I fallimenti che insegnano

I fallimenti che insegnano

Quando si torna dopo il fallimento, non si «torna» ma si «arriva» come fosse la prima volta. La casa dopo la ricerca della libertà è un’altra casa.

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 03/06/2019

La parabola del Figliol prodigo o del Padre misericordioso, una delle più belle e grandi della Bibbia, è in genere letta come insegnamento sulla misericordia. Ma, come spesso accade, anche nelle storie più note si possono trovare elementi secondari ma non per questo poco importanti, spesso andati persi proprio per sottolinea­re il primo e principale messaggio.

Il racconto inizia con un padre, due figli, una eredità. Ci troviamo in un ambito famigliare dove c’è un primo e un secondogenito, e dove c’è un patrimonio. Non siamo dunque in un contesto di povertà. Il figlio minore fa poi una richiesta che dà immediatamente una sterzata alla storia: chiede al padre di anticipargli la sua parte di eredità (una eredità che era minore, circa 1/3, di quella spettante al maggiore). In quella cultura, un figlio che chiedeva al padre ancora in vita la sua parte di eredità faceva un atto sovversivo. Nelle scritture ebraiche c’erano elementi molto chiari e precisi a questo riguardo: «Al figlio e alla moglie, al fratello e all’amico non dare un potere su di te finché sei in vita. Non dare ad altri le tue ricchezze, perché poi non ti penta e debba richiederle... Quando finiranno i giorni della tua vita, al momento della morte, assegna la tua eredità» (Siracide 33, 20-24).

Il padre doveva rispondere di no a una simile richiesta. E invece anche il padre fa un atto in un certo senso «trasgressivo», fa un dono generativo, rispondendo di sì a quella richiesta. Fa diventare l’eredità «patrimonio», cioè dono (munus) dei padri (patres).

Il padre sta donando al figlio la possibilità della libertà. Poteva non farlo, e invece lo fa. Con quella risposta imprudente sta generando il figlio più giovane alla vita adulta e quindi alla libertà. Diversamente dal figlio maggiore, quel figlio non voleva restare nell’impresa di famiglia.

«Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un Paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto». Il figlio giovane non fa un uso responsabile del dono del padre  e sperpera il patrimonio. È qui il «peccato» del figlio. A questo si aggiunge poi uno «shock esogeno», un evento eccezionale (le carestie dicono, nella Bibbia, molte cose: basta pensare ad Abramo, Ruth…). «Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel Paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno».

A questo punto il giovane fa una scelta responsabile, forse per la prima volta: si cerca un lavoro che rasenta la servitù, pascolare i porci. Una scelta che ricorda quei giovani che vanno lontano per sperare di diventare artisti e dopo avere esaurite le sostanze dei genitori, iniziano a lavorare come lavapiatti in qualche locale. E anche loro, qualche volta, in un giorno che diventa benedetto, tornano a casa. O i tanti migranti, di ieri e di oggi, che spesso con il povero patrimonio di tutta la famiglia partono in cerca della terra promessa. E quando la terra promessa si mostra molto diversa da quella immaginata, i sogni si infrangono e arrivano le carestie e fanno i guardiani dei porci, e non sempre «si alzano e tornano».

Quel giovane lavora, ma il lavoro non lo protegge dalla fame. Non basta lavorare per mangiare e vivere, occorre un lavoro degno. Ieri e oggi, non tutti i lavori sono degni e consentono di sfamarsi e sfamare la nostra famiglia. Quel figlio lavorava, ma aveva fame.

Sono il fallimento e la fame che lo portano a «ritornare in sé» ed esclamare quel bellissimo: «Mi alzerò e andrò». Quando si torna dopo il fallimento, non si «torna» ma si «arriva» come fosse la prima volta. La casa dopo la ricerca della libertà è un’altra casa.


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