Imparare a sostare e a vedere

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L'esilio e la promessa/15 - La parola può farci scorgere Dio e, prima ancora, le donne e gli uomini

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/02/2019

In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito

Ignazio Silone, Fontamara

Paternità, figliolanza e matrimonio sono immagini presenti in molte religioni per esprimere il rapporto tra i popoli e le loro divinità. Anche la Bibbia le conosce, ma le usa con molta parsimonia. Perché l’urgenza di segnare la differenza tra YHWH e gli idoli ha generato una forte diffidenza verso le immagini umane per poter parlare di Dio. Il Cristianesimo ha poi generato forse l’innovazione religiosa più grande quando ci ha mostrato un uomo-Dio che chiamava YHWH con l’appellativo familiare di Abbà: babbo. Ma cadremmo nello stesso errore dei cananei e dei caldei se pensassimo che la paternità di Dio mostrataci da Gesù Cristo sia una copia della paternità umana. Le somiglia soltanto, come noi somigliamo a Dio di cui siamo "immagine e somiglianza"; una formula che dice vicinanza e distanza, entrambe massime. Molte malattie religiose si sono sviluppate da una distanza troppo grande che ha annullato la vicinanza, e altre da una eccessiva vicinanza che ha fatto di Dio qualcosa di talmente simile a noi da renderlo banale o inutile.

Ezechiele ci ha abituato a un linguaggio che non ha paura di attraversare anche il territorio scivoloso delle metafore sessuali per parlarci di Dio: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: Figlio dell’uomo, vi erano due donne, figlie della stessa madre, che si erano prostituite in Egitto fin dalla loro giovinezza, dove venne premuto il loro seno e compresso il loro grembo vergineo. Esse si chiamano Oolà la maggiore e Oolibà la più piccola, sua sorella. L’una e l’altra divennero mie e partorirono figli e figlie. Oolà è Samaria e Oolibà è Gerusalemme» (Ezechiele 23,1-4).

Osea e Geremia avevano già introdotto metafore sponsali. Lo stesso Ezechiele (cap. 16) ci aveva narrato la storia di infedeltà del popolo nei confronti del suo Dio ricorrendo all’immagine della fanciulla, vista e scelta quando era giovane e povera e più tardi pervertitasi in prostituta. Qui però Ezechiele osa quasi l’impensabile: non più una donna scelta da giovane e che poi si guasta, ma due donne scelte quando erano già prostitute. Non leggiamo soltanto che YHWH sposa ("divennero mie") due donne, quindi ricorrendo all’immagine di matrimonio poligamico che agli ebrei era proibito (Lev. 18,18); ma YHWH sposa in contratto poligamico due sorelle prostitute, un fatto enorme e sorprendente, un unicum in tutta la letteratura biblica. Al di là delle interpretazioni delle motivazioni della radicalità di questo capitolo di Ezechiele, la parabola del matrimonio tra YHWH e due prostitute ci parla molto, ci deve parlare molto.

Innanzitutto ci ricorda ancora una volta che Israele non ha avuto nessuna paura di ricostruire e tramandare una storia poco gloriosa e a tratti anche vergognosa. In particolare i profeti, e tra questi soprattutto quelli che hanno vissuto e profetizzato nel periodo dell’esilio (Geremia, il secondo Isaia e Ezechiele), hanno avuto la forza spirituale di raccontare la storia del proprio popolo denudata da qualsiasi ideologia trionfalista e nazionalista. Sono stati spietati, non hanno emendato nessuna pagina buia e scandalosa del loro passato (e presente). E così l’hanno salvato, e continuano a salvare noi che oggi li leggiamo dentro i nostri esili e tragedie. "La verità rende liberi", è un pilastro dell’intero umanesimo biblico, soprattutto dei profeti.

Quando dentro un esilio o alla vigilia di una grande tragedia collettiva, nelle comunità qualcuno si ritrova con una missione profetica, riesce a salvare davvero il suo popolo se resiste alla tentazione di cancellare e riscrivere i brani meno edificanti del passato al fine di interpretare ideologicamente il presente. I falsi profeti, al fine di vendere scenari presenti e futuri migliori hanno un’assoluta necessità di emendare e tradire il passato, perché sono incapaci di leggere i paradisi dentro gli inferni, l’alba dentro l’imbrunire, il tramonto nel mezzodì. I profeti-non-falsi, invece, fanno esattamente l’opposto. Mentre dicono "questa storia è finita", sanno dire: "ma... non è finita la storia". Mentre ripetono: "abbiamo fatto cose tremende, scandalose e pazzesche", riescono ad aggiungere: "ma ... un resto si salverà e farà ancora cose buone e fedeli". Mentre ci ricordano: "siamo testardi e inconvertibili", ci dicono: "ma YHWH è fedele e resta fedele".

E noi non dobbiamo commettere l’errore di pensare che i profeti siano dominati da un pessimismo antropologico perché ricordano sempre i peccati del popolo. Questa sarebbe soltanto una lettura superficiale e sbagliata. Loro cantano la bellezza dell’uomo proprio mentre ne vedono e denunciano tutta la sua miseria. La positività e la fiducia infinita che i profeti hanno verso il loro Dio diventa immediatamente positività e fiducia verso l’uomo. Parlandoci bene di Dio ci parlano bene di noi, anche quando ci parlano solo di infedeltà e tradimenti. È questa la forza straordinaria della categoria dell’alleanza biblica e delle alleanze vere tra di noi. Finché qualcuno tiene forte un capo della corda, ben piantato sulla sua roccia (chi più ben piantato di YHWH?), se siamo legati in cordata non precipitiamo nel vuoto. La Bibbia ci mostra questa ferrata millenaria, fatta di nostri scivoloni continuamente salvati da qualcuno che non ha mollato, e che continua a non mollarci. La forza del messaggio biblico sta tutta in questa tenacia; e i profeti non ci amano perché ci nascondono i nostri (e loro) scivoloni, ma perché ci assicurano che lassù, dal lato più alto della roccia, ben fisso nelle sue cenge, c’è qualcuno che tiene la corda anche per noi. Qualcuno di cui noi siamo "immagine e somiglianza", e allora siamo capaci anche noi di tenere, a volte per tutta la vita, una corda per salvare qualcuno, per salvarne almeno uno. Quella frase, stupenda e temeraria, scritta nel primo capitolo della Genesi – "E Elohim creò l'uomo a sua immagine e somiglianza" – è il filo che tiene assieme teologia e antropologia, che ci consente di estendere agli uomini le cose stupende che la Legge i profeti dicono di Dio. Un laccio tra cielo e terra che impedirà per sempre di maledire l’uomo finché qualcuno continuerà a benedire Dio, che riverbererà sugli uomini ogni salmo indirizzato a Dio.

Infine, questo capitolo ci deve generare un pensiero sulle donne e sulle vittime che troviamo nella Bibbia. La Bibbia è stata scritta (forse) soltanto da maschi, e anche se una mano di donna avesse dato qualche tocco, non è stata la mano dominante. Questi uomini, però, sono stati capaci di scrivere pagine stupende sulle donne e sul loro genio (alcune le abbiamo incontrate nel commento ai libri di Samuele). Ma ora, leggendo questa parabola delle due sorelle prostitute, scelte come immagine e simbolo della perversione di Israele e Giuda, è difficile non pensare alle molte parole cattive sulle donne che pur troviamo nella Bibbia, che ci interrogano e ci mettono in crisi.

In ogni tempo, incluso quello di Ezechiele, le prostitute, quelle profane e quelle sacre dei templi cananei e babilonesi, erano delle vittime di un mondo di maschi e di potenti che le generava al fine di soddisfare propri bisogni e vizi. Sarebbe stato molto più fedele al dato storico se Ezechiele avesse utilizzato l’immagine di maschi infedeli che tradivano le loro mogli con altre donne costrette dalla vita, dalla povertà e da uomini a prostituirsi. E invece il profeta ci descrive la vita, l’abbigliamento, il commercio e le punizioni di prostitute babilonesi, che avrà visto ogni giorno lungo le strade. E un redattore successivo, meno profetico ma più moralista di Ezechiele, fuoriesce dalla metafora per lanciare addirittura un monito alle donne del suo popolo: «Tutte le donne impareranno a non commettere infamie simili» (23,48). Non ci dobbiamo stupire; la Bibbia è stata da sempre oggetto di operazioni manipolative, è questa una grande inevitabile vulnerabilità di ogni grande testo – ancora oggi ci sono commentatori che utilizzano la parabola dei talenti di Matteo, narrata non di certo per parlarci di economia e di finanza, per una sacralizzazione della meritocrazia e dello spirito del capitalismo.

Come possiamo e dobbiamo leggere, allora, questi passi dove delle vittime vengono erette a icone di peccato e perversione? Non possiamo certo chiedere troppo alla Bibbia sul piano sociale e antropologico, dimenticando il contesto culturale nel quale quei testi sono stati detti e scritti. Ma non dobbiamo neanche chiederle troppo poco, e quindi attraversare questi capitoli senza vedere né "toccare" le vittime che incontriamo. Ezechiele poteva farlo e restare innocente. Noi no: noi dobbiamo dire da quale parte vogliamo stare mentre leggiamo le storie della Bibbia, se vogliamo farla restare tra le cose vive della terra e del nostro cuore.

E allora mentre leggiamo la punizione che YHWH infliggerà alle prostitute per le loro infedeltà – «Ti taglieranno il naso e gli orecchi e i superstiti cadranno di spada; deporteranno i tuoi figli e le tue figlie e ciò che rimarrà di te sarà preda del fuoco» (23,25) –, possiamo e dobbiamo pensare a quelle mutilazioni e a quelli sfregi del volto che i maschi babilonesi eseguivano sul corpo delle donne e che tanti uomini continuano ancora ad eseguire. Poi ripetere: "mai più", e quindi adoprarsi affinché l’esercizio fatto nella lettura biblica diventi immediatamente esercizio civile ed etico. Chissà quanti redentori e redentrici di donne e uomini violentati sono scesi nelle strade dopo aver letto, con la loro carne, una pagina biblica; e lì, nell’incontro vero con le vittime, hanno trovato soltanto innocenza e infinito dolore. La forza della parola sta in questa capacità di cambiarci lo sguardo, di farci vedere diversamente Dio e, prima ancora, di farci vedere diversamente le donne e gli uomini. È una educazione degli occhi dell’anima, che ci rende capaci di ripetere nei vari incontri dentro e fuori la Bibbia: "E guardatolo, lo amò".

In questi anni di commento alla Bibbia sto imparando a vedere e a guardare le sue vittime. Quando le incontro rallento, mi raccolgo, arresto il passo. Per guardarle, per stare con loro, per farmi toccare e arricchire, e poi desiderare di liberarle dal loro inferno.

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