Bruni Varie

Economia Civile

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Pubblichiamo in anteprima l'introduzione al Rapporto Edc 2011, di imminente pubblicazione

di Luigino Bruni

Bruni_rid_modPresentiamo, con profonda gratitudine – a Dio, a Chiara, agli imprenditori, alle commissioni, e a tutti gli attori dell’EdC – questo “Rapporto EdC 2011”, il resoconto di un anno tra i più difficili per le economie mondiali, per quelle occidentali certamente. E dobbiamo subito constatare la nostra gioia per i risultati di questo anno difficile, che ci hanno stupito: come si vedrà sfogliando le pagine che lo compongono, sono aumentati sia gli utili che le imprese aderenti al nostro grande progetto (lo chiamiamo ancora così, finché non troveremo una parola migliore che più ci soddisfi). Ma è anche aumentata la qualità dei progetti di sviluppo nel mondo, portati avanti in collaborazione sempre più stretta ed efficace con l’AMU, così come è cresciuta la comunione con le persone che hanno ricevuto gli aiuti.

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Mentre pubblichiamo questi dati non possiamo però dimenticare la situazione difficile, la più grave degli ultimi decenni, che sta attraversando il sistema economico globale, che ha reso più complicata la vita di tante nostre aziende e di tanti nostri concittadini, imprenditori, famiglie e soprattutto persone indigenti, che stanno soffrendo per le conseguenze di questo collasso del sistema finanziario e poi economico di gran parte del mondo, l’Europa in modo particolare. Al tempo stesso, mai come in questi ultimi anni l’EdC è guardata con interesse da tanti, si moltiplicano gli inviti a presentarla, viene citata, a volte anche senza che ne veniamo a conoscenza, in tante università e centri culturali ed economici di vari Paesi del mondo. In altre parole: quello che viviamo è anche un tempo favorevole (kairos) per una nuova stagione dell’EdC. In che senso?

Le crisi, sia quelle individuali che quelle collettive, sono ambivalenti: possiamo uscirne peggiori se durante la crisi peggioriamo i nostri rapporti con noi stessi, con Dio, con gli altri, col mondo, ma possiamo anche uscirne migliori se i momenti della prova ci aiutano a fare silenzio, a scoprire o a riscoprire la nostra vocazione più vera, il nostro “daimon” (nelle parole di Socrate). I carismi, come quello dell’unità da cui è nata e si alimenta l’EdC, sono essenziali nei momenti di crisi perché hanno il compito di indicare una via di positività nei tempi di passaggio. La crisi che stiamo vivendo può e deve essere un tempo favorevole per fare un salto di scala. Lo sarà, se saremo capaci di fare un nuovo annuncio dell’Economia di Comunione dentro il Movimento dei Focolari (dove a distanza di venti anni c’è un’intera generazione ormai lontana da quei primi tempi), ma anche, e soprattutto, al di fuori di esso, nella Chiesa e nel Mondo.

Ma perché questa nuova fase possa compiersi in questo tempo favorevole, sono necessarie due condizioni.

La prima: l’EdC deve essere presentata e compresa per quello che essa veramente è: una grande visione per il cambiamento del sistema economico nel suo insieme  (“né comunismo, né consumismo: comunione”, Chiara), una diversa idea di capitalismo. Finora l’abbiamo soprattutto presentata come un’etica ed una via per imprenditori e per progetti di sviluppo per i poveri, restando prevalentemente all’interno del Movimento dei Focolari. Abbiamo fatto come S. Francesco nei confronti della chiesa di San Damiano ad Assisi. Quando Francesco sentì la chiamata di Dio “va Francesco e ricostruisci la mia Chiesa”, all’inizio egli l’intese come una ricostruzione fisica (con pietre e travi) della chiesa diroccata di San Damiano. Solo più tardi Francesco capì che la Chiesa da ricostruire non era quella di pietra ma proprio la Chiesa di Cristo. Così anche noi, e forse per una logica interna ai carismi (si parte dal concreto e dal possibile, e poi si capisce che la missione è diversa e più universale), abbiamo in questi anni raccolto la chiamata di Chiara a dar vita ad una nuova economia di comunione occupandoci degli imprenditori e dei poveri del nostro Movimento. Negli ultimi tempi, però, anche grazie al grande evento di San Paolo (Brasile) del maggio scorso, abbiamo compreso, finalmente e tutti assieme come corpo, che l’economia nuova che Chiara voleva e vuole è molto più di questo: che l’EdC è un dono per tutti, un contributo ad una economia di comunione per tutti, un atto d’amore per rendere migliore la vita della nostra gente. E’ come dire – cambiando metafora – che noi oggi non vediamo l’albero dell’EdC ma il suo seme. Niente di male, anzi c’è molto di bene nel vedere e curare il seme, purché però non pensiamo che quanto osserviamo oggi (le poco più di ottocento imprese, e il movimento attorno ad esse) sia già l’albero e non il seme.

E veniamo alla seconda condizione: per poter fare questo salto di scala – e così iniziare ad intravvedere qualche fogliolina dell’albero – ci è richiesto da una parte che i nostri progetti siano sempre più credibili sia sul versante impresa che su quello dell’aiuto ai poveri, e dall’altra che la comunione dei beni sia sempre più lo stile di vita delle nostre comunità, dentro e attorno le imprese. Se vogliamo che la chiesa diventi la Chiesa, e che il seme diventi un albero, allora occorre che il DNA del seme sia quello giusto, perché altrimenti o non nasce nulla, o i frutti non sono saporosi e abbondanti.

Buon anno 2012, che sia l’anno durante il quale iniziare ad intravvedere questa nuova fase dell’EdC, fedeli alle radici, e per questo proiettati verso il “che tutti siano uno”, la grande parola del carisma dell’unità. E non perdere neanche un’occasione per riannunciare, a tutti i livelli, l’EdC, con la testimonianza ma anche con la parola, la profezia di Chiara, niente di più, ma neanche niente di meno di quel benedetto maggio 1991. Auguri a tutti, veramente tutti.

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Pubblichiamo in anteprima l'introduzione al Rapporto Edc 2011, di imminente pubblicazione

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L’Edc: una via per tutti

Pubblichiamo in anteprima l'introduzione al Rapporto Edc 2011, di imminente pubblicazione di Luigino Bruni Presentiamo, con profonda gratitudine – a Dio, a Chiara, agli imprenditori, alle commissioni, e a tutti gli attori dell’EdC – questo “Rapporto EdC 2011”, il resoconto di un anno tra i più dif...
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Intervista al docente di Economia politica all'università Bicocca di Milano, prof. Luigino Bruni: «Non si può più staccare l'efficienza dall'equità».E sulla polemica Chiesa-Ici: «Se incattiviamo i rapporti tra laici e cattolici, non usciremo dalla crisi»

di Carlo Candiani

pubblicato su tempi.it il 09/12/2011

Logo_Tempi_it «Uno dei dati nuovi di questa Italia globalizzata è che non è più possibile separare l’efficienza dall’equità, considerandoli due “poli” alternativi. In tempo di crisi, una norma per essere efficiente deve essere anche etica» spiega a Radio Tempi il prof. Luigino Bruni, docente di Economia politica all'università Bicocca di Milano. «Quando questo governo è passato dal principio di non politicità, presentandosi come esecutivo tecnico, alla presentazione di una manovra economica, ci siamo accorti che qualunque nuova norma deve essere etica per natura: sia che si tratti di alzare l'Iva, sia che si parli di toccare i patrimoni».

Ascolta l'intervista completa.

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Ma “etica” non è un concetto un troppo vago?

«Etica, effettivamente, è una parola logora e abusata: di quale etica parliamo? Quella degli hedge fund o quella dell’accoglienza degli immigrati? Quella utilitarista, quella kantiana, quella massonica o quella cattolica? Io parlo di etica nel concetto primitivo, faccio un esempio: se per efficienza impastiamo una grande torta e in un secondo momento decidiamo quante fette dare ai poveri e quante ai ricchi, ma non includiamo chi rimane senza, già all’inizio dell’impasto, le fette saranno più piccole e anzi risulteranno indigeste, inique».

E la manovra Monti è riuscita nel compito di unire efficienza ed equità?

«Questa manovra risente molto dei veti incrociati dei partiti, di destra e sinistra, a cui l’esecutivo Monti è sottoposto. Non si possono toccare più di tanto i patrimoni, le pensioni, perché i sindacati e la sinistra fanno una enorme pressione, l’Irpef, le frequenze televisive, i grandi stipendi dei manager pubblici, i privilegi antichi che dovrebbero essere almeno scalfiti. Ma questo problema non c'è solo in Italia ma dappertutto».

Cioè?

«Le democrazie, così come sono concepite, nell’era della globalizzazione sono inadeguate e lente a prendere misure incisive: è quello che sta avvenendo in Europa in questi giorni. O si riduce la velocità dei mercati o si cambia la democrazia. Il fallimento, aldilà dell’ottimismo di Draghi, nel summit Ue, dice proprio questo: democrazie lente e mercati on-line, in tempo reale. La politica non può restare commissariata dalla finanza ancora a lungo: o prevale la finanza, e allora avremo sempre più governi tecnici e Parlamenti sempre meno importanti, o la politica riuscirà a porre regole serie alla finanza, a ridurre la sua velocità e il peso che ha assunto negli ultimi trent’anni. Ci vorranno una finanza e una politica nuove».

Nei suoi ultimi editoriali su Avvenire, parla di neuro–economia, che studia la buona recezione o meno da parte della gente di una manovra, tanto da annullarne l’efficacia. Può spiegare meglio di che cosa si tratta?

«Se prendiamo due soggetti (A e B) e diamo ad “A” 100 euro e gli chiediamo di dare una parte a “B”. Se quest’ultimo accetta, si divide la somma, se invece non accetta, tutti e due prenderanno zero. Secondo la teoria economica normale la mossa razionale di “A” consiste nel dare un euro a “B”, che dovrebbe accettarlo, anche se è poco, perché è meglio che niente».

Che cosa si vuol dimostrare?

«Che la gente invece preferisce farsi del male e non avere niente pur di punire un comportamento che considera iniquo. Cioè, meglio zero che venti, se l’altro prende ottanta».

E questo che cosa c’entra con la manovra Monti?

«C'entra eccome. Se io percepisco un aumento dell’Iva come iniquo, preferisco non pagarla, non fare lo scontrino, rischiare la multa e pagarla se mi beccano. Tutto, piuttosto che pagare: preferisco farmi del male, piuttosto che accettare un’offerta che considero iniqua. Il messaggio è: l’equità è fondamentale se si vuole che la gente non eluda le norme e le rispetti».

È questo il rischio che corre la manovra, così come è stata concepita e comunicata?

«Lo corre meno di quanto pensassi all’inizio: è stata comunicata bene. Il pianto non intenzionale del ministro Fornero, atto di vulnerabilità pubblica, è stato l’atto comunicativo più efficace del governo, che ci ha dimostrato una partecipazione emotiva alle scelte economiche. Se l’immagine di una compagine di persone serie dura e non cede il passo alle cattiverie e ai litigi, per esempio la polemica dell’Ici e la Chiesa cattolica, una sorta di guerra tra poveri, se regge questa reputazione insieme allo spauracchio del baratro, della Grecia, allora la manovra verrà accettata. Altrimenti, come è accaduto altre volte, le norme verranno eluse».

Perché quella che riguarda la Chiesa e l'Ici è una guerra tra poveri?

«Ho scritto al direttore della Repubblica Ezio Mauro, chiedendogli se pensi veramente che il problema della manovra sia l’oratorio che non paga l’Ici o il bar della parrocchia che non paga l’Iva. Questa è una parte sana del paese alla quale conviene allearsi. Non ha nessun senso questa polemica, perché così facendo si fa veramente il gioco dei “poteri forti”, che portano i patrimoni nei paradisi fiscali ai quali bisognerebbe prestare più attenzione. Non dico che non ci sia un problema dell’Ici legata al Vaticano, ma questo non è il centro del dibattito politico odierno. Se diventa il centro del dibattito, e non lo affermo per “benaltrismo”, incattiviamo i rapporti tra i laici (destra e sinistra) e i cattolici, due anime che se unite, come sono state in altri momenti delicati della nostra storia, possono fare uscire l'Italia dalla crisi. Rischieremmo altrimenti di fare come i capponi di Renzo nei “Promessi sposi”: mentre venivano portati all'Azzeccagarbugli, per essere messi sulla tavola e mangiati, litigavano tra loro».

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Intervista al docente di Economia politica all'università Bicocca di Milano, prof. Luigino Bruni: «Non si può più staccare l'efficienza dall'equità».E sulla polemica Chiesa-Ici: «Se incattiviamo i rapporti tra laici e cattolici, non usciremo dalla crisi»

di Carlo Candiani

pubblicato su tempi.it il 09/12/2011

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Bruni: «Se sono inique, gli italiani non pagano ma evadono le tasse»

Intervista al docente di Economia politica all'università Bicocca di Milano, prof. Luigino Bruni: «Non si può più staccare l'efficienza dall'equità».E sulla polemica Chiesa-Ici: «Se incattiviamo i rapporti tra laici e cattolici, non usciremo dalla crisi» di Carlo Candiani pubblicato su tempi.it il...
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Contro la fame cambio la vita - Più la gente è sola, più riempie la propria vita di merci. Ma condannare non basta…

di Luigino Bruni

pubblicato su Mondo e Missione, dicembre 2011

LOGO_Mondo_e_missioneLa fame non è solo legata alla mancanza di cibo. La sua radice latina "fa" rimanda al concetto di indigenza, di mancanza, di venir meno di qualcosa di cui abbiamo bisogno (dal verbo "fatisci"). Quindi l'esperienza della fame è più grande della mancanza di cibo, di risorse o di diritti.

Abbiamo iniziato, nei mesi precedenti, questo nostro piccolo viaggio attraverso il continente "fame" dagli aspetti direttamente associati alla fame di cibo e alla mancanza o indigenza di risorse materiali e di diritti fondamentali. Una scelta necessaria, perché prima di parlare, come faremo questa volta, di altre forme di fame che possiamo chiamare "opulenta", è un dovere civile, morale e intellettuale ricordare a noi stessi e a tutti che la fame legata alla miseria esiste ed è uno scandalo, per evitare di incorrere nell'errore in cui spesso ci si imbatte leggendo articoli di studiosi che pongono sullo stesso piano la fame di pane e la fame di senso della vita.

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Non credo che siano uguali: la fame di cibo è più grave e più scandalosa di tutte le altre fami.
Solo con questa consapevolezza si può e si deve dire che oggi non si muore soltanto per mancanza di pane, di diritti e di beni materiali, ma ci si ammala e a volte si muore anche per fame di beni relazionali, di beni spirituali, di voglia di vivere.

L'Occidente è malato (e questa crisi economica che stiamo vivendo ne è una chiara espressione) perché non siamo più capaci come cultura di saziare con il cibo giusto la fame di rapporti, di amicizia, di bellezza, di vita, di Dio di cui tutti gli esseri umani sono affamati. E quando questa fame non si soddisfa, per non morire si cercano, e sempre più si trovano, sostituti a basso prezzo, grazie ai quali il mercato, e le sue crisi, sono cresciuti enormemente negli ultimi decenni.

Più la gente è sola, vuota e triste, più riempie la propria vita di merci. A questo proposito ci sono due aspetti importanti da dire. Oggi il mercato post-moderno è particolarmente attrezzato per offrire merci che simulano rapporti, amicizia: basta pensare alla televisione, che vende pseudo-beni relazionali, o alla crescita ipertrofica di Centri benessere dove si va sempre meno per la salute e sempre più per "comprare" coccole. Inoltre il consumismo, molto più del comunismo o dei fascismi, si presenta come una religione, poiché ci vende (illudendoci) l'idea di eternità: questo pc con cui sto scrivendo tra qualche mese o anno sarà vecchio, ma posso comprarne uno uguale e migliore. La chirurgia estetica vende tempo e anni, altra caratteristica tipica delle religioni («il tempo è di Dio»).

Ma c'è anche una sfida positiva, di vita, dietro questa cultura consumistica: dobbiamo innanzitutto saper riconoscere che ciò che ci spinge a comprare in modo sempre più compulsivo è la fame di vita e di rapporti. Chi ama il nostro tempo non deve, quindi, combattere e demonizzare la cultura dei consumi. Mi è piaciuto vedere, di recente, nelle Filippine alcuni esperimenti di cappelle nei supermercati, perché è espressione di un atteggiamento positivo e coraggioso, che non critica chi non va in chiesa, ma porta la chiesa nei nuovi luoghi dello stare insieme.
Il consumismo è pericoloso e mortifero perché riempie con le merci la fame di rapporti e di vita; per questo può essere superato solo rispondendo meglio e più in profondità a quelle stesse domande.

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Contro la fame cambio la vita - Più la gente è sola, più riempie la propria vita di merci. Ma condannare non basta…

di Luigino Bruni

pubblicato su Mondo e Missione, dicembre 2011

LOGO_Mondo_e_missioneLa fame non è solo legata alla mancanza di cibo. La sua radice latina "fa" rimanda al concetto di indigenza, di mancanza, di venir meno di qualcosa di cui abbiamo bisogno (dal verbo "fatisci"). Quindi l'esperienza della fame è più grande della mancanza di cibo, di risorse o di diritti.

Abbiamo iniziato, nei mesi precedenti, questo nostro piccolo viaggio attraverso il continente "fame" dagli aspetti direttamente associati alla fame di cibo e alla mancanza o indigenza di risorse materiali e di diritti fondamentali. Una scelta necessaria, perché prima di parlare, come faremo questa volta, di altre forme di fame che possiamo chiamare "opulenta", è un dovere civile, morale e intellettuale ricordare a noi stessi e a tutti che la fame legata alla miseria esiste ed è uno scandalo, per evitare di incorrere nell'errore in cui spesso ci si imbatte leggendo articoli di studiosi che pongono sullo stesso piano la fame di pane e la fame di senso della vita.

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La fame del cuore e le risposte del consumismo

Contro la fame cambio la vita - Più la gente è sola, più riempie la propria vita di merci. Ma condannare non basta… di Luigino Bruni pubblicato su Mondo e Missione, dicembre 2011 La fame non è solo legata alla mancanza di cibo. La sua radice latina "fa" rimanda al concetto di indigenza, di mancan...
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per salvare il mercato da se stesso

di Luigino Bruni

pubblicato su Tempi il 3/11/2011

Logo_Tempi_itCiò che sta accadendo in queste ultime settimane sul fronte della crisi economica, finanziaria, politica, civile dell’Italia e dell’Europa, è molto confuso e di difficile, se non impossibile ermeneutica. Comunque un messaggio è ormai sempre più forte e chiaro: non stiamo fronteggiando una crisi congiunturale e transitoria, simile alle tante che abbiamo vissuto nel novecento, ma stiamo assistendo (senza accorgercene) alla morte di un certo capitalismo, basato su finanza, stati sociali e debito pubblico, un capitalismo frutto degli ultimi 70 anni della storia dell’occidente e del mondo, senza però riuscire ad intravedere qualcosa di nuovo al suo posto.Stiamo vivendo qualcosa di simile a quell’imprenditore che capisce che il principale prodotto della sua azienda non funziona più sul mercato senza che riesca ancora ad immaginarne uno migliore.

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Il progetto dell’Europa dell’Euro non funziona, perché non è mai decollato un progetto politico forte, capace di reggere gli urti di una economia ed una finanza globalizzata, e la fragilità della Banca Centrale europea non è altro che una foto di tutto questo. Inoltre questa crisi dell’Europa avviene all’interno di una crisi più generale e strutturale del capitalismo contemporaneo: uno sviluppo finanziato col debito che è cresciuto a dismisura in questi ultimi decenni inquinando tutte le principali banche del mondo, e che continuando a passare dalle banche private ai debiti pubblici degli Stati, ha lo stesso effetto di un veleno nel corpo che non può essere smaltito semplicemente facendolo circolare da un organo all’altro. Che fare allora? Innanzitutto dobbiamo ricordarci che dietro le crisi si nascondono spesso cose importanti, molte delle quali invisibili agli occhi di chi non sa vedere oltre le apparenze. Le crisi, individuali e collettive sono senz’altro delle “ferite”, ma qualche volta possono diventare anche delle “benedizioni”. La vera domanda diventa allora: come far sì che dal tramonto di questo sistema economico finanziario del mondo possa nascere una nuova stagione migliore di quella passata?

La prima operazione fondamentale da fare è dotarsi di occhi capaci di vedere ciò che appare invisibile, sapere vedere all’orizzonte della nostra civiltà il nuovo che avanza. Come Sant’Agostino che di fronte al crollo dell’Impero Romano intravedeva l’alba della Christianitas. Se infatti guardiamo il nostro sistema economico e sociale dal di fuori, nella prospettiva di un ipotetico osservatore imparziale esterno al nostro pianeta, il primo dato che emerge con chiarezza è che l’occidente, grazie anche alla finanza creativa degli ultimi decenni, è cresciuto troppo e male. Questo ce lo dice non solo l’ambiente ferito e umiliato ma anche l’impoverimento crescente delle relazioni sociali nelle nostre città, il rancore interculturale che accompagna la globalizzazione multietnica, e non ultimo per importanza una invasione dell’economico nella vita delle persone che da una parte sta trasformando la vita civile in un unico ipermercato 24h, dove ogni attimo libero deve essere riempito da merci in vendita (un aspetto che risulterebbe molto originale per questo osservatore imparziale se guardasse televisione o girasse per le nostre città, è il costante tentativo di qualcuno di vendere qualcosa a qualcun altro che riempie le nostre esistenze); dall’altra la riduzione se non la sparizione dei tempi della gratuità, della riflessione, della preghiera, tempi ormai occupati dalla sfera economica (ci siamo ormai abituati a vedere gli altri e noi stessi riempire i momenti di attesa o di pausa dal telefonino). Per poter vedere il nuovo che pur c’è all’orizzonte dobbiamo allora non tanto far decrescere il PIL come una certa scuola di pensiero oggi vuole, ma far decrescere il peso e lo spazio dell’economico all’interno della vita sociale, riscattare dagli scambi economici e monetari interi brani di vita che nel frattempo essi hanno progressivamente conquistato.

L’economia è importante, il mercato è un luogo di libertà e di creatività, lo sappiamo: ma se oggi vogliamo custodire i luoghi di civiltà che si chiamano impresa, mercato, banche dobbiamo ridare loro il proprio posto che non è l’unico posto della vita in comune. Se il mercato diventa ipertrofico e omnicomprensivo finisce per divorare se stesso, perché il contratto del mercato non si regge senza un patto sociale che è più grande dell’economico.

Ecco perché dietro alle manovre di questi tempi c’è in gioco una posta molto grande: dar vita ad un nuovo patto sociale nazionale, europeo ed internazionale che sappia essere all’altezza della globalizzazione economica e culturale del mondo e che sia capace di salvare il mercato da se stesso. Tutto ciò si chiama nuove istituzioni (la Banca Centrale Europea va totalmente riformata), nuove leggi (quando renderemo operativa una Tobin tax o qualcosa di simile?) e delle serie riforme fiscali non troppo legate ai territori nazionali, inadeguati nell’era dei mercati globali (come faremo un domani a spiegare senza vergognarci ai nostri figli che abbiamo inventato i paradisi fiscali?). Infine questo nuovo all’orizzonte non diventerà mai realtà senza una nuova grande nuova stagione educativa che riponga al centro i giovani, anche nell’economia e nella finanza: i giovani –bisogna ricordarlo in questi tempi-  non sono il futuro come spesso paternalisticamente si dice, ma sono un modo diverso di intendere e vivere il presente. E quando questo “modo diverso” manca, né l’economia né la società funzionano, perché  mancano entusiasmo, passione, creatività, energia, futuro che sono le tipiche note dei giovani essenziali per il bene comune. Sei i giovani restano ai margini del mondo il mondo non funziona, neanche il mondo economico e politico. Se sapremo dotarci di questi occhi nuovi ed avremo il coraggio di guardare con ottimismo avanti, mettendo i giovani al centro dell’oggi, allora da questa “ferita” potrà nascere anche una “benedizione”.

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per salvare il mercato da se stesso

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Quando il cibo manca, si fa strada il rischio di barattare la libertà per un pugno di riso

di Luigino Bruni

pubblicato su Mondo e Missione, novembre 2011

LOGO_Mondo_e_missione«Per l’uomo con lo stomaco vuoto il cibo diventa dio», diceva Gandhi, che da grande maestro di umanità conosceva i vari significati della povertà e della fame. Sapeva bene, perché lo aveva sperimentato sulla propria pelle e su quella del suo popolo, che quando una persona ha fame, quando non riesce a sfamare se stessa e i propri figli, soffre per la fame ma anche per altre forme di miseria e di deprivazione.

La fame e la miseria vanno combattute perché finché una persona o una comunità è sotto il suo dominio, quella mancanza di libertà “di” (nutrirsi e vivere) nasconde un’altra non meno grave mancanza di libertà “da” chi quel cibo può dare o solo promettere.

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Nel mondo la miseria e la fame si presentano come un grappolo di molte forme di indigenza: di risorse alimentari, di diritti, di libertà, di opportunità, che fanno sì che una persona vulnerabile sotto il profilo del fondamentale diritto al cibo e alla vita si riveli, in realtà, vulnerabile e vulnerato sotto tutti gli altri profili dell’esistenza.

Quando manca il cibo si è disposti, o almeno tentati, a barattare tutto ciò che si ha, di alienabile ma anche di inalienabile. Le storie dell’umanità di ieri e di oggi abbondano di racconti di persone ridotte in schiavitù per affrancare se stesse o i propri figli dal bisogno di mangiare e bere. Sono quasi sempre scelte tragiche quelle che si pongono di fronte a chi, pur di non far morire di fame tutti e cinque i figli, è costretto a vendere un rene proprio o di uno dei bambini. Uno dei compiti alti della politica dei singoli Paesi e della Comunità internazionale è quello di non darsi pace finché ci sarà al mondo ancora una sola famiglia di fronte a simili scelte (schiavitù da una parte; il cibo dall’altra).  

Ecco perché il diritto al cibo deve essere considerato un diritto fondamentale della persona umana, perché se quel diritto non viene soddisfatto tutti gli altri diritti umani poggiano su basi troppo fragili, e non diventano mai effettivi ed efficaci. Un diritto al cibo che, assieme ad altri diritti sociali fondamentali (come quello al lavoro, all’istruzione, alla partecipazione civile...), debbono essere annunciati, gridati, inseriti nelle carte costituzionali di tutti i popoli della terra, anche quando non è possibile rivendicare qui ed ora un corrispondente “dovere perfetto” in capo ai cittadini e alle istituzioni.

La lista dei diritti annunciati e proclamati può e deve restare aperta ed eccedente rispetto alla lista dei diritti esigibili e abbinati ai doveri poiché, come ricorda l’economista indiano e premio Nobel per l’economia Amartya Sen, annunciare e riconoscere un nuovo diritto ha un alto valore culturale e simbolico, che può essere il primo passo verso il futuro riconoscimento del corrispondente dovere. Se nelle costituzioni all’alba della modernità non avessimo proclamato che «tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge», solo perché il mondo reale era ancora in gran parte illiberale e ineguale, con ogni probabilità avremmo rallentato la marcia dei popoli verso la sostanziale libertà e uguaglianza.

Non stanchiamoci mai allora di gridare, annunciare e scrivere dappertutto che morire di fame è uno scandalo, e che il diritto di ogni persona umana al cibo è un diritto fondamentale di ogni bambina e bambino che nasce e cresce sul pianeta terra. E non diamoci pace finché quel sacrosanto diritto non diventerà pane.

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Quando il cibo manca, si fa strada il rischio di barattare la libertà per un pugno di riso

di Luigino Bruni

pubblicato su Mondo e Missione, novembre 2011

LOGO_Mondo_e_missione«Per l’uomo con lo stomaco vuoto il cibo diventa dio», diceva Gandhi, che da grande maestro di umanità conosceva i vari significati della povertà e della fame. Sapeva bene, perché lo aveva sperimentato sulla propria pelle e su quella del suo popolo, che quando una persona ha fame, quando non riesce a sfamare se stessa e i propri figli, soffre per la fame ma anche per altre forme di miseria e di deprivazione.

La fame e la miseria vanno combattute perché finché una persona o una comunità è sotto il suo dominio, quella mancanza di libertà “di” (nutrirsi e vivere) nasconde un’altra non meno grave mancanza di libertà “da” chi quel cibo può dare o solo promettere.

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Diritto al pane fondamento della convivenza

Quando il cibo manca, si fa strada il rischio di barattare la libertà per un pugno di riso di Luigino Bruni pubblicato su Mondo e Missione, novembre 2011 «Per l’uomo con lo stomaco vuoto il cibo diventa dio», diceva Gandhi, che da grande maestro di umanità conosceva i vari significati della pover...
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Luigino Bruni, docente di Economia Politica alla Bicocca di Milano, spiega a Tempi.it perché all'Italia un condono farebbe più male che bene: «Quando il rapporto diventa merce, lo rimane per sempre. E infatti, dopo ogni condono, aumenta la fetta di quelle persone che non ragionano più in termini di virtù civili. Per fare cassa, meglio patrimoniale e pensioni»

di Carlo Candiani

pubblicato su Tempi.it il 12/10/2011

Logo_Tempi_itSulla possibilità di introdurre un altro condono fiscale, come suggerito da alcuni esponenti del governo alla ricerca di un modo per fare cassa, si è già pronunciata l’Unione Europea con parere negativo. Sembra dunque difficile che il governo lo attui. Nonostante ciò, il confronto “condono sì, condono no”, continua negli interventi tra politici ed economisti. Il dato dirimente è semplice: bisogna agire, comunque, per fare cassa oppure si deve tenere conto del problema etico, che emerge quando si mette in pista un condono?

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«Aproposito del condono, ho scritto alcune riflessioni su Avvenire, partendo da un esempio che ho studiato – dice a Radio Tempi il prof. Luigino Bruni, docente di Economia Politica alla Bicocca di Milano –. Qualche tempo fa ad Haifa, due economisti fecero un esperimento su dieci asili nido, che segnalavano ritardi dei genitori per andare a recuperare i bambini: in sei asili fu introdotta una multa sui ritardi, negli altri quattro tutto rimase come prima. Si verificò che dopo la multa i ritardi si moltiplicarono del 100 per cento e una volta tolta l’ammenda i ritardi non diminuirono, neppure al livello precedente. Qual è il senso di questo esperimento? Che “la multa è un prezzo”».
«Quando si introduce la moneta in ambiti regolati da altre norme sociali - continua -, si crea un mercato e quindi la gente paga e compra. La multa, e nel nostro caso il condono, trasforma un ambito dove si ragiona in termini non sempre monetari e una volta che il rapporto diventa merce lo rimane per sempre. E infatti, dopo ogni condono, aumenta la fetta di quelle persone che non ragionano più in termini di virtù civili, ma in termini di costi e benefici e questo si riflette anche nei rapporti quotidiani (l’amicizia, la solidarietà): è come se la società, irreversibilmente, diventasse un supermercato».

Quindi lei si oppone al condono dal punto di vista etico?
Il mio è un discorso economico, che vede l’economia non solo come un problema di cassa e limitato al bisogno contingente.

Altri suoi colleghi economisti, sull’argomento condono, tendono a bypassare il dato etico per privilegiare la convenienza economica.
Se noi riduciamo i rapporti economici a un puro scambio monetario, gli stessi rapporti, nel tempo, non funzionano più come tali perché il patto sociale, che va oltre la ragioneria del dare e dell’avere, deve costruire tra i soggetti un rapporto fiduciario. Ripeto: se trasformiamo i nostri rapporti civili ed economici in un discorso di cassa, trasformiamo la vita civile in un supermercato, e non è particolarmente appassionante come scenario: l’economia funziona se si regge su un patto sociale, purtroppo è un filo molto tenue che si spezza facilmente.

C’è chi giustifica l’uso del condono puntando il dito contro l'iniqua fiscalità italiana, che costringe ad uscire dalla legalità, in attesa che questo strumento di recupero cassa possa emendare la propria posizione.
Questa analisi è più condivisibile perché pone l’accento su un problema strutturale. Ma questa è sempre una denuncia di un fallimento economico, non etico: in sostanza, il condono è una pessima risposta ad una legittima domanda per un sistema più equo. E alla fine, il condono oltre ad essere spesso inefficace e, come accade, pure ripetuto, è totalmente inutile: un condono che pigli i cittadini in contropiede potrebbe avere un effetto, ma dal secondo in poi, è acqua fresca.

Si metta per un momento nei panni del politico di governo, che stratagemmi userebbe per fare cassa?
Le due parole sono molto chiare: patrimoniale e pensioni, c’è poco da discutere. Patrimoniale, cioè chiedere un contributo: non però dai redditi da lavoro o da quelli da impresa, l’Irpef o l’Iva, perché intervenire sull’Iva vuol dire impoverire il ceto medio e l’Irpef grava già sul lavoro, bensì colpire i patrimoni che sono delle rendite di posizione. E' un fatto di minimo buon senso. Seconda parola chiave sono le pensioni: dobbiamo capire che il mondo è cambiato, si campa fino a novant’anni e il patto sociale in funzione dagli anni ’50, quando si viveva fino a sessanta-settant’anni non funziona più. Se non riformiamo questi titoli, potremo fare mille condoni ma saremo sempre in una situazione di emergenza economica e non etica: l’etica è intrinseca all’economia, non è estrinseca.

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Bruni: «No al condono, la società non è un supermercato»

Luigino Bruni, docente di Economia Politica alla Bicocca di Milano, spiega a Tempi.it perché all'Italia un condono farebbe più male che bene: «Quando il rapporto diventa merce, lo rimane per sempre. E infatti, dopo ogni condono, aumenta la fetta di quelle persone che non ragionano più in termini di ...
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Il fondatore di Apple e Pixar ci ha lasciati oggi all’età di 56 anni

di Luigino Bruni

Sono soprattutto tre i grandi messaggi che questo straordinario uomo ci lascia.

Il primo: le grandi innovazioni in economia sono sempre legate alle persone: non sono i capitali, i soldi, le tecnologie: sono le persone che fanno le grandi innovazioni: Steve Jobs è stato capace di fare cose grandi cose perché era una grande persona, non perché aveva grandi capitali e mezzi. Questo ci ricorda che l’economia va avanti quando ci sono persone che guardano più lontano, vedendo cose diverse. Le grandi innovazioni nascono da sguardi diversi sul mondo, e quindi dalle persone.

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Il secondo messaggio che ci lascia Steve Jobs è che non è vero che le imprese sono di successo quando rispondono a dei bisogni dei consumatori: questa idea che le imprese ed i loro prodotti debbano rispondere ai bisogni delle persone è un po’ scolastica, statica, e soprattutto non è vera per le innovazioni davvero importanti: nessuno aveva bisogno dell’Ipad e dell’Iphone. Steve Jobs con la sua azienda li ha creati prima che diventassero bisogni, ha inventato dei simboli ed ha creato dei sogni, dei messaggi, degli stili di vita. Le grandi imprese che fanno innovazioni vere sono in grado di fare qualcosa che nessuno pensava prima, che nemmeno era fra i bisogni inespressi. Un imprenditore come Jobs ha “visto” qualcosa e poi ha fatto in modo che la realtà diventasse ciò che lui aveva visto prima: è qualcosa che i veri imprenditori hanno in comune con i grandi artisti o i grandi scienziati.

Il terzo messaggio che ci lascia Steve Jobs a mio avviso è un grande inno alla vita: se guardiamo le ultime cose che ha detto “gli anni più belli e più brillanti sono davanti a noi, non alle nostre spalle.. ”. Era un uomo molto malato,  stava morendo, eppure guardava avanti . Ai giovani diceva: “siate sempre affamati di vita”: le persone grandi, capaci di cose grandi, non sono mai nostalgiche, guardano sempre più lontano e pensano che il futuro è migliore del passato anche nei tempi di crisi: sono capaci di grande ottimismo e di aggregare intorno a questo ottimismo grandi progetti. Anche oggi gli imprenditori che muovono il mondo sono imprenditori ottimisti, capaci di futuro, convinti  che “il più bello debba ancora cominciare”.

In sintesi Steve Jobs ci fa vedere che le grandi innovazioni economiche diventano anche grandi innovazioni civili: i suoi prodotti e la filosofia che vi ha messo dentro, hanno cambiato la vita delle persone, il rapporto con lo spazio, con la musica, la creatività. Sono stati molto più che “buoni prodotti“, hanno spostato in avanti le frontiere ed i paletti della vita civile. Ogni innovazione grande è sempre una innovazione civile che aumenta la libertà, le opportunità, la capacità delle persone.  Egli ci ricorda che l’economia è vita, che l’impresa è un brano di vita in comune che funziona quando è espressione di creatività, di passione, di voglia di futuro: niente di più, ma neanche niente di meno che vita.

Credo che Steve Jobs sia un bellissimo modello di imprenditore civile che fa una economia per il bene comune, un’economia che proprio perché è veramente innovativa è amica della città, della gente. Senza questo tipo di imprenditore non si dà bene comune. Ecco perché Steve Job ci lascia una struggente nostalgia di futuro.

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Il fondatore di Apple e Pixar ci ha lasciati oggi all’età di 56 anni

di Luigino Bruni

Sono soprattutto tre i grandi messaggi che questo straordinario uomo ci lascia.

Il primo: le grandi innovazioni in economia sono sempre legate alle persone: non sono i capitali, i soldi, le tecnologie: sono le persone che fanno le grandi innovazioni: Steve Jobs è stato capace di fare cose grandi cose perché era una grande persona, non perché aveva grandi capitali e mezzi. Questo ci ricorda che l’economia va avanti quando ci sono persone che guardano più lontano, vedendo cose diverse. Le grandi innovazioni nascono da sguardi diversi sul mondo, e quindi dalle persone.

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Nostalgia di futuro. Il messaggio di vita di Steve Jobs

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Idee - Contro la fame cambio la vita

di Luigino Bruni

pubblicato su Mondo e Missione, ottobre 2011

LOGO_Mondo_e_missioneLa fame è l’esperienza fondativa di ogni vita: per centinaia di migliaia di anni gli uomini hanno lottato contro di essa. Io appartengo a questa piccola porzione “felice” di mondo che non ha mai conosciuto la fame, se non quella buona che ci prepara al godimento del cibo atteso e certo.

Ma i miei genitori l’hanno conosciuta, e per questo la presenza, indiretta ma efficace, della fame è stata costante nella mia famiglia di origine, che mi ha insegnato, tra l’altro, la riconoscenza per il pane quotidiano, quel senso di stupore di fronte all’abbondanza, e lo sdegno dinanzi allo spreco, note che fanno parte oggi della mia cultura e del mio stile di vita.

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Oggi la fame è un problema e uno scandalo perché esiste una porzione di umanità che è stata capace di eliminare la fame dalla propria esistenza senza però riuscire a sconfiggerla globalmente.

Al mondo i ricchi e i poveri ci sono sempre stati, perché sono i talenti ad essere distribuiti in modo ineguale tra le persone. Fino alla modernità, però, il sovrappiù generato dalle classi ricche era appena sufficiente a coprire i loro consumi lussuosi, e poco più. La fame era dovuta a scarsità di risorse e all’ostilità della natura. Oggi, invece, lo scandalo e lo sdegno nascono dalla consapevolezza che l’umanità, grazie alla tecnologia e all’economia,
produce un sovrappiù capace di sfamare potenzialmente l’intera popolazione mondiale, ma la fame continua a restare endemica per oltre un miliardo di persone. Scandalo e sdegno che aumentano quando si osserva che quella stessa porzione opulenta di mondo ha creato altre forme
di malattie endemiche dovute all’eccesso di cibo (obesità, bulimia…).

Ma è qui che il discorso si complica, e forse diventa più interessante.Anche se avessimo sistemi politici mondiali e locali giusti ed equi, non sarebbe sufficiente produrre cibo o quantità di calorie sufficienti a sfamare i sei miliardi di persone della terra per eliminare la fame dal pianeta. Per almeno due ragioni: il processo redistributivo della ricchezza è costoso e sempre inefficiente (è un problema di entropia!). Una parte della torta prodotta rimane sulla lama del coltello che fa le fette, e qualche pezzettino cade per terra mentre le trasportiamo. Ogni processo ridistributivo assorbe o distrugge parte della ricchezza che produce.

Ma c’è poi una ragione più profonda: il “come” le risorse e il cibo arrivano alle persone è molto importante, anzi è quasi tutto. Con più impegno
politico morale ed economico (con minor spreco e burocrazia possibile) potrei trasportare risorse e cibo dai Paesi opulenti e obesi verso gli affamati
e impoveriti del mondo, ma non basterebbe. Non avremo mai popoli capaci di sconfiggere la fame e l’esclusione finché questi non saranno nelle condizioni di saltare dall’altra parte del tavolo, creare loro le torte che poi mangeranno. Una persona affamata che riceve il cibo tramite l’aiuto internazionale non ha sconfitto la fame, ha solo riempito la pancia.

Ma - e qui sta il punto - la fame endemica è oggi quasi sempre il risultato di rapporti sbagliati, di ingredienti per le torte depredati, di strutture di peccato che impediscono l’accesso alle risorse, come ci ha spiegato ormai quasi quarant’anni fa il Nobel per l’economia Amartya Sen nei suoi studi sulle carestie in India. La fame non è uno status individuale, ma è frutto di una relazione sociale che non funziona, dalla famiglia alle politiche  internazionali. Lottare contro la fame significa allora soprattutto curare quei rapporti sbagliati dai quali quella fame dipende.

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Idee - Contro la fame cambio la vita

di Luigino Bruni

pubblicato su Mondo e Missione, ottobre 2011

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Uno scandalo che ci chiama in causa

Idee - Contro la fame cambio la vita di Luigino Bruni pubblicato su Mondo e Missione, ottobre 2011 La fame è l’esperienza fondativa di ogni vita: per centinaia di migliaia di anni gli uomini hanno lottato contro di essa. Io appartengo a questa piccola porzione “felice” di mondo che non ha mai con...
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Prima di immaginare una riforma fiscale per finanziare l´attuale spesa, occorre prevedere una seria ritirata dello spazio della politica per lasciarlo alla società civile organizzata, affinché crei valore aggiunto e posti di lavoro.

di Luigino Bruni

pubblicato su formiche.net il 01/10/2011

Logo_formicheUno dei grandi messaggi di questa crisi è un nuovo bisogno di politica: mai come in questi anni stiamo capendo che il mito del mercato che si auto-organizza e si auto-regola è un modello dei libri di testo, che, come tutti i modelli, si basa su molte ipotesi perché possa essere verosimile. Oggi stiamo vedendo che nella realtà il mercato ha bisogno di istituzioni, di regole, di governance per essere civile e civilizzante. C´è una forte domanda di politica dietro questa crisi ma, e qui sta il punto, la politica che conosciamo non è adeguata alle sfide che affrontiamo. Per quali ragioni?

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Di certo il mondo è cambiato velocemente, forse troppo velocemente, ma c´è anche un fenomeno tutto interno all´attuale classe dirigente, che può essere spiegata dalla cosiddetta "selezione avversa", un fenomeno evidenziato analiticamente dal premio Nobel per l´Economia George Akerlof nel 1970, nell´articolo di teoria economica forse più importante dell´ultimo mezzo secolo. Questo economista americano dimostrò che in molti casi reali il mercato non premia i migliori né il merito, ma attira e seleziona i peggiori o, nelle sue parole, i "lemons" (i bidoni).

Il messaggio di questa teoria può essere così sintetizzato: in un mondo reale e quindi imperfetto un´istituzione (un´azienda, un ambito della vita in comune) seleziona un tipo di persone o un altro in base ai segnali o messaggi che essa emette. Le imprese che promettono alti stipendi selezionano certamente lavoratori mediamente più interessati al denaro; l´ordine religioso che cerca vocazioni non deve, ovviamente, promettere incentivi monetari ma la gratuità e gli ideali alti se vuole attrarre candidati con motivazioni intrinseche; e potremmo continuare. Pertanto una società come la nostra, che mostra una classe politica (da destra a sinistra) caratterizzata da privilegi, denaro e vantaggi sociali tende naturalmente ad attrarre candidati a fare il mestiere del politico che sono interessati, più della media, ai privilegi e vantaggi, e, conseguentemente, interessati troppo poco al bene comune.

Che fare allora? Un popolo, come ogni persona e comunità, per svilupparsi e crescere in civiltà ha bisogno di tanto in tanto di momenti di autentica rinascita etica e ideale. Nel Novecento questi momenti sono stati provocati da profonde "ferite" (guerre, fascismo), che però hanno avuto l´effetto indiretto di generare classi dirigenti di alta qualità morale e umana. Il miracolo economico e civile dell´Italia del Dopoguerra fu anche il frutto di politici che furono all´altezza dei loro tempi anche perché provenivano dalla parte più viva e ideale della società civile: non furono prodotti dai partiti, ma furono loro a generare i partiti che poi hanno governato la nostra società. Ma a distanza di quasi settant´anni i partiti e in generale quelle classi dirigenti (sindacati, associazioni di categoria, ecc.) si sono perfettamente istituzionalizzate, perdendo molto della loro capacità profetica e innovativa. Sono convinto che oggi per salvare la politica c´è un estremo bisogno di liberare le forze della società civile, cioè associazioni, movimenti, volontariato che pullulano nel sottobosco della nostra società, e che rendono la vita possibile e sostenibile a tanti, soprattutto ai più fragili. Ciò non significa idealizzare la bontà della società civile tout court, ma riconoscere che è sempre il civile il luogo dove crescono le cellule staminali capaci di rinnovare il tessuto sociale nei momenti di crisi.

Per capire le crisi che stiamo vivendo c´è bisogno di guardare in profondità, oltre i listini di Borsa e i problemi della manovra. C´è in gioco, in Italia, in Europa e in occidente, la natura del rapporto tra economia, politica e società civile. È troppo evidente, per chi sa e vuole osservare bene ciò che sta accadendo, che dietro c´è qualcosa di vecchio e obsoleto che se non cambia, o non muore, non ci consente né di capire quanto stiamo vivendo, né tantomeno poterlo governare.

Sono, dunque, convinto che non usciremo da questa crisi senza due grandi cambiamenti: un nuovo protagonismo innovativo e profetico della società civile, e una decrescita della politica (qui intesa come intermediazione burocratica) a vantaggio del civile e dell´economia, e non per provocare una ritirata dell´attuale politica per lasciar spazio all´individuo solo e/o al mercato capitalistico. Ecco perché prima di immaginare una riforma fiscale per finanziare l´attuale spesa (inasprendo controlli e sanzioni), occorre prima di tutto prevedere, se amiamo il bene comune, una seria ritirata dello spazio della politica per lasciarlo alla società civile organizzata, che, più di quanto abbia fatto finora, crei valore aggiunto e posti di lavoro e non aumenti il debito pubblico.

Tutto ciò significa, ad esempio, dar vita a imprese sociali e civili nei settori cruciali dell´energia (perché debbono scendere speculatori dalla Germania per gli impianti di fotovoltaico in Puglia?), dei beni comuni (per gestire acqua e suoli pubblici non c´è solo il "comune" o il "mercato for profit", esistono anche imprese civili o cooperative dove i cittadini prendono in mano i loro beni), degli anziani (che debbono in qualche modo essere anche produttivi, e non solo spesa e problema).

Senza questa nuova centralità della società civile per una nuova politica continueremo a cercare risorse nei luoghi sbagliati, a fare leggi finanziarie tappabuchi, a creare pesi insostenibili sulle persone oneste, perché continueremo a leggere il mondo con occhiali inadatti.

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Prima di immaginare una riforma fiscale per finanziare l´attuale spesa, occorre prevedere una seria ritirata dello spazio della politica per lasciarlo alla società civile organizzata, affinché crei valore aggiunto e posti di lavoro.

di Luigino Bruni

pubblicato su formiche.net il 01/10/2011

Logo_formicheUno dei grandi messaggi di questa crisi è un nuovo bisogno di politica: mai come in questi anni stiamo capendo che il mito del mercato che si auto-organizza e si auto-regola è un modello dei libri di testo, che, come tutti i modelli, si basa su molte ipotesi perché possa essere verosimile. Oggi stiamo vedendo che nella realtà il mercato ha bisogno di istituzioni, di regole, di governance per essere civile e civilizzante. C´è una forte domanda di politica dietro questa crisi ma, e qui sta il punto, la politica che conosciamo non è adeguata alle sfide che affrontiamo. Per quali ragioni?

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La manovra migliore? Quella politica

Prima di immaginare una riforma fiscale per finanziare l´attuale spesa, occorre prevedere una seria ritirata dello spazio della politica per lasciarlo alla società civile organizzata, affinché crei valore aggiunto e posti di lavoro. di Luigino Bruni pubblicato su formiche.net il 01/10/2011 Uno de...
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Politica - Manovra 2011

pubblicato su ilsussidiario.net il 15/09/2011

Logo_ilsussidiarioManovra finanziaria 2011: tagli agli enti locali, cosa cambia?  I tagli agli enti locali - Comuni e Regioni – previsti in manovra finanziaria produrranno effetti pratici sulla vita dei cittadini, il più visibile dei quali sarà il decremento dei servizi pubblici basilari e del sistema di welfare. «Tradotto: significa un impoverimento oggettivo delle persone, specie del ceto medio», spiega, interpellato da ilSussidiario.net Luigino Bruni, docente di Economia Politica presso l’Università Bicocca di Milano. Nel dettaglio, sono previsti 4,2 miliardi di tagli, che diventeranno 6 se la Robin tax non dovesse sortire i benefici previsti. Secondo i calcoli dell’Anci, si potrebbe verificare in media una stangata di 136 euro all’anno a residente, con esborsi molto superiori in alcune città, come Venezia (327 euro all’anno), Napoli (236), Milano (227), Torino (220) e Roma, (172).

«Il benessere e la ricchezza di una persona, all’interno delle democrazie, sono dati non solo dal Pil o dal reddito procapite, ma da questi elemetni sommati ai beni che si consumano. Ad esempio, disporre di mille euro in un Paese in cui non esistono mezzi pubblici, un sistema di welfare e servizi ai cittadini non è la stessa cosa che disporne in un Paese in cui tali risorse ci sono». Va da sé che, quindi, questa manovra ci rende meno ricchi.

«Nel momento in cui l’amministrazione pubblica offre servizi di qualità inferiore ci impoveriamo tutti. La ricchezza, infatti, non è una questione individuale, ma pubblica. I beni pubblici sono parte della ricchezza di un individuo, perché hanno a che fare con l’appartenenza comunitaria».  I più penalizzati, inoltre, saranno i più poveri. «Se per garantire i servizi di welfare minimi occorre aumentare i biglietti degli autobus e dei tram o le tasse scolastiche, l’effetto sul ceto più debole è evidente». Ci saranno, inoltre, ripercussioni a livello di sistema: «I tagli sottraggono risorse alle istituzioni che gestiscono i territori, impoverendoli, e allontanando dai luoghi del vivere quotidiano le facoltà decisionali. E’ un modo per accentrare, poteri e competenze». Alla faccia del federalismo. «Ovvio – continua il professore  - che ci siano degli sprechi che vanno eliminati. Abbiamo messo in piedi un sistema burocratico elefantiaco. Ma ridurre le risorse agli enti locali implica un risparmio solo sul breve periodo. Oltre al ceto povero, infatti, si impoverisce anche quello medio».

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Politica - Manovra 2011

pubblicato su ilsussidiario.net il 15/09/2011

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«Il benessere e la ricchezza di una persona, all’interno delle democrazie, sono dati non solo dal Pil o dal reddito procapite, ma da questi elemetni sommati ai beni che si consumano. Ad esempio, disporre di mille euro in un Paese in cui non esistono mezzi pubblici, un sistema di welfare e servizi ai cittadini non è la stessa cosa che disporne in un Paese in cui tali risorse ci sono». Va da sé che, quindi, questa manovra ci rende meno ricchi.

«Nel momento in cui l’amministrazione pubblica offre servizi di qualità inferiore ci impoveriamo tutti. La ricchezza, infatti, non è una questione individuale, ma pubblica. I beni pubblici sono parte della ricchezza di un individuo, perché hanno a che fare con l’appartenenza comunitaria».  I più penalizzati, inoltre, saranno i più poveri. «Se per garantire i servizi di welfare minimi occorre aumentare i biglietti degli autobus e dei tram o le tasse scolastiche, l’effetto sul ceto più debole è evidente». Ci saranno, inoltre, ripercussioni a livello di sistema: «I tagli sottraggono risorse alle istituzioni che gestiscono i territori, impoverendoli, e allontanando dai luoghi del vivere quotidiano le facoltà decisionali. E’ un modo per accentrare, poteri e competenze». Alla faccia del federalismo. «Ovvio – continua il professore  - che ci siano degli sprechi che vanno eliminati. Abbiamo messo in piedi un sistema burocratico elefantiaco. Ma ridurre le risorse agli enti locali implica un risparmio solo sul breve periodo. Oltre al ceto povero, infatti, si impoverisce anche quello medio».

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L'esperto: così i tagli agli enti locali della finanziaria frenano lo sviluppo

Politica - Manovra 2011 pubblicato su ilsussidiario.net il 15/09/2011 Manovra finanziaria 2011: tagli agli enti locali, cosa cambia?  I tagli agli enti locali - Comuni e Regioni – previsti in manovra finanziaria produrranno effetti pratici sulla vita dei cittadini, il più visibile dei quali s...
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Quale rischi nel misurare tutto con metodi razionali? I numeri sono oggettivi? Quale rapporto tra economia e politica, tra economisti e politici? Intervista all’economista Luigino Bruni

di Chiara Andreola

pubblicato su: Cittanuova.it il 8/09/2011

L'altra sera in tv un importante direttore di una società di ricerca discettava sulle questioni relative alla manovra economica con l’estrema serenità e semplicità datagli dal fatto che, molto banalmente, stava lavorando coi numeri: “Questo è il totale da ricavare, quindi, visto che la matematica non è un'opinione, basta organizzare le cose in modo che questa sia la somma: elementare, Watson!”.

Invece le cose sono un po’ più complicate, perché né la politica né l'economia sono solo numeri. Ne parliamo con Luigino Bruni, economista, professore alla Bicocca a Milano.

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Se l'economia non è solo numeri, dove finisce l'economia e inizia la politica?

«Fin dal suo inizio settecentesco, la scienza economica è stata chiamata "economia politica", per distinguerla dall'economia domestica. L'economia moderna nasce con uno strettissimo legame con la politica, come il suo strumento privilegiato, perché senza qualcuno che indichi come migliorare le condizioni materiali della vita, il bene comune e la pubblica felicità (i tipici obiettivi della politica) resterebbero cose astratte e vaghe.

«Oggi non tutta l'economia è in rapporto diretto con la politica, poiché molti economisti studiano l'impresa, le scelte di consumo e di risparmio, le banche, la finanza, ecc., ma una branca importante (l'economia "macro" o pubblica) continua ad essere in stretto rapporto con l'economia (tra parentesi, la tradizione italiana da sempre è caratterizzata da questo stretto rapporto tra economia e scelte pubbliche)

«L'economista "politico" dovrebbe offrire argomenti, numeri e dati al politico mettendolo nella condizione di scegliere sulla base di un razionale calcolo "costi-benefici". Quindi i numeri sono importanti, per varie ragioni. Innanzitutto perché senza assegnare numeri ai costi e ai ricavi delle scelte alternative non si hanno criteri razionali per decidere se è preferibile lo stretto sul ponte di Messina o il potenziamento della rete autostradale al Sud.

«E' evidente, poi, che un buon politico e una buona democrazia sa che l'elemento economico è un elemento co-essenziali agli altri (etici, sociali ...). Negli ultimi decenni, poi, l'economista non assegna soltanto numeri ai tipici costi e benefici "economici" (ricavi, tasse, spese ...), ma anche a beni non di mercato che però sono suscettibili di valutazione economica, come l'ambiente e oggi anche le relazioni sociali.
 

«Facciamo un esempio: come fa un politico a decidere se aumentare, e di quanto, le tasse per costruire un nuovo parco in città? Una base importante è data dall'opinione che una data popolazione ha di quel nuovo parco, e per poter stimare queste preferenze ambientali si usa il metodo della "disponibilità a pagare" misurata sulla base di questionari. Certo ciò non significa che quel questionario misura il "valore intrinseco" dell'aria pulita, ma aggiunge elementi ad una scelta che è sempre complesse e multidimensionale

«Qual’è però il rischio di questo metodo del "misurare" tutto in numeri (e in moneta)? Il politico, di fronte alla semplicità e intelligibilità universale del metro numerico e monetario, potrebbe dimenticarsi le altre dimensioni co-essenziali di una scelta e prendere i dati economici come gli unici rilevanti per decidere. E' quanto accade quando si usano i freddi e oggettivi numeri per giustificare l'ineluttabilità di una decisione. I numeri e i valori monetari non dicono nulla in termini di equità e giustizia, dimensioni spesso più importanti per il bene comune. E questo è un errore grave, quasi più grave di far male i conti e assegnare numeri sbagliati ai vari elementi in gioco, errore molto comune in economia

«L'errore più comune è quello di sbagliare il tasso di sconto di flussi che durano nel tempo: che cosa significa? Immaginiamo che dobbiamo decidere se costruire un impianto di energia eolica o continuare a bruciare petrolio per l'energia di una città. L'economista costruisce un piano di costi e ricavi delle due alternative, ma come conteggiare i costi futuri del petrolio tra 10 o 20 anni? L'economista indiano A. Sen sostiene che quando si tratta di stimare flussi che hanno effetti su generazioni future, dovremmo utilizzare un tasso di sconto negativo, cioè dare più peso al futuro rispetto al presente (il contrario di quanto normalmente si fa)

«E' ovvio che la scelta di un tasso di sconto futuro più o meno alto può portare a preferire una scelta su un'altra: insomma, non sono così oggettivi i numeri che ci vengono portati come scientifici. Per non parlare dei numeri del Pil o delle stime delle entrate dovute alla lotta all'evasione fiscale, dove i margini di errore e discrezionalità sono molto alti». 

Si parla spesso di governo tecnico, salvo poi tuonare contro i tecnocrati della Bce e sostenere che la "scienza" pura e semplice non può mandare avanti un Paese. Quali devono essere i rapporti tra il "tecnico" (ad esempio l'economista) e il politico? Come collaborare? 

«Qui si apre un grosso tema che riguarda la democrazia nell'età della globalizzazione, e in particolare i burocrati europei. Dal punto di vista etico, prima che economico, ho forti dubbi sui costi della burocrazia europea: abbiamo dato vita a strutture europee a imitazioni degli stati nazionali, ipertrofici in termini burocratici. Personalmente sono convinto che se dimezzassimo i funzionari e i dipendenti europei l'efficienza dell'Unione non ne perderebbe, anzi ne guadagnerebbe, un po' come in italia e in altri Stati nazione

«Il tecnico non eletto dai cittadini che, numeri alla mano, impone regole ai Paesi è un tema che, per essere affrontato, richiederebbe una politica più matura ed europea. I politici nazionali in Europa prendono le direttive della Bce (o delle borse) come guida all'azione non solo per paura delle sanzioni, ma perché in un mondo in continua evoluzione, non avendo ancora sviluppato nuove chiavi di lettura politiche ed etiche della globalizzazione, si seguono le linee economiche perché sono le uniche presenti, o almeno le uniche comprensibili da loro (e dal pubblico)

«Diceva nel 1936 il grande economista Keynes che i politici " quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro". 

«Il politico, quando deve leggere il mondo, ha in mente gli strumenti che ha imparato all'università, che normalmente sono diversi decenni indietro rispetto alle dinamiche in corso. Quindi occorre più dialogo tra politici e tecnici, tra i politici e la gente. E più studio, cioè continuare ad aggiornarsi tutta la vita. Ne va della democrazia nell'età complessa e veloce che stiamo vivendo».

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Quale rischi nel misurare tutto con metodi razionali? I numeri sono oggettivi? Quale rapporto tra economia e politica, tra economisti e politici? Intervista all’economista Luigino Bruni

di Chiara Andreola

pubblicato su: Cittanuova.it il 8/09/2011

L'altra sera in tv un importante direttore di una società di ricerca discettava sulle questioni relative alla manovra economica con l’estrema serenità e semplicità datagli dal fatto che, molto banalmente, stava lavorando coi numeri: “Questo è il totale da ricavare, quindi, visto che la matematica non è un'opinione, basta organizzare le cose in modo che questa sia la somma: elementare, Watson!”.

Invece le cose sono un po’ più complicate, perché né la politica né l'economia sono solo numeri. Ne parliamo con Luigino Bruni, economista, professore alla Bicocca a Milano.

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I numeri al potere

Quale rischi nel misurare tutto con metodi razionali? I numeri sono oggettivi? Quale rapporto tra economia e politica, tra economisti e politici? Intervista all’economista Luigino Bruni di Chiara Andreola pubblicato su: Cittanuova.it il 8/09/2011 L'altra sera in tv un importante direttore di una ...
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Governi pieni di debiti, Borse in picchiata, disoccupazione sempre più alta. Il sistema economico basato sul libero mercato sta passando una delle fasi peggiori della sua storia. C’è chi sostiene che sia giunto al capolinea. E chi pensa che possa salvarsi, a patto però di un cambiamento sostanziale.

di Adriano Lovera

pubblicato su donnamoderna.com il 30/08/2011

logo_donna_moderna«Ha presente una persona colpita da infarto? Non guarisce con una medicina, ma ce la fa solo se cambia completamente stile di vita». Luigino Bruni, docente di Economia politica all’università Bicocca di Milano, fotografa così il capitalismo di oggi. Perché il sistema economico basato sul libero mercato, diffuso praticamente in tutto il mondo (compresa la Cina), appare molto malato, dagli Stati Uniti all’Europa.

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I governi sono pieni di debiti, le Borse scendono e l’industria non riparte, di conseguenza la disoccupazione resta alta mentre i consumi stagnano. E ogni giorno, a seconda dell’andamento dei mercati, scattano nuovi allarmi. E affiora una domanda: è solo un momento di difficoltà o forse il capitalismo è definitivamente arrivato al capolinea? «Secondo me resta il miglior sistema possibile e vale la pena salvarlo» sostiene Daniela Parisi, docente di Storia del pensiero economico all’università Cattolica di Milano, «a patto che si dia nuove regole e faccia tornare un po’ di fiducia nelle persone».

Il primo, grande malanno del capitalismo si chiama debito. Negli Stati Uniti, per evitare il fallimento dei conti statali, il presidente Barack Obama ha firmato un accordo che prevede di tagliare nei prossimi anni una cifra astronomica: 2 mila miliardi di dollari in meno di spesa pubblica. Anche da noi, il governo ha dovuto anticipare gli effetti della manovra finanziaria decisa a luglio ed entro il 2013 bisognerà risparmiare 80 miliardi di euro per mettere a posto il bilancio.

Perché si è arrivati a questo punto? «Abbiamo speso troppo in passato e non ce lo possiamo più permettere » spiega il professor Bruni «e questo riguarda sia le famiglie sia gli Stati. Nel mondo occidentale l’economia ha corso per tutti gli anni Ottanta e Novanta e un numero sempre maggiore di persone ha alzato il proprio standard di vita, acquistando la casa, l’auto, il telefonino e così via. Ma nel 2008 il gioco è andato in tilt, quando è esploso il debito privato negli Usa: le banche sono fallite perché avevano concesso mutui e carte di credito a gente che, in realtà, non aveva redditi sufficienti a ripagarli. Così, per salvare gli istituti, ci ha messo i soldi lo Stato che ora è indebitato fino al collo».

In Europa i privati hanno un livello di debito sostenibile, anche perché le banche sono state più intransigenti: niente mutui a chi non aveva un reddito sicuro. Ma il problema è di alcune nazioni che hanno speso in modo incontrollato per garantire non solo servizi, pensioni, stipendi, ma anche per assecondare privilegi e sprechi. Come? Continuando a finanziarsi con la vendita di titoli di Stato (da noi sono soprattutto i Bot e i Btp), meccanismo che permette di incassare in anticipo, ma obbliga continuamente a ripagare i prestiti con gli interessi. E oggi sono al limite: la Grecia è praticamente fallita e si salverà solo grazie agli aiuti dell’Unione europea, mentre l’Italia e la Spagna hanno un debito così grande che i loro creditori (piccoli risparmiatori, banche italiane ed estere e altri Paesi) sono in agitazione.

Così si arriva alla seconda malattia, tutta europea: il mercato e la moneta sono unici, ma le regole no. «Qualcosa è cambiato a livello di finanza, visto che i Paesi dell’Unione europea si sono imposti criteri severi circa la stabilità delle banche» dice Francesco Vella, giurista, docente dell’università di Bologna e autore del volume Capitalismo e finanza. Il futuro tra rischio e fiducia, uscito a maggio per le edizioni de il Mulino. «Quel che manca, però, è una condotta di governo unitaria. Bruxelles prepara i suoi piani di salvataggio nelle situazioni di emergenza, ma poi, passata la tempesta, ogni Stato non vuole perdere il suo potere, quando invece servirebbe davvero un coordinamento comune». E ci vorrebbe una politica coraggiosa, che magari compia scelte impopolari, come quella, molto discussa, di alzare le tasse sui grandi patrimoni. Strada che potrebbe guarire dal terzo male del capitalismo: la disuguaglianza.

«In Occidente, Italia compresa, c’è un 1 per cento della popolazione ricchissimo, un 10 per cento molto ricco, e tutti gli altri seguono a grande distanza» spiega ancora il professor Bruni. «L’economia non riparte se una buona fetta di quei risparmi privati non viene rimessa in circolo e torna a disposizione di tutti, sotto forma di nuovi investimenti, sia pubblici sia privati. Potrà non piacere, ma oggi occorre davvero un patto sociale, con un Fisco che ridistribuisca la ricchezza a favore del ceto medio-basso, perché chi ha milioni di euro in banca mantiene il suo tenore di vita e tiene fermi i risparmi. Però se si concede uno sgravio anche solo di mille euro a chi oggi consuma poco, questo si trasforma subito in acquisti, diventa cibo, scarpe, abbigliamento».

E i famosi costi della politica? «Certo, vanno tagliati» dice Bruni «ma nessuno pensi di salvare la situazione con le manovre economiche. È l’entusiasmo della gente che fa funzionare il meccanismo». «Infatti lo spirito vero del capitalista» conclude Daniela Parisi «è quello dell’imprenditore che magari rinuncia a farsi la seconda casa, però reinveste il suo profitto per creare altro lavoro. Il fatto è che per agire l’individuo deve sentirsi protetto e aiutato dal suo Stato: se i “piccoli” vengono tempestati di cartelle esattoriali mentre i grandi gruppi, i cosiddetti “poteri forti”, non sono mai toccati, il gioco non funziona. Se invece c’è fiducia, il capitalismo torna a correre». 

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Governi pieni di debiti, Borse in picchiata, disoccupazione sempre più alta. Il sistema economico basato sul libero mercato sta passando una delle fasi peggiori della sua storia. C’è chi sostiene che sia giunto al capolinea. E chi pensa che possa salvarsi, a patto però di un cambiamento sostanziale.

di Adriano Lovera

pubblicato su donnamoderna.com il 30/08/2011

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Capitalismo: la fine di un mito

Governi pieni di debiti, Borse in picchiata, disoccupazione sempre più alta. Il sistema economico basato sul libero mercato sta passando una delle fasi peggiori della sua storia. C’è chi sostiene che sia giunto al capolinea. E chi pensa che possa salvarsi, a patto però di un cambiamento sostanziale....
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Contro la crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Famiglia Cristiana del 21/08/2011

Logo_Famiglia_CristianaOrmai è evidente che il sistema capitalistico sta vivendo la sua crisi più grave: ciò che questa “seconda ondata” sta mostrando è che non si tratta solo di un fallimento dei mercati finanziari (come si pensava nel 2008-2009), né solo di una fase naturale di recessione del ciclo economico. Oggi è in gioco la natura stessa del capitalismo che abbiamo messo in piedi negli ultimi decenni. Un capitalismo che è cresciuto facendo leva su un  enorme debito, privato e pubblico, divenuto insostenibile.

La crisi greca è stata la prima smagliatura di un abito che sembrava di lusso: cercando di sistemare quell’orlo periferico ci siamo accorti che  tirando via quel filo ci siamo ritrovati con un gomitolo in mano, poiché via via si smagliava l’intera trama del tessuto (il sistema economico globale).

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Fuor di metafora: la crisi greca aveva certamente una componente di eccezionalità, ma i mercati stanno capendo, sebbene in modo confuso e a tratti contraddittorio, che dietro c’è una dimensione strutturale dell’economia contemporanea, e cioè un eccessivo indebitamento degli Stati senza garanzie che pone domande molto serie e preoccupanti sulla sostenibilità del bellissimo giocattolo che abbiamo costruito in questi ultimi trent’anni.

Un giocattolo chiamato capitalismo finanziario globalizzato. L’indebitamento eccessivo è globale e strutturale: riguarda certamente l’Italia, ma in modo non meno grave anche gli Usa, la Francia, il Giappone, cioè il cuore del capitalismo contemporaneo.

In questi giorni, sia in Italia che in Francia, si parla di inserire nella Costituzione l’obbligo del pareggio di bilancio. Certo qualcosa va fatto per ridurre il debito pubblico, senza illuderci però che basti modificare l’articolo 81 della Carta per risolvere il grave problema di insostenibilità del nostro modello di sviluppo; si tratta di mettere in conto sacrifici seri e di tutti, poiché quel debito è diventato abnorme non solo per sprechi, ma anche per un allungamento eccezionale della vita media che ha fatto saltare il sistema pensionistico e sanitario.

Occorre dunque un nuovo patto sociale dove si ridisegnino diritti e doveri di tutti e di ciascuno.

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Contro la crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Famiglia Cristiana del 21/08/2011

Logo_Famiglia_CristianaOrmai è evidente che il sistema capitalistico sta vivendo la sua crisi più grave: ciò che questa “seconda ondata” sta mostrando è che non si tratta solo di un fallimento dei mercati finanziari (come si pensava nel 2008-2009), né solo di una fase naturale di recessione del ciclo economico. Oggi è in gioco la natura stessa del capitalismo che abbiamo messo in piedi negli ultimi decenni. Un capitalismo che è cresciuto facendo leva su un  enorme debito, privato e pubblico, divenuto insostenibile.

La crisi greca è stata la prima smagliatura di un abito che sembrava di lusso: cercando di sistemare quell’orlo periferico ci siamo accorti che  tirando via quel filo ci siamo ritrovati con un gomitolo in mano, poiché via via si smagliava l’intera trama del tessuto (il sistema economico globale).

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La "Carta" non basta

Contro la crisi di Luigino Bruni pubblicato su Famiglia Cristiana del 21/08/2011 Ormai è evidente che il sistema capitalistico sta vivendo la sua crisi più grave: ciò che questa “seconda ondata” sta mostrando è che non si tratta solo di un fallimento dei mercati finanziari (come si pensava nel 20...
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Comincia in Senato l’iter formale della nuova manovra. Intanto l’Unione dice sì all’Euro Concil e alla tobin tax

Nel Pdl si lavora sulle proposte del Terzo Polo per la tutela fiscale dei nuclei numerosi. «Finalmente se ne parla», dice Luigino Bruni

di Errico Novi

pubblicato su Liberal del 18/08/2011

Logo_LiberalSeppur timidamente la parola famiglia è risuonata persino nel colloquio Berlusconi-Tremonti di sabato scorso. Tra mille diffidenze e dubbi (del Cavaliere nei confronti del suo ministro) i due sono accomunati dalla disponibilità a ragionare sulla proposta del Terzo polo. Che nelle ultime ore comincia a farsi strada tra gli esponenti del Pdl. In particolare tra chi cerca con maggiore impegno, da Cicchitto a Lupi, di avvicinare l’opposizione moderata in vista della conversione della manovra.

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E di fondo la proposta consiste nell’integrare il sistema fiscale con il principio – quanto meno – del quoziente familiare. Potrà risultare curioso che un passo simile si compia su un aspetto del provvedimento economico da 45 miliardi come il contributo di solidarietà per i redditi medio-alti. È singolare cioè che un’idea come il quoziente familiare, ispirata a logiche di equità e di equilibrio sociale, faccia il suo primo vero ingresso nel dibattito sulle  politiche economiche come forma  attenuatrice di una tassa straordinaria e contestata, anche dalla stessa Udc che chiede interventi per le famiglie.

La discussione vera e propria inizierà lunedì prossimo nelle commissioni Affari costituzionali e Bilancio di Palazzo Madama. Una seduta lampo del Senato, con soli 11 presenti in aula, ha incardinato ieri il decreto contenente la manovra e ne ha assegnato l’esame. È chiaro peraltro quanto sia difficile aprire la strada alla battaglia per la tutela delle famiglie in un contesto drammatico come quello in cui si trova l’Eurozona e l’Italia in particolare.

Lo riconosce anche un economista di matrice cattolica come Luigino Bruni, ordinario all’università di Milano Bicocca ed editorialista di Avvenire. «Di sicuro Paesi come Francia, Germania e Inghilterra sono molto più avanti di noi, nella legislazione family frendly. E quindi in generale le istituzioni europee che hanno sollecitato la manovra di aggiustamento in Italia vedrebbero bene qualsiasi provvedimento orientato a tutelare la famiglia. Ma appunto il discorso è valido in generale. In un momento del genere le politiche per la famiglia suonerebbero come maggiori spese. Anche se ci si limita a un aggiustamento che moduli semplicemente il contributo straordinario in funzione del numero di figli».

Diverso sarebbe il discorso sul lungo periodo. «Anche perché proprio gli economisti», continua Bruni, «potrebbero dimostrare come nel giro di 5-7 anni l’introduzione del fattore famiglia finirebbe per arrecare benefici economici complessivi». L’analisi mostra come il principio sarà di non semplice attuazione. Considerato che nella maggioranza continuano a fronteggiarsi due diverse linee di pensiero: quella che nella sostanza qualifica l’attuale formulazione del decreto come ineluttabile, e a cui si iscrive, con Tremonti, soprattutto la Lega; e l’altra, molto seduttiva all’interno del Pdl, che annovera chi sente tradita la vocazione liberale del partito berlusconiano, con prese di posizione molto nette non solo da parte dei cosiddetti “ribelli” ma anche di singole figure come Martino e Pera.

Simili tensioni non spianano certo la strada a modifiche proposte dall’esterno. Eppure è lo stesso premier a ragionare su aperture, sia all’ipotesi avanzata dal Pd di tassare i patrimoni ”scudati”, sia appunto a quelle del partito di Pier Ferdinando Casini relative alla tutela delle famiglie. Si tratta dunque di una battaglia difficile perché come spiega il professor Bruni, «i benefici ci sono, e non soltanto in termini di equità, ma serve tempo per apprezzarli ». L’editorialista economico di Avvenire insiste in particolare sul fatto che «gli interventi a favore della famiglia vanno ricondotti a un discorso più complessivo sul ceto medio. I paradigmi dell’economia speculativa tendono a favorire l’arricchimento dell’1 per cento della popolazione a discapito degli altri, cioè del ceto medio. Meccanismo che indebolisce l’economia nel suo insieme perché fiacca i consumi, evidentemente. Intervenire con modulazioni favorevoli a chi ha figli o anziani a carico vuol dire dunque favorire la crescita, soprattutto in prospettiva». Bruni peraltro spiega come nel mondo cattolico sia molto avanzato il dibattito sulla formulazione più adeguata di questi meccanismi di tutela. «Il Forum delle associazioni familiari ha elaborato una proposta compiuta che indica la soluzione migliore nel cosiddetto fattore famiglia. Più efficace del quoziente familiare soprattutto perché meno penalizzante per chi ha coniugi a carico, quindi per quelle famiglie di reddito non elevato in cui la moglie è casalinga».

Simili interventi inciderebbero sull’Irpef e sulla no tax area in particolare. «Qui invece si discute di come attenuare l’impatto del contributo di solidarietà sui nuclei numerosi. Dico questo: è importante che si cominci a discutere. La manovra potrebbe essere l’occasione buona per introdurre il tema. L’importante è che il quoziente familiare, o comunque verrà definita questa modulazione, non sia alternativa al contributo di solidarietà sui redditi medio alti». Il professore di Economia politica della Bicocca tiene molto a questo aspetto.

«È certamente vero che un reddito da 90mila euro l’anno, per una famiglia con quattro figli, non determina esattamente la condizione di benestanti. Ma appunto in una congiuntura drammatica come questa è giusto anche mettere in atto il principio per cui chi ha di più deve dare di più. La progressività dell’imposizione è un principio costituzionale ». Si torna al punto: è curioso che un principio come la tutela della famiglia debba approfittare di un cuneo così stretto per farsi strada. Ma lo stesso Bruni riconosce che «è comunque importante che ci sia un dibattito, che si riconosca la famiglia come soggetto». Sarebbe un elemento di equità dunque già dire che «chi ha un reddito superiore ai 90mila euro paga sì il contributo ma in funzione del fattore famiglia». Principi in base al quale «la famiglia è un soggetto fiscale, non una mera somma di persone che hanno un tetto in comune».

Resta l’incognita sulla compatibilità delle modulazioni da introdurre in manovra, comprese quelle riguardanti la famiglia, con le attese dei mercati. Molto nervosi ieri, dopo l’annuncio dell’Eurocouncil e della Tobin tax (approvati dalla Ue) sulle transazioni finanziarie fatto da Merkel e Sarkozy. Paga più Francoforte (-0,77%) di Parigi che va in positivo (0,73%). Soffre Londra (a - 0,49), non Piazza Affari che chiude a +1,27%. In rivolta l’associazione delle banche d’affari europee. Anche questo peserà nel dibattito sulla manovra.

vedi pdf 1a parte

vedi pdf 2a parte

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Comincia in Senato l’iter formale della nuova manovra. Intanto l’Unione dice sì all’Euro Concil e alla tobin tax

Nel Pdl si lavora sulle proposte del Terzo Polo per la tutela fiscale dei nuclei numerosi. «Finalmente se ne parla», dice Luigino Bruni

di Errico Novi

pubblicato su Liberal del 18/08/2011

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La rivoluzione familiare

Comincia in Senato l’iter formale della nuova manovra. Intanto l’Unione dice sì all’Euro Concil e alla tobin tax Nel Pdl si lavora sulle proposte del Terzo Polo per la tutela fiscale dei nuclei numerosi. «Finalmente se ne parla», dice Luigino Bruni di Errico Novi pubblicato su Liberal del 18/08/2...