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Economia Civile

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Oggi economia e mercato sono dominati dall’idea della fortuna: si ha successo per carisma personale e per coincidenze favorevoli. Invece l’imprenditore sa che è la speranza il motore dell’impresa: perché crea relazione e determina certezza nella rendita dei talenti.

Speranza: la virtù che muove il business nella stagione della crisi

di Luigino Bruni

pubblicato sul settimanale Vita del 7 gennaio 2011

Logo_virtu_newAnche se può apparire strano, la speranza è, o in ogni caso deve essere, una virtù del mercato. La speranza, come è noto, è una virtù, in particolare una virtù teologale, insieme alla fede e alla carità, poiché queste virtù in un certo senso e nella tradizione occidentale e cristiana fondano le altre virtù (coraggio, temperanza, fortezza, prudenza …).

 

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La speranza, ad esempio, è una delle principali virtù che deve possedere l’imprenditore. L’imprenditore inizia una impresa, una nuova attività economica, se spera che il mondo di domani sarà complessivamente migliore di quello di oggi, che i 100 investiti oggi possono diventare 101, 105 domani.

 Chi dà vita ad una impresa, e non è soltanto uno speculatore di breve periodo, è come un vecchio che pianta una quercia, poiché sa di iniziare un’opera sulla speranza che  i suoi frutti andranno al di là e oltre a sua persona.  Se invece non sperasse ciò, farebbe meglio a godersi le sue risorse, o a fare lo speculatore. Ecco perché la speranza è legata alla fiducia (fede, fides), poiché senza la fede nella vita e nel futuro non si inizia una impresa. E si comprende perché i caratteri dell’imprenditore siano l’ottimismo, il pensiero positivo, lo sguardo generoso sul mondo, tutte espressioni della virtù della speranza.

Inoltre, la virtù della speranza si mostra in tutta la sua importanza nei momenti di crisi, nelle lunghe fasi di stallo, di difficoltà, di calunnie, di sospensioni, di tradimenti. Chi ha generato un’impresa sa che i momenti più importanti della sua storia sono stati quelli nei quali è stato capace di speranza contro gli eventi, contro i consigli degli amici (“ma chi te lo fa fare?”, “sei troppo ingenuo”, “non esagerare …”), contro le previsioni degli esperti, quando ha avuto la forza di sperare, di insistere nel suo progetto, di perseverare nel credere (fede) nella sua idea e nel suo “daimon” socratico., camminando per anni sul crinale del baratro.

La speranza è quindi una virtù, e come ogni vera virtù è sempre alternativa alla fortuna. La grande cultura occidentale nasce in Grecia (con Socrate soprattutto) quando si scoprì e si affermò l’esistenza di una lotta tra la felicità e la fortuna. Nel mondo antico la felicità era infatti legata alla fortuna: i filosofi greci, in uno dei momenti epocali della storia umana, capirono che stava iniziando l’era degli uomini, che potevano quindi essere liberati dalla dea bendata, dalla sorte, e iniziare ad essere veramente responsabili del proprio destino. Lo strumento di questa liberazione fu proprio la virtù (areté, che significa eccellenza, la stessa radice che troviamo in altre parole, come artista o acrobata), poiché solo l’uomo virtuoso può diventare felice, anche contro la cattiva sorte. L’idea che nasce in questo periodo straordinario della storia umana è che il principale protagonista della mia felicità (e infelicità) sono proprio io, non gli eventi, che certamente hanno un peso nel mio benessere, ma non sono mai decisivi nel determinare la qualità della vita, che invece dipende dalla virtù, dalla capacità di far emergere la capacità di eccellenza, che è in ogni persona, e in ciascuno a suo modo. La virtù batte la fortuna.

L’etica del mercato, in particolare l’etica imprenditoriale, nasce proprio affermando che sono l’innovazione, la responsabilità, il lavoro i protagonisti del successo della nostra opera, non la fortuna. Ed ecco perché questa cultura della virtù deve oggi resistere in un mondo che sottolinea soprattutto la fortuna, le lotterie, i gratta e vinci, i giochi, i superenalotto (è impressionante l’invasione di giochi d’azzardo in rete, in TV, negli sponsor delle squadre di calcio …).
La speranza è allora una virtù perché non ripone il ritorno del proprio investimento e della propria intelligenza nella fortuna, ma nelle virtù (eccellenza) proprie, dei propri collaboratori e di tutti i soggetti del mercato (non dobbiamo mai dimenticare che il successo di un imprenditore dipende anche dalla virtù dei propri fornitori, clienti, ma anche dei propri concorrenti, e del sistema economico nel suo insieme). La speranza non è quindi la fortuna, ma è virtù.

Infine la speranza è una virtù eminentemente sociale: si spera nelle persone: nel collega Mario, nel fornitore Giovanna, nel concorrente Andrea; la speranza non è infatti mai generica, verso ignoti, o negli eventi aleatori. La speranza è un bene relazionale, è l’investimento in un rapporto, in tanti rapporti. Per questo la speranza, come tutte le virtù sociali (fraternità, fiducia, reciprocità, philia …) è fragile e vulnerabile, poiché non controllo mai la risposta dell’altro, e posso solo “sperare” nella sua reciprocità, senza le garanzie dei contratti. Ma, a pensarci bene, la vulnerabilità è la condizione più profonda dell’umano, e se l’economia è un pezzo di vita, deve saper convivere con la vulnerabilità, con la coscienza che in questa buona vulnerabilità nei confronti degli altri si nascondono molte delle cose più belle della vita, come il perdono, la riconciliazione, la gratuità, l’incontro libero e non gerarchico con gli altri, la vera stima e il riconoscimento, la gratitudine sincera, tutti beni da cui dipende molto del benessere delle persone, comprese quelle persone che chiamiamo imprenditori, che producono benessere (e non solo ricchezza) quando sono capaci di virtù, di eccellenza relazionale, coltivatori di speranza.

vedi articolo

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Speranza: la virtù che muove il business nella stagione della crisi

di Luigino Bruni

pubblicato sul settimanale Vita del 7 gennaio 2011

Logo_virtu_newAnche se può apparire strano, la speranza è, o in ogni caso deve essere, una virtù del mercato. La speranza, come è noto, è una virtù, in particolare una virtù teologale, insieme alla fede e alla carità, poiché queste virtù in un certo senso e nella tradizione occidentale e cristiana fondano le altre virtù (coraggio, temperanza, fortezza, prudenza …).

 

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Le Virtù del mercato: La speranza

Oggi economia e mercato sono dominati dall’idea della fortuna: si ha successo per carisma personale e per coincidenze favorevoli. Invece l’imprenditore sa che è la speranza il motore dell’impresa: perché crea relazione e determina certezza nella rendita dei talenti. Speranza: la virtù che muove il ...
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Editoriale

di Luigino Bruni

pubblicato sul settimanale Vita del 10 dicembre 2010

Logo_VitaVista nel suo insieme, e soprattutto se analizzata in rapporto alla stasi e alla confusione nelle quali versa da decenni l’università italiana, la riforma Gelmini è un evento importante, e introduce tanti elementi innovativi e positivi, soprattutto l’enfasi sulla qualità, sulla valutazione delle performances dei professori, e una maggiore efficienza complessiva del sistema. Ci sono però alcune questioni di fondo sulle quali c’è bisogno di riflettere di più.

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Un punto fondamentale che va sottolineato è che le università non sono soltanto né principalmente centri di ricerca o comunità di accademici: le università sono ancora soprattutto delle scuole, cioè comunità di docenti, studenti, personale amministrativo, persone.
L’attuale riforma, con la doverosa maggiore enfasi sulle pubblicazioni di alta qualità scientifica dei docenti ai fini della loro carriera e del loro stipendio, può distrarre queste comunità accademiche dalla didattica e dal rapporto tra docenti e studenti.

Un docente universitario è chiamato a svolgere più funzioni, in particolare tre: didattica (lezioni, tesi, ricevimento studenti), attività organizzativa (riunioni, consigli, commissioni …) e ricerca (pubblicazioni, convegni, seminari, esperimenti, raccolta dati). Guardando il testo della riforma, e i dibattiti che l’accompagnano, emerge con forza che quasi tutta l’attenzione è rivolta, di fatto, alla terza funzione, anche perché è una dimensione che in Italia, soprattutto in alcune discipline, è troppo trascurata. Ma ci sono dei pericoli latenti. Già nell’attuale vita accademica gli incentivi per la ricerca sono molto alti rispetto a quelli per il miglioramento della didattica. Un concorso da professore ordinario, ad esempio, dipende totalmente dalle sue pubblicazioni, e per nulla dalla qualità della sua didattica e dal rapporto con gli studenti.

Si potrebbe obiettare che questa riforma dedica molta attenzione anche alla valutazione della qualità della didattica sulla base della quale verranno assegnate parte delle risorse agli atenei. Certo, ma il problema consiste nel sistema di incentivi e nella loro compatibilità: il docente ha incentivi individuali forti a preferire la ricerca, mentre l’incentivo per la qualità della didattica è in capo agli atenei; il problema chiave è allora come allineare questi due incentivi divergenti.

La ricerca è importante, ma la didattica non lo è meno, perché forse più della ricerca dice la natura comunitaria e relazionale di ogni scuola e ci ricorda il patto formativo che è alla base di ogni scuola, anche di quelle universitarie. Anche perché sarebbe molto triste se in tutta  questa enfasi sul merito e sulla meritocrazia ci si dimenticasse di una componente affatto secondaria anche nelle nostre università del futuro: gli studenti.

vedi articolo

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Editoriale

di Luigino Bruni

pubblicato sul settimanale Vita del 10 dicembre 2010

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Riforma università, rimettere al centro la didattica

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Il mercato oggi è considerato non morale quasi per natura. E la crisi ha accentuato questa percezione. Invece quello che è prevalso è una versione patologica del mercato. Per uscire da questa trappola, bisogna riscoprirne una virtù inaspettata: quella della fraternità

Oltre la crisi: Dall’econo-mia all’econo-nostra. L’individualismo è fuori corso

di Luigino Bruni

pubblicato sul settimanale Vita del 3 dicembre 2010

Logo_virtu_newAbbiamo concluso la puntata della scorsa settimana di fronte ad un bivio, quello che nella storia dei popoli ha spesso indicato da una parte la fraternità e dall'altra il fratricidio. La prima comunità di cui ci parla la grande tradizione ebraico-cristiana, e quindi occidentale, davanti a quel primo bivio scelse il fratricidio:

 "Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu. …  E questo sangue odora come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello: «Andiamo ai campi»” (S. Quasimodo).

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Altre volte, davanti al medesimo bivio, persone, comunità e popoli hanno invece imboccato la direzione della fraternità, spesso dopo esperienze tragiche, come fecero gli italiani nella ricostruzione dopo il fascismo, l'India di Gandhi, il Sudafrica di Mandela. Anche oggi, se vogliamo uscire da questa crisi grande e profonda (ben più che finanziaria o economica, perché crisi delle relazioni interpersonali, politiche, religiose, con la natura) ci stiamo trovando di fronte a questo stesso bivio.

 Siamo ormai decisamente entrati nell'era dei beni comuni (anche se ancora il mondo accademico non se ne è accorto, e nelle facoltà di economia di tutto il mondo ai beni comuni sono dedicati, quando resta tempo, solo pochi accenni), e la fraternità deve diventare anche una virtù del mercato, poiché le classiche virtù del mercato, che sono le virtù individuali della prudenza, dell'innovazione, della responsabilità, dell'indipendenza, etc, non sono più sufficienti. Ma in quale senso la fraternità può e deve diventare allora anche una virtù del mercato? Sono tante le possibili traduzioni del principio di fraternità in economia, e infatti da qualche tempo la parola fraternità inizia ad essere presente anche in riviste scientifiche. Ma quale fraternità? Non certamente la fratellanza di sangue, né quella esclusiva dei legami famigliari e di clan, né la fraternità evocata spesso da comunità chiuse e discriminanti. L'uso del termine fraternità che può e deve diventare anche un principio economico è quello che fa riferimento al trittico dell'Illuminismo europeo, a quella fraternità che venne posta, insieme alla libertà e l'uguaglianza, come i pilastri della nuova Europa, del nuovo patto sociale, al quale mancavano tutti e tre quei principi. Questa fraternità comporta, da parte dei membri di una comunità, il sentirsi parte di un destino comune, di essere uniti da un legame meno esclusivo e elettivo dell'amicizia, ma che però è capace di suscitare sentimenti di simpatia reciproca, e che può e deve esprimersi anche nelle ordinarie transazioni di mercato. Anzi, la costruzione di una economia di mercato era intesa, dagli economisti illuministi, e dagli italiani in modo tutto particolare (Genovesi, Dragonetti, Filangieri), come una precondizione perché la fraternità non restasse un principio astratto ma diventasse prassi quotidiana e generale. Ma come cambia la visione dell'economia e del mercato se prendiamo sul serio la fraternità? come possiamo cioè riconciliare l’idea del mercato visto come fraternità con i meccanismi dei prezzi? Se non rispondiamo a questa domanda, sarebbe come dire che un’economia civile della fraternità è possibile solo per piccole comunità pre-moderne o ai margini dell’economia di mercato ordinaria, un messaggio che non potremmo accettare. Io propongo di chiamare un’interazione di mercato fraterna se è vissuta e rappresentata come un rapporto che rende le parti contraenti un agente collettivo, un team.

Nella visione standard dell'economia, lo abbiamo visto un paio di numeri fa, quella che possiamo far risalire a Smith, quando A scambia con B non ha come intenzione il vantaggio anche di B, ma soddisfa i bisogni di B solo come un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. In un tale approccio il bene comune e quello dell'altro con cui scambio sono effetti non intenzionali. D'alta parte, e come reazione a questa visione troppo poco sociale o fraterna, c'è chi oggi crede che la genuina socialità o fraternità debba invece essere associata a qualche forma di sacrificio da parte di qualcuno o tutti i soggetti dello scambio, e non essere così compatibile con le ordinarie transazioni di mercato.

Sono convinto, invece, che la categoria della fraternità tradotta nella vita economia dovrebbe consentirci di pensare che una relazione di mercato possa essere, al tempo stesso, mutualmente vantaggiosa e genuinamente sociale. La virtù della fraternità consente infatti di superare anche questa visione dualistica (da una parte il mercato, regno del mutuo vantaggio; dall’altra la fraternità, regno del sacrificio), che non ha giovato né al mercato, che a forza di considerarlo non morale lo sta diventando sempre più, né al non-mercato, dove il voler associare la famiglia e l’amicizia alla pura gratuità spesso ha nascosto rapporti di potere, e patologie di ogni genere: basterebbe pensare solo alla questione femminile nelle comunità tradizionali.

Dalla prospettiva della fraternità il contratto di mercato impegna ciascun partner a svolgere la propria parte per raggiungere un obiettivo comune. Questo obiettivo comune è il beneficio congiunto derivante dal contratto, all’interno, ovviamente, dei confini specifici determinati da quella transazione. Ciascuna parte, nel compiere la propria parte del compito, agisce con l’intenzione di partecipare in una combinazione di azioni dirette al beneficio di tutto il “team”. Quindi, quando Andrea (che abbiamo incontrato qualche puntata fa) si rivolge alla pescheria, non è semplicemente prudente e pensa al proprio interesse; ma, dalla prospettiva della fraternità, è come se dicesse a Bruno: “Ti propongo un’azione congiunta che beneficia sia  me che te: tu mi aiuti a soddisfare il mio bisogno di pesce, e io ti aiuto a soddisfare il tuo bisogno di denaro. Facciamo insieme quest’azione congiunta, formiamo questo team temporaneo”. Se si raggiunge l’accordo tra i due, il cliente (Andrea) intenzionalmente vuole che anche il pescivendolo (Bruno) benefici dallo scambio, e viceversa. Quindi, ciascuno ha l’intenzione cosciente di essere utile all’altro. Il mutuo vantaggio (e non solo l'interesse personale) è l'intenzione e il contenuto dello scambio. Questo è un modo per rendere il concetto di fraternità compatibile con un’economia di mercato: a una condizione però, che il team e l'intenzione di beneficiare anche l'altro si creino durante lo svolgimento del contratto, e non è invece un criterio per scegliere il partner del contratto. Ad esempio, non è richiesto alla virtù della fraternità che un cliente scelga un dato fornitore per aiutarlo (magari perché vive un momento di crisi economica). Solo nel momento in cui il contratto viene stipulato il cliente diventa impegnato nel perseguire un obiettivo comune. Quindi, per un esempio, Genovesi (ed io con lui) non consiglierebbe normalmente ad un imprenditore: “scegli il fornitore A perché è in difficoltà economiche, anche se ha prezzi più alti di B”. Una visione fraterna non porta allora alla creazione di economie informali di “amici”, dove si scelgono i partners commerciali per ragioni di “amicizia” – credo che la sfida di esperienze di economia sociale, come l’Economia di comunione o il commercio equo o la banca etica, sia il tener assieme i segnali dei prezzi con un autentico spirito di fraternità. Se invece i due livelli si confondono, e si sceglie il fornitore soltanto o primariamente perché è un “amico” o perché è “parte del progetto”, allora questa fraternità entra in conflitto con le virtù del mercato.

Dalla fraternità vista come paradigma del mercato nasce, infine, anche una diversa idea di concorrenza. La visione oggi dominante tende a vedere la concorrenza tra l'impresa A e l'impresa B come una lotta tra di loro, che ha come effetto non intenzionale la riduzione dei prezzi di mercato e quindi il vantaggio dei clienti C. La concorrenza vista dalla prospettiva della fraternità porta invece a vedere il gioco di mercato incentrato sugli assi A-C, e B-C: ogni impresa cerca di soddisfare i clienti meglio dell'altra, e quella delle due che ci riesce peggio esce dal mercato, come effetto in un certo senso inintenzionale. Ma lo scopo di A è cooperare con C, formare tra di loro un team, non "battere" la concorrente B; e viceversa.

La vita sociale è un insieme di opportunità da cogliere assieme: il mercato è un sistema che ci consente di cogliere queste opportunità per crescere insieme agli altri, non contro di loro. L'economia di mercato diventa allora un insieme di tanti rapporti cooperativi, un mondo popolato di team temporanei, dove ciascuno legge se stesso in rapporto agli altri, non pensa solo all'econo-mia ma all'econo-nostra: solo una econo-nostra, una "nostra" grande come la terra intera, può essere all'altezza delle sfide che ci attendono.

vedi articolo

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Il mercato oggi è considerato non morale quasi per natura. E la crisi ha accentuato questa percezione. Invece quello che è prevalso è una versione patologica del mercato. Per uscire da questa trappola, bisogna riscoprirne una virtù inaspettata: quella della fraternità

Oltre la crisi: Dall’econo-mia all’econo-nostra. L’individualismo è fuori corso

di Luigino Bruni

pubblicato sul settimanale Vita del 3 dicembre 2010

Logo_virtu_newAbbiamo concluso la puntata della scorsa settimana di fronte ad un bivio, quello che nella storia dei popoli ha spesso indicato da una parte la fraternità e dall'altra il fratricidio. La prima comunità di cui ci parla la grande tradizione ebraico-cristiana, e quindi occidentale, davanti a quel primo bivio scelse il fratricidio:

 "Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu. …  E questo sangue odora come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello: «Andiamo ai campi»” (S. Quasimodo).

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Le Virtù del mercato: La fraternità

Il mercato oggi è considerato non morale quasi per natura. E la crisi ha accentuato questa percezione. Invece quello che è prevalso è una versione patologica del mercato. Per uscire da questa trappola, bisogna riscoprirne una virtù inaspettata: quella della fraternità Oltre la crisi: Dall’econo-mia...
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È la fraternità. Pochi la associano a discorsi di carattere economico.Ma senza di lei non c’è modello che regga.Come sta accadendo oggi: la logica individuale che massimizza il vantaggio a spese dell’interesse di tutti ci sta portando in un vicolo cieco

Beni comuni: Quella virtù da riscoprire per salvarci dall’estinzione

di Luigino Bruni

Logo_Virtupubblicato sul settimanale Vita del 26 novembre 2010

Quello dei beni comuni si afferma sempre più come un grande tema per il nostro tempo: se i beni più importanti diventano sempre più i beni comuni, occorre allora sviluppare nuove virtù, poiché le tipiche virtù individuali del mercato non sono più sufficienti per vincere le nuove sfide.

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Ma che cos’è la Tragedia dei beni comuni? Innanzitutto è il titolo del celebre articolo che il biologo D. Hardin pubblicò nel 1968 nella prestigiosa rivista Science. La tesi è forte e chiara: quando si ha a che fare con i beni comuni (commons), anche se ciascuno segue prudentemente i propri interessi, rischia, senza volerlo e senza accorgersene, di segare giorno dopo giorno il ramo su cui siamo tutti seduti. Perchè? Noto, e ormai in ogni testo di microeconomia, è l’esempio presente nell’articolo di Hardin  del pascolo comune e libero, dove ogni contadino porta a pascolare le proprie mucche. La scelta che massimizza la libertà e l’interesse individuale è quella di aumentare il bestiame al pascolo, poiché il vantaggio individuale di portare una mucca in più a pascolo è + 1, mentre la diminuzione dell’erba è soltanto una frazione di – 1 (poiché il danno si ripartisce su tutti gli altri contadini che usano il pascolo comune). Quindi il beneficio individuale è maggiore del costo individuale, e ciò spinge ciascuno ad aumentar l’uso del bene comune. Il che porta alla distruzione del pascolo, se… non accade qualcosa che, in qualche modo, limiti la libertà individuale.

Il difficile rapporto con il limite

Dagli alberi nell’isola di Pasqua al buco dell’ozono, dalle tartufaie del mio paese nelle Marche all’abbassamento irrefrenabile delle falde acquifere in India e nel lago di Albano, la storia grande e quotidiana ci racconta di queste tragedie di comunità e di civiltà piccole e grandi che sono “collassate”, poiché non si è stati capaci di non oltrepassare il limite, cioè il punto critico e di non ritorno oltre il quale il processo diventa irreversibile: nell’isola di Pasqua l’estinzione di quella popolazione non fu legata all’abbattimento dell’ultimo albero, ma all’aver superato, ad un certo punto e in modo inconsapevole, un limite, una soglia, oltre la quale divenne inevitabile arrivare all’estinzione anche dell’ultimo albero.

La storia umana però ci racconta anche tante altre storie, dove le comunità sono state invece capaci di fermarsi in tempo, di limitare la libertà individuale e così non collassare tragicamente. Norme sociali, leggi, tradizioni antiche, usi e costumi potrebbero essere letti proprio come degli strumenti che le civiltà hanno inventato per evitare di collassare.

Quando oggi pensiamo alla gestione dell’acqua, alle città, all’ambiente, la domanda tragica sempre più urgente diventa: oltrepasseremo il limite e seguiremo il sentiero degli antichi abitanti dell’isola di Pasqua o saremo invece capaci di fermarci in tempo, di coordinarci, saremo cioè capaci di quella saggezza individuale e collettiva che consente alle comunità di non collassare e implodere, e vivere e crescere in armonia?

Per poter sperare che si verifichi la seconda possibilità, occorrono oggi nuove virtù, poiché le virtù tipicamente individuali (come la ricerca prudente del proprio interesse) non offrono garanzie di saper affrontare le sfide dei beni comuni, e quindi anche la sfida del “Bene comune” (non c’è Bene comune senza beni comuni).

Bisogno di fraternità

Per i beni comuni occorrono virtù di reciprocità che esprimano da subito un legame tra le persone. Quali? La prima virtù che oggi va assolutamente eretta a principio fondativo della post modernità, della società globalizzata e dell’economia dei beni comuni, è la fraternità. Oggi è sempre più urgente un nuovo patto sociale mondiale tra cittadini uguali e liberi (e non solo quelli del G20, ma tutti potenzialmente) che si autolimitino nell’uso delle risorse comune.

Libertà e uguaglianza dicono individuo; fraternità è invece un bene di legame tra le persone, un legame che dice la stessa ambivalenza contenuta nella parola, se è vero che legame è assieme un rapporto e un laccio; ma senza riconoscimento dei legami che ci uniscono gli uni agli altri non si esce dalla tragedia dei commons, che è una tragedia dovuta alla mancata consapevolezza che la vita in comune è una rete di relazioni tra persone, comunità e popoli, una rete di relazione che la globalizzazione rende sempre più fitta e intrecciata.

Un cambiamento epocale che sta vivendo la nostra società post moderna ha a che fare con la centralità dei beni comuni, che stanno diventando la regola non l’eccezione nella vita economica e civile. Oggi la qualità dello sviluppo dei popoli e della terra dipende certamente da scarpe, frigoriferi e lavatrici (i classici beni privati), ma molto più da beni (o mali) comuni come i gas serra, l’acqua, o lo stock di fiducia dei mercati finanziari (la crisi finanziaria può anche essere letta come una tragedia del bene comune fiducia), da cui dipendono poi anche cibo, scarpe, frigoriferi.

La storia dei popoli ha conosciuto molti momenti dove siamo stati posti di fronte al bivio fraternità-fratricidio, due strade sempre confinanti, dai tempi di Caino. A volte abbiamo scelto il senso della fraternità, altre, più numerose, quello del fratricidio. Oggi il bivio è ancora di fronte a noi.

vedi articolo

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Beni comuni: Quella virtù da riscoprire per salvarci dall’estinzione

di Luigino Bruni

Logo_Virtupubblicato sul settimanale Vita del 26 novembre 2010

Quello dei beni comuni si afferma sempre più come un grande tema per il nostro tempo: se i beni più importanti diventano sempre più i beni comuni, occorre allora sviluppare nuove virtù, poiché le tipiche virtù individuali del mercato non sono più sufficienti per vincere le nuove sfide.

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Le Virtù del mercato: Beni comuni: quella virtù da riscoprire per salvarci dall'estinzione

È la fraternità. Pochi la associano a discorsi di carattere economico.Ma senza di lei non c’è modello che regga.Come sta accadendo oggi: la logica individuale che massimizza il vantaggio a spese dell’interesse di tutti ci sta portando in un vicolo cieco Beni comuni: Quella virtù da riscoprire per s...
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LEZIONI D’ECONOMIA. Luigino Bruni: l’indipendenza come valore sano del mercato. Non è un paradosso, ma una regola economica.Come diceva Smith, la cura dell’interesse personale è una virtù. Anche se oggi, nelle società complesse, la regola vacilla

di Luigino Bruni

Logo_Virtupubblicato sul settimanale Vita del 5 novembre 2010

Andrea entra nella pescheria sottocasa per acquistare, da Bruno, del pesce fresco. Andrea dà 20 euro a Bruno, e quest’ultimo gli dà del buon pesce spada del Mediterraneo. Si realizza così uno dei tanti fenomeni che chiamiamo “scambio di mercato”. Ma che cosa è avvenuto veramente tra Andrea e Bruno dentro quella pescheria? Dipende dai punti di vista, e anche da che cosa siamo capaci di “vedere”.

Un sociologo di passaggio in quel negozio, ad esempio, potrebbe vedere in quel fatto i tanti marinai mal pagati e spesso irregolari che stanno sotto quel pesce spada venduto, e penserebbe a quei rapporti umani (nelle parole di Marx) «celati sotto l’involucro delle merci».

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Un assessore comunale che osservasse la scena sarebbe forse attratto soprattutto da Bruno che, per reggere la concorrenza con i grandi ipermercati, è costretto a non pagarsi da mesi lo stipendio dando fondo ai risparmi di una vita pur di non chiudere la pescheria ereditata dal nonno.

Un ambientalista, invece, potrebbe pensare all’imprenditore del mare che si arricchisce impoverendo la fauna ittica dei nostri fondali. E potremmo continuare aggiungendo altri punti di vista, altre prospettive.

Lo scambio equivalente

Ma che cosa “vedrebbe” in quello scambio un economista? Un economista tradizionale o standard (se così lo possiamo chiamare), cioè uno dei tanti miei colleghi che insegna la scienza economica nelle tante università del mondo (tutte troppo uguali, purtroppo) spiegherebbe quel fatto umano che accade dentro la pescheria come uno scambio tra cose, mediate dalle persone; e se avesse una lavagna lo rappresenterebbe così: A verso B, B verso A, con la specificazione che il valore delle due transazioni (le due frecce) è equivalente (è ciò distingue, tra l’altro, un contratto da uno scambio di doni). Se poi volesse spiegarlo meglio direbbe che lo scopo o la motivazione di Andrea è ottenere il pesce, e quello di Bruno avere il denaro, e ciascuno dà qualcosa all’altro come mezzo per raggiungere il proprio scopo.

Tutto questo discorso semplice (che forse sono riuscito anche a complicare) è stato nel 1776 eretto da Adam Smith a caposaldo della fondazione della economia politica, e sintetizzato con una frase tra le più celebri delle scienze sociali: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che noi ci attendiamo il nostro pranzo, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo al loro senso di umanità, ma al loro tornaconto» (da La ricchezza delle nazioni). Questa serie di articoli è dedicata alle virtù del mercato. In che senso allora possiamo, con Smith, chiamare virtù lo scambio di mercato basato semplicemente sugli interessi? Per capire meglio e senza ingenuità l’operazione di Smith, la trasformazione cioè dell’interesse personale da vizio a virtù, occorre sapere che poche righe prima del passaggio sul macellaio, Smith parla a lungo del mendicante, il quale per il suo pranzo «dipende dalla benevolenza dei suoi concittadini», dal macellaio e dal fornaio del suo villaggio. Solo il mendicante, commenta Smith, dipende «principalmente dalla benevolenza dei propri concittadini».

Rapporti tra pari

L’uomo libero, invece, preferisce l’indipendenza dai suoi benefattori per costruire rapporti tra pari. Occorre poi tener presente che il mondo contro cui Smith e tutti gli economisti classici sferravano la loro dura polemica era quello feudale, dove moltitudini di mendicanti per vivere dipendevano dalla “benevolenza” e dall’elemosina di pochi padroni benevolenti. In un mondo di dipendenza feudale, di servi e di padroni, non ci potrà mai essere amicizia tra il mendicante e il macellaio (l’amicizia richiede uguaglianza), né nella bottega né dopocena nel pub.
Ma se l’ex mendicante trova un lavoro e torna in pescheria a comprare pesce, anche se all’interno della bottega lo scambio non è (per Smith, non per me: ma lo vedremo nelle prossime puntate) una forma di amicizia, dopocena nel pub i due possono incontrarsi su un piano di uguaglianza, di maggiore dignità e, se vogliono, anche di amicizia.

La virtù, ogni virtù, richiede persone libere, e in un mondo di mendicanti, ieri come oggi, non c’è alcuna autentica virtù civile. Allora ecco perché secondo la teoria economica classica l’invenzione del mercato diventa uno strumento di civiltà, e anche lo scambio di mercato, sebbene non basato sulla benevolenza ma sul self-interest, diventa un’espressione di virtù.

Questa indipendenza è infatti una virtù, in particolare una virtù cara alla filosofia stoica (e moltissimo a Smith). Ma c’è di più. Una società civile dove ciascuno persegue semplicemente i propri interessi funziona bene, perché la cura dei propri interessi è espressione della virtù della prudenza. Se, ad esempio, ogni cittadino di Milano si occupa dell’educazione dei propri figli, fa bene il proprio lavoro, sistema il giardino e paga le tasse per produrre i beni pubblici, se cioè a Milano abbiamo tanti “prudent men”, automaticamente anche la città è virtuosa.

È questa, nella sua essenza, l’idea racchiusa dalla metafora più famosa del pensiero economico, quella della “mano invisibile”: ciascuno persegue interessi privati e la società si ritrova provvidenzialmente anche con il bene comune. Anche per questa ragione, e in polemica con i moralisti a lui precedenti e contemporanei (penso a Mandeville o a Rousseau), per Smith l’interesse personale non è un vizio ma è una virtù: la prudenza. Questa operazione “semantica” (la stessa parola, self-interest, che cambia significato morale) è stata alla base della legittimazione etica della nascente economia politica e dell’economia di mercato, che, occorre sempre ricordarlo, ha svolto una funzione di civilizzazione del mondo, se lo confrontiamo con il regime feudale.

Ma i beni comuni cambiano tutto

C’è però un problema molto serio. La legittimazione etica dello scambio e questa visione virtuosa dell’interesse (visto come espressione di prudenza), ha funzionato e funziona in società semplici, dove il bene dei singoli è direttamente anche il bene di tutti, dove, in linguaggio più tecnico, i beni sono soprattutto privati. Se invece i beni diventano comuni, se i beni economici più importanti e strategici per noi e per i nostri nipoti, per i più poveri e per le altre specie, sono cioè le energie non rinnovabili, foreste, laghi, mare, beni ambientali, ma anche la gestione di un condominio, o la convivenza nelle città multietniche, il discorso si complica terribilmente.

Tornano in gioco alcune delle “vedute” degli osservatori della pescheria, diverse da quella dell’economista, che abbiamo nominato in apertura di questo articolo, e la virtù della prudenza non è più automaticamente anche una virtù del mercato, poiché non è più vero che ricercare l’interesse privato produce anche bene comune, tema cruciale a cui dedicheremo la prossima puntata.

vedi articolo

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LEZIONI D’ECONOMIA. Luigino Bruni: l’indipendenza come valore sano del mercato. Non è un paradosso, ma una regola economica.Come diceva Smith, la cura dell’interesse personale è una virtù. Anche se oggi, nelle società complesse, la regola vacilla

di Luigino Bruni

Logo_Virtupubblicato sul settimanale Vita del 5 novembre 2010

Andrea entra nella pescheria sottocasa per acquistare, da Bruno, del pesce fresco. Andrea dà 20 euro a Bruno, e quest’ultimo gli dà del buon pesce spada del Mediterraneo. Si realizza così uno dei tanti fenomeni che chiamiamo “scambio di mercato”. Ma che cosa è avvenuto veramente tra Andrea e Bruno dentro quella pescheria? Dipende dai punti di vista, e anche da che cosa siamo capaci di “vedere”.

Un sociologo di passaggio in quel negozio, ad esempio, potrebbe vedere in quel fatto i tanti marinai mal pagati e spesso irregolari che stanno sotto quel pesce spada venduto, e penserebbe a quei rapporti umani (nelle parole di Marx) «celati sotto l’involucro delle merci».

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Le Virtù del mercato: Va bene il mondo se ognuno fa i suoi interessi

LEZIONI D’ECONOMIA. Luigino Bruni: l’indipendenza come valore sano del mercato. Non è un paradosso, ma una regola economica.Come diceva Smith, la cura dell’interesse personale è una virtù. Anche se oggi, nelle società complesse, la regola vacilla di Luigino Bruni pubblicato sul settimanale Vita de...
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LEZIONI D’ECONOMIA. Luigino Bruni: apologia per i veri motori dello sviluppo, gli imprenditori. Sono loro i protagonisti dello sviluppo economico. Con le loro idee e il loro coraggio rompono le situazioni stagnanti e rendono dinamico il sistema. Non saremo loro mai abbastanza grati...

di Luigino Bruni

Logo_Virtupubblicato sul settimanale Vita del 29 ottobre 2010

Il mercato quando funziona correttamente è un luogo nel quale sono favorite e premiate le innovazioni e la creatività umana. La concorrenza di mercato (su cui abbiamo già detto qualcosa nelle puntate precedenti) può essere vista, e va vista se vogliamo comprenderla nella sua realtà più vera, come una gara per innovare: chi innova cresce e vive, chi non innova resta indietro e esce dal gioco economico e civile.

L’autore che più ha colto questa dinamica virtuosa del mercato (la capacità di innovare è senz’altro una virtù, perché è espressione di areté, di eccellenza) è l’economista austriaco J.A. Schumpeter. Nel suo libro Teoria dello sviluppo economico (del 1911), un testo classico della teoria economica del XX secolo, che consiglio ancora oggi a chiunque sia interessato a buone letture di teoria economica e sociale, egli descrive magistralmente la dinamica dell’economia di mercato come una “rincorsa” tra innovatori ed imitatori.

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Schumpeter, per spiegare la natura e il ruolo dell’innovazione, fa ricorso ad un modello dove il punto di partenza è lo “stato stazionario”, la situazione in cui le imprese realizzano soltanto attività routinarie e il sistema economico replica perfettamente se stesso nel tempo, senza che ci sia creazione di vera ricchezza.

Lo sviluppo  economico inizia allora quando un imprenditore spezza lo stato stazionario introducendo un’innovazione, che può essere una invenzione tecnica, una nuova formula organizzativa, la creazione di nuovi prodotti o di nuovi mercati, che riduce i costi medi e fa sì che l’impresa possa creare nuova ricchezza.

L’imprenditore-innovatore è il protagonista dello sviluppo economico, poiché crea vero valore aggiunto, e rende il sistema sociale dinamico. L’innovatore è poi seguito da uno “sciame” di imitatori attratti da quel valore aggiunto creato come le api dal nettare, i quali entrando nei settori nei quali si sono verificate le innovazioni fanno sì che presto il prezzo di mercato di quel dato prodotto diminuisca fino ad assorbire interamente il profitto generato dall’innovazione. L’economia e la società tornano così nello stato stazionario, finché una nuova innovazione non ri-inizia il ciclo dello sviluppo economico. Il profitto ha dunque, per Schumpeter, una natura transitoria, poiché sussiste fin quando c’è innovazione, nel lasso di tempo che passa tra l’innovazione e l’imitazione.

Che cosa questa teoria vecchia di un secolo ha ancora oggi da dirci? Innanzitutto ci ricorda che la natura più vera dell’imprenditore e della funzione imprenditoriale è la capacità di innovazione.

L’imprenditore non è allora un cercatore di profitto: il profitto è solo un segnale che dice che c’è innovazione. Quando l’imprenditore (incluso l’imprenditore sociale) si lamenta perché è imitato, è già in crisi la sua vocazione. Va infatti ricordato che anche l’imitazione svolge un compito importante, poiché fa sì che i vantaggi derivanti dall’innovazione non restino concentrati solo nell’impresa che ha innovato ma che si estendano all’intera società (ad esempio attraverso la riduzione dei prezzi di mercato, che aumenta il benessere collettivo).

L’imitazione è importante e svolge una funzione di bene comune: il modo positivo di rispondere all’imitazione è rilanciare la gara, innovando ancora.  Tutto ciò è particolarmente importante nell’era della globalizzazione dove la dinamica innovazione-imitazione è molto veloce e globale: anche oggi, come cento anni fa, la risposta per vivere e crescere non è lamentarsi o invocare misure protezionistiche, ma un rilancio e un nuovo investimento nell’arte di innovare.

Inoltre, questa teoria dell’innovazione ci dice che quando l’imprenditore smette di innovare muore in quanto imprenditore (e magari si trasforma in speculatore), e così facendo blocca la rincorsa o la staffetta innovazione-imitazione che è la vera dinamica virtuosa che spinge avanti la società, non solo l’economia.

Una delle ragioni profonde delle crisi che stiamo vivendo è stata la progressiva trasformazione, avvenuta nei decenni passati in seguito al boom della finanza, di tanti imprenditori in speculatori.

L’imprenditore-innovatore, a differenza dello speculatore, vede per vocazione il mondo come un luogo dinamico che può essere cambiato, non pensa semplicemente ad aumentare la propria fetta di una “torta” data, ma crea sempre nuove “torte”, coglie nuove opportunità, guarda davanti, non a fianco a sé in cerca di rivali da battere nell’accaparramento della torta.

Dall’Umanesimo civile del Quattrocento ai distretti industriali del made in Italy, dagli artigiani-artisti ai cooperatori sociali, l’Italia è stata capace di sviluppo economico e civile quando si sono create quelle condizioni culturali e istituzionali che hanno consentito la coltivazione delle virtù della creatività e quindi dell’innovazione; abbiamo invece smesso di crescere come Paese quando è prevalsa la logica del piagnisteo, della ricerca e del mantenimento di rendite di posizione, quando abbiamo guardato l’altro come un rivale da battere e non come un partner per crescere insieme.

In terzo luogo, leggere il mercato come un meccanismo che premia le innovazioni pone l’accento sulle persone e non tanto sui capitali, sulla finanza o sulla tecnologia: l’innovazione è prima di tutto una questione di occhi, di sguardo diverso sulle cose e sul mondo, e quindi di persone che guardano diversamente la realtà.

E, infatti, lo stesso Schumpeter negli anni 40 del secolo scorso prevedeva che il passaggio della funzione dell’innovazione dalle persone agli uffici di Ricerca e sviluppo delle grandi imprese avrebbe cambiato la natura del capitalismo, che avrebbe perso sempre più contatto dalla dimensione personale, che sola può innovare veramente.

E ancora oggi, dopo decenni di sbornia per il “grande” e per l’anonimo, ci stiamo accorgendo che le imprese che riescono a crescere e ad essere leader nell’economia globalizzata sono sempre più quelle dove c’è una o più persone capaci di vedere diversamente la realtà, e quindi di innovare. È l’intelligenza delle persone (cioè il sapere “leggere e vedere dentro” le cose) la chiave di ogni vera innovazione e di ogni valore economico, come ben sapeva un economista italiano, ancora più antico di Schumpeter. Mi riferisco al milanese Carlo Cattaneo che a metà del secolo XIX scriveva una delle tesi più belle e umanistiche sull’azione economica, che ci ricorda che la virtù dell’innovazione si fonda su una virtù ancora più radicale (perché più universale), quella della creatività: «Non v’è lavoro, non v’è capitale, che non cominci con un atto d’intelligenza. Prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale… è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere di ricchezza».
Infine, la dinamica, la rincorsa, la staffetta virtuosa innovazione-imitazione è più grande del solo ambito economico. Essa ci dà una bella e originale chiave di lettura per comprendere non solo il mercato ma anche la storia civile dei popoli. Quando le società e i mercati favoriscono le persone che innovano, quando queste persone non si lamentano ma gioiscono di essere imitati, quando anche le istituzioni universalizzano quelle innovazioni, allora la vita in comune e il mercato funzionano, e sono luoghi belli nei quali vivere.

vedi articolo

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LEZIONI D’ECONOMIA. Luigino Bruni: apologia per i veri motori dello sviluppo, gli imprenditori. Sono loro i protagonisti dello sviluppo economico. Con le loro idee e il loro coraggio rompono le situazioni stagnanti e rendono dinamico il sistema. Non saremo loro mai abbastanza grati...

di Luigino Bruni

Logo_Virtupubblicato sul settimanale Vita del 29 ottobre 2010

Il mercato quando funziona correttamente è un luogo nel quale sono favorite e premiate le innovazioni e la creatività umana. La concorrenza di mercato (su cui abbiamo già detto qualcosa nelle puntate precedenti) può essere vista, e va vista se vogliamo comprenderla nella sua realtà più vera, come una gara per innovare: chi innova cresce e vive, chi non innova resta indietro e esce dal gioco economico e civile.

L’autore che più ha colto questa dinamica virtuosa del mercato (la capacità di innovare è senz’altro una virtù, perché è espressione di areté, di eccellenza) è l’economista austriaco J.A. Schumpeter. Nel suo libro Teoria dello sviluppo economico (del 1911), un testo classico della teoria economica del XX secolo, che consiglio ancora oggi a chiunque sia interessato a buone letture di teoria economica e sociale, egli descrive magistralmente la dinamica dell’economia di mercato come una “rincorsa” tra innovatori ed imitatori.

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Le Virtù del mercato: Forza imprenditore, tu mandi avanti il mondo

LEZIONI D’ECONOMIA. Luigino Bruni: apologia per i veri motori dello sviluppo, gli imprenditori. Sono loro i protagonisti dello sviluppo economico. Con le loro idee e il loro coraggio rompono le situazioni stagnanti e rendono dinamico il sistema. Non saremo loro mai abbastanza grati... di Luigino Br...
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LEZIONI D’ECONOMIA. Luigino Bruni: una categoria chiave su cui si gioca il benessere - È l’utopia del fare il lavoro che piace. In realtà bisogna fare il lavoro di cui il mondo ha bisogno. Questa è una regola che il mercato impone. Garantendo libertà e sana reciprocità

di Luigino Bruni

Logo_Virtupubblicato sul settimanale Vita del 22 ottobre 2010

Se osserviamo il mercato, le imprese e l’intera vita economica ci accorgiamo subito che abbiamo a che fare con una rete di relazioni sempre più fitta, globale, complessa.  Il mercato moderno, però, non ha soltanto moltiplicato le relazioni, i contatti umani e la cooperazione rispetto al mondo pre-moderno: ne ha anche cambiato la natura, ponendosi come un grande mediatore che immunizza i rapporti interpersonali e la vita in comune,sostituendo i legami comunitari, forti e ambivalenti, con i tenui legami contrattuali, con il cash nexus.

Possiamo infatti correttamente leggere gli ultimi secoli, e non solo in Occidente, come un progressivo estendersi della cooperazione di mercato, e della sua logica relazionale, un’estensione e un avanzamento che presenta aspetti molto problematici (o “vizi”), ma anche le virtù che stiamo sottolineando in questa rubrica.

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La virtù sulla quale questa settimana vorrei richiamare l’attenzione è l’ “anti narcisismo” e non salta subito all’occhio di chi osserva una economia (e società) di mercato. Ma personalmente la considero tra le sue caratteristiche chiave per comprendere le nostre società.

Fare quel che non piace

Il mercato quando funziona correttamente può essere visto come un grande meccanismo sociale che remunera o “premia” (avrebbe detto Giacinto Dragonetti) quelle attività umane utili alla collettività ma scarse.  Ci sono infatti nella vita in comune di una società complessa, dove esiste una divisione del lavoro e una divisione della conoscenza, molte attività o lavori che non sono svolti spontaneamente, semplicemente perché non sono remunerativi in se stessi, non danno remunerazioni intrinseche.

Per capire questa virtù immaginiamo una società dove non esista il mercato come meccanismo di regolazione delle attività delle singole persone: come è possibile che tali comunità funzionino?

Storicamente queste comunità sono state la regola nel mondo antico, dove il meccanismo che consentiva il funzionamento era semplicemente il comando o la gerarchia: l’ordine sociale si raggiungeva sul sacrificio della libertà individuale, e dell’esistenza stessa della individualità. Un’altra possibilità potrebbe consistere in un sistema sociale nel quale ciascuno svolge le attività che ama o che sente come propria vocazione, attività che si svolgono non per comando ma perché ci piacciano, perché ci danno una gioia intrinseca.

Che cosa accadrebbe in questa ipotetica società (che di tanto in tanto ritroviamo anche nella storia)?
Lo scenario inevitabile è un “disordine” sociale, poiché avremo un eccesso (rispetto alla domanda sociale) di attività intrinsecamente remunerative (artisti, poeti, giocatori di scacchi, raccoglitori di funghi porcini, studiosi, economisti, mistici, atleti…), che quindi vengono svolte perché procurano gioia in chi le compie; parallelamente, avremo una insufficiente offerta di attività poco remunerative  in sé (spazzini, portieri di notte, minatori, tramvieri, lavoratori nelle autostrade, riparatori di linee elettriche, metronotte,  guardie carcerarie…) ma estremamente utili alla società.

Certo, si potrebbe anche lavorare molto sulla ideologia e sull’indottrinamento, in modo da convincere lo spazzino a passare otto ore al giorno nella polvere come espressione della sua vocazione e del suo daimon socratico, o tutti gli infermieri che la loro vocazione sia curare altra gente solo per la gioia intrinseca dell’azione di cura. Si intuisce subito che tali operazioni ideologiche raramente funzionano per tutti e per molto tempo, poiché diventano quasi inevitabilmente comunità liberticide e autoritarie.

Inoltre, in tali comunità sarebbe molto alto il rischio di noncomunicazione e non-incontro tra le persone: ognuno sarebbe talmente occupato dal seguire la propria vocazione da non preoccuparsi di interagire con gli altri su un piano di reciprocità: saremmo in una società che potremmo tranquillamente definire narcisistica.

Pagare di più il minatore

Che cosa è allora il mercato, quando lo leggiamo da questa prospettiva? È un meccanismo che offre remunerazioni “estrinseche”, normalmente denaro, per attività che non svolgeremmo, almeno in quantità considerata sufficiente dalla società, se seguissimo solo le nostre aspirazioni e vocazioni. Il mercato, attraverso il meccanismo dei prezzi, fa sì che le attività remunerate non siano quelle che facciamo solo perché ci piacciono, ma quelle che vengono ritenute utili dagli altri con cui interagiamo (e che quindi ci remunerano per quelle attività).

Ecco perché il mercato è anche un sistema di segnali che ci indicano se le cose che ci piacciano interessano anche qualcun altro. È per questa ragione che lo scambio di mercato può anche essere inteso come una forma di reciprocità e di legame sociale. Esso consente che attività utili al bene comune possano essere svolte in modo libero e con dignità, e quando scegliamo un mestiere o una attività il mercato ci spinge a metterci nei panni degli altri, a domandarci se quanto sto facendo piace soltanto a me, oppure piace o serve anche a qualcun altro con cui interagisco.

Anche su questa base Adam Smith (e tanti altri economisti) affermavano che doveva essere pagato relativamente di più un minatore di un professore universitario (che trae ricompense intrinseche dalla sua attività, che mancano al minatore), una tesi che sottoscriverei ancora oggi.

Gli altri ce lo dicono

Da questo punto di vista il mercato ci spinge ad avere un atteggiamento adulto e non narcisistico. Da quest’ottica non sarebbe virtuoso il comportamento di chi si lamenta perché le sue opere (scientifiche o artistiche, ad esempio) non hanno mercato: in alcuni casi potremmo avere a che fare con artisti incompresi, ma spesso ci troviamo semplicemente di fronte persone civilmente immature che non accettano l’idea che a questo mondo non siamo normalmente noi i giudici della bontà e qualità di quanto creiamo e produciamo, ma gli altri, che ce lo dicono anche (non solo, ovviamente) acquistando le nostre opere.

Ciò non vuol dire rinunciare a coltivare la nostra vocazione anche nel mondo lavorativo, ma occorre solo imparare che se non riesco a vivere coltivando il mio daimon, debbo accettare in modo non-narcisistico di svolgere altre attività non vocazionali ma remunerate (lavoretto part-time), che mi consentano di coltivare in altri ambiti la mia vocazione (dipingere).

Ricordo di aver conosciuto “studiosi” che erano convinti di aver scritto il libro che avrebbe cambiato la storia, ma siccome non riuscivano a convincere nessun editore di questa loro profezia, si stampavano il libro a loro spese o, cosa più semplice, obbligavano i loro studenti a comprarlo.

Certo, gli strumenti o il linguaggio che il mercato usa per dire che il tuo lavoro o la tua attività mi/ci piace è molto povero (il denaro o incentivi materiali), ma forse è preferibile al comando e alla gerarchia illiberale. Ciò non intacca il valore di questa virtù del mercato che ci ricorda che il mondo è un luogo dove l’acqua scende da monte a valle, e dove i rapporti umani sono fondati sulla legge della reciprocità, compresa quella forma di reciprocità che è la relazione di mercato.

vedi articolo

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LEZIONI D’ECONOMIA. Luigino Bruni: una categoria chiave su cui si gioca il benessere - È l’utopia del fare il lavoro che piace. In realtà bisogna fare il lavoro di cui il mondo ha bisogno. Questa è una regola che il mercato impone. Garantendo libertà e sana reciprocità

di Luigino Bruni

Logo_Virtupubblicato sul settimanale Vita del 22 ottobre 2010

Se osserviamo il mercato, le imprese e l’intera vita economica ci accorgiamo subito che abbiamo a che fare con una rete di relazioni sempre più fitta, globale, complessa.  Il mercato moderno, però, non ha soltanto moltiplicato le relazioni, i contatti umani e la cooperazione rispetto al mondo pre-moderno: ne ha anche cambiato la natura, ponendosi come un grande mediatore che immunizza i rapporti interpersonali e la vita in comune,sostituendo i legami comunitari, forti e ambivalenti, con i tenui legami contrattuali, con il cash nexus.

Possiamo infatti correttamente leggere gli ultimi secoli, e non solo in Occidente, come un progressivo estendersi della cooperazione di mercato, e della sua logica relazionale, un’estensione e un avanzamento che presenta aspetti molto problematici (o “vizi”), ma anche le virtù che stiamo sottolineando in questa rubrica.

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Le Virtù del mercato: Se vince il narcisismo, perde il mercato

LEZIONI D’ECONOMIA. Luigino Bruni: una categoria chiave su cui si gioca il benessere - È l’utopia del fare il lavoro che piace. In realtà bisogna fare il lavoro di cui il mondo ha bisogno. Questa è una regola che il mercato impone. Garantendo libertà e sana reciprocità di Luigino Bruni pubblicato ...
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LEZIONI D’ECONOMIA. Luigino Bruni: ecco una falsa opposizione da smitizzare

Il mercato non può essere letto soltanto come una faccenda di concorrenza. È invece un’azione cooperativa e competitiva congiunta. L’esperienza lo dimostra

di Luigino Bruni

Logo_Virtu

pubblicato sul settimanale Vita del 15 ottobre 2010

Il pensiero e la cultura occidentale si portano dietro da millenni delle dicotomie che ne hanno segnato l’intero sviluppo, producendo forse alcuni frutti, ma creando anche tanti problemi alla vita della gente. Le dicotomie più note sono anima-corpo, spirituale-materiale, eros-agape, dono-mercato. Alcune di queste contrapposizioni si stanno superando negli ultimi secoli (penso ad anima-corpo, ad esempio), ma altre restano ben radicate nelle nostra cultura, come quella che oppone dono a contratto, gratuità a doveroso, con le gravi conseguenze di considerare la gratuità una faccenda estranea alla vita economica normale e doversi così inventare un settore “non-profit” o la filantropia a cui si affida il monopolio della gratuità nella vita economica e civile. In realtà la cooperazione e la competizione sono spesso due facce della stessa vita comune.

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Infatti, anche all’interno delle organizzazioni anche la competizione svolge un ruolo co-essenziale: le organizzazioni si ammalano a volte per troppa competizione, ma altre volte per assenza di competizione tra i loro membri, che porta a dinamiche di livellamento verso la mediocrità e l’inefficienza. Se la competizione è correttamente letta come cum-petere, come un “cercare insieme” di tipo diverso rispetto al cercare insieme della cooperazione, allora il confronto con gli altri e l’emulazione svolge un ruolo importante per conoscere i miei limiti e le mie potenzialità, analogamente a quanto avviene nello sport dove il concorrente è anche colui che mi aiuta a conoscere e a superare i miei limiti, e a poter così raggiungere l’eccellenza (mia e della disciplina). La concorrenza con gli altri mi segnala i miei limiti, mi rivela le mie potenzialità nascoste, che potrebbero restare latenti (soprattutto quando siamo giovani) in un contesto senza competizione.

Chi vive all’interno di imprese, scuole, università, e in generale di istituzioni, sa che quando queste organizzazioni e istituzioni funzionano, la buona competizione convive con la buona cooperazione. In certe fasi e in certi momenti si coopera per un obiettivo comune, e in altre (ad esempio per un premio o per un avanzamento di carriera) si compete con quelle stesse persone con le quali, contemporaneamente, si coopera su molti altri fronti: quando non si è più capaci di muoversi contemporaneamente su questi due registri, di vedere cioè il collega come un concorrente e un alleato, la vita in comune si riduce ad una sola dimensione e entra in crisi, la qualità umana dei rapporti si impoverisce e si deteriora.

Al tempo stesso, il mercato non può essere letto soltanto come una faccenda di concorrenza, poiché la dinamica di mercato, come ci insegnano autori classici come Mill o Einaudi e oggi Sen o Becattini, è  soprattutto un’azione cooperativa e competitiva congiunta, che punta a creare un mutuo vantaggio per i soggetti coinvolti, e quando funziona bene, anche per la società. In altre parole, se vogliamo capire la vita in comune, le organizzazioni e il mercato, dobbiamo superare la contrapposizione tra cooperazione e competizione, una delle ultime radicate dicotomia da cui non riusciamo a liberarci. Certo, come l’eros non è l’agape, la concorrenza non è la cooperazione, ma entrambi sono co-essenziali per una fioritura delle persone e delle comunità; e se magari andiamo a guardarli da vicino e le osserviamo nelle dinamiche storiche, ci accorgiamo che forse tra eros e dono, concorrenza e cooperazione, prevalgono le analogie sulle differenze.

Perché, allora, il mercato che, alla luce di questo pensiero dualistico, è stato ed è immaginato allora come il regno della competizione o concorrenza, ha tra le sue virtù anche la cooperazione?

L’economista che per primo ha colto la natura profondamente cooperativa del mercato è l’inglese David Ricardo, il quale attorno al 1815 formulò una delle prima vere teorie economiche (poiché contro-intuitive). Nella teoria a lui precedente il commercio e lo scambio avvenivano quando esistevano dei vantaggi “assoluti”. Ma Ricardo intuì e dimostrò qualcosa di più, e cioè che avvenivano anche nel caso di esistenza di soli vantaggi “relativi”. Anche in un mondo in cui l’Inghilterra è più efficiente del Portogallo in entrambi i settori, conviene all’Inghilterra specializzarsi nel settore dove è relativamente più forte, e – qui sta il punto – anche in questo caso lo scambio con il “più debole” avvantaggia anche il“più forte”. L’esempio classico è quello dell’avvocato che sebbene sia più veloce a scrivere al computer di una segretaria, gli conviene ugualmente assumere una segreteria e concentrarsi sulle sue più remunerative pratiche legali (è il concetto noto oggi come “costo opportunità”). Ma come l’Inghilterra, questo avvocato nell’assumere una segretaria meno efficiente di lui non sta facendo “assistenza” o beneficenza, ma sta traendo anche lui (non solo la segretaria) vantaggio dallo scambio. Quando il mercato fa questo, include cioè chi è più debole e lo fa diventare un’opportunità per tutti, allora fa il suo mestiere di civilizzazione, allora è virtuoso.

Pensiamo alla grande innovazione che ha rappresentato la nascita della cooperazione sociale in Italia: i soggetti svantaggiati inclusi dentro l’impresa sono spesso diventati occasioni di mutuo vantaggio, anche per l’impresa che assume, e non un “costo” o un atto di beneficenza. Probabilmente la ragione del mancato successo della Legge 482/1968 sull’inserimento lavorativo di persone disabili nelle imprese sta proprio nella percezione  dell’assenza del mutuo vantaggio. Da quelle imprese, e dai sindacati, il lavoratore disabile era (ed è) visto essenzialmente come un costo o un peso: la cooperazione sociale ha innovato veramente, e continua ad innovare, quando ha detto che quei lavoratori svantaggiati potevano diventare una risorsa anche per l’azienda. E quando non fa questo, siamo ancora nelle varie forme di assistenza, e non valorizziamo le virtù del mercato.

Ma se riusciamo ad attivare questa cooperazione del mercato, chi è “aiutato” si sente all’interno di un rapporto di reciprocità tra uguali, che esprime maggiore dignità. Non si sente un assistito, ma un soggetto all’interno di un contratto di mutuo vantaggio, e quindi sperimenta più libertà e più uguaglianza. Anche una persona con la sindrome di  Down può realizzare un contratto di mutuo vantaggio con un’impresa: occorre però che l’imprenditore civile sia veramente innovativo e generativo, perché il mutuo vantaggio è sempre una possibilità (non si realizza automaticamente e sempre), che richiede molto lavoro e creatività; ma quando ciò accade il mercato si trasforma in vero strumento inclusivo e di autentica crescita umana e civile. Infatti, il sacrificio del benefattore non è sempre un buon segnale per chi riceve l’aiuto, perché può esprimere un rapporto di potere, magari nascosto dalla buona fede.

Un imprenditore civile non dovrebbe allora darsi pace finché le persone incluse nella sua impresa non si sentono utili all’impresa e alla società, e non assistiti da un filantropo o da una istituzione. Pensiamo al Microcredito: rendere bancabili gli esclusi è stata una delle principali innovazioni economiche di questo tempo, che ha liberato persone (donne in particolare) dalla miseria e dall’esclusione in una maniera più efficace di tanti interventi di aiuti internazionali. Possiamo anche formulare una sorta di regola: se un intervento non aiuta tutte le parti  coinvolte raramente può essere autentico aiuto per qualcuno: se non mi sento beneficiato meno beneficio un altro, raramente l’altro si sentirà veramente beneficiato da me, soprattutto quando il rapporto dura nel tempo. La legge della vita è la reciprocità, che fa sì che i rapporti non si ammalino e crescano nella mutua dignità. Anche la reciprocità del mercato può allora essere genuinamente intesa come una forma di cooperazione.

vedi articolo

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LEZIONI D’ECONOMIA. Luigino Bruni: ecco una falsa opposizione da smitizzare

Il mercato non può essere letto soltanto come una faccenda di concorrenza. È invece un’azione cooperativa e competitiva congiunta. L’esperienza lo dimostra

di Luigino Bruni

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pubblicato sul settimanale Vita del 15 ottobre 2010

Il pensiero e la cultura occidentale si portano dietro da millenni delle dicotomie che ne hanno segnato l’intero sviluppo, producendo forse alcuni frutti, ma creando anche tanti problemi alla vita della gente. Le dicotomie più note sono anima-corpo, spirituale-materiale, eros-agape, dono-mercato. Alcune di queste contrapposizioni si stanno superando negli ultimi secoli (penso ad anima-corpo, ad esempio), ma altre restano ben radicate nelle nostra cultura, come quella che oppone dono a contratto, gratuità a doveroso, con le gravi conseguenze di considerare la gratuità una faccenda estranea alla vita economica normale e doversi così inventare un settore “non-profit” o la filantropia a cui si affida il monopolio della gratuità nella vita economica e civile. In realtà la cooperazione e la competizione sono spesso due facce della stessa vita comune.

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Le Virtù del mercato: Cooperare e competere

LEZIONI D’ECONOMIA. Luigino Bruni: ecco una falsa opposizione da smitizzare Il mercato non può essere letto soltanto come una faccenda di concorrenza. È invece un’azione cooperativa e competitiva congiunta. L’esperienza lo dimostra di Luigino Bruni pubblicato sul settimanale Vita del 15 ottobre...
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Oggi ne conosciamo solo la forza corrosiva, che mercifica tutti i rapporti. Invece oggi il tempo è maturo per una sfida: parlare di questo grande tema liberandosi da fondamentalismi e ideologie. Perché la vita comune ha bisogno del mercato.

di Luigino Bruni

pubblicato sul settimanale Vita dell' 8 ottobre 2010

Logo_Virtu“[Salerio:] Antonio è triste perché pensa alle sue mercanzie … [Antonio:] A rendermi triste non sono dunque le mie mercanzie”
(Shakespeare, Il mercante di Venezia).

Questa età di crisi (ben più profonda e seria della solo crisi finanziaria o economica) è soprattutto un richiamo alla responsabilità, individuale e collettiva, anche del pensiero. Una dimensione di un tale appello alla responsabilità è la necessità di riaprire oggi un nuovo dibattito, vero e profondo,  sulla natura dell’impresa, delle banche, profitto, del mercato e quindi sul capitalismo. 

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La sfida, però, sta nel riuscire a parlare di questi grandi temi di civiltà liberandosi da ideologie e parole logore che, di fatto, hanno impedito negli ultimi venti anni che si riaprisse una stagione di critica profonda e al tempo stesso alta del nostro sistema economico, di cui si avverte invece un crescente e urgente bisogno.

Con questo numero Vita inizia una serie di articoli sul mercato, con coraggio, poiché guarderemo all’economia da una prospettiva oggi impopolare e insolita: le virtù del mercato.

Ma come è possibile parlare seriamente di virtù del mercato, quando oggi una parte influente dell’opinione pubblica vede la logica del mercato corrosiva delle virtù civili, poiché porta alla mercificazione di tutti i rapporti umani?

Io stesso, in diversi scritti (anche ospitati da Vita negli anni scorsi) ho messo in luce i gravi rischi associati al fondamentalismo del mercato, e ai suoi vizi individuali e collettivi. Il mercato, in quanto attività umana, è perfettibile e quindi da sottoporre sempre alla critica del pensiero, soprattutto nei tempi che abbiamo vissuto, che viviamo e che, molto probabilmente, vivremo ancora a lungo.

Noi però crediamo che proprio in stagioni di crisi è molto importante richiamare le persone, le istituzioni e le realtà umane alla loro “vocazione”, invitatole a riscoprire, o scoprire finalmente, la loro parte migliore. Come sa chi ha vissuto una crisi seria, o chi ha aiutato altri a superarla, non si esce da queste empasse della vita se non si ritrova il proprio “daimon” socratico, se non si attinge alla parte migliore di sé, se non si trova o ritrova la propria vocazione profonda.

Qualcosa di simile accade anche per le realtà collettive, per le istituzioni, per la società. In momenti difficili non serve il pessimismo, occorre saper invece cercare più in profondità e attingere ad acque più pure. Dobbiamo infatti tener sempre presente che l’attuale fase dell’economia di mercato (che potremmo chiamare capitalismo finanziario-individualista) nasce da un pessimismo antropologico, che risale almeno a Lutero, Calvino e Hobbes. La grande ipotesi su cui sia la teoria economica sia il sistema economico poggiano è l’assunto che gli esseri umani sono radicalmente opportunisti e auto-interessati per pensare che possano impegnarsi per motivazioni più alte (come il bene comune). Eloquente è a questo riguardo un passaggio di uno dei fondatori dell’economia del Novecento, l’italiano Maffeo Pantaleoni, il quale in uno scritto all’inizio del XX secolo sfidava “gli ottimisti” a dimostrare che le motivazioni che portano “gli spazzini a spazzare le strade, la sarta a fare un abito, il tramviere a fare 12 ore di servizio sul tram, il minatore a scendere nella mina, l’agente di cambio ad eseguire ordini, il mugnaio a comperare e vendere il grano, il contadino a zappare la terra, etc. siano l’onore, la dignità, lo spirito di sacrificio, l’attesa di compensi paradisiaci, il patriottismo, l’amore del prossimo, lo spirito di solidarietà, l’imitazione degli antenati e il bene dei posteri e non soltanto un genere di tornaconto che chiamasi economico”.

Non possiamo però lasciare a questo pessimismo antropologico l’ultima parola sulla vita in comune e sul mercato: abbiamo un dovere etico di lasciare a chi verrà dopo di noi uno sguardo più positivo sul mondo, sull’uomo, sulla politica e sull’economia.
Questo sguardo diverso e positivo può partire anche da una riflessione sul “dover essere” del mercato, sul suo compito morale nella edificazione di una società buona e giusta, una società civile che muore quando c’è solo il mercato a regolare tutta la vita in comune, ma che anche muore o non fiorisce senza il mercato, e le sue tipiche virtù, quelle virtù che sembrano e spesso sono lontane dalla prassi economica del nostro tempo, e che per questo vanno richiamate alla nostra coscienza personale e collettiva.

Per viaggiare all’interno delle virtù del mercato, ripartiremo dall’idea di mercato che avevano ed hanno i fondatori della tradizione dell’Economia civile, italiana ma non solo: da Antonio Genovesi a John S. Mill, da Alfred Marshall a Luigi Einaudi, da Giacomo Becattini a Robert Sugden. Per questi autori, sebbene con sfumature diverse, lo scambio di mercato è anche e soprattutto una forma di reciprocità e di legame sociale, un brano di vita in comune, pezzi di vita, con le stesse passioni, gli stessi vizi e le stesse virtù, se è vero che l’economia è lo studio degli esseri umani nello svolgimento delle “faccende ordinarie della vita”, come si esprimeva Alfred Marshall nel 1890.
Dalla prossima settimana allora inizieremo ad esplorare alcune le virtù del mercato.

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Oggi ne conosciamo solo la forza corrosiva, che mercifica tutti i rapporti. Invece oggi il tempo è maturo per una sfida: parlare di questo grande tema liberandosi da fondamentalismi e ideologie. Perché la vita comune ha bisogno del mercato.

di Luigino Bruni

pubblicato sul settimanale Vita dell' 8 ottobre 2010

Logo_Virtu“[Salerio:] Antonio è triste perché pensa alle sue mercanzie … [Antonio:] A rendermi triste non sono dunque le mie mercanzie”
(Shakespeare, Il mercante di Venezia).

Questa età di crisi (ben più profonda e seria della solo crisi finanziaria o economica) è soprattutto un richiamo alla responsabilità, individuale e collettiva, anche del pensiero. Una dimensione di un tale appello alla responsabilità è la necessità di riaprire oggi un nuovo dibattito, vero e profondo,  sulla natura dell’impresa, delle banche, profitto, del mercato e quindi sul capitalismo. 

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Le Virtù del Mercato - Il mercato ha tante Virtù. E' ora di scoprirle

Oggi ne conosciamo solo la forza corrosiva, che mercifica tutti i rapporti. Invece oggi il tempo è maturo per una sfida: parlare di questo grande tema liberandosi da fondamentalismi e ideologie. Perché la vita comune ha bisogno del mercato. di Luigino Bruni pubblicato sul settimanale Vita dell' 8 ...
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LEZIONI DI ECONOMIA. Luigino Bruni inizia una nuova serie per i lettori di Vita, sulle Virtù del Mercato

Logo_VitaDalla prossima settimana inzia una serie di articoli con cui Luigino Bruni guiderà i lettori di Vita a una esplorazione delle “virtù del mercato”. Come nel caso di un’altra serie di grande successo realizzata da Bruni (“Abcdeconomia”, raccolta anche in un numero di Communitas), saranno articoli che esplorano singole virtù. Avremo cooperazione, mutuo vantaggio, competizione, innovazione, anti-paternalismo, anonimità (che può essere anche una virtù), stoicismo. Bruni, che è docente di Economia Politica (proprio settimana scorsa ha vinto il concorso come ordinario), da tempo ha iniziato una riflessione per rilanciare un’altra idea di mercato. Un frutto della riflessione è il libro appena pubblicato da Bruno Mondadori, L’ethos del mercato. Un’introduzione ai fondamenti antropologici e relazionali dell’economia.

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LEZIONI DI ECONOMIA. Luigino Bruni inizia una nuova serie per i lettori di Vita, sulle Virtù del Mercato

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Parte su “Vita” una nuova rubrica di Luigino Bruni

LEZIONI DI ECONOMIA. Luigino Bruni inizia una nuova serie per i lettori di Vita, sulle Virtù del Mercato Dalla prossima settimana inzia una serie di articoli con cui Luigino Bruni guiderà i lettori di Vita a una esplorazione delle “virtù del mercato”. Come nel caso di un’altra serie di grande succe...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Sussidiarietà. Nuove declinazioni di un antico principio

pubblicato dal mensile Communitas n.33 all'interno del fascicolo monografico dal titolo "L'abbecedario dell'economia civile"

Non c’è buona vita civile e politica senza sussidiarietà. Questa è una delle grandi lezioni del Novecento, dei suoi totalitarismi e delle sue ideologie, tra cui l’ultima e forse la più pericolosa (perché non appare come tale), quella del mercato inteso come unico principio regolatore della società. Sussidiarietà è una espressione che viene da sussidio, aiuto. Questo principio è stato pronunciato per la prima volta in modo esplicito da Papa Pio XI nella Quadragesimo Anno nel 1931, in un periodo storico che aveva ucciso la libertà e la democrazia anche perché aveva ucciso prima quel principio. Implicitamente, però, il principio di sussidiarietà è antico, e risale almeno al pensiero dei primi Concili ecumenici, dei Padri della chiesa, della Scolastica, quando cioè viene elaborata categoria di persona. Esiste, infatti, uno strettissimo rapporto tra principio di sussidiarietà e principio personalista. Vediamo perché.

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La prima definizione di sussidiarietà potrebbe essere la seguente: le scelte che riguardano una persona o una comunità debbono essere effettuate al livello più prossimo alle persone coinvolte. Ogni altro intervento più distante è “buono” se è di aiuto (di sussidio appunto) alla vita di quelle persone; è invece “cattivo” se l’azione più distante si sostituisce a quella più vicina alla gente. In altre parole, un intervento pubblico o un’azione collettiva è da preferire se coinvolge di più nel processo i soggetti interessati da quell’intervento o da quella azione. La partecipazione, il processo, non è meno importante dell’obiettivo da raggiungere, poiché il “come” spesso conta non meno del “che cosa”.

Il principio di sussidiarietà è anche uno dei principi della Unione Europea (che però lo ha recepito solo in parte, perché l’ha sganciato dal principio personalista), e che è sempre più invocato da chi cerca un’architettura istituzionale che rispetti la “prossimità” e la democrazia deliberativa. Fino ad oggi tale principio è stato applicato soprattutto nella sua versione “verticale” (come criterio regolatore del rapporto tra i diversi livelli della pubblica amministrazione: Stato, regioni, comuni, …). Recentemente ne è stato enfatizzato anche l’aspetto “orizzontale” (nel rapporto tra società civile, mercato e pubblica amministrazione).
Sono convinto che sia necessaria una nuova declinazione di questo principio fondamentale della vita civile, che potrebbe essere così formulata: non faccia il contratto ciò che può fare la reciprocità (gratuita); oppure, in una versione più positiva: il contratto di mercato è forma di relazione pienamente umana e civilizzante quando è sussidiario alla reciprocità. Il contratto di mercato diventa invece un nemico del bene comune quando diventa un sostituto della gratuità, come, purtroppo, sta avvenendo nelle nostre società di mercato, anche quando invocano astrattamente il principio di sussidiarietà. In certi contesti, soprattutto quelli nei quali sono in gioco la protezione di soggetti svantaggiati e dove c’è asimmetria strutturale tra le parti in causa, il contratto può rivelarsi un valido strumento che serve, aiuta (sussidia) il dono e la gratuità (molte esperienze di microcredito sono esempi riusciti di questa versione della sussidiarietà). Ben vengano contratti e il mercato ma se aiutano a far crescere la fraternità universale.

A questo punto dovrebbe essere più chiaro il nesso con il principio personalista. Perché infatti dovremmo preferire l’intervento del comune a quello dello stato (nella versione “verticale” della sussidiarietà) o l’asilo nido gestito da una cooperativa di genitori rispetto all’asilo pubblico (nella versione “orizzontale”)? Perché a fondamento del principio di sussidiarietà si trova implicita l’ipotesi che le persone sono veramente persone quando si incontrano e quando vivono rapporti di reciprocità, e proprio perché l’essere umano non è solo individuo ma è persona, cioè è se stesso solo in rapporto con gli altri. E’ nel principio personalista che dobbiamo rintracciare la presenza del principio di sussidiarietà nel disegno originario della Costituzione Repubblicana, in tutta la tradizione dell’economia civile, sociale, cooperativa, che l’hanno sempre vissuto anche senza chiamarlo con quel nome (nome un po’ difficile, anche perché è spesso spiegato male e in astratto).

Sempre su questa stessa base personalista si potrebbe declinare la sussidiarietà nel rapporto con i nuovi media: un media (e-mail, skype, facebook …) è buono se favorisce gli incontri personali; è invece cattivo quando diventa un sostituto dei rapporti umani reali – il confine tra il buono e il cattivo è spesso questione di soglia critica.

In conclusione, voglio riportare una frase che ho ascoltata da Mons. Bregantini, che personalmente considero la più bella declinazione del principio di sussidiarietà: “Solo tu puoi farcela, ma non puoi farcela da solo”. La sussidiarietà è infatti uno straordinario principio anche in ogni autentica relazione educativa: se il genitore, o l’insegnante, o l’adulto, non è sussidio ma si sostituisce all’altro, il processo educativo non funziona e produce solo patologie e narcisismo (non a caso la grande malattia della post-modernità). Discorso analogo in tema di sviluppo: ogni tipo di aiuto che arriva alla persona dall’esterno è efficace solo se è sostiene e potenzia il primo movimento fondamentale che è tutto interno alla persona: il suo desiderio di vivere!

La sussidiarietà è dunque la grande parola del civile, perché offre il criterio per ordinare le diversità, per articolare i multiformi colori e volti della communitas, per creare la convivialità delle differenze. Ecco perché è una parola carica di futuro, in un mondo che diventerà sempre più multiforme e ricco di diversità.

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Sussidiarietà. Nuove declinazioni di un antico principio

pubblicato dal mensile Communitas n.33 all'interno del fascicolo monografico dal titolo "L'abbecedario dell'economia civile"

Non c’è buona vita civile e politica senza sussidiarietà. Questa è una delle grandi lezioni del Novecento, dei suoi totalitarismi e delle sue ideologie, tra cui l’ultima e forse la più pericolosa (perché non appare come tale), quella del mercato inteso come unico principio regolatore della società. Sussidiarietà è una espressione che viene da sussidio, aiuto. Questo principio è stato pronunciato per la prima volta in modo esplicito da Papa Pio XI nella Quadragesimo Anno nel 1931, in un periodo storico che aveva ucciso la libertà e la democrazia anche perché aveva ucciso prima quel principio. Implicitamente, però, il principio di sussidiarietà è antico, e risale almeno al pensiero dei primi Concili ecumenici, dei Padri della chiesa, della Scolastica, quando cioè viene elaborata categoria di persona. Esiste, infatti, uno strettissimo rapporto tra principio di sussidiarietà e principio personalista. Vediamo perché.

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ABCDEconomia "S" come "Sussidiarietà"

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ABCDEconomia - di Luigino Bruni

La serie di articoli  di Luigino Bruni "ABCDEconomia" pubblicati dal settimanale Vita e pensati come un "abbecedario",  una guida alle parole chiave dell’agire economico, con la scorsa settimana si è conclusa. I nostri affezionati visitatori hanno espresso molto apprezzamento per questi articoli.
Ritenendo di fare cosa gradita ai nostri lettori,
di seguito li elenchiamo tutti.

Oggi l'insieme di tutti questi articoli è stato raccolto nel numero 33 di "Communitas" dal titolo "L'abbecedario dell'Economia Civile" della editrice Vita Altra Idea. Il volume è acquistabile online

Leggi l'editoriale di Communitas di Giuseppe Frangi

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Leggi l'editoriale di Communitas di Giuseppe Frangi

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ABCDEconomia - La raccolta

ABCDEconomia - di Luigino Bruni La serie di articoli  di Luigino Bruni "ABCDEconomia" pubblicati dal settimanale Vita e pensati come un "abbecedario",  una guida alle parole chiave dell’agire economico, con la scorsa settimana si è conclusa. I nostri affezionati visitatori hanno espresso ...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Dono. Non esiste, se non c’è reciprocità

pubblicato sul settimanale Vita del 22 maggio 2009

Con la parola «Dono» che i lettori trovano questa settimana si conclude l’ABCDEconomia di Luigino Bruni. È stata pensata come una guida alle parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco l’indice delle parole analizzate: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole, Interesse, Organizzazione, Reciprocità, Capitale. Questa settimana, la seconda puntata della parola conclusiva «Dono».

Il dono consiste in una modalità di azione ispirata a gratuità, che è mossa cioè dalla ricerca del bene dell’altro, e del bene comune. Un’esperienza a questo riguardo. A Montevideo qualche anno fa alcune donne vivevano chiedendo l’elemosina davanti a dei supermercati. Ad un certo punto arrivò una ong che iniziò un progetto di sviluppo con quelle donne, nacquero così delle cooperative per produrre lavori di artigianato, dei fazzoletti ricamati.

ABCDEconomia "D" come "Dono" - 2a puntata

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Arrivò il giorno che queste donne tornarono, dopo anni, a vendere i fazzoletti, frutto del loro lavoro, proprio di fronte a quei supermercati dove per anni avevano chiesto l’elemosina, doni, alla gente. Nei primi giorni le persone davano ancora l’elemosina, i soldi, ma non volevano il fazzoletto, finché una di quelle donne disse: «Se non vuoi il fazzoletto, noi non vogliamo i soldi».

Anche questo è dono, è gratuità, è riconoscimento dell’altro, è reciprocità. Oggi progetti di microcredito nel mondo sono autentiche esperienze di dono e di gratuità pur non essendo regali ma contratti. Dobbiamo abituarci a leggere il dono nelle nostre società complesse non come una “cosa” ma come un “come”, se vogliamo che non sia confinato alla filantropia e all’elemosina, ma sia relazione fondante di reciprocità e di felicità.

Questa complessa grammatica del munus, del dono-che-obbliga, di cui hanno scritto importanti autori come i filosofi Derrida e Marion, e i sociologi Caillé e Goodbout, sarebbe alla base anche dell’ambivalenza della communitas, come ha mostrato Roberto Esposito. La categoria fondativa del circuito del dono non è la gratuità ma la reciprocità, come ci ha mostrato soprattutto Karl Polanyi, un autore che è stato nel Novecento un punto di riferimento per l’antropologia del dono.

La reciprocità del dono non è, nella sua struttura relazionale di base, sostanzialmente diversa dal fenomeno dello scambio economico, comparso nelle culture molto più tardi rispetti al dono rituale. Nella storia delle culture tra dono e mercato c’è stata una differenza di gradi (di misura delle equivalenze, della tempistica del dare e del ricevere, delle sanzioni previste) e non di natura. Con il dono chiudiamo ABCDeconomia. Un grazie a chi mi ha seguito in questa piccola grammatica dell’economia civile.

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Dono. Non esiste, se non c’è reciprocità

pubblicato sul settimanale Vita del 22 maggio 2009

Con la parola «Dono» che i lettori trovano questa settimana si conclude l’ABCDEconomia di Luigino Bruni. È stata pensata come una guida alle parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco l’indice delle parole analizzate: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole, Interesse, Organizzazione, Reciprocità, Capitale. Questa settimana, la seconda puntata della parola conclusiva «Dono».

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ABCDEconomia "D" come "Dono" - 2a puntata

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ABCDEconomia "D" come "Dono" - 2a puntata

ABCDEconomia di Luigino Bruni Dono. Non esiste, se non c’è reciprocità pubblicato sul settimanale Vita del 22 maggio 2009 Con la parola «Dono» che i lettori trovano questa settimana si conclude l’ABCDEconomia di Luigino Bruni. È stata pensata come una guida alle parole chiave dell’agire economic...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Dono. Non pensiate che sia un regalo...

pubblicato sul settimanale Vita del 15 maggio 2009

Con la parola “Dono” che i lettori trovano questa settimana e la prossima, si conclude l’ABCDEconomia di Luigino Bruni. È stata pensata come una guida alle parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco l’indice delle parole analizzate: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole, Interesse, Organizzazione, Reciprocità, Capitale. Questa settimana, come detto, la prima puntata della parola conclusiva «Dono».

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Esiste una stretta relazione tra comunità, vita in comune, e dono. Una etimologia della parola comunità fa derivare communitas dal cum-munus, cioè dal dono (munus) reciproco. Ma questa stessa suggestiva etimologia ci rivela immediatamente anche l’ambivalenza del dono, nascosta nella parola latina munus. Munus è insieme dono e obbligo, una ambivalenza ancora rintracciabile nella parola anglosassone gift, che significa in inglese “dono” e in tedesco “veleno”: la odorosa e colorata mela del dono può anche rivelarsi un frutto avvelenato. Perché? Innanzitutto perché i doni sono molti, e le forme della donazione sono molteplici. C’è il dono anonimo e unilaterale del filantropo o delle donazioni a vantaggio di persone bisognose distanti o per calamità naturali.

ABCDEconomia "D" come "Dono" 1a puntata
C’è il dono personale a chi amiamo, che può essere dono di cose ma anche, e soprattutto, di tempo, di attenzione, di ascolto, di vita. C’è poi il dono convenzionale che spesso raccoglie l’eco di antiche tradizioni, come i doni agli sposi, o la bottiglia di vino quando si è ospiti a cena. Ma c’è anche il dono della tangente o al potente che non ha nulla a che fare con la gratuità.
La parola chiave che comunque più spiega la natura del dono è reciprocità, sulla quale abbiamo già scritto in questo nostro piccolo abbecedario. Gli esseri umani amano più del dono la reciprocità; o, meglio, amano il dono quando questo si compie all’interno di una grammatica relazionale dove si dà e si riceve. Noi desideriamo che il dono, perché sia buono, abbia una buona ragione. Il dono è un segnale di qualcosa di più profondo.

Un giorno durante un volo aereo (low cost) mi proposi di offrire un panino ad un giovane (che non aveva moneta), e ricordo lo sguardo disturbato di costui che si chiedeva: «Ma che cosa vorrà questo signore? Perché mi offre questi 5 euro?». Il non accettare caramelle o doni dagli sconosciuti resta ancora un valido consiglio per bambini e giovani - a meno che non ci sia una buona ragione per farlo, come trovarsi in condizioni di emergenza, o di bisogno. E anche quando siamo nel bisogno, il dono che nel tempo non produce reciprocità, o che dà vita a reciprocità statiche e asimmetriche, finisce spesso per nascondere rapporti di potere, e desiderio di dominio sull’altro.

Il dono-gratuità, che è l’esperienza che tutti associamo al bello e alla vita buona, richiede che ci si alterni nei ruoli di donatore e di donatario, e che chi riceve un dono si senta capace di reciprocità, e si trovi nelle condizioni di poter rispondere su un piano di sostanziale uguaglianza, soprattutto quando il meccanismo del dono accade al di fuori della famiglia, e quando si ha a che fare con adulti (anche se sono convinto che il dono-reciprocità è esperienza fondamentale e fondativa anche per giovani e bambini).

Il dono spezza l’equilibrio dei rapporti sociali, poiché crea un’asimmetria che l’essere umano, quello moderno in modo assoluto, non riesce a sostenere a lungo. Il dono non ricambiato è elemento di disequilibrio, di disordine. Le società umane - anche le arcaiche, anche se in modo diverso da quelle moderne - amano invece le simmetrie: ecco anche spiegata la grande potenza del mercato, basato su uno scambio simmetrico di valori equivalenti (o percepiti come tale). La settimana prossima cercheremo di capire in che senso dono non è necessariamente un regalo, né tantomeno il “gratis”.

Sul prossimo numero, la seconda parte della voce Dono

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Dono. Non pensiate che sia un regalo...

pubblicato sul settimanale Vita del 15 maggio 2009

Con la parola “Dono” che i lettori trovano questa settimana e la prossima, si conclude l’ABCDEconomia di Luigino Bruni. È stata pensata come una guida alle parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco l’indice delle parole analizzate: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole, Interesse, Organizzazione, Reciprocità, Capitale. Questa settimana, come detto, la prima puntata della parola conclusiva «Dono».

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ABCDEconomia "D" come "Dono" - 1a puntata

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