Sono categorie antiche, e quindi molto profonde e radicate nell’animo umano, individuale e collettivo, dove risiede l’eredità delle emozioni e delle passioni, anche quando non ne siamo coscienti.
di Luigino Bruni
pubblicato su: Il Messaggero di Sant'Antonio il 13/01/2021
Colpa e debito (che in tedesco e olandese sono la stessa parola: schuld) sono categorie antiche almeno quanto la Bibbia e i miti greci, se non vogliamo arrivare fino ai miti sumeri e indiani. Categorie antiche, e quindi molto profonde e radicate nell’animo umano, individuale e collettivo, dove risiede l’eredità delle emozioni e delle passioni, anche quando non ne siamo coscienti. La cultura della colpa nel mondo greco e in quello biblico ha preso progressivamente il posto della «cultura della vergogna». La vergogna è ancora più arcaica della colpa. Le culture della vergogna – ancora molto vive in Asia o in Africa – associano l’approvazione e la condanna delle azioni all’«essere visti dagli altri». Se non si è visti da nessuno è come se quel reato non ci fosse. L’approvazione e il biasimo sociale sono i meccanismi di creazione delle morali della vergogna.
La cultura della colpa è molto presente nella Bibbia, dove la vergogna inizia a cedere il passo, o almeno a intrecciarsi, con la colpa, dove l’etica inizia a essere legata a una legge interiore, alla coscienza che agisce anche quando nessuno ti vede (tranne Dio). La cultura della vergogna è comunque ancora presentissima anche nelle culture occidentali. Basti pensare alla povertà, che spesso è vissuta dai poveri come colpa e come vergogna, un intreccio di concetti messi molto bene assieme oggi dall’ideologia meritocratica. Della povertà ci si è sempre vergognati (e delle malattie, proprie e dei figli), ed è sempre più forte la tendenza a considerare i poveri colpevoli della loro povertà – nonostante il Vangelo li chiamasse beati e san Francesco li baciasse –.
La comprensione del peccato come colpa e debito è all’origine e al cuore anche dell’umanesimo biblico, dove ha determinato una visione mercantile della religione e della salvezza. È molto antica e radicata l’idea che Cristo sia morto per pagare al Padre le nostre colpe-debiti, perché solo il sangue di suo Figlio poteva soddisfarlo pienamente. Da lì l’idea che il dolore sia soprattutto una sorta di espiazione di colpe nostre o degli altri, e che non ci sia nessuna salvezza senza «spargimento di sangue», che diventa il prezzo delle salvezze. La sensibilità moderna fa fatica ad accettare questa idea commerciale della fede e di Dio, e il Concilio Vaticano II ha cercato di correggere gli eccessi di questa visione «economica» della religione, sebbene senza molto successo. Perché noi cattolici continuiamo ancora a immaginarci un Dio che abbia bisogno del nostro dolore e sofferenze, o che chi soffre stia pagando il prezzo per qualche colpa. Dio viene inserito in questi commerci, senza avergli chiesto il permesso.
Siamo troppo impregnati di una visione economica della fede e del mondo per poter accettare l’idea che Dio ci ama veramente gratis, anche se non lo meritiamo, anche se siamo pieni di colpe. E siamo così impegnati a pensare alle nostre colpe (e soprattutto a quelle degli altri) da dimenticarci che siamo amati immensamente di un amore infinito, che siamo immersi in un oceano di amore. Avremmo bisogno di una seria analisi teologica del capitalismo per capirlo meglio e magari provare a cambiare.