di tutti. E il primo vento da est ha abbattuto le nostre capanne sguarnite. Non sarebbe finita così se avessimo realizzato veramente una società con uguale presenza di uomini e di donne. Abbiamo fatto finta di coinvolgerle, le abbiamo accontentate con le quote rosa, ma le abbiamo tenute fuori dal disegno del bene comune e dell’economia, dalla costruzione della pace e della guerra. Questa guerra ci fa solo vedere quello che sapevamo già.

È impressionante rivedere in questi giorni di guerra donne spettatrici di maschi che si cimentano nell’arte delle guerre, e loro, come le nostre bisnonne, a pregare, fuggire, ad accudire bambini e anziani, a piangere. Ottant’anni nei quali siamo arrivati sulla Luna e su Marte, ma nella nostra capacità di gestire, accudire e risolvere conflitti siamo ancora come il fratello che disse all’altro: «Andiamo ai campi». Abbiamo inventato master, corsi di laurea e dottorati sui linguaggi e la comunicazione non violenti, sulle tecniche di mediazione, eppure, l’unica reazione che conosciamo di fronte a un violento che invade è invocare le armi per rispondere ad altre armi, magari citando i partigiani, Bonhoeffer nella sua ribellione contro Hitler o la «guerra giusta» di san Tommaso. Se le madri e le donne potessero dire la loro nei tavoli dei negoziati maschili, direbbero che la sola guerra giusta è quella che non abbiamo fatto, perché tutta la geopolitica del mondo non vale la vita di un bambino. 

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Se le madri e le donne potessero dire la loro nei tavoli dei negoziati maschili, direbbero che la sola guerra giusta è quella che non abbiamo fatto, perché tutta la geopolitica del mondo non vale la vita di un bambino. 

di Luigino Bruni

pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 21/04/2022

La storia la dovrebbero scrivere le madri, diceva Tanino, un mio amico scrittore. La dovrebbero scrivere le madri e la dovrebbero generare le donne, se fossero più presenti nei tavoli delle grandi decisioni politiche ed economiche, se fossero protagoniste nei trattati internazionali, nei negoziati per porre fine alle guerre o, meglio ancora, per non farle iniziare. Abbiamo tradito quelle poche Madri costituenti che dopo l’approvazione dell’articolo 11 della nostra Costituzione, con ancora la guerra, i morti, i lager negli occhi e nel cuore, scesero nel centro dell’emiciclo dell’aula, si presero per mano e ripeterono il loro «mai più la guerra», suggellando con quell’abbraccio di mani miti le parole tra le più belle della nostra Carta: «L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Lo abbiamo tradito come umanità, lo abbiamo tradito come Europa e Italia inviando armi in Ucraina, per di più continuando a inviare denaro alla Russia in cambio di gas e petrolio, vivendo così alla lettera la parodia della parola del Vangelo: «Non sappia la mano destra ciò che fa la sinistra».

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Guerra, roba da «maschi»

Guerra, roba da «maschi»

Se le madri e le donne potessero dire la loro nei tavoli dei negoziati maschili, direbbero che la sola guerra giusta è quella che non abbiamo fatto, perché tutta la geopolitica del mondo non vale la vita di un bambino.  di Luigino Bruni pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 21/04/2022 ...
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Dio ci perdona «settanta volte sette», ma non può fare al nostro posto il passo decisivo. Può fare tutti i passi al nostro posto tranne uno: sta in questo unico passo nostro il Dio «non a buon mercato», sta qui il Dio biblico.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 25/03/2022

Le parole dei profeti biblici sono quelle che meglio spiegano la frase, che resta in parte misteriosa, di Dietrich Bon­hoeffer: «La grazia è gratuita ma non a buon mercato» (Sequela). Chi conosce un poco la logica dei profeti, sa bene che questi non amano affatto il linguaggio economico per esprimere la fede. Io stesso, quando incontro il linguaggio economico (mercato, prezzo) applicato alla fede e a Dio, reagisco sempre con forza, perché sono sempre più convinto che l’uso del linguaggio economico per spiegare la fede ha fatto male alla religione biblica, al cristianesimo (e anche all’economia). Che cosa voleva dire allora Bonhoeffer?

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Studiando il profeta Osea mi è sembrato di capire di più questa espressione del grande teologo e martire tedesco. A Osea Dio chiede di sposare Gomer, una donna infedele, adultera, forse prostituta (Osea cap.1), che continuò a prostituirsi nonostante la fedeltà testarda di Osea (cap. 3). Il profeta – come tanti uomini e donne – continuò ad amarla e magari a perdonarla ogni volta dopo i tradimenti, ma, nonostante l’amore del marito, Gomer non guariva dalla sua malattia morale. Osea ci fa entrare dentro uno dei misteri più grandi della vita, nel mistero della reciprocità.

Alla reciprocità sono associate le pagine più luminose della nostra vita insieme a quelle più buie, e le une sono necessarie alle altre. Perché nessuno gioirebbe per una reciprocità non libera, ma è proprio dentro questa libertà di chi amiamo, necessaria ed essenziale a ogni forma di amore, che si trova la tragedia della reciprocità, delle famiglie, dell’amicizia, delle comunità. L’altro può usare la sua libertà per non rispondere al nostro amore, perché l’altro è sempre più libero rispetto al nostro bisogno e desiderio necessario di reciprocità. Necessario il nostro bisogno di reciprocità, necessaria la libertà dell’altro di non esaudirlo.

Osea e i profeti, poi, ci dicono anche qualcos’altro, che per molti è scandaloso: Dio gioisce e soffre per la nostra reciprocità. Dio ci somiglia in tutto, nei dolori e nelle gioie. L’immagine di Dio impressa nell’essere di ogni uomo e donna, tra i messaggi più belli e audaci della Genesi, è anche un altro luogo della «buona fragilità di Dio»: se noi somigliamo a Dio (e quindi Dio somiglia a noi) ci somiglia anche nell’incapacità di controllare la reciprocità. E così la Bibbia ci mostra un Dio che soffre per il popolo che lo tradisce, per i figli che non tornano a casa. E dobbiamo tenerlo in questa condizione «bisognosa» se vogliamo evitare di far coincidere Dio con l’idea morale che ci siamo fatti di Lui (come fanno tutte le ideologie teologiche), e così farlo diventare un dio carino: un dio «a buon mercato».

Quando Dio diventa così alto e distante da noi da non somigliarci più, diventa un dio banale, che non salva nessuno, neanche se stesso. Per perdonarci Dio allora non ha bisogno della nostra parte; ma per guarirci sì: nessuno può guarirci dalle nostre malattie morali se noi non facciamo la nostra parte. Nessuna coppia si salva senza che entrambi vogliano ricominciare. Il Dio della Bibbia ha allora un tale rispetto della libertà umana da non costringerci neanche alla salvezza. Sta qui la debole onnipotenza del Dio dei profeti, che ordina l’orbita delle stelle e le eclissi della luna, ma non può guarire una moglie infedele, e che resta impotente di fronte alla nostra testarda infedeltà. Ci perdona «settanta volte sette», ma non può fare al nostro posto il passo decisivo. Può fare tutti i passi al nostro posto tranne uno: sta in questo unico passo nostro il Dio «non a buon mercato», sta qui il Dio biblico. 

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Dio ci perdona «settanta volte sette», ma non può fare al nostro posto il passo decisivo. Può fare tutti i passi al nostro posto tranne uno: sta in questo unico passo nostro il Dio «non a buon mercato», sta qui il Dio biblico.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 25/03/2022

Le parole dei profeti biblici sono quelle che meglio spiegano la frase, che resta in parte misteriosa, di Dietrich Bon­hoeffer: «La grazia è gratuita ma non a buon mercato» (Sequela). Chi conosce un poco la logica dei profeti, sa bene che questi non amano affatto il linguaggio economico per esprimere la fede. Io stesso, quando incontro il linguaggio economico (mercato, prezzo) applicato alla fede e a Dio, reagisco sempre con forza, perché sono sempre più convinto che l’uso del linguaggio economico per spiegare la fede ha fatto male alla religione biblica, al cristianesimo (e anche all’economia). Che cosa voleva dire allora Bonhoeffer?

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Il Dio non a buon mercato

Il Dio non a buon mercato

Dio ci perdona «settanta volte sette», ma non può fare al nostro posto il passo decisivo. Può fare tutti i passi al nostro posto tranne uno: sta in questo unico passo nostro il Dio «non a buon mercato», sta qui il Dio biblico. di Luigino Bruni pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 25/03/202...
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Molte cose nella vita valgono perché sono scarse, rare, così rare da essere indispensabili.

di Luigino Bruni

pubblicato su pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 17/02/2022

Nessuna persona di buon senso ha mai creduto che molti conoscenti possano compensare il valore di un amico, né che moltiplicare il numero di rapporti umani aumenti, automaticamente, la nostra felicità. E invece l’economia moderna si è proprio fondata sull’idea che la quantità sia di per sé un valore importante. I primi a intuirlo furono i Fisiocratici, una scuola francese di metà Settecento, gli inventori del moderno concetto di Prodotto Interno Lordo (PIL o GDP in inglese). Loro introdussero l’idea che la ricchezza vera di un popolo non è data dai suoi capitali (palazzi, miniere, laghi, mari), ma dai suoi flussi di reddito. Noi siamo ricchi, dicevano, non perché abbiamo miniere d’oro ma perché riusciamo a far diventare quelle miniere monete. Ma senza il lavoro e tutto il meccanismo di trasmissione dell’economia, possiamo vivere con splendidi giacimenti di oro e stupende spiagge e restare poveri (e lo vediamo ancora oggi). Da qui l’idea che questo flusso periodico (annuale) di merci sia il vero indicatore della ricchezza di un Paese, di una impresa, di una famiglia. E quindi che la ricchezza sia legata alla quantità.

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In un mondo con poche merci e una povertà endemica di cose e di reddito, com’era quello di pochi decenni fa (e come continua a esserlo ancora in molte parti), un indicatore di quantità di merci prodotte diceva qualcosa d’importante, e servirà sempre, in tutte le economie, un indicatore di produzione (magari misurata un po’ meglio dell’attuale PIL). Ma più una società sviluppa dimensioni immateriali di benessere, più inizia a dare importanza alla qualità, meno gli indicatori di quantità sono quelli importanti. Ci sono dimensioni della qualità facilmente traducibili in quantità (e prezzo): hotel, confort, abbigliamento, case… Ma ce ne sono altre, sempre più decisive, che restano intraducibili in quantità, e quando lo facciamo le snaturiamo, non le capiamo più. Una serata con un amico caro o con la persona che amo non vale in genere di più se a quella cena invitiamo dieci persone. Questo vale anche per aspetti molto semplici. Pensiamo a una persona povera che ha un solo vestito buono per le feste (ricordo mia nonna). Questa lo cura, lo custodisce perché sa che è l’unico. Se questa persona diventa ricca e di vestiti buoni della domenica ne compra dieci, certamente la sua quantità di cose aumenterà, ma il valore del bene «vestito della domenica» si ridurrà, perché non sarà più 1 ma 1/10, una frazione del valore di prima.

Oppure, pensando ai rapporti umani, ci sono delle persone e delle attività importanti nella vita proprio perché e solo in quanto sono uniche: una moglie, un genitore, quella persona, io, tu. La moltiplicazione di cose importanti in quanto uniche le svilisce. Una verità antica, eppure messa in radicale crisi dalla civiltà della quantità. Che sta progressivamente entrando anche nel regno dei rapporti umani. Facciamo fatica a fare alcuni doni a persone speciali per le quali sarebbe necessario molto tempo che non abbiamo più e un solo dono scelto e pensato per lei, per lui; e così invece di un dono facciamo dieci regalini, pensando che alla fine il numero compensi la poca qualità messa in quel rapporto. Non riusciamo a coltivare qualche amicizia vera e, sempre più, ci illudiamo che cento amici su Facebook valgano quell’amico che non c’è più per incuria reciproca. E ora con i vocali di whatsapp possiamo anche rinunciare a parlare al telefono, perché bastano monologhi meno «costosi» e impegnativi. Molte cose nella vita valgono perché sono scarse, rare, così rare da essere indispensabili.


Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA 

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Molte cose nella vita valgono perché sono scarse, rare, così rare da essere indispensabili.

di Luigino Bruni

pubblicato su pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 17/02/2022

Nessuna persona di buon senso ha mai creduto che molti conoscenti possano compensare il valore di un amico, né che moltiplicare il numero di rapporti umani aumenti, automaticamente, la nostra felicità. E invece l’economia moderna si è proprio fondata sull’idea che la quantità sia di per sé un valore importante. I primi a intuirlo furono i Fisiocratici, una scuola francese di metà Settecento, gli inventori del moderno concetto di Prodotto Interno Lordo (PIL o GDP in inglese). Loro introdussero l’idea che la ricchezza vera di un popolo non è data dai suoi capitali (palazzi, miniere, laghi, mari), ma dai suoi flussi di reddito. Noi siamo ricchi, dicevano, non perché abbiamo miniere d’oro ma perché riusciamo a far diventare quelle miniere monete. Ma senza il lavoro e tutto il meccanismo di trasmissione dell’economia, possiamo vivere con splendidi giacimenti di oro e stupende spiagge e restare poveri (e lo vediamo ancora oggi). Da qui l’idea che questo flusso periodico (annuale) di merci sia il vero indicatore della ricchezza di un Paese, di una impresa, di una famiglia. E quindi che la ricchezza sia legata alla quantità.

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Il valore delle cose (e delle persone)

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Che cosa significa camminare insieme in economia oggi?  Il pianeta è un primo destinatario del Sinodo, perché per troppo tempo gli esseri umani hanno camminato, troppo velocemente, senza portare con sé la natura e il pianeta.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 13/01/2022

Il cammino sinodale aperto dalla Chiesa Italiana potrebbe avere significativi effetti anche per l’economia ed è bene che ce li abbia, perché un evento ecclesiale così importante che non arrivi a cambiare anche la vita economica, che è quella dove si addensano le maggiori opportunità e le maggiori ingiustizie, vedrebbe ridurre di molto la sua portata, oltre al fatto che ciò impedirebbe che questa grazia collettiva diventi veramente storia. Sinodo significa in greco «camminare insieme», ed è quindi una parola che sottolinea il valore della comunione all’interno della comunità ecclesiale.

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Ma che cosa significa camminare insieme in economia oggi? Il pianeta è un primo destinatario del Sinodo, perché per troppo tempo gli esseri umani hanno camminato, troppo velocemente, senza portare con sé la natura e il pianeta. E così l’oikonomia del pianeta si è allontanata dall’economia degli umani, sono diventate nemiche. La seconda è cresciuta a scapito della prima e si è spezzato quell’ordine della creazione impresso da sempre nelle cose. Quindi la dimensione ecologica, l’ecologia integrale, è un altro nome di questo Sinodo che perciò va letto insieme al magistero di papa Francesco, al movimento dei Fridays for Future, alla Laudato si’. O questo Sinodo sarà integralmente ecologico, o non sarà, come ci ha insegnato san Francesco col suo Cantico cosmico.

Inoltre «camminare insieme» deve portare a un cambiamento sull’inclusione degli scartati dal sistema capitalistico, di coloro che non riescono a reggere il passo sfrenato della nostra economia: anche questa è ecologia integrale, dove il grido della Terra e il grido del povero sono lo stesso grido. Un obiettivo che va cercato non solo e non tanto accelerando il passo di chi è rimasto indietro, ma rallentando quello di chi è avanti, perché la Terra non regge più l’impronta ecologica dell’uomo sfrenato.

Un Sinodo per l’economia, per gli economisti, per il lavoro e le imprese, deve dunque diventare conversione a forme di produzione più partecipative perché sinodalità può e deve diventare anche una parola dell’economia.Infine il Sinodo dovrebbe condurre l’Italia (e non solo) a un consumo di beni e servizi capaci di camminare insieme alla giustizia, alla lotta alle miserie e alla fame nel mondo. Non è più tollerabile che una parte del mondo spenda per dimagrire e per curare le malattie del sovrappeso una cifra ormai vicina a quella che servirebbe all’altra parte del mondo per sopravvivere e condurre una vita decente.

Abbiamo riempito il pianeta di merci (la massa totale delle costruzioni umane ha ormai superato la biomassa totale della natura), spesso l’abbiamo fatto più bello con i nostri manufatti, ma non sarà mai abbastanza bello se non impareremo finalmente a camminare insieme. Se questo processo sinodale non darà vita anche a una economia diversa da questa attuale, i suoi effetti saranno di gran lunga ridimensionati, perché una vita ecclesiale che non abbraccia anche l’economia, le imprese, le banche e il lavoro è troppo piccola, tradisce la Bibbia e il Vangelo, e non riesce a cambiare il mondo. 

Oggi l’economia è la nuova grammatica sociale e se il cristianesimo vuole continuare la sua tradizione sociale e civile deve fare di tutto perché i cristiani, come singoli e come comunità, non distolgano mai lo sguardo dagli effetti economici della loro fede, perché il primo «camminare insieme», il primo bisogno di unità e di comunione, è quello tra le varie dimensioni della nostra vita cristiana che non devono più camminare separate le une dalle altre. 

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA 

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Che cosa significa camminare insieme in economia oggi?  Il pianeta è un primo destinatario del Sinodo, perché per troppo tempo gli esseri umani hanno camminato, troppo velocemente, senza portare con sé la natura e il pianeta.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 13/01/2022

Il cammino sinodale aperto dalla Chiesa Italiana potrebbe avere significativi effetti anche per l’economia ed è bene che ce li abbia, perché un evento ecclesiale così importante che non arrivi a cambiare anche la vita economica, che è quella dove si addensano le maggiori opportunità e le maggiori ingiustizie, vedrebbe ridurre di molto la sua portata, oltre al fatto che ciò impedirebbe che questa grazia collettiva diventi veramente storia. Sinodo significa in greco «camminare insieme», ed è quindi una parola che sottolinea il valore della comunione all’interno della comunità ecclesiale.

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Sinodo, ovvero economia integrale

Sinodo, ovvero economia integrale

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Un solo uomo vale più di ogni capitale, la sua vita non è misurabile con il metro economico.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 29/12/2021

Mi ha sempre colpito e incuriosito l’episodio narrato da Marco (5,1-20) dell’indemoniato di Gerasa: Gesù lo guarisce, mandando il suo demone plurale («legione») in una mandria di duemila porci, i quali poi si gettano in un lago dove muoiono tutti, provocando la protesta dei loro proprietari che pregano il Messia di andarsene. Forse Marco inserì il materiale che narrava l’episodio di un esorcismo di Gesù particolarmente difficile e spettacolare in un fatto analogo avvenuto nella zona (una mandria di porci suicidatasi nel lago). Il dettaglio dei duemila porci, però, è importante.

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Ciò che sembra colpire gli abitanti di Gerasa e i mandriani non è tanto la guarigione dell’indemoniato, ma il suicidio collettivo dei maiali. Ed è a causa di questa perdita patrimoniale (i maiali erano un «asset» essenziale nell’economia del tempo) che i proprietari implorano Gesù di andarsene. Siamo all’interno di un conflitto anche economico-patrimoniale. Come accadrà a Efeso (At 19,27) con Demetrio, che costruiva tempietti di argento e oro di Artemide: Gesù, gli apostoli e il loro messaggio entrano in conflitto con i patron dell’economia locale.

L’arrivo del Vangelo si annuncia come una minaccia concreta per i loro affari. Non capiamo infatti l’ostilità nei confronti di Gesù e poi della Chiesa primitiva senza considerare gli effetti diretti e collaterali che il suo messaggio produceva nell’economia. Ormai gli storici sono concordi nell’individuare nelle dimensioni economiche una delle cause del triste epilogo della storia di Gesù, il quale, criticando radicalmente l’industria del tempio e i ricchi, ed esaltando i poveri, si mise contro i principali interessi della sua società, soprattutto quelli del tempio.

In questo episodio Marco ci dice che per Gesù una sola anima salvata è più importante del valore economico di una enorme mandria di animali. Un solo uomo vale più di ogni capitale, la sua vita non è misurabile con metro economico. L’aver voluto riportare la reazione dei proprietari della mandria ci rivela allora una intenzione esplicita di Marco: voler mettere in luce anche questo conflitto socio-economico. Gesù non era criticato e perseguito soltanto da scribi e farisei, non era amato neanche dai padroni, dai proprietari terrieri, dai possessori di capitali mobili e immobili, che diventano alleati impliciti dei demoni.

Colpisce, infatti, che le due categorie che si rattristano del miracolo di liberazione di Gesù sono «i demoni e i padroni dei porci», i quali, insieme, gli dicono di andarsene via. I proprietari gli chiedono «con insistenza» di andare via; i demoni lo implorano «con insistenza» che «non li cacciasse fuori dal paese». La stessa insistenza, per salvare un contratto di mutuo vantaggio tra demoni e porci: ci sono padroni dei capitali che preferiscono la coabitazione coi demoni all’arrivo del Vangelo, perché sanno che i loro capitali potrebbero continuare a esistere e a produrre rendite anche ospitando al loro interno i demoni; sono disposti a tutto, anche a vendere l’anima al diavolo, pur di non rinunciare ai loro interessi.

Meglio dunque vivere in co-abitazione con i demoni che dover condividere le ricchezze con i poveri. Anche perché, mentre Dio e mammona sono incompatibili, ricchezze e demoni stanno molto bene assieme, e i capitalisti hanno sempre sperato di poter mettere a reddito anche il demonio. Ma non sanno che qualche volta i porci si gettano nel mare, perché la forza della Parola che libera è più grande degli interessi. Spesso non lo vediamo. Questo racconto ci dice che l’ultima parola sulla vita non sarà quella del capitale.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA 

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Un solo uomo vale più di ogni capitale, la sua vita non è misurabile con il metro economico.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 29/12/2021

Mi ha sempre colpito e incuriosito l’episodio narrato da Marco (5,1-20) dell’indemoniato di Gerasa: Gesù lo guarisce, mandando il suo demone plurale («legione») in una mandria di duemila porci, i quali poi si gettano in un lago dove muoiono tutti, provocando la protesta dei loro proprietari che pregano il Messia di andarsene. Forse Marco inserì il materiale che narrava l’episodio di un esorcismo di Gesù particolarmente difficile e spettacolare in un fatto analogo avvenuto nella zona (una mandria di porci suicidatasi nel lago). Il dettaglio dei duemila porci, però, è importante.

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Prima l’uomo, poi il capitale

Prima l’uomo, poi il capitale

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Se l’economia vuol veramente evolvere verso il sostenibile, deve diventare meno animale e più vegetale.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio l'11/11/2021

«Transizione ecologica» è un mantra del nostro tempo. Quasi sempre, però, la transizione ecologica viene ridotta a un problema tecnologico, politico, magari giuridico e di comportamenti dei cittadini, senza mettere in discussione il paradigma economico che ha generato i disastri ambientali che stiamo osservando e subendo. L’economia, teorica e pratica, degli ultimi due secoli ha seguito un paradigma animale. Nel pensare alle imprese, in particolare, le ha immaginate come un uomo, o un cervo: il cervello, da cui tutto dipende, la divisione degli organi che corrisponde alla divisione delle funzioni. Velocità di spostamento di fronte alle crisi (incendio, carestie, pericoli), come sanno ben fare gli animali, e gerarchia tra i vari organi.

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Ma la logica animale non è l’unica che esiste sulla Terra. La grande quantità della vita sul pianeta è composta anche dalle piante. Le piante – circa cinque milioni di anni – hanno seguito una strategia evolutiva diversa: hanno «scelto» di stare ferme, ancorate al suolo. Questa opzione fondamentale ha determinato il diverso sentiero evolutivo delle piante e indirettamente degli animali. Le piante, infatti, hanno dovuto imparare a conoscere perfettamente l’ambiente dove erano fissate, a sviluppare fino a venti sensi per misurare e monitorare tutto attorno a esse, perché se passi tutta la vita nello stesso luogo, quel luogo lo devi conoscere perfettamente.

E siccome gli animali vivevano mangiando le piante, esse hanno dovuto sviluppare una grande resilienza, che le aiutasse a resistere e a continuare a vivere anche quando perdevano gran parte del loro corpo – una pianta può continuare a vivere anche perdendo l’80-90 per cento del proprio corpo –. E non avendo né cervello né organi, hanno dovuto imparare a pensare, vedere, sentire, comunicare con tutto il corpo, valorizzando soprattutto le periferie, le zone più a contatto con l’ambiente. Soprattutto hanno dovuto imparare a vivere in perfetta cooperazione con tutto il bosco, perché un albero sopravvive se sviluppa rapporti di mutualità con il bosco intero.

L’economia moderna ha raggiunto risultati sbalorditivi in termini di ricchezza, grazie alla sua velocità e alla sua capacità predatoria (spostarsi di fronte a un problema in cerca di nuove risorse). Non ha certo seguito le piante nel loro essere ancorate al suolo, nel loro vedere, pensare, agire con tutto il corpo. E così è stata più vulnerabile: se colpisci un’impresa alla testa o al cuore, l’impresa muore (basta vedere che cosa accade spesso quando il fondatore va in pensione). Se l’economia vuol veramente evolvere verso il sostenibile, deve diventare meno animale e più vegetale. Meno gerarchia e più potere distribuito, meno velocità, meno spostamenti fisici di persone e di merci, più ancoraggio al territorio, più capacità di pensare e di vedere con tutto il corpo.

Le cooperative avevano tentato un’organizzazione vegetale (territorio, poca gerarchia, ogni socio è centro), ma nella competizione globale hanno prevalso le grandi multinazionali. Il XXI secolo vedrà grandi cooperative orizzontali e vegetali, una slow economy legata al territorio, organizzazione piatte capaci di vedere, pensare, udire con tutto il corpo. Se non accadrà, la green economy sarà l’ennesima verniciatura che non cambia la natura del modello economico. Impariamo dalle piante e dalla loro intelligenza: sono accanto a noi da milioni di anni, ma non le abbiamo viste veramente. Per vederle dobbiamo rallentare la nostra corsa sfrenata, fermarci, guardarle, capire, e poi imparare. 

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA 

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Se l’economia vuol veramente evolvere verso il sostenibile, deve diventare meno animale e più vegetale.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio l'11/11/2021

«Transizione ecologica» è un mantra del nostro tempo. Quasi sempre, però, la transizione ecologica viene ridotta a un problema tecnologico, politico, magari giuridico e di comportamenti dei cittadini, senza mettere in discussione il paradigma economico che ha generato i disastri ambientali che stiamo osservando e subendo. L’economia, teorica e pratica, degli ultimi due secoli ha seguito un paradigma animale. Nel pensare alle imprese, in particolare, le ha immaginate come un uomo, o un cervo: il cervello, da cui tutto dipende, la divisione degli organi che corrisponde alla divisione delle funzioni. Velocità di spostamento di fronte alle crisi (incendio, carestie, pericoli), come sanno ben fare gli animali, e gerarchia tra i vari organi.

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Impariamo dalle piante

Impariamo dalle piante

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L’aumento dell’invidia sociale è soprattutto segnale di un deterioramento della nostra vita democratica: e questo deve preoccuparci davvero molto.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 19/10/2021

«Il commercio ha insegnato alle nazioni a vedere con benevolenza la ricchezza e la prosperità l’una dell’altra. Prima il cittadino desiderava che tutti gli altri paesi fossero deboli, poveri e mal governati, tranne il proprio: ora vede nella loro ricchezza e progresso una fonte diretta di ricchezza e di progresso per il proprio paese» (J.S. Mill, Principles of Political Economy, 1848). Questa frase del grande economista e filosofo inglese è tra le più belle definizioni di cosa sia veramente il mercato, quando ci liberiamo dalle ideologie di ieri e di oggi e lo guardiamo come economia civile, dove dunque la possibilità di scambiare e produrre è una forma della libertà dei moderni e un mezzo di incivilimento.

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Questa filosofia è stata non solo quella dei mercanti fiorentini, ma ha ispirato anche i primi frati francescani. Se infatti volessimo sintetizzare in una battuta in che cosa consistette la novità etica alla radice della nascita dell’economia di mercato in Europa, potremmo dire: la trasformazione dell’invidia in benevolenza. La ricchezza degli altri, che nel mondo antico e alto medievale era occasione di invidia, di rabbia sociale e quindi di violenza, attorno al XIII secolo iniziò a diventare qualcosa di positivo. Il commercio divenne il primo meccanismo che può operare la trasformazione dell’invidia in benevolenza.

Se esiste la possibilità di scambiare con chi è più ricco di me, allora posso orientare una parte della sua ricchezza a mio vantaggio. Un commercio che da faccenda limitatissima, marginale ed eticamente sospetta, divenne così nel Trecento arte civile e ben vista da tutti. Il commercio divenne civil mercatura, grazie a un grosso lavoro teologico, soprattutto dei maestri francescani e dei domenicani. Senza l’improbabile e imprevista alleanza tra l’altissima povertà dei francescani e la civil ricchezza dei mercanti non avremmo avuto i miracoli economici, sociali, religiosi e artistici dell’ultimo medioevo, dell’umanesimo, e oggi l’Italia e l’Europa sarebbero molto più povere.

Ma questa grande e buona trasformazione dell’invidia, sentimento naturale, non è solo una buona legge economica, è la regola aurea della vita in comune. Che impariamo ad apprendere a scuola, quando capiamo che se io non sono il più bravo della classe, invece di invidiare chi è più bravo di me è bene cercare di studiare con lui o lei. E poi nel mondo del lavoro, dentro il nostro ufficio, fare dei colleghi più bravi nostri alleati per crescere insieme, e trasformare così l’energia negativa e distruttiva dell’invidia, l’unico vizio non associato a un piacere ma a un dolore. Educare i giovani all’anti-invidia significa educarli alla cooperazione.

Finché siamo in una società bloccata, dove i figli dei poveri saranno quasi sicuramente poveri anche loro, vedere la ricchezza degli altri ci procura solo delle emozioni negative, tra queste l’invidia, perché non riusciamo a vedere nulla di buono per noi nella ricchezza degli altri. Quando aumenta la mobilità sociale, quando il ragazzo oggi più povero ha buone speranze che, se si impegna e lavora duro, domani potrà vivere meglio, allora le ricchezze degli altri (almeno una parte) diventano emulazione e imitazione di quelle virtù che le hanno generate.

Ecco perché dobbiamo rattristarci e protestare per un’Italia dove diminuisce la mobilità sociale, dove la probabilità di fare oggi una vita migliore di quella che hanno fatto i propri genitori è in calo rispetto alla generazione passata. Abbiamo curato l’invidia con la democrazia. Allora l’aumento dell’invidia sociale è soprattutto un segnale di un deterioramento della nostra vita democratica: e questo deve preoccuparci davvero molto.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA 

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di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 19/10/2021

«Il commercio ha insegnato alle nazioni a vedere con benevolenza la ricchezza e la prosperità l’una dell’altra. Prima il cittadino desiderava che tutti gli altri paesi fossero deboli, poveri e mal governati, tranne il proprio: ora vede nella loro ricchezza e progresso una fonte diretta di ricchezza e di progresso per il proprio paese» (J.S. Mill, Principles of Political Economy, 1848). Questa frase del grande economista e filosofo inglese è tra le più belle definizioni di cosa sia veramente il mercato, quando ci liberiamo dalle ideologie di ieri e di oggi e lo guardiamo come economia civile, dove dunque la possibilità di scambiare e produrre è una forma della libertà dei moderni e un mezzo di incivilimento.

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