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Economia Civile

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Commenti - L'invidia male dei tempi di crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 30/06/2013

logo_avvenireC’è una nota che accomuna molte forme di malessere non inevitabile che affliggono la nostra società: l’urgenza di rieducare le nostre passioni e i nostri sentimenti. Una passione da rieducare presto è l’invidia, tra le più devastanti in ogni cultura, molto pericolosa nei tempi di crisi. Le culture del passato, a differenza della nostra, conoscevano i disastri prodotti dall’invidia non curata e gestita, e così avevano sviluppato un’etica idonea ad orientarla al bene o quanto meno ad arginarla.

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La regola d’oro – ‘fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te’ – può anche essere letta come una cura preventiva dell’invidia. Non a caso è posta dalla Bibbia al centro della prima fraternità-fratricidio di Caino. La nostra civiltà, però, fa molta fatica a capire l’invidia. La confonde con un’idea errata di competizione (battere gli altri), la quale viene addirittura presentata come l’unica strada per orientare al bene comune la natura invidiosa della persona.

Non la vediamo dietro alle crescenti invocazioni della meritocrazia, cioè del merito nostro e del demerito (o “fortuna”) degli altri. Non la riconosciamo dietro denunce e querele, e così non facciamo regole per bloccare sul nascere troppi processi evidentemente ‘invidiosi’, che assorbono immense energie morali ed economiche di cittadini e tribunali. Non la smascheriamo nella corsa al “consumo posizionale”, che ci fa indebitare per raggiungere i livelli di consumo di colleghi e vicini e di casa, un’invidia sociale che la pubblicità tende ad amplificare e il mercato a sfruttare per vendere le sue merci, aumentando il Pil e l’infelicità – eliminare la componente ‘invidiosa’ del Pil sarebbe un primo passaggio verso una misurazione del benessere reale di un Paese.

Eppure l’invidia è molto semplice da individuare: è soffrire per il bene altrui, gioire per il suo male, e poi agire per creare quel male o ridurre quel bene. In tedesco esiste una parola (Schadenfreude) che esprime esattamente quel sentimento di compiacimento che può nascere in noi quando qualcuno ci comunica una brutta notizia che lo riguarda.

Perché però si cada nel vizio, e spesso dal vizio si passi al danno e persino al reato, occorre che la passione generi azioni. Non è il semplice “desiderio” della “roba d’altri” a violare il comandamento. Ce lo suggerisce anche il significato del verbo ebraico hamad: nel Decalogo lo traduciamo con “desiderare”, ma la sua semantica indica l’atteggiamento di chi delibera di agire per ottenere ciò che desidera (male). In realtà, se un sentimento o un pensiero cattivo non viene combattuto sul nascere, prima o poi si traduce anche in opere, parole, omissioni.

Nell’invidia esiste poi un fondamentale meccanismo di reciprocità negativa. Poiché so che tu stai provando invidia per il mio successo, anche io, se sono invidioso, provo un piacere subdolo a raccontarti le mie vittorie (e a tacerti le mie sventure). E così si generano spirali di mali relazionali, di cui siamo ogni giorno spettatori e protagonisti, circoli viziosi spezzati solo dalla presenza di persone magnanime. La presenza di persone magnanime è un grande dono per una comunità, perché, essendo anti-invidiose, moltiplicano le gioie e riducono i dolori. Ma non si diventa magnanimi senza una profonda vita spirituale e quindi un costante esercizio dell’agape – sia l’eros che la philia possono produrre invidia, solo l’agape è per natura anti-invidiosa. La famiglia è, o dovrebbe essere, il principale luogo dove si svolge il gioco di specchi virtuoso dell’anti-invidia. Una delle più grandi forme di povertà del nostro tempo è quella che vivono i tanti che non hanno persone anti-invidiose con cui condividere le grandi sventure e le grandi gioie dell’esistenza.

L’invidia, come già ricordava Aristotele, si sviluppa solo verso i nostri pari. Da studenti non si è invidiosi dei professori, ma dei compagni. Non si invidiava l’imperatore, né il padrone. Verso i ‘superiori’ scattano altri sentimenti: rabbia, ammirazione, l’imitazione e magari la speranza di diventare un giorno come loro. Non si invidiano i genitori, ma i fratelli. Un segnale inequivocabile di invidia è la sindrome dell’ “anche se …, quella nota negativa con cui l’invidioso termina ogni apprezzamento (“è un’ottima persona, anche se …”). Le società castali, dalle civiltà antiche alle grandi imprese capitalistiche, sono anche un tentativo di limitare lo sviluppo dell’invidia. L’ideale di ogni società gerarchica perfetta è la costruzione di organizzazioni sociali dove i pari siano il meno possibile, e ognuno abbia solo superiori e inferiori. Gli esseri umani fanno fatica non tanto a comandare o ubbidire, ma a rapportarsi positivamente con i pari. Le società globalizzate e più ugualitarie aumentano moltissimo il numero dei pari, e quindi la possibilità dell’invidia.

Ma non dobbiamo dimenticare che quando ci confrontiamo con chi sentiamo migliori di noi, insieme alla possibile invidia sorge spesso anche la stima e il desiderio di cooperazione. Quando un mio pari ottiene un miglioramento e siamo in un contesto statico, dove la ‘torta’ è data ed è una sola, quel suo vantaggio può facilmente tradursi in un mio svantaggio, in un “gioco a somma zero” (dove i guadagni dell’uno sono uguali alle perdite dell’altro). E qui scattano il sentimento e spesso le azioni, dell’invidia.

Ma in realtà le relazioni sociali che sono oggettivamente un “gioco a somma zero” sono soltanto una piccola minoranza. La vita in comune, quando funziona, è invece una grande fabbrica cooperativa, un insieme di relazioni di mutuo vantaggio per crescere insieme. L’invidia coltivata ci fa allora perdere molte occasioni di mutuo vantaggio, perché ci porta a leggere soggettivamente il mondo come un luogo di continuo confronto rivale e distruttivo con gli altri, e non come un insieme di opportunità di reciprocità. Ecco perché molto spesso l’invidia è una scorciatoia sbagliata in un rapporto nel quale non siamo stati capaci di vedere e trovare una buona reciprocità. L’invidia può essere una stima che non giunge a maturazione per insufficiente magnanimità.

Nei tempi di crisi si accentua la tendenza a leggere i rapporti con gli altri in termini rivali e invidiosi, come ‘giochi a somma zero’. Le crisi alimentano le invidie e da queste sono alimentate.  È quindi in questi tempi che l’educazione all’anti-invidia, alla magnanimità, alla stima dei nostri pari è particolarmente preziosa, cominciando come sempre dalla famiglia e dalla scuola per arrivare alle istituzioni (sistema fiscale, schemi d’incentivi nelle imprese …), che non devono generare il loglio dell’invidia ma il buon grano della cooperazione.

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Commenti - L'invidia male dei tempi di crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 30/06/2013

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Il grano e il loglio

Il grano e il loglio

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Commenti - Sfida all’offshore: dura e necessaria

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/06/2013

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L’annuncio del G8 di lanciare una guerra ai ‘paradisi fiscali’, e le proteste dei brasiliani per la Coppa del mondo di calcio, sono fatti profondamente legati tra di loro. Il “grande” calcio ha perso contatto con il buon gioco. Tra il mercato delle multinazionali dello sport e la partita di calcio nel campetto c’è sempre meno in comune, come c’è sempre meno contatto etico tra il mio comprare pane al mercato e le dinamiche dei grandi mercati internazionali dei cereali. Non si tratta più – come fino pochi decenni fa – di differenze di grado, bensì di natura, una trasformazione profonda cui ha contribuito, e non poco, l’avvento del capitalismo finanziario.

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È anche (non solo) questa trasformazione di natura di un calcio preda dei grandi interessi economici, che porta molti brasiliani a protestare in questi giorni contro l’organizzazione della Coppa. Quei brasiliani stanno allora cercando di dire qualcosa di molto importante al loro governo: investiamo le risorse nell’istruzione dei giovani, nella sanità, nella sicurezza, e quindi nella lotta alla diseguaglianza, la loro vera piaga, che la Coppa (2014) e le Olimpiadi (2016) non curano di certo.

Non si crea panem con i circenses, soprattutto quando i circenses (giochi) sono, ieri come oggi, strumenti in mano agli imperatori. E che quando creano pane quel pane non è buono, perché non arriva ai poveri ma va ad alimentare i banchetti degli sponsor e degli epuloni che costruiscono gli stadi. Il calcio non va usato come il nuovo oppio dei poveri e dei giovani, come a volte è accaduto, e non solo in Brasile. Servono, chiediamoci, nuovi stadi di calcio al Brasile, dove in molte sue regioni mancano ancora buoni ospedali, buone scuole e università? E servirebbero a chi? E servivano, e a chi, al Sudafrica (oggi in profonda crisi economica, dopo una breve primavera pre-2010)? Che cosa ci ha portato Italia ’90, oltre ad appalti corrotti e alla distrazione dalle vicende epocali di quel periodo storico? Per non parlare di Atene 2004. Ma, in generale, perché servono gli stadi a questo calcio capitalistico se mentre li costruisce con soldi pubblici svende lo sport alle multinazionali dei media, che fanno di tutto per venderci la partita in Tv sul divano e da soli, trasformando così lo sport da bene relazionale in merce?

Molte delle multinazionali che sponsorizzano i grandi eventi sportivi brasiliani e di tutto il mondo, sono utilizzatori di quei paradisi fiscali ai quali l’ultimo G8 ha (ri)promesso lotta senza quartiere. Le dichiarazione di guerra ai ‘paradisi’ sono uno dei rituali dei meeting dei grandi, o meglio, dei potenti della terra. Quella del G20 di Londra del 2 aprile 2009 fu una delle più solenni, annunciata come battaglia finale e decisiva alle operazioni offshore. Offshore, cioè azioni che avvengono a largo, nei mari, dove nessuno ci vede e i grandi mostri marini “guizzano e brulicano nelle acque” (Genesi), il regno di Leviathan e di Moby Dick.

Ma l’eden del capitalismo finanziario dai mari ha inondato anche i contenenti, fino alle Alpi. In Europa ci sono troppi stati, principati, repubbliche, isole, dove le imprese ottengono “incentivi” fiscali non troppo diversi da quelli offerti dalle famigerate isole Cayman. I loro abitanti sono moltissime imprese multinazionali, società finanziarie, banche, che con la mano impura pongono la sede legale nei paradisi, e con quella pura producono ‘bilanci sociali’ patinati, e magari generose fondazioni filantropiche con l’1% di quei profitti sbagliati. Lo scorso anno smisi di acquistare un prodotto alimentare, che pure mi piaceva molto, dopo un convegno a Montecarlo in cui scoprii che quella nostra impresa aveva lì la sede fiscale. Dovremmo avere il coraggio di riconoscere che il nostro capitalismo finanziario ha un bisogno vitale dei paradisi fiscali. L’offerta di tasse paradisiache è la risposta alla forte domanda di banche, fondi, imprese e cittadini. Una quota impressionante del commercio internazionale, circa la metà, ricorre direttamente o indirettamente ai paradisi fiscali. Quasi tutte le grandi imprese, per non parlare delle banche o dei fondi d’investimento, hanno interi dipartimenti dedicati all’ottimizzazione fiscale (espressione suggestiva), e pagano milioni di euro a consulenti tributari per trovare il prodotto fiscale migliore sui mercati/mari globali.

La politica mondiale, anche se credesse in quanto dichiara, non ha la forza per gestire questo capitalismo, per domare il Leviathan. I paradisi fiscali non sono allora un’anomalia del nostro sistema. Finché la cultura del capitalismo finanziario resterà basata sulla massimizzazione dei profitti a brevissimo termine, i paradisi fiscali saranno organici al sistema. Se volessimo veramente eliminarli dovremmo fare cose molto serie e radicali, a cominciare con stili di vita non consumistici e solidali che andrebbero inseriti nei programmi di ogni scuola, passando per la regolamentazione bancaria che invece stanno andando nella direzione opposta (es. Basilea 3), per arrivare a qualche segnale di dietro-marcia nel processo di globalizzazione ridando più poteri ai territori. In mancanza di cose serie e quindi impopolari, i nostri leader con le loro dichiarazioni continuano a comportarsi come quel mio amico che alla fine di cene con ogni sorta di grassi e dolci prendeva sempre il caffè con il dolcificante perché voleva “iniziare una dieta”. I processi seri di cambiamento s’interrogano sulle cause, e da lì partono.

Oggi, anche se è scomodo dirlo, i paradisi fiscali sono l’altra faccia, quella meno presentabile, degli smartphone, delle beauty farm, del turismo esotico, e di molte merci che di questo capitalismo piacciono tanto. Molte civiltà del passato hanno avuto i loro paradisi fiscali, quei luoghi fuori dal controllo civile, dove ci si permettevano operazioni di compensazione umana ed etica delle mille ingiustizie di ogni età. Schiavi, servi, colonie, guerre. Ma, non dimentichiamolo, ogni civiltà ha anche lottato per eliminare i grandi mostri che sguizzano nei mari. Ha voluto e sognato un mondo diverso, e ha saputo sperare: “Il Signore, visiterà Leviathan, il serpente guizzante, Leviathan, il serpente tortuoso, e ucciderà il mostro che è nel mare” (Isaia).

Oggi li chiamano “paradisi”, ma restano sempre luoghi popolati dai mostri marini non meno disumani di quelli delle civiltà passate. Non dimentichiamo che tra le vittime degli abitanti dell’offshore ci sono le piccole e medie imprese che non hanno ‘santi’ in quei paradisi, perché non hanno né la cultura (grazie a Dio) né i soldi per quelle operazioni, ma che si trovano spesso a competere con quelle imprese paradisiache. Perdono mercati, chiudono, e perdiamo lavoro. Prendiamo allora sul serio le proteste civili dei brasiliani, e non smettiamo di sdegnarci per questo capitalismo che ha bisogno degli abitanti dell’offshore. E agiamo, a tutti i livelli, per cambiarlo.

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Commenti - Sfida all’offshore: dura e necessaria

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/06/2013

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L’annuncio del G8 di lanciare una guerra ai ‘paradisi fiscali’, e le proteste dei brasiliani per la Coppa del mondo di calcio, sono fatti profondamente legati tra di loro. Il “grande” calcio ha perso contatto con il buon gioco. Tra il mercato delle multinazionali dello sport e la partita di calcio nel campetto c’è sempre meno in comune, come c’è sempre meno contatto etico tra il mio comprare pane al mercato e le dinamiche dei grandi mercati internazionali dei cereali. Non si tratta più – come fino pochi decenni fa – di differenze di grado, bensì di natura, una trasformazione profonda cui ha contribuito, e non poco, l’avvento del capitalismo finanziario.

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Il mostro in "Paradiso"

Il mostro in "Paradiso"

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Il tema di attualità all'esame di maturità: un commento

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/06/2013

logo avvenireIl tema di ordine generale dedicato a una frase tratta da “La rete della vita” del fisico austriaco Fritjof Capra offre molti spunti per ragionare sul significato di termini come competizione e cooperazione. La cooperazione è la regola aura della vita. Il libro della natura ci racconta soprattutto storie di organismi che operano insieme (co-operano) in vista di un mutuo vantaggio. Ma se guardiamo le migliori teorie della biologia evolutiva del secondo Novecento, ritroviamo modelli che combinano elementi di cooperazione con altri di competizione.

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Ci sono, infatti, due errori da evitare in tema di evoluzione. Il primo consiste nell’identificare la cooperazione con l’altruismo.Le pratiche cooperative in molti casi hanno bisogno anche di comportamenti altruisti da parte di uno o più individui (dall’anatra che aumenta il rischio di essere predata quando lancia un grido di allarme allo stormo per l’arrivo di un falco, all’uomo che si getta nel fiume per salvare qualcun altro che sta annegando). Ma la regola generale della cooperazione non è il sacrificio unilaterale ma il mutuo vantaggio, la reciprocità, la mutualità. Ciò è particolarmente vero nella cooperazione (intenzionale) umana, dalla famiglia alle imprese, dove il cooperare è ‘un gioco a somma positivo’, da cui si esce, in genere, con un mutuo vantaggio.

Il secondo errore da non commettere – verso cui potrebbe condurre la conclusione della frase di Capra – è leggere la cooperazione come l’antitesi della competizione. Competere, come è noto, proviene dal latino “cum-petere”, cercare insieme, un concetto che ricorda molto da vicino la cooperazione. Pensiamo allo sport o al mercato. Non cooperiamo solo all’interno di una squadra: si coopera anche con i concorrenti in una gara di atletica, perché il confronto con gli altri, l’emulazione dei più bravi, migliora i record, e mi fa crescere. Ciò è ancora più vero per il mercato, che è prima di tutto una grande rete cooperativa, che vive anche di ‘civil concorrenza’, come amavano dire gli economisti italiani dei secoli scorsi. Certo, se nello sport ci si dopa e se nel mercato si evadono le tasse, la competizione diventa l’anti-cooperazione e produce ‘male comune’. Come esiste una cattiva cooperazione, quelle delle mafie o dei cartelli tra imprese. Ma qui parliamo di malattie, non della fisiologia delle cose. Un buon sistema sociale sa leggere la competizione come alleata della cooperazione.

Il tema di argomento generale:  Fritjof Capra ('La rete della vità) afferma: "Tutti gli organismi macroscopici, compresi noi stessi, sono prove viventi del fatto che le pratiche distruttive a lungo andare falliscono. Alla fine gli aggressori distruggono sempre se stessi, lasciando il posto ad altri individui che sanno come cooperare  e progredire. La vita non è quindi solo una lotta di competizione, ma anche un trionfo di cooperazione e creatività. Di fatto, dalla creazione delle prime cellule nucleate, l'evoluzione ha proceduto attraverso accordi di cooperazione e di co-evoluzione sempre più intricatì." Il candidato interpreti questa affermazione alla luce dei suoi studi e delle sue esperienze di vita

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Il tema di attualità all'esame di maturità: un commento

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/06/2013

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Capra, molti gli spunti di riflessione ma era facile cadere nello scontato

Capra, molti gli spunti di riflessione ma era facile cadere nello scontato

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Commenti - L’importanza delle relazioni umane nelle imprese

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/06/2013

logo_avvenireQuando un Paese non crea lavoro, soffre anche chi il lavoro ce l’ha. Il benessere lavorativo è in diminuzione, soprattutto nell’Europa del Sud (Ipsos, TNS-sofres). Il 68% dei francesi, ad esempio, dice che tra il 2008 e il 2012 la qualità della loro vita lavorativa è degradata. Una percentuale che arriva al 75% per i lavoratori compresi tra i 35 e i 49 anni. C’è, infatti, una sofferenza tipica dei lavoratori di mezza età, quelli che non sono né all’inizio né alla fine della carriera.

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Le motivazioni nel lavoro crescono con noi. Quando si inizia un lavoro, soprattutto da giovani, le motivazioni sono in genere forti. Dopo venti anni che si lavora nella stessa organizzazione, magari nello stesso ufficio, quelle prime motivazioni tendono a perdere forza, e all’entusiasmo dei primi anni subentrano stanchezza e non di rado cinismo, se non si è capaci di trovare nuove motivazioni, magari più profonde e alte delle prime, certamente diverse. Ciò è vero - lo dicono quegli stessi dati - soprattutto per i dipendenti pubblici e per gli impiegati di medio livello.

Basta guardarsi attorno, o dentro, per vedere quanta insoddisfazione c’è nei nostri luoghi di lavoro, soprattutto nelle persone di mezz’età. Non a caso gli studi sulla felicità mostrano un andamento ad “U” in rapporto all’età: il minimo di felicità si raggiunge attorno ai 45 anni – poi la felicità riprende a risalire, se si hanno salute e buone relazioni.

Ciò che è certo è che abbiamo costruito organizzazioni e regole di governo che ignorano, o trascurano troppo, le diverse età della vita, dimenticando che tra Maria lavoratrice ventenne e Maria sessantenne c’è poco in comune. Noi cresciamo, evolviamo, ma la nostra impresa non cresce e non cambia con noi e come noi. Ecco allora che nel ‘mezzo del cammin’ ci ritroviamo spesso in crisi profonde, che vanno ben oltre la sola dimensione professionale – il lavoro è vita.

Il mondo dell’ impresa investe troppo poco nella cura delle relazioni umane. Anzi, la cultura relazionale interna alle imprese, private e pubbliche, è troppo spesso basata sulla sfiducia e su un pessimismo antropologico che ci ha convinti che la gente lavora solo quando è controllata o incentivata. Così troppa gente sta male a lavoro – quando daremo vita ad un indicatore nazionale di benessere e malessere lavorativo? -, e spendiamo sempre più tempo e denaro in ricerca di benessere, spesso illusorio, fuori dal lavoro (wellness, spa), in fuga dal malessere lavorativo. È questo un umanesimo saggio e sostenibile? Non sarebbe socialmente più intelligente aumentare il benessere, e quindi la qualità delle relazioni, mentre si lavora?

In questo cambiamento di paradigma potrebbero venirci incontro, ad esempio, la storia e la cultura delle istituzioni carismatiche che sono, guarda caso, le istituzioni più longeve dell’Occidente – la vita media di una abbazia benedettina europea è di circa cinque secoli. La loro durata dipende anche da regole di governance, che ne hanno consentito, e ne consentono, la lunga e buona vita. Ci sono alcuni strumenti di tali comunità carismatiche che dovrebbero essere imitati, con opportune mediazioni, anche dalle imprese, poiché hanno una portata antropologica universale.

Prendiamo, per un esempio, la pratica del colloquio periodico tra ogni membro della comunità e il proprio diretto responsabile, strumento cruciale per la cura relazionale di quelle comunità. Ci sono molte imprese dove i dipendenti vanno in pensione senza aver mai avuto un vero colloquio personale con il proprio dirigente. Conosco, invece, alcune imprese e cooperative dove tali pratiche esistono, sebbene siano ancora rare e saltuarie.

Il colloquio lavoratore/responsabile – che non va confuso con il ‘coaching’, molto di moda - ha invece un’importanza cruciale, soprattutto oggi. Ci sono molti benefici, individuali e organizzativi, che produrrebbe la pratica sistematica del colloquio (due volte l’anno?).

Innanzitutto, il colloquio crea uno spazio idoneo nel quale esprimere le proteste, le sofferenze, i dissensi, i disagi. Se mancano questi spazi si generano fiumi di chiacchiere, di pettegolezzi, debiti e crediti psicologici, che alimentano divisioni e possono diventare dei propri e veri cancri organizzativi. Le mormorazioni di biblica memoria non sono sempre e soltanto frutto di persone maldicenti e pettegole; possono anche essere il prodotto di una istituzione che non prevede nessun strumento per orientare costruttivamente le proteste, le critiche e i disagi delle persone, e anche per ringraziare, atto fondamentale in ogni comunità, anche lavorativa.

Ci sono responsabili e manager che pensavano di aver ringraziato un lavoratore perché gli avevano inviato un “grazie” o un “bravo” incrociandolo lungo le scale, magari parlando al telefonino. Parole come “grazie”, “scusa”, “bravo” sono preziose solo se usate con parsimonia.

Infine, la pratica del colloquio aumenta quella “philia” necessaria ad ogni organizzazione, perché, se ben fatto, il colloquio non è uno strumento della gerarchia ma della fraternità – entrambi parliamo e ascoltiamo, doniamo e riceviamo. E non raramente anche un lavoratore può aiutare un responsabile a vedersi con l’occhio dei suoi dipendenti, un dono immenso quando lo si riceve, e lo si sa e vuol ricevere. L’errore più grave che può fare un responsabile durante un colloquio e respingere le critiche, oppure dare risposte sbrigative (“ma non hai capito …”, “ti mancano elementi …”, “ti spiego …”).

L’efficacia di un colloquio non sta tanto nelle risposte che si ottengono, ma nella possibilità di esprimere un disagio, una critica, e trovare nell’altro qualcuno che le sa accogliere, e che sa ascoltare – quanto dovremmo investire nell’arte dell’ascolto vero!

Uno dei compiti più importanti di un responsabile è accogliere le critiche: incassarle, elaborarle, e mai rinviarle al mittente. Il diritto allo sfogo è un diritto del lavoratore. E l’ascolto dello sfogo è un dovere dei manager. Per questo occorrono i luoghi e i momenti, investimenti in tempo e adeguata preparazione, anche etica, in entrambe le parti. Non è certo facile fare un buon colloquio: ma ci si può impegnare, esercitarsi, imparare dagli errori – i frutti sono copiosi.

Infine, ci sono due colloqui particolarmente importanti per un lavoratore: il primo e l’ultimo. Il primo dovrebbe essere quello nel quale al neo-assunto si dona la tradizione dell’impresa, la storia dei suoi fondatori, comprese le passioni umane, e a volte gli ideali, che l’hanno generata. E dove si ascoltano le aspirazioni e le passioni del nuovo lavoratore, e magari lo si presenta a tutta la comunità aziendale in un momento di festa.

Non meno decisivo è l’ultimo colloquio quando si lascia un lavoro in cui si sono trascorsi gli anni migliori della vita. Un “grazie” o uno “scusami” detti in quell’ultimo ‘incontro’ possono dar senso e qualità spirituale ad un momento di passaggio tra i più delicati dell’esistenza. Imitiamo i carismi, maestri di umanità, se vogliamo aumentare la qualità delle relazioni nelle nostre organizzazioni. Ce n’è un urgente bisogno.

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Commenti - L’importanza delle relazioni umane nelle imprese

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/06/2013

logo_avvenireQuando un Paese non crea lavoro, soffre anche chi il lavoro ce l’ha. Il benessere lavorativo è in diminuzione, soprattutto nell’Europa del Sud (Ipsos, TNS-sofres). Il 68% dei francesi, ad esempio, dice che tra il 2008 e il 2012 la qualità della loro vita lavorativa è degradata. Una percentuale che arriva al 75% per i lavoratori compresi tra i 35 e i 49 anni. C’è, infatti, una sofferenza tipica dei lavoratori di mezza età, quelli che non sono né all’inizio né alla fine della carriera.

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Parliamone, ma davvero (altrimenti non si cresce più)

Parliamone, ma davvero (altrimenti non si cresce più)

Commenti - L’importanza delle relazioni umane nelle imprese di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 16/06/2013 Quando un Paese non crea lavoro, soffre anche chi il lavoro ce l’ha. Il benessere lavorativo è in diminuzione, soprattutto nell’Europa del Sud (Ipsos, TNS-sofres). Il 68% dei francesi...
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Commenti -Impresa, Gerarchia e "Philia"

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/06/2013

logo_avvenireNelle imprese sta aumentando la gerarchia. Quando la nave rischia di affondare - si dice - bisogna mettere da parte le pratiche partecipative e ridare il comando al capitano con gli ufficiali pronti ad eseguire i suoi ordini. La gerarchia nelle imprese è un grande tema della democrazia. John S. Mill, più di un secolo e mezzo fa denunciava la persistenza di due realtà feudali al cuore della democrazia moderna. Queste erano la famiglia, dove il rapporto tra il marito e la moglie era del tipo padrone-servo, e l’impresa capitalistica, basata sul principio gerarchico, eredità del mondo antico. Così Mill proponeva il voto e il lavoro alle donne per superare la famiglia feudale, e la diffusione delle cooperative per democratizzare le imprese. Dopo oltre un secolo e mezzo, nella famiglia, soprattutto nelle culture occidentali, l’uguaglianza uomo-donna è sempre più sostanziale (meno nelle imprese e nelle istituzioni), grazie anche alla partecipazione politica ed economica delle donne.

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Le imprese capitalistiche, però, restano ancora troppo ancorate al principio gerarchico. E così ci ritroviamo ancora con una delle principali istituzioni della democrazia moderna, l’impresa, basata proprio, e sempre più, su quel principio antico (la gerarchia tra diseguali) che la modernità voleva combattere. È questo uno dei tanti paradossi del mondo contemporaneo, che noi accettiamo senza troppi problemi e discussioni pubbliche, e che il movimento cooperativo aveva cercato di superare portando democrazia nelle imprese (nel consumo e nel risparmio).

 

 

Questo ritorno di gerarchia deve invece preoccuparci, perché le imprese, e tutte le organizzazioni, vivono e crescono bene quando sanno abbinare al principio gerarchico altri principi co-essenziali. Uno di questi è quello che Aristotele chiamava philia, una parola che oggi possiamo tradurre, più o meno, con amicizia o reciprocità non contrattuale. Un’impresa non funziona quando le relazioni si appiattiscono sul solo registro gerarchico, perché le manca l’altra colonna di ogni organizzazione, e cioè il sentirsi parte di un destino comune e di un bene comune da raggiungere assieme. Se in un’impresa non scatta anche questa dimensione orizzontale, che coinvolge tutti i membri dell’impresa, quella istituzione potrà anche fare profitti e pagare salari, ma non sarà mai un luogo dove la gente vive bene e fiorisce in umanità. Anche le relazioni aziendali sono relazioni sociali, nelle quali attiviamo non solo il registro del puro calcolo degli interessi, ma tutte le nostre emozioni, passioni, speranze, amore. Così quando manca la philia tra tutti, nelle imprese mancano l’entusiasmo e la gratuità; e senza entusiasmo e gratuità non si innova né si esce dalle crisi.

Va poi ricordato che la gerarchia, che è uno dei principi più primitivi, nasce per garantire e gestire l’immunità e quindi la separazione tra puro e impuro. Il bisogno di immunità dagli “impuri” è fondamentale per comprendere ogni forma di gerarchia, da quelle arcaiche a quella delle imprese capitalistiche, dove tra i top manager e gli operai dei reparti non c’è alcun vero contatto. Ma se le imprese non compensano l’immunitas della gerarchia con la communitas della reciprocità, diventano alla lunga dei luoghi invivibili, e non di rado disumani.

Le nostre imprese hanno prodotto e producono ancora buona vita insieme a buoni prodotti perché l’imprenditore era, ed è, anche un lavoratore accanto agli altri, spesso artigiano e quindi gomito a gomito con i suoi dipendenti, loro compagno di pane e di strada. È anche vero che in certi momenti e in certe funzioni l’imprenditore, o il manager, è diverso dai suoi operai – nel prendere una decisione strategica, nel fare un rimprovero, nelle responsabilità, nei doveri, nei guadagni, e nelle perdite. Ma molte altre volte è uno o una di loro, con lo stesso destino e compito etico: far vivere e crescere un’impresa, comunità, famiglie, sogni.

È questa la vera solidarietà dell’impresa, che, quando c’è, ne fa un brano di vita autentica e buona: imprenditori, dirigenti, impiegati, lavoratori, tutti diversi e tutti uguali, ordinati dalla gerarchia e dai contratti ma prima legati reciprocamente da philia e da patti, spesso impliciti ma non meno importanti dei comandi e dei contratti. Quando la comunità aziendale non sente, in alcuni fondamentali momenti, il manager o l’imprenditore come uno di loro perché non fa mai l’esperienza dell’uguaglianza con tutti, l’impresa non riesce a tirar fuori da ogni persona il meglio. Né riesce a generare felicità vera, che nasce da rapporti tra uguali, da incontri “occhi negli occhi”, come fu, ed è, quello pieno di stupore e di gioia tra l’uomo (Adam) e la donna (Eva). Ecco perché la mancanza di gioia e di festa è sempre un primo segnale che in un’impresa, e in qualsiasi organizzazione, sta scomparendo la philia per lasciar spazio ai soli rapporti formali e gerarchici.

Le feste aziendali veramente utili, e per questo troppo rare, sono quelle dove anche i “capi” si lasciano prendere in giro, mangiano e bevono con e come tutti. Se manca questa uguaglianza nella festa, anche i brindisi natalizi finiscono per rafforzare le distanze, le gerarchie, le immunità. Quando la nave affonda la sola gerarchia sembra essere più efficace. Ma chi ha vissuto vere crisi sulle vere navi, nelle comunità e nelle imprese, sa invece che se durante i tempi ordinari non si investe in philia e in reciprocità, si è forse più efficienti nella gestione delle piccole crisi, ma si affonda veramente nelle grandi, quando ti serve l’anima e il cuore delle persone, e non li hai. Ti servirebbe la forza dei patti, e ti ritrovi invece con la debolezza dei soli contratti e degli organigrammi di carta. La philia che sembra più debole – perché più prossima e “contaminata” – del nudo comando, è in realtà più forte e resiliente nei momenti nei quali serve quella tipica forza morale collettiva che nasce dalla consapevolezza e dall’esperienza quotidiana della mutua fragilità e vulnerabilità.

Una forza invisibile che conoscevano bene i contadini e le donne nelle società di ieri (ma anche di oggi). Quando alla gerarchia si affianca la philia, la gerarchia non è più la stessa: si trasforma, si umanizza, si fraternizza, sembra perdere forza mentre in realtà l’acquista - purché la philia non sia solo faccenda di retorica e di pacche sulle spalle, ma diventi prassi aziendale, governance, regole del gioco, e anche politiche salariali eque e diverse, come ci insegna ancora oggi Adriano Olivetti. Un dirigente che sa farsi prossimo e solidale con i suoi compagni di viaggio non è meno forte di chi tiene le distanze non contaminandosi. Ma queste capacità e questi talenti non si imparano nelle business school del capitalismo, dove, anzi, vengono biasimate e avvilite, perché considerati “perdenti”. La betulla non è meno forte del pino - chiedetelo al vento di tempesta. In questa stagione di passaggio e di burrasca dell’economia e della vita civile, ci serve un nuovo investimento in relazioni umane e in una cultura organizzativa. Ci serve la forza della betulla.

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Commenti -Impresa, Gerarchia e "Philia"

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/06/2013

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La forza della betulla

La forza della betulla

Commenti -Impresa, Gerarchia e "Philia" di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 09/06/2013 Nelle imprese sta aumentando la gerarchia. Quando la nave rischia di affondare - si dice - bisogna mettere da parte le pratiche partecipative e ridare il comando al capitano con gli ufficiali pronti ad e...
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La proposta

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/06/2013

logo_avvenireDovremmo approfittare di questa crisi economica per introdurre una sorta di giuramento, o patto etico, per le professioni economiche. In Medicina da tempi remoti esiste il cosiddetto «Giuramento di Ippocrate», che viene prestato dai medici ed odontoiatri prima di iniziare la loro professione. Credo che sia giunto il tempo per pensare a introdurre uno strumento analogo per i professionisti economisti. Non solo per i manager di grandi imprese (per i quali se ne parla già da un po’), ma anche per i commercialisti, i consulenti, gli economisti, gli amministratori, i bancari. In un editoriale per il quindicinale “Cittanuova” (n.10) ho proposto di intitolare questo giuramento ad Antonio Genovesi, e per almeno due ragioni. [fulltext] => Innanzitutto Genovesi è stato un economista che ha fondato la sua visione dell’economia e dei mercati sulla dimensione etica, sulla fiducia e sulla pubblica felicità. In secondo luogo, Genovesi è stato il primo cattedratico di economia nella storia, nel 1754 a Napoli. Due ottime ragioni per far di Genovesi l’Ippocrate delle scienze economiche moderne.

Il giuramento è una forma di patto, che quindi utilizza registri e linguaggi antropologici ed etici più potenti di quelli dei soli contratti. Nel moderno giuramento di Ippocrate, il medico si impegna in una «alleanza terapeutica», a difendere la vita, a non compiere mai atti idonei a «promuovere la morte di una persona», di fondare i rapporti di cura sulla «fiducia e sulla reciproca informazione», e molto altro ancora.

Per scrivere un giuramento di Genovesi si potrebbe, e dovrebbe, dar vita ad una commissioni composta da professori di economia, e magari da rappresentanti delle professioni economiche, per redigere insieme un breve testo del giuramento, a partire da alcune intuizioni presenti nel pensiero stesso di Genovesi (tra cui la splendida frase: «È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri», 1763), e completarlo con elementi di etica e deontologia, la cui assenza è tra le radici della crisi che stiamo vivendo.

Esempi di alcuni di questi elementi che un tale testo dovrebbe contenere sono: «1. Non userò mai a mio vantaggio e contro gli altri le maggiori informazioni di cui disporrò nell’esercizio della mia professione. 2. Guarderò al mercato come un insieme di opportunità per crescere insieme, e non a una lotta o una gara dove qualcuno vince a spese degli altri. 3. Non tratterò mai i lavoratori solo come un costo, come un capitale, una risorsa, al pari degli altri costi, capitali e risorse dell’economia. Il lavoratori sono prima di tutto persone, e con questa dignità vanno trattate, rispettate, valorizzate, onorate. 4. Valorizzerò il merito, di cui però non avrò mai una visione univoca e riduzionista» ecc.

Il giuramento potrebbe essere recitato al termine della cerimonia di laurea, in un momento e luogo solenne. Ricordo ancora oggi le parole e i gesti durante la mia seduta di laurea. Sono momenti fondativi del lavoro futuro di una persona. Collocare il giuramento in quella sede, e consegnarlo poi al giovane e alla giovane neo-laureati, avrebbe un peso morale e simbolico non irrilevante. Certo, lo sappiamo e lo vediamo ogni giorno, non bastano i giuramenti per fare un buon medico o, domani, un buon commercialista. Al tempo stesso, se i simboli e le "liturgie" sono curati e pensati (ps: forse si potrebbe e dovrebbe rilanciare e rivalorizzare anche il giuramento dei medici), possono aiutare a creare una mentalità, una cultura soprattutto per i nuovi professionisti ed operatori economici.

Il peso delle dimensioni e scelte economiche nella vita della gente è crescente: ci stiamo accorgendo che si muore per una diagnosi sbagliata o superficiale, ma si muore anche, lo stiamo tragicamente vedendo, per un licenziamento fatto male, per un finanziamento che non arriva quando dovrebbe arrivare, per un consiglio sbagliato di un consulente. L’etica economica è ormai diventata un bene di prima necessità, che quando manca fa anche morire. Prenderne coscienza, a cominciare dalle università da dove escono i futuri professionisti economici, può essere il primo passo per iniziare a cambiare.

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La proposta

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/06/2013

logo_avvenireDovremmo approfittare di questa crisi economica per introdurre una sorta di giuramento, o patto etico, per le professioni economiche. In Medicina da tempi remoti esiste il cosiddetto «Giuramento di Ippocrate», che viene prestato dai medici ed odontoiatri prima di iniziare la loro professione. Credo che sia giunto il tempo per pensare a introdurre uno strumento analogo per i professionisti economisti. Non solo per i manager di grandi imprese (per i quali se ne parla già da un po’), ma anche per i commercialisti, i consulenti, gli economisti, gli amministratori, i bancari. In un editoriale per il quindicinale “Cittanuova” (n.10) ho proposto di intitolare questo giuramento ad Antonio Genovesi, e per almeno due ragioni. [jcfields] => Array ( ) [type] => intro [oddeven] => item-even )

Un giuramento per i manager

Un giuramento per i manager

La proposta di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 05/06/2013 Dovremmo approfittare di questa crisi economica per introdurre una sorta di giuramento, o patto etico, per le professioni economiche. In Medicina da tempi remoti esiste il cosiddetto «Giuramento di Ippocrate», che viene prestato da...
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Commenti -Ascoltare il corpo, ciò che ricorda e insegna

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/06/2013

logo_avvenirePer ricreare lavoro e sviluppo dobbiamo trovare un nuovo rapporto con il corpo. Con quello reale però, non con quelli immaginari e immaginati, nostri e degli altri, che esaltiamo, aduliamo, idolatriamo, consumiamo e auto-consumiamo come merci finché giovani e fiorenti, e che poi rifiutiamo, in noi e negli altri, quando si ammalano, appassiscono, invecchiano. Il tema del corpo, in particolare della sua eclissi, è fondamentale per comprendere anche alcune dinamiche decisive nel mondo della grande impresa e della grande finanza.

Le istituzioni, economiche e di ogni tipo, possono diventare disumane quando perdono di vista l’essere umano concreto, quindi corporeo. [fulltext] =>

La cultura contadina e quella della fabbrica sono state culture dure ma umane, anche perché erano basate su incontri, e scontri, tra esseri umani in carne ed ossa.

Quando i lavoratori, i clienti e i fornitori, e magari i colleghi, diventano invece realtàastratte e lontane, e così chi decide su di loro non li incontra e non li vede (se non, magari, in teleconferenza), accade che le persone inesorabilmente diventino soltanto numeri, algoritmi, costi.

Perdono il corpo, e quindi non sono più veramente persone.

Quando dell’altro non vedo il volto, il colore delle guance, il luccichio degli occhi, non sento il suo odore; quando non gli stringo la mano e sento se è sudata o tremula, diventa impossibile fare scelte giuste e buone che riguardano quelle persone. Si tagliano così 'teste', perché non sono teste di persone vere, ma quelle di pupazzi, di icone sul computer, di risorse umane. Ma quando non si vede nell’altro il suo corpo non si vede nulla di veramente umano, perché dire essere umano è dire corpo.

L’umile corpo dice meglio e più di trattati di teologia o di filosofia, la ricca ambivalenza della condizione umana: qualcosa fragile come l’erba del campo, ma fatto «poco meno degli angeli» (salmo 8). Il corpo è quello aurorale del Cantico ma anche quello declinante del Qoèlet: solo insieme capiamo cosa sia veramente il corpo e la relazione umana. Al tramonto, anche quello del corpo, si vedono orizzonti invisibili all’aurora. È la consapevolezza carnale di questa nostra ambivalenza che ci impedisce di sentirci angeli senza corpo e quindi immortali, o solo erba da calpestare. Prendere sul serio il corpo significa dare dignità a tutti i suoi sensi, perché soltanto gli incontri che li attivano tutti e cinque sono incontri veramente e pienamente umani. Compreso il senso del gusto: è ben noto che le comunità umane - dalla famiglia alle comunità religiose alle imprese - entrano in crisi quando non mangiano più assieme. Far mangiare nella stessa tavola Don Abbondio e Agnese, manager e operai, è operazione tra le più difficili e rare.

È il corpo che dice il limite nostro e degli altri, quindi la vera alterità e reciprocità. Chi non ha fatto la (triste) esperienza di scrivere e inviare, in preda a una crisi di permalosità, email o sms che contenevano parole e 'toni' che non avremmo detto, o avremmo detto diversamente e meglio, se avessimo avuto di fronte l’altro in carne ed ossa? Espressioni come 'ti voglio bene' o 'lasciami in pace' dicono realtà molto diverse se scritte pigiando su una tastiera, o pronunciate guardando l’altro negli occhi, o, nel primo caso, prendendogli la mano. Non saremo capaci di un nuovo welfare, tantomeno economicamente sostenibile, e quindi di un nuovo patto sociale per la cura e per la sanità, se non troveremo una nuova amicizia con il corpo in tutte le sue stagioni, con i suoi limiti. Un malato davvero incurabile è chi non accetta l’invecchiamento, il decadimento e la morte, cioè la legge del corpo e il suo tipico linguaggio. Non ci si salva veramente dalle malattie amputando corpi ancora sani, ma accogliendo, facendo entrare dentro la nostra casa, abitando, la realtà del limite, e quindi della sofferenza, della vulnerabilità, della ferita (vulnus), e della morte, che solo così può diventare «sorella nostra morte corporale».

La prima e più profonda conoscenza del mondo passa per il corpo, e non solo per i bambini.

Conosciamo le cose toccandole, imponendo su di loro le mani. Il lavoro è in crisi perché è in crisi il corpo vero, le sue mani e la sua tipica conoscenza feconda. Non ho mai conosciuto un intellettuale generativo di vita, che prima di scrivere parole non le concepisse (concetti) nel travaglio.

La nostra civiltà non sarà mai una civiltà capace di fedeltà finché non si riconcilierà con il corpo in tutte le sue stagioni. Ogni patto, a partire dal matrimonio, è un sì detto anche a un corpo, alle sue benedizioni e alle sue ferite: è sempre una fedeltà incarnata.

Come ogni vera riconciliazione ha bisogno di lunghi abbracci e di pianti comuni: non bastano telefonate, email, skype, lettere di scuse degli avvocati. «E piansero insieme», ci dice il libro della Genesi a commento della riconciliazione tra Giacobbe e suo fratello Esaù, dopo lunghe lotte, ferite e inganni.

Ogni cultura che è stata capace di risorgere ha saputo prima riconciliarsi con il limite e con la morte, perché ogni vera resurrezione porta in sé le stigmate delle ferite.

Dobbiamo riconciliarci con il corpo, se vogliamo riapprendere l’arte delle relazioni incarnate, le sole vere, un’arte che oggi ha pochi allievi anche perché rarissimi sono i maestri. E così assistiamo a un crescente analfabetismo relazionale, che sovente è direttamente proporzionale al ruolo occupato nella gerarchia aziendale e organizzativa. Sono le donne, in modo speciale e unico le madri, le sapienti del corpo, del suo limite e nella sua potenza vitale straordinaria. Come lo sono gli infermieri e le infermiere, che i malati li conoscono perché - e quando - li toccano. «La prima cura è il medico», mi disse un dottore quando venne a casa per curarmi e i sintomi sparirono non appena iniziò a visitarmi. Nei consigli di amministrazione degli ospedali vorrei vedere le infermiere, le suore e i carismi che hanno occhi capaci di vedere la benedizione oltre la ferita del corpo, posti oggi occupati da persone, lautamente remunerate, che in troppi casi i malati veri non li vedono, né tantomeno li toccano. Rimettiamoci allora all’ascolto del corpo, di tutto il corpo e di tutti i corpi: hanno ancora tante cose da raccontarci.

Molte dimenticate, alcune bellissime. Tutte essenziali per la qualità della nostra vita. ​​​

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Commenti -Ascoltare il corpo, ciò che ricorda e insegna

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/06/2013

logo_avvenirePer ricreare lavoro e sviluppo dobbiamo trovare un nuovo rapporto con il corpo. Con quello reale però, non con quelli immaginari e immaginati, nostri e degli altri, che esaltiamo, aduliamo, idolatriamo, consumiamo e auto-consumiamo come merci finché giovani e fiorenti, e che poi rifiutiamo, in noi e negli altri, quando si ammalano, appassiscono, invecchiano. Il tema del corpo, in particolare della sua eclissi, è fondamentale per comprendere anche alcune dinamiche decisive nel mondo della grande impresa e della grande finanza.

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Il limite e la potenza

Il limite e la potenza

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Commenti -Voglia di comunità: attendere e preparare il «ritorno a casa», dopo la crisi

Pubblicato su Avvenire il 26/05/2013

logo_avvenireC’è una nuova voglia di comunità. Una voglia che non di rado assume la forma della nostalgia, del desiderio struggente, di saudade di appartenere a qualcosa di più grande e di più resistente della nostra singolarità. Quando ci si ritrova a cinquant’anni senza lavoro, o quando si arriva a trent’anni e il lavoro non c’è ancora, si riscopre nella propria carne il valore di avere accanto una famiglia, una rete parentale, amicale e comunitaria che attutisce le nostre cadute, e ci impedisce di rovinare a terra o di sprofondare.

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La gestione sostenibile e l’elaborazione costruttiva di ogni caduta o sventura sono sempre operazioni familiari e comunitarie, comprese le cadute e sventure economiche, dalle quali ci si rialza solo se non si è soli. Quando arriva la tempesta, la piena o il tornado, le radici, la loro profondità e forza, contano molto. Nei momenti di crisi, di ogni tipo, si vorrebbe tornare, e si torna se e quando si può, alle proprie radici, in particolare dalle prime radici che sono sempre la famiglia, i genitori. Sembra farci bene l’aria, i profumi e gli odori della terra che ci ha generati. Ci si salva se si cerca, si trova, e poi ci si aggrappa a qualcosa di forte che ancora vive dentro. Ho conosciuto persone che sono guarite, o quantomeno sono state curate, da malattie dell’anima semplicemente tornando a vivere nella terra e nella casa dove erano cresciuti.

 

 

Non a caso l’albero è uno dei grandi e ricchissimi simboli della nostra cultura occidentale. Due alberi sono posti al centro del giardino dell’Eden, l’albero 'della vita' e l’albero 'della conoscenza del bene e del male'. Nel medioevo, poi, la scuola francescana ha letto quegli alberi primordiali in rapporto al legno della croce. È la bellissima tradizione teologica (San Bonaventura) e poi artistica (Ubertino da Casale) dell’arbor crucis, dove il Cristo veniva rappresentato crocifisso su di un albero fiorito e rigoglioso. Il nuovo 'albero della vita', che da legno infelicissimo diventa il nuovo albero 'felice'. Alberi, radici, frutti, comunità. Ma questa stessa immagine dell’albero e delle radici ci rivela subito una radicale ambivalenza della comunità. Le radici non bastano per fare una buona vita, individuale e sociale. Le radici sono essenziali quando c’è la tempesta, ma sono fatali durante gli incendi o le siccità, quando dovremmo spostarci e non possiamo. Per la vita buona c’è bisogno della seconda anima dell’Umanesimo dell’Occidente: quella dell’homo viator . È questa l’anima che ritroviamo nella famosa tesi di Ugo di San Vittore, uno dei padri della cultura europea, che sull’inizio del XII secolo così scriveva: «Chi trova dolce la sua patria è ancora immaturo (delicatus); più forte è chi sente ogni terra come la sua patria». E poi aggiunge: «Ma perfetto è soltanto colui che si sente esule in tutto il mondo». Una tradizione incarnata anche nell’Ulisse dantesco, che una volta tornato a casa deve ripartire verso l’Oceano a occidente. «Né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopé far lieta» (Inferno, XXVI). Una necessità di andare oltre che complementa e completa i bisogno di radici (Itaca) dell’Ulisse omerico. Itaca e l’oltre, l’albero e il mare, la stabilitas loci dei monaci e il vagare degli ordini mendicanti.

Continui radicamenti e nuovi sradicamenti, espirazione ed inspirazione, voglia di casa e bisogno di uscire per non restarvi imprigionati dalle sue consolazioni. A partire dalla famiglia, che è buona comunità quando dà radici e, poi, aiuta i figli ad uscire di casa e formare altre case e altre comunità. Sono queste le nostre 'radici' europee, profonde, ricche, ramificate, intrecciate nella nostra vita, cultura, letteratura, che ci raccontano storie infelici di individui senza radici, ma anche di radici senza comunità, o con comunità sbagliate e mortifere. Come Cosimo, il barone rampante, che fugge dalle sue radici scegliendo di vivere sugli alberi, che non sono più immagine del radicamento ma della fuga. Quando l’Europa ha opposto queste sue due anime co-essenziali e le ha considerate una nemica dell’altra, ha prodotto solo disumanesimi. Ha generato comunità dove i legami sono diventati lacci, dove il bisogno di radici si è tramutato in xenofobia, razzismi, nazionalismi, guerre fratricide. O ha dato vita a individui dove il bisogno di uscire di casa e di mettersi in cammino è diventato solitudine nichilista di chi non ha né mete né ritorni. Oggi dobbiamo ricordarci e ricordare che le crisi generano sempre voglia di ritorno alle radici, ma dalla storia sappiamo che questi ritorni non sono stati sempre buoni ritorni. Il ritorno a casa dopo la seconda guerra mondiale ha generato la Repubblica e autentici miracoli politici, sociali ed economici. Ma non dobbiamo dimenticare che il ritorno alle radici dopo la grande guerra e la grande crisi ha prodotto fascismi e poi altra guerra fratricida. Non sappiamo ancora come sarà il ritorno a casa dopo questa crisi. Ma sarà senz’altro un cattivo ritorno se vorremo riscoprire radici nazionali che non siano anche europee e mediterranee. E se ci dimenticassimo che l’Europa è parte di un mondo più vasto, di cui siamo pure e prima cittadini. Sarà invece un buon ritorno a casa se la voglia di comunità sarà voglia di comunità concrete nei luoghi ordinari del vivere, e non 'comunità immaginarie', astratte, o soltanto virtuali. Non è credibile una comunità dove chiamiamo 'amici' i quasi sconosciuti 'incontrati' sulla rete, ma non vogliamo incontrare né sfiorare i vicini di casa, i colleghi, gli abitanti del quartiere.

La verità etica di un incontro online è misurata anche da come guardo e saluto Marco e Fatima che abitano nel mio stesso pianerottolo. Le comunità più importanti sono quelle dove ci ritroviamo senza averle scelte, dalle quali possiamo anche decidere di partire o fuggire, ma che ci formano e ci amano proprio perché più grandi delle nostre preferenze e gusti. Le comunità che non ci chiudono ma ci aprono alla vita, non sono dei club, dove entriamo pagando una quota, per trovarci tra simili. Non scegliamo i nostri genitori, né i nostri fratelli, né i compagni di scuola, né quelli della parrocchia o del partito. Alle comunità non si chiede l’amicizia, né si dà, perché si chiede e si dà molto di più: le radici, e la voglia di spiccare il volo.

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Commenti -Voglia di comunità: attendere e preparare il «ritorno a casa», dopo la crisi

Pubblicato su Avvenire il 26/05/2013

logo_avvenireC’è una nuova voglia di comunità. Una voglia che non di rado assume la forma della nostalgia, del desiderio struggente, di saudade di appartenere a qualcosa di più grande e di più resistente della nostra singolarità. Quando ci si ritrova a cinquant’anni senza lavoro, o quando si arriva a trent’anni e il lavoro non c’è ancora, si riscopre nella propria carne il valore di avere accanto una famiglia, una rete parentale, amicale e comunitaria che attutisce le nostre cadute, e ci impedisce di rovinare a terra o di sprofondare.

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Le radici e il volo

Le radici e il volo

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Commenti -Il lavoro e lo Spirito

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/05/2013

logo_avvenireNon era solo colpa della finanza. Gli spread e le borse sono migliorati ma la nostra crisi invece di finire sta mostrando la sua vera dura natura: la disoccupazione, e soprattutto l’assenza di lavoro per i giovani. Ci stiamo accorgendo che la finanza speculativa ha soltanto accelerato e aggravato la malattia di un sistema economico italiano e sudeuropeo che era in affanno già da alcuni decenni.

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Certo, una finanza meno avida e più capace di capire e sostenere i progetti innovativi, e una classe di economisti e di operatori economici meno miope e più lungimirante avrebbero potuto rendere quest’età di passaggio meno drammatica e dolorosa. Ma il tramonto di interi sistemi economico-­produttivi covava da tempo sotto la cenere della nostra società. E così oggi ci ritroviamo con molti dubbi sul nostro presente e futuro, e con una certezza: dobbiamo reinventarci nuovo lavoro, che in buona parte sarà diverso, e molto, da quello che noi e i nostri genitori hanno conosciuto.

Intrapresa audacissima, perché dovremmo avere la spirito e la forza di agire, contemporaneamente, su più livelli, tutti coessenziali, iniziando, come si dovrebbe sempre fare in ogni buona società, dai bambini e dalle bambine. Vanno aggiornati, e in molti casi riscritti, i loro codici simbolici del lavoro. La generazione oggi adulta ha realizzato un mondo dei mestieri e delle professioni fatto di immagini e di simboli che si stanno progressivamente allontanando dai bambini e dai giovani.

Servono nuove 'lingue' e una nuova capacità di capirsi tra generazioni parlanti ormai idiomi diversi. Noi da piccoli giocavamo con ruspe, trattori, bambole e mini-laboratori, che creavano nella nostra fantasia il lavoro di domani, un lavoro futuro che vedevamo nel presente degli adulti attorno a noi, nelle letture della scuola, nei racconti dei vecchi. Giocando crescevamo, e ci preparavamo al lavoro. Oggi i giochi dei bambini sono mostri a quattro teste, sempre più nei video e nei telefonini, e sempre più lontani dai luoghi e dai simboli del lavoro. E, soprattutto, i bambini passano sempre più tempo giocando da soli, al chiuso e di fronte alla tv. È stata l’organizzazione comune di giochi, di partite ci calcio, di cacce al tesoro, di corse, la palestra dove ieri si imparava a cooperare, a competere, a risolvere i conflitti, a elaborare le sconfitte e i nostri limiti, e poi – un giorno – a lavorare grazie anche a quelle esperienze fondative del nostro carattere.

Serve uno sforzo collettivo enorme per ricreare le immagini e i sogni professionali dei nostri bambini e giovani: come faranno a inventarsi da adulti un lavoro, e soprattutto un mestiere, se non l’hanno visto, né tantomeno sognato da bambini? E a cooperare nelle imprese di domani? Per questo compito difficile servirebbero anche gli artisti, che con la poesia, la pittura, la letteratura, i cartoni, le storie, i giochi, l’architettura, si mettano accanto ai bambini e ai giovani, a scuola e fuori, per ricreare nuove immagini e nuove storie del lavoro e della vita in comune.

Nel frattempo, però, occorre generare subito lavoro con e per tanti giovani che non stanno lavorando oggi, e non lavoreranno domani.

Per questo occorrerebbe una forma di virtù civile di cui si avverte una grande carestia: la consapevolezza etica che i primi a sapere che cosa serve ai giovani sono loro stessi.

«Ask the boy», chiedi al ragazzo. Questa splendida frase di Baden Powell, il fondatore degli Scout, è una delle intuizioni più profonde sul giusto rapporto tra adulti e giovani. Un’idea certamente carismatica, perché troppo vera e universale.

Un’espressione, tra l’altro, che è una delle più efficaci declinazioni del 'principio di sussidiarietà' nell’educazione: non faccia l’adulto ciò che può fare il ragazzo. La ragazza, il ragazzo, i giovani sono loro, prima di tutti e di tutto, che devono pensare e dire come risolvere i loro problemi, compreso quel problema cruciale che è l’assenza di lavoro. Il mondo adulto può e deve far molto, ma solo dopo aver creduto e riconosciuto questa precedenza. La mancanza di lavoro dipende anche da nuove potenzialità e competenze dei giovani che, anche per mancanza dei giusti ascolti e delle giuste domande, non riescono a diventare reddito, lavoro, mestieri. Ma per fare le domande giuste ai nostri giovani occorre essere intelligenti, cioè saper 'leggere dentro' la loro anima e il cuore, oltre la superficie che spesso nasconde una vocazione professionale ignota al giovane stesso. «Sai zufolare?», chiese a Bartolomeo Garelli il giovane Don Bosco, un altro grande maestro di giovani e di lavoro, al termine di un dialogo profondo con quel ragazzo: «'Quanti anni hai?', 'Ne ho 16'. 'Sai leggere e scrivere?', 'Non so niente'. 'Sai cantare?', 'No'. 'Sai zufolare?'». Sì, Bartolomeo sapeva 'zufolare' (fischiare), e quindi poteva fare anche molto altro di buono. Ogni giovane, insegna a tutti il metodo salesiano, ha una via di accesso alla propria eccellenza, E va soltanto messo nelle condizioni di trovarla, con i giusti ascolti, con le giuste domande, e con occhi capaci di vedere l’invisibile sotto le apparenze, e farlo emergere, e-ducando (facendo venire fuori l’eccellenza che è dentro, nascosta).

Baden Powell e Don Bosco (e le tante educatrici e i tanti educatori carismatici della nostra tradizione e del nostro presente) oggi ci direbbero che non ci può essere pubblica felicità né gioia civile finché quattro giovani su dieci disponibili al lavoro non lo trovano e finché tra i sei che lavorano ce ne sono almeno tre che stanno lavorando in modo precario e sempre più spesso nel posto sbagliato che non li fa fiorire pienamente. I figli, i giovani, ce lo ricorda la tradizione biblica, sono anche il paradiso in terra delle famiglie. Ma i nostri giovani stanno rincominciando a emigrare, perché di nuovo poveri di lavoro e di speranza. I nonni, emigranti di ieri, stanno rivedendo i loro nipoti riprendere in mano la valigia. Ieri come oggi in cerca di pane e futuro; ieri come oggi con le lacrime di chi parte e di chi rimane; ieri come oggi fuggendo da una terra non genitrice di lavoro, perché gelida, arida, sordida. Per bagnarla, lavarla, scaldarla non bastano le politiche economiche, ci servirebbe uno Spirito per dare loro forza, vivificarle, renderle efficaci e feconde. Per donare un nuovo entusiasmo, voglia di vita e di futuro ai tanti giovani, e no, che lo stanno perdendo. «Vieni padre dei poveri», vieni padre dei giovani.

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Commenti -Il lavoro e lo Spirito

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/05/2013

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Chiediamo ai giovani

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Commenti - Il gran vizio dei tempi di crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/05/2013

logo_avvenireC’è un vizio che si sta insinuando an­che nel nostro tempo di crisi, e che rischia di diventare una vera e propria ma­­lattia sociale. È l’accidia, una forma di ma­lattia del carattere, dello spirito e della vo­lontà. Nonostante la sua evidente perva­sività, di accidia oggi si parla troppo po­co, la si considera una parola arcaica e de­sueta, e i pochi che ancora ne compren­dono il significato fanno fatica a consi­derarla un vizio. Per quali ragioni, infatti, dovremmo considerare un vizio lo sco­raggiamento, la tristezza o la noia?

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I fon­datori dell’ ethos dell’Occidente, dai greci ai filosofi medioevali, pensavano invece concordi che l’accidia fosse un grande vi­zio, cioè un vizio capitale, perché è all’o­rigine (capostipite) di altre forme deriva­te di disordini o di malattie del vivere, qua­li la pigrizia, l’incostanza, l’incuria (che è la prima etimologia dell’accidia), la man­canza di senso della vita, la rassegnazio­ne e le depressioni, a volte anche quelle cliniche. Per capirlo occorre tornare a quelle civiltà, e ricordare che per quell’u­manesimo l’accidia minacciava non solo il bene del singolo, ma, come ogni vizio, anche il bene comune e la pubblica feli­cità, che sono il frutto dell’azione di per­sone dedite e impegnate.

La vita buona è vita attiva, è compito, dinamismo, impe­gno civile, politico, economico, lavorati­vo. Per questa ragione quando nel corpo sociale si insinua il virus dell’accidia, oc­corre combatterlo, respingerlo, espeller­lo, per non morire. Il vizio, come la virtù, è prima di tutto u­na categoria civile: le virtù sono buone strade per la fioritura umana o felicità, i vizi ci deviano e portano all’appassimen­to della vita. Con i vizi, e senza le virtù, la vita non funziona. Non sono singole a­zioni sbagliate, ma stati morali ed esi­stenziali nei quali si precipita pian piano, e non sempre come scelta intenzionale, compiuta dalla persona nella consape­volezza della strada che stava imboccan­do (anche per questo il vizio non coinci­de con il peccato). Il vizio, poi, è anche un piacere sbagliato e piccolo, che impedi­sce di raggiungere quello buono e gran­de legato all’uso corretto (virtuoso) del corpo e dello spirito, dei singoli e delle co­munità. È l’accontentarsi delle ghiande dei porci e perdere i cibi della tavola di ca­sa.

Questa ricerca di un piacere piccolo e sba­gliato si ritrova anche nell’accidia, seb­bene possa apparirci meno evidente ri­spetto alla gola, all’avarizia o alla lussuria. L’accidia arriva in seguito a traumi, crisi, delusioni, lutti, fallimenti, a ferite. Invece di mettercela tutta per riprendersi e rial­zarsi, ci si crogiola nel proprio male, ci si commisera, ci si lecca le ferite. In questo crogiolamento accidioso si riesce a pro­vare anche una certa consolazione e per­sino una forma di piacere, un dolce nau­fragar che fa sopravvivere – ma non vive­re – dopo la crisi. Oggi la nostra civiltà dei consumi ci offre molte merci che ci ren­dono più piacevole la coltivazione del­l’accidia (pensiamo, ancora, alla tv), am­plificando le sue trappole. Questo piace­re accidioso è però un piacere sbagliato, miope e molto piccolo, perché non è la passività narcisistica dell’accidia la giu­sta elaborazione dei nostri fallimenti, ma, ce lo ricorda la saggezza antica, la vita at­tiva, l’uscir fuori di casa, il mettersi in cam­mino con sollecitudine...

Per questo una malattia attuale, anche questa endemica e sociale, che assomiglia molto all’antica accidia, è il narcisismo. L’accidia è quindi un grande vizio, perché quando prende piede ci porta a stare male e a vivere male, e se non curata porta a delle vere morti spirituali di persone – ce ne sono tante oggi, se sappiamo vederle, nel mondo dell’impresa e del lavoro –, che dopo una grossa crisi rinunciano a vivere e a far vivere chi è loro accanto, proprio perché incapaci di ricominciare a vivere e far vivere.

Che cosa sia l’accidia, o la melancolia, ce lo dice con la forza tipica della grande arte la misteriosa incisione di Dürer, dove la melancolia (sinonimo, in quel tempo, di accidia e tristezza) è rappresentata da un piccolo essere mostruoso che impedisce all’autore di usare i suoi strumenti di lavoro, che giacciono per terra abbandonati. E sullo sfondo un cielo stellato. Lavoro e stelle, due elementi che durante i tempi dominati dall’accidia cadono assieme. Come negli anni quando fu creato questo capolavoro, che sono quelli del Principe di Machiavelli, del tramonto dell’umanesimo civile, di guerre civili in Italia e di lotte di religione in Europa. E quindi dell’accidia che accompagnava quei tempi di crisi, e accompagna i nostri.

Come per tutti i vizi, la cura più efficace è individuare i primi sintomi e bloccare subito il processo veloce e cumulativo. Non chiudere i processi, lasciare i lavori a metà, non rileggere l’ultima bozza di un articolo, provare tedio per il lavoro ben fatto, ripetere spesso a se stesso: 'Ma chi me lo fare?', 'Non ne vale la pena'. Sono, questi, i primi sintomi di accidia incipiente.

L’antica saggezza dell’etica delle virtù e dei vizi ci suggerisce che quando avvertiamo i primi segnali, dobbiamo reagire subito e «senza indugio» – il vizio consiste nell’assenza di questa reazione decisa, non nel sentire i sintomi. 'Mi alzerò e andrò da mio padre': è questa la risposta virtuosa all’accidia a cui basterebbero le ghiande.

Nell’incisione di Dürer insieme agli strumenti del lavoro abbandonati c’è anche il cielo stellato, ma quell’uomo melanconico guarda da un’altra parte. La crisi è devastante quando ci spegne nell’anima i desideri. Il desiderio ha bisogno delle crisi, perché nasce proprio dall’assenza e dalla caduta delle stelle ( de-sidera, cioè mancanza di stelle) e dalla voglia di ritrovarle. Chi cade nell’accidia si accontenta di un cielo abbuiato, non vuol più riveder le stelle. E troppo spesso questo triste accontentarsi dipende dalle solitudini, dalla mancanza della compagnia di qualcuno che sa stare accanto, e che sa portare a riveder le stelle.

Da questa crisi, troppo seria per appaltarla alle sole scelte economiche e finanziarie, usciremo trasformando rassegnazioni, abbattimenti e accidie di molti cittadini e di intere nazioni in nuovi progetti politici e in un nuovo entusiasmo civile, riaggregando solitudini in destini sociali comuni, passioni tristi e sterili in passioni liete e generative, vizi in virtù civili. Ce la faremo?

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Commenti - Il gran vizio dei tempi di crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/05/2013

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Narciso e l’accidia

Narciso e l’accidia

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Commenti - Il mercato e le relazioni umane

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/05/2013

logo_avvenireImpressiona vedere quante sale cinemato­grafiche stanno chiudendo in questi tem­pi di crisi. La chiusura di un cinema non è so­lo la fine di un’impresa. Il cinema è anche l’i­cona di un uso relazionale del tempo, che og­gi trova sempre meno posto in una società dove il consumo sta sempre più assumendo le sembianze dell’individuo solo e solitario. È la legge di mercato, si dirà. Di un certo mer­cato anonimo, occorre aggiungere, che riem­pie con le sue merci quelle solitudini che in larga misura esso stesso crea.

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Non occorre scomodare economisti e socio­logi per capire che c’è una differenza radica­le tra l’esperienza che fa chi vede un film al ci­nema e chi vede lo stesso film a casa, soprat­tutto se il primo è visto con amici e il secon­do da soli, magari al pc. Quando si esce per andare al cinema insieme ad amici, ci si pre­para, si investe tempo nella scelta che è frut­to di dialogo con gli altri, un dialogo che por­ta spesso a vedere film che non avremmo mai visto se avessimo seguito solo i nostri gusti personali (ho scoperto film splendidi per far contento un amico). Si parla prima, durante e soprattutto dopo il film, un film che da sem­plice prodotto si trasforma così in un incon­tro, dove alla 'merce' si aggiungono altri be­ni, tra i quali, fondamentali, sono quei beni re­lazionali che produciamo e consumiamo in­sieme. Succede anche che si torni al cinema per rivedere lo stesso film con altri amici, per­ché ci piace vedere se il nostro amico si com­muove proprio in quei passaggi nei quali mi sono emozionato (e mi ri-emoziono) anche io. La mutua «corrispondenza di sentimenti» (essere consapevoli che si sta provando in­sieme la stessa emozione), diceva Adam Smith due secoli e mezzo fa, è una delle principali fonti di felicità. Questo intreccio di beni­ emozioni- rapporti generalmente non acca­de, o accade in maniera più impoverita, nel consumo individuale di home-video, per non parlare della visione di capolavori in tv. Tut­ti sappiamo che 'la visione di Amarcord al ci­nema' e 'la visione di Amarcord al pc' sono due cose, due beni molto diversi – peccato che ci vengono presentati, e venduti, come identici.

E qui si apre una riflessione molto più gene­rale. Fino a tempi recenti, per poter 'consu­mare' alcuni beni (arte, cultura, festa, musi­ca, religioni, sport, politica, gioco, scuola, cu­ra, e molto altro) dovevo necessariamente sta­re insieme agli altri. A quei beni erano indis­solubilmente legati anche i beni relazionali. La musica si ascoltava in concerti o in sale da ballo, lo sport nei campi e nelle palestre, e si andava al cinematografo assieme. L’inven­zione del mercato consente oggi, e sempre più, di separare in molti beni la componente relazionale da quella più propriamente indi­viduale. Posso ascoltare da solo musica con l’i-Pod, e poi, quando e se voglio, uscire con gli amici. Posso correre da solo (con l’iPod), in­crociando nei parchi molti altri corridori so­litari senza incontrarne nessuno, e poi, se e quando voglio, coltivare le mie amicizie. Lo stesso accade con i film, con la politica (si è passati dai comizi in piazza a monologhi sul divano con politici televisivi), e ormai con l’u­niversità (stiamo già cominciando a 'com­prare' esami e titoli online senza il bisogno di incontrare nessuno), in una progressiva se­parazione delle merci dai rapporti umani. So­stituiamo il rapporto 'io-tu' (tramite le mer­ci), con il rapporto 'io-merce' e 'tu-merce', rimandando il 'noi' a un secondo, futuro, momento.

E’ questo l’umanesimo del mercato capitali­stico (non di tutto il mercato), dell’individuo, della libertà di scelta. Anche questi sono va­lori dell’Occidente e delle sue radici cristiane, che hanno svolto una funzione decisiva nel­la liberazione degli individui da molti, troppi, rapporti non scelti, da 'balli' con le persone sbagliate e non amate. Ma gli studi sul be­nessere delle persone ci dicono però delle co­se che è bene tener presente per valutare be­ne i benefici del mercato insieme ai suoi co­sti, e magari cercare di riformarlo. L’offerta di molti beni depurati e sterilizzati dai rapporti personali negli ultimi decenni sta vedendo u­na accelerazione impressionante. La concor­renza di mercato, unita al progresso tecnico, abbassa i costi dei beni, i costi monetari ma soprattutto i costi in termini di tempo.

Costa così sempre meno tempo vedere un film a casa: non devo neanche uscire, neanche alzarmi dal letto. Invece – e qui sta il punto – uscire di casa per andare al cinema, o a fare sport con gli amici, costa più o meno come cento anni fa, per non parlare del 'costo' dell’investimento (di tempo, risorse, a­more…) in una amicizia o in una famiglia, che costa, più o me­no, come mille anni fa. Inoltre il tempo e le risorse investite in un’a­micizia è rischioso, può ferirci quando manca reciprocità. Da u­na semplicissima legge economica sappiamo che quando il prez­zo di un bene (merce) scende molto e il costo dell’altro (beni re­lazionali) resta costante, è come se il secondo costasse molto di più. In altre parole, un mercato che, per aumentare le mie libertà, mi separa le merci dai rapporti, in realtà mi sta anche rendendo molto costosi i beni relazionali. «L’altro giorno – mi ha racconta­to un mio collega – avevo chiesto a papà di andare insieme al con­certo del coro di mia moglie. Suono il citofono, e lui mi dice che aveva cambiato idea. Lo capivo, pioveva, vestirsi, uscire, era mol­to più 'costoso' che stare sul divano di fronte ad un film». E poi ha aggiunto: «La mattina dopo si sarà pentito». Che fare allora? Possiamo fare poco, ma qualcosa sì. Innanzitutto con la tassazione dei beni, che ha anche lo scopo di favorire i beni socialmente me­ritori (e oggi i beni relazionali lo sono, in un mondo di crisi di le­gami e quindi di felicità). Ma anche con l’educazione.

Un primo passo potrebbe essere inserire nelle scuole l’educazio­ne al consumo e al rapporto con i beni, insegnando a distingue­re tra il consumo di merci che sono merci e basta, dai beni rela­zionali che sono anche un investimento in vita buona. E poi met­tiamo la tecnologia al servizio dei rapporti. Penso a quei circoli culturali, a quelle parrocchie, dove oggi con una spesa molto con­tenuta possono acquistare un proiettore video di qualità e ricreare nuovi 'cinematografi'. E così possono ricreare la magia del cine­ma, la gioia dei rapporti, delle comunità che oggi si stanno trop­po impoverendo, impoverendoci tutti.

 

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Commenti - Il mercato e le relazioni umane

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/05/2013

logo_avvenireImpressiona vedere quante sale cinemato­grafiche stanno chiudendo in questi tem­pi di crisi. La chiusura di un cinema non è so­lo la fine di un’impresa. Il cinema è anche l’i­cona di un uso relazionale del tempo, che og­gi trova sempre meno posto in una società dove il consumo sta sempre più assumendo le sembianze dell’individuo solo e solitario. È la legge di mercato, si dirà. Di un certo mer­cato anonimo, occorre aggiungere, che riem­pie con le sue merci quelle solitudini che in larga misura esso stesso crea.

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Ci serve tutto un altro film

Ci serve tutto un altro film

Commenti - Il mercato e le relazioni umane di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 05/05/2013 Impressiona vedere quante sale cinemato­grafiche stanno chiudendo in questi tem­pi di crisi. La chiusura di un cinema non è so­lo la fine di un’impresa. Il cinema è anche l’i­cona di un uso relazional...
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Commenti - Quest'Italia, questo primo maggio

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/05/2013

logo_avvenireQuesto primo maggio è una festa mesta. Ma sempre festa è, ed è bene che sia così. Una festa con i panni del lavoro, e con quelli del non-lavoro. Una festa accompagnata dalle lacri­me, a volte vere depressioni, dei disoccupati, di chi il lavoro l’ha perso o di chi, giovane, non lo trova. Oggi dovremmo ascoltarli di più e meglio di ieri, metterci al loro fianco. Dobbiamo festeg­giare il lavoro, soprattutto quando soffre ed è in crisi, perché le feste sono preziose nei tempi del­la prova, quando si attraversano i deserti, quan­do nasce la nostalgia delle 'cipolle' della schia­vitù dell’Egitto.

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Ma non dimentichiamo le lacri­me di chi non può lavorare il giorno prima e il giorno dopo della festa, se vogliamo che quella di oggi sia davvero festa della Repubblica, festa di tutta l’Italia. La fusione, oggi, tra la festa del primo maggio e quella del due giugno, sarebbe forse l’unica ridu­zione accettabile dei giorni di festività, perché quando il lavoro non c’è, o è cattivo, troppo pre­cario e insicuro, è il muro maestro della Repub­blica a cedere, che è il primo muro di ogni casa. Il tasso indecente di disoccupazione è la prima tas­sa sulla nostra Casa comune; una tassa disuma­na, questa sì, che dovremmo subito abrogare. Quella di lavoro sta diventando la più grande ca­restia delle nostre società, una carestia che con­vive, come tutte le carestie della storia, con l’opu­lenza di tanti altri, per i quali le crisi della povera gente, o semplicemente della gente comune, non iniziano né finiscono mai, perché non ne sono toccati, e a volte ne sono anche avvantaggiati.

C’è allora una domanda difficile, poco popolare ed edificante in questa bella festa del lavoro: fe­sta di quale lavoro? E di quali lavoratori?Il lavo­ro è il grande comun denominatore della demo­crazia. È un elemento che ci accomuna e ci fa (in un certo senso) uguali al di là, o al di qua, delle diversità di stipendio, di ruoli, funzioni, ceti sociali. Ed è anche per indicare questa dimensio­ne di uguaglianza tra i cittadini che il lavoro crea – e che il non lavoro, e le rendite, invece distrug­gono – che l’abbiamo voluto scrivere, e vorrem­mo continuare a scriverlo, come prima parola della Repubblica.

Per questa ragione, oggi festeggiano, e possono festeggiare, gli operai e i top manager milionari; le mogli che mantengono, lavorando, mariti di­soccupati magari rovinati anche dalle slot ma­chine e i dipendenti di quelle stesse sale giochi; i gestori di 'hedge fund' e i gli operai che stan­no perdendo il lavoro perché la proprietà in cri­si ha svenduto l’azienda a quegli stessi fondi spe­culativi. Tutti lavoratori, tutti in festa oggi. Ma se ci fermassimo a questa dimensione del lavoro e della sua festa, pur reale e vera, non avremmo colto l’anima più profonda di questa giornata, né, forse, del lavoro.

Se, infatti, è vero che c’è qualcosa in comune tra il lavoro di Carlo, manager super-pagato e quel­lo di Anna, operaia stagionale, sono molte di più le cose che queste due attività umane non han­no in comune, e che sono spesso in contrasto tra di loro. Come c’è qualcosa in comune, ma so­prattutto tante diversità, fra Giovanna che in que­sti tempi di crisi sta prosciugando i risparmi di una vita per non chiudere il negozio e non li­cenziare i suoi due dipendenti, e i proprietari del­l’ipermercato in periferia. Una prima cosa mol­to diversa tra Anna, Giovanna e Carlo si chiama potere, un’altra privilegi, un’altra diritti, un’altra ancora le opportunità, le libertà, le buste paga, e magari la gioia di vivere (chissà quale sarà quel­la più grande?!).

Il lavoro esprime la sostanza della democrazia, perché incarna le differenze reali tra le persone, quelle che contano davvero per la qualità della vita e per la dignità. E lo dice molto più della fi­nanza, o del consumo. Quando Luca, operaio, entra in un concessionario e consuma acqui­stando (spesso a debito) una macchina sportiva, il venditore lo tratta in modo molto simile, in cer­ti casi identico, al super-ricco o al suo 'padrone' nell’impresa. Guida per la città e si sente, sulla sua bella auto, uguale ai suoi capi ufficio, al suo sin­daco, ai suoi governanti. È questa una dimensione della democrazia affi­data ai consumi, essenziale per capire il mondo moderno e la forza simbolica ed evocativa delle merci, ma molto fragile e superficiale. Quando, infatti, quell’operaio scende dall’auto ed entra nel suo posto di lavoro, si accorge subito che non è vero che è uguale al suo 'capo'; e, infatti, se non ha un posto di lavoro sicuro, o se lo perde, cambia radicalmente l’atteggiamento del con­cessionario e della finanziaria e Luca torna ad assomigliare all’antico servo.

In questa giornata dobbiamo allora ricordare che una delle principali speranze e promesse della civiltà moderna è stata quella di affidare soprattutto al (giusto) lavoro la riduzione delle distanze tra diritti, opportunità, libertà effettive, dignità tra le persone. E fino a qualche decennio fa c’era anche, almeno in parte, riuscito, poiché le distanze tra l’operaio della fabbrica e il suo padrone erano minori di quelle tra il servo della gleba e il suo signore.

I contratti di lavoro legano tra di loro le classi, gli interessi, le persone, dando vita a una rete di solidarietà che avvolge, o avrebbe dovuto avvolgere, l’intera società, e un giorno il mondo. È anche questa la vera vocazione sociale del lavoro, la sua altissima dignità: il suo essere cemento della società, legame di reciprocità che unisce tra di loro i diversi, che ci avvicina gli uni agli altri in rapporti di mutuo vantaggio e di amicizia civile. Ma in questo tempo di capitalismo finanziario, queste distanze sociali ed economiche sono tornate a crescere, e i nuovi padroni stanno, pericolosamente, assomigliando molto, troppo, ai vecchi feudatari. Per queste ragioni la festa del lavoro è soprattutto la festa di Anna, di Giovanna, di Luca.

Una festa di tutti, ma che è dalla parte di chi è ancora troppo distante da Carlo, e che gli pone, almeno oggi, qualche domanda difficile, e magari lo invita a conversione individuale e di sistema. Un giorno, questo, che ci dice che non dobbiamo darci pace finché le distanze misurate con il metro delle libertà effettive, dei diritti, delle opportunità e della dignità non si saranno ridotte, e in molti casi annullate. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

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Commenti - Quest'Italia, questo primo maggio

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/05/2013

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Festa di dovere e di speranza

Festa di dovere e di speranza

Commenti - Quest'Italia, questo primo maggio di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 01/05/2013 Questo primo maggio è una festa mesta. Ma sempre festa è, ed è bene che sia così. Una festa con i panni del lavoro, e con quelli del non-lavoro. Una festa accompagnata dalle lacri­me, a volte vere d...
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Commenti - L'Italia (come gli altri Sud d'Europa) sia se stessa. La lezione di Genovesi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 28/04/2013

logo_avvenireL’economia di mercato è una fittissima rete di interdipendenze, magnifica e terribile a un tempo. Nei tempi felici la ricchezza degli uni diventa anche ricchezza degli altri, ma nei momenti di depressione i problemi di intrecciano, si amplificano, e quelle virtuose interdipendenze diventano circoli viziosi, dove ognuno tira verso il basso l’altro. I clienti non pagano, le banche non danno credito, non si pagano i fornitori, che a loro volta non pagano i propri debiti, e così via. Si alimenta in questo modo un vortice che inizia ad assomigliare a un tifone che spazza via fabbriche, lavoro, case, vite.

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Tutta l’Italia che lavora – o che non riesce a lavorare – soffre, ma è il Sud dell’Italia, e dell’Europa, a soffrire di più, dove la crisi sta cancellando le timide primavere economiche dei due decenni passati. Sono convinto che se riusciremo a ripartire, a rialzare la testa, il baricentro di questo nuovo Rinascimento sarà il Meridione, proprio perché è quello che ha ancora troppe potenzialità e talenti inespressi, mortificati da tante ferite della storia, recente e remota.

Anche perché la cultura capitalistica dominante vede solo le 'ferite' delle nostre culture latine e meridiane, ma non sa vederne le 'benedizioni' che pur vi sono, e abbondanti. Un Sud che sta conoscendo di nuovo l’emigrazione di massa dei suoi giovani migliori, una emigrazione 'per pane e dignità', come fu quella di tanti altri italiani, un doloroso capitolo che qualche anno fa pensavamo, tutti, che appartenesse al passato. I Sud dell’Europa hanno bisogno di fiducia, di stima, di auto-stima, di 'coraggio', come si esprimeva uno dei grandi padri dell’Economia civile italiana, ed europea, il napoletano Antonio Genovesi, un autore che in questi giorni andrebbe letto, e ascoltato.

Nelle sue Lezioni di Economia civile del 1765 (è in uscita una nuova edizione dell’opera), leggiamo pagine sull’Italia e sul suo Meridione, che sembrano scritte non ieri, ma domani: «I suoi vini sono il nettare che beono le migliori tavole non solo degl’Inglesi, ma de’ Francesi altresì, ancorché superbi del loro Borgogna. … Paesi di lana, di lino, di canape, d’ogni sorta di animali; paese di caci, di manna ecc., paese di grand’ingegni... Noi dunque per questo solo verso, dovremmo aver quattro volte più di denaro, di quel che ha ciascuna di queste nazioni; e cinque per capo dell’olio, sei per capo del vino, sette pel seta, ecc.». E quindi si chiede, e noi con lui: perché questi denari non c’erano, e non ci sono? «Io non crederò mai che manchi l’ingegno. Chi si può persuadere che i climi temperati generino de’ cervelli più grossolani che i gelati? Neppure che manchi la voglia di faticare; … Dunque bisogna conchiudere che manchi il coraggio, e che vi si fatichi male».

La ragione di questa mancanza di «coraggio» e di buona «fatica» (lavoro), per Genovesi è chiara: «Il massimo peso delle finanze è ricaduto sulle arti, e doveva aver la base sulle terre; quindi è che le arti ne sono state scoraggiate e avvilite». Parole sante: non c’è futuro per uno Stato quando la tassazione continua ad «avvilire» e «scoraggiare» le arti, cioè gli artigiani e le imprese, e a favorire le rendite. I privilegi accordati alle rendite sono sempre il primo indicatori dei sistemi economici e sociali feudali, o neo-feudali come il nostro.

Lo abbiamo denunciato molte volte, e continueremo a farlo. Genovesi era cosciente che quelle qualità e quei primati dell’economia e dell’ingegno italiani erano un’anima – non l’unica, e forse neanche la più evidente – della sua terra e della sua gente; erano senz’altro virtù reali, ma erano mescolate a vizi non meno reali, come sempre, e come ovunque. Tanto che dopo aver elencato tutti quei meriti e virtù del suo Regno, sente di dover specificare: «Se questo articolo viene per caso in mano di qualche straniero, sappia ch’io l’ho scritto digiuno, e dopo aver preso una dramma di rabarbaro». Ma quella lettura generosa del suo Regno, ispirò le riforme e le rivoluzioni napoletane, brevi ma ancora luminose ed esemplari.

Il talento civile o lo 'spirito' di un Paese, dei suoi governanti e dei suoi intellettuali, sta nel saper creare un orgoglio e una speranza civile da segni reali presenti nel passato e nell’oggi, e da lì mostrare un non ancora' migliore del già, e del già stato. Togliete a un popolo questa capacità, e resteranno soltanto l’arte della denigrazione, la critica, il pessimismo, il turpiloquio, l’incattivimento reciproco.

Per ripartire, economicamente e civilmente, dobbiamo essere capaci di mettere a reddito arte, cultura, clima, natura, storia, cibo, vini, turismo, bellezza, dimensioni presenti in tutta l’Italia e l’Europa, ma nel Sud ancora troppo poco valorizzati, e quindi capaci di futuro. Dobbiamo inventarci una antica-nuova identità economica e lavorativa, e non ci riusciremo sognando di imitare la Germania o gli Usa, ma solo creando nuova ricchezza dai nostri antichi capitali, di cui la natura e il genio dei nostri padri e madri ci hanno dotato in quantità e qualità straordinari: «O uomini stralunati che voltate disdegnosi le spalle alla natura, mentre vi offre a due coppe e ricolme le sue ricchezze, sole vere, sole durevoli, sole beatifiche, per seguire certe bizzarre fantasie che non hanno corpo, e non vi sveglierete voi mai da’ vostri sogni?».

Certo per ripartire non bastano queste parole di Genovesi, forse neanche quelle, anche fossero sublimi, di altri filosofi o poeti. C’è bisogno di molto di più, lo sappiamo. Ma nei tempi della prova ci serve anche la compagnia dei grandi, di chi ha saputo vedere di più e diversamente nelle carni e nello spirito del proprio tempo, e con loro cercare di fare altrettanto oggi. Potremmo scoprire e vedere anche noi quel qualcosa di invisibile nascosto nelle trame morali e civili dei nostri popoli, delle nostre imprese, delle nostre comunità, che sono ancora piene di risorse, di capitali, di beni, che aspettano solo di essere trasformati in lavoro e reddito. «Ero disperato. Una mattina sono uscito di casa, e ho visto un capannone. Era lì da sempre, ma non lo vedevo più», mi ha raccontato un imprenditore agricolo.

Quasi sempre la soluzione è sotto-casa, ma nei tempi della prova, non siamo più capaci di vederla. Occorre, allora, reimparare a vedere i nostri veri capitali e veri beni, perché durante tutte le crisi la malattia più grave è quella che annebbia gli occhi dell’anima, e poi dell’intelletto.

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Commenti - L'Italia (come gli altri Sud d'Europa) sia se stessa. La lezione di Genovesi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 28/04/2013

logo_avvenireL’economia di mercato è una fittissima rete di interdipendenze, magnifica e terribile a un tempo. Nei tempi felici la ricchezza degli uni diventa anche ricchezza degli altri, ma nei momenti di depressione i problemi di intrecciano, si amplificano, e quelle virtuose interdipendenze diventano circoli viziosi, dove ognuno tira verso il basso l’altro. I clienti non pagano, le banche non danno credito, non si pagano i fornitori, che a loro volta non pagano i propri debiti, e così via. Si alimenta in questo modo un vortice che inizia ad assomigliare a un tifone che spazza via fabbriche, lavoro, case, vite.

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Gli occhi e il coraggio della ripartenza

Gli occhi e il coraggio della ripartenza

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Commenti - Questa crisi è una «grande depressione»: una malattia sociale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 21/04/2013

logo_avvenireLe cronache continuano a parlarci di suicidi di imprenditori e di lavoratori. Ma ci sono anche tanti, troppi, veri e propri suicidi di imprese, di cui invece si parla molto poco. Questa crisi è proprio una 'grande depressione'. Vi ritroviamo tutti i sintomi delle depressioni serie: tristezza costante, mancanza di entusiasmo, il desiderio che si spegne, voglia di lasciarsi andare, e soprattutto assenza di gioia di vivere, di quella voglia di alzarsi al mattino con il gusto di affrontare la giornata, di incontrare la gente, di avere qualcosa di bello da fare e da raccontare a se stessi, alla propria famiglia, agli altri.

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Il senso della vita non è, e non deve essere, soltanto il senso del lavoro, ma è anche il senso del lavoro e dell’impresa. In Cina mi ha colpito scoprire che la parola che in occidente chiamiamo 'business' è composta dall’unione di due ideogrammi, vita e significato : il senso della vita. «Ho fatto nascere questa impresa perché avevo qualcosa di bello da dire», mi ha detto un giorno un imprenditore.

Anche facendo impresa e lavorando si acquista senso, significato e direzione. E quando lavoro e impresa entrano in crisi, può accadere che non si sappia più dove andare, ci si smarrisca, e quindi si perda il perché del cammino e delle sue fatiche.

C’è una grande fatica tipica di questi tempi. È quella che vivono gli imprenditori che cercano di resistere alle forti tentazioni di vendere la loro azienda, o di chiudere, mollare. Ci sono aziende che è bene che siano vendute, e per diverse ragioni. Perché la proprietà ha esaurito la sua forza vitale innovativa, perché l’imprenditore va in pensione e i figli non hanno intenzione di continuare l’opera, o perché è un’impresa che non era nata da un progetto vitale ma dall’aver colto un’opportunità, e come la si è colta in 'entrata' la si può cogliere – magari a condizioni meno favorevoli – anche in 'uscita'. E potremmo continuare, con molte altre ragioni di 'buone' vendite di aziende, che spesso producono gli stessi effetti della vendita da parte degli eredi di una ricca e antica biblioteca: dispiace, ma i libri vengono liberati, tornando a rivivere in altri lettori, in nuove biblioteche.

Ci sono poi imprese che è addirittura bene che chiudano, perché semplicemente hanno concluso il loro ciclo di vita e la loro funzione, o perché sarebbe troppo costoso e probabilmente inefficiente investire per sperare in una seconda vita, o perché nate male per puri scopi speculativi. Per queste aziende valgono le parole scritte da Manzoni su donna Prassede: «Quando si dice ch’era morta, è detto tutto». La responsabilità di proprietari e istituzioni è però fare in modo che i danni sui lavoratori siano evitati o limitati al minimo, cosa che nei periodi recessivi purtroppo non avviene quasi mai, o troppo raramente.

Ma ci sono imprese che non dovrebbero né essere vendute né chiuse, perché hanno ancora qualcosa da dire, storie da raccontare, potenzialità inespresse, buoni prodotti. Oggi molte di queste imprese stanno facendo questa triste fine. Dietro queste vendite o chiusure sbagliate c’è spesso una crisi personale di un imprenditore, di una imprenditrice, di una famiglia, di un gruppo di persone, che ad un certo punto non credono più che la loro 'creatura' possa avere un futuro. Queste crisi sono parte della vita, ma nelle fasi di depressione collettiva come la nostra, queste crisi diventano molte, più dure, amplificate dal senso di abbandono da parte di mercati, banche, istituzioni.

In molti casi l’imprenditore entra in una vera prova morale o spirituale, e ha l’impressione di aver condotto se stesso, la sua famiglia, i suoi lavoratori, la comunità circonvicina, in una avventura ingenua e sbagliata, legata magari (lui pensa) a superbia, orgoglio, alla non consapevolezza dei propri limiti e veri mezzi. A volte queste esperienze si accompagnano a malattie, stanchezza, calunnie, denunce, e si intravvede nella vendita, o persino nella liquidazione dell’impresa l’unica via di salvezza, agognata. E così, soprattutto quando la crisi riduce fatturato e margini, non si vede l’ora che qualcuno arrivi e ci tolga quello che, da 'senso' della vita ormai è solo un peso se non un incubo.

In questi momenti non importa chi, con quali capitali e con quale progetto questo nuovo imprenditore/speculatore arrivi, purché convinca le banche, e magari i sindacati. Così decenni, a volte secoli, di storia familiare, comunitaria, di capitali di saperi, rischiano di svanire, perché non si hanno la forza e le condizioni per superare la prova, e perché troppe volte si è soli, e lasciati soli dalle istituzioni. È l’impresa che si suicida, e a volte con essa anche l’imprenditore. I dati sulla cattiva cessione di queste buone aziende sono gravi, impressionanti. C’è allora un bisogno estremo di creare 'luoghi' per accompagnare questi imprenditori e lavoratori che si trovano ad affrontare queste prove individuali e collettive.

Le civiltà hanno conosciuto malattie sociali simili, e le hanno sapute curare (con i riti, l’arte, i miti). Una cura, e i suoi luoghi, che dobbiamo cercare, presto, anche noi. In questi nuovi luoghi non occorrono tanto consulenti fiscali o economisti, e neanche le (necessarissime) istituzioni, ma esperti in umanità, donne e uomini capaci di speranza, che conoscono gli animi umani, e li sanno curare con l’ascolto delle loro storie e con (poche) parole.

Soprattutto servono comunità curanti. E invece nella nostra cultura abbiamo separato troppo il 'business' dal resto dalla vita, i contratti dai doni, l’eros dall’agape; e così non capiamo più che una imprenditrice e un imprenditore sono prima persone, e che dietro a una crisi aziendale si può nascondere una vera prova morale e spirituale, che va curata a questo livello, che è molto più profondo e vitale dei 'business plan' e dei prestiti bancari (che comunque oggi aiuterebbero, e molto). Per ridare vita al nostro 'business' malato occorre allora ridare 'senso della vita' e della loro impresa a tanti imprenditori e lavoratori che lo stanno perdendo.

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Commenti - Questa crisi è una «grande depressione»: una malattia sociale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 21/04/2013

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Il senso dell’impresa

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