Bruni Varie

Economia Civile

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Un economista milanese con le radici a Cambridge

di Luigino Bruni

pubblicato su Arcipelago Milano il 24/01/2017

Pier Luigi Porta MemorialIl professor Pier Luigi Porta (1945-2016), economista e storico del pensiero economico, è stato un intellettuale interamente cosmopolita e internazionale, e interamente milanese e radicato nella sua città. Ha collaborato alla scrittura della Storia di Milano, ha curato le opere economiche di Pietro Verri, ma è stato professore invitato in molte università del mondo, membro della Scuola di Cambridge, conoscitore della lingua inglese in tutte le sue sfumature.

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Era andato in pensione nel novembre 2015, due mesi prima di lasciarci, il 29 gennaio, un anno fa. La sua vita è terminata col suo mestiere. Un lavoro che ha fatto con grande serietà e impegno, raggiungendo un’eccellenza testimoniata dalla stima dei colleghi, che lo hanno ricordato con lettere personali e affettuose (tra questi i premi Nobel Amartya Sen e Daniel Kanheman, o la filosofa Martha Nussbaum). Nessun impact factor riporta questi indicatori di eccellenza, che però tutti sappiamo essere quelli più importanti, soprattutto alla fine, quando la corsa termina. Laureatosi alla Bocconi, era stato poi tra i fondatori della Università Bicocca, dove lo conobbi e dove abbiamo lavorato insieme per molti anni, e dove verrà ricordato con una giornata di studi il 27 gennaio.

Si era laureato nel 1969 con una tesi sul pensiero economico nei Paesi in via di sviluppo, con Innocenzo Gasparini, e a quella scuola e a quella sede era rimasto sempre legato, raccogliendo l’eredità dei suoi maestri, che erano stati economisti con una forte sensibilità storica e umanistica, come lui. Il professor Porta conosceva e usava le lingue antiche e molte moderne. La sua attività scientifica si era concentrata principalmente sulla storia del pensiero economico, che, come per tanti altri economisti italiani, era vista in rapporto ai grandi temi della politica economica, della democrazia, delle povertà del presente.

Appena laureato si trasferì a Cambridge, dove studiò con Nicholas Kaldor, Luigi Pasinetti, Joan Robinson, Richard Kahn, Austin Robinson, Phyllis Deane, e in particolare con Piero Sraffa. Dopo un lungo e approfondito lavoro sulla scuola classica, nel 1992 ha curato la pubblicazione di un manoscritto di Ricardo, Notes on Malthus’measure of value, pubblicato come un companion volume del Collected Work of David Ricardo a cura di Piero Sraffa (Cambridge University Press). A Cambridge conobbe e frequentò Sraffa nei suoi ultimi anni di vita, e nel clima che si respirava a Cambridge in quegli anni studiò Smith, Ricardo, Marx e la scuola classica.

Sentiva molto vicina la tradizione di Cambridge, un luogo dello spirito al quale è rimasto sempre legato (solo lo scorso anno, per la salute già molto compromessa, ha rinunciato alle sue settimane di visiting al Wolfson College, di cui era fellow). La teoria economica di Marshall, Pigou, Keynes, Kaldor, Robinson, Pasinetti, una economia politica e neo-classica, che abbinava rigore e studi del benessere umano, storia e preoccupazioni per la giustizia sociale, erano una economia vicina alla sensibilità di Pier Luigi Porta, che, non a caso, lo portò nel corso della sua carriera a lavorare ai temi dell’economia civile, dell’happiness economics, a diventare amico e a invitare alla Bicocca i più famosi studiosi del tema.

Infatti, a partire dagli anni Novanta, all’interesse per i classici – che non lasciò mai: quando la morte lo ha colto stava ancora lavorando a un libro sulla scuola classica in inglese, che aveva iniziato molti anni fa – aggiunge altri filoni di ricerca, che sono accumunati da un obiettivo coerente nel suo disegno. Ha lavorato molto sulla tradizione della civil society, proponendo una lettura di Smith e dei classici in linea con la tradizione dell’illuminismo milanese. Quasi negli stessi anni, ha poi iniziato a lavorare sulla felicità e l’economia civile. Sraffa, i classici, la felicità pubblica, la scuola milanese e quella napoletana, Milano e Cambridge: non brandelli di un lavoro che ha seguito direzioni varie in base alle diverse opportunità che gli si sono presentate, ma uno sviluppo di un progetto coerente, cioè mostrare che esiste una continuità tra la scuola italiana classica di economia e quella inglese, accumulati dall’idea di economia come incivilimento.

Pier Luigi è stato amico personale di grandi economisti del proprio tempo, animatore di società scientifiche, direttore di riviste internazionali, autore di saggi e libri pubblicati con gli editori più prestigiosi. Grande esperto della scuola italiana e milanese di economia, ha scritto pagine classiche su molti economisti italiani.

Fin qui solo una minima parte del Pier Luigi Porta professore e studioso eccellente, che avrebbe potuto dare ancora molto alla scienza. La sua qualità scientifica era sostenuta e alimentata da una umanità splendida, coronata da molte virtù. Innanzitutto l’umiltà, quella vera, che nasce dall’intuizione del mistero della realtà e dalla certezza che per quanto studiamo restiamo sempre indigenti e poveri. E la mitezza, con la quale ha affrontato una malattia dolorosissima. Umiltà e mitezza sono stati essenziali per la sua professione, e hanno contribuito a farne il grande studioso e la grande persona che ricorderemo – amici colleghi allievi – il 27 in Bicocca.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Arcipelago Milano il 24/01/2017

Pier Luigi Porta MemorialIl professor Pier Luigi Porta (1945-2016), economista e storico del pensiero economico, è stato un intellettuale interamente cosmopolita e internazionale, e interamente milanese e radicato nella sua città. Ha collaborato alla scrittura della Storia di Milano, ha curato le opere economiche di Pietro Verri, ma è stato professore invitato in molte università del mondo, membro della Scuola di Cambridge, conoscitore della lingua inglese in tutte le sue sfumature.

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Pier Luigi Porta e l'Economia della felicità

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Ritorna di moda, nei fatti, la tesi che il povero, il malato è colpevole del suo stato. Intervista a Luigino Bruni su "La sventura di un uomo giusto".

di Goffredo Pistelli

pubblicato su Italia Oggi il 24/12/2016

La sventura di un uomo giusto rid 250Luigino Bruni, ascolano, classe 1966, insegna alla Lumsa di Roma, dove è ordinario di Economia politica, ma ha portato da poco in libreria, per le Edizioni Dehoniane di Bologna-Edb, La sventura di un uomo giusto. Una rilettura del libro di Giobbe.

Professore, che c'azzecca lei, uno studioso dell'economia, dell'economia civile certo, con un personaggio biblico?

Ma il Libro di Giobbe è un'opera straordinaria, delle più belle. In ebraico, poi, è un pezzo di letteratura, è una trama di bellezza.

Capisco, ma serve all'oggi?

Ha ispirato arte e letteratura. Le dico di più: non possiamo capire oggi, fino in fondo, Leopardi, Dostoevskij, lo stesso Kafka, se non capiamo quel libro.

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Ci siamo distratti, nei decenni, dunque.

Ma perché guardiamo la Bibbia con uno schema, imprigionati in un a priori: che si tratti, cioè, solo di faccende religiose.

Non lo sono?

Certo, che sì. Ma sono anche antropologiche: il Libro di Giobbe, ma anche il Qoelet, e i Profeti sono anche testi della grande saggezza umana.

Qual è, professore, l'attualità di quel pensiero?

Il grande tema è la distinzione fra la povertà, o per meglio dire la sventura, di una persona, dalla sua colpa. Nella religione «economica» di quel tempo, il povero, il malato, era colpevole in quanto tale. E così la sventura era doppia: era la maledizione di Dio, un'ingiustizia pazzesca.

Invece Giobbe?

Giobbe è il tentativo di dire che lo sventurato non è ingiusto e viceversa. Lui, Giobbe, finito in malora, deprivato di tutto, senza colpa alcuna, chiede conto a Dio, lo chiama a processo, gli chiede perché esiste il dolore degli innocenti: «Se non sei un idolo, spiegami». Alla fine, quasi sfinito, è tentato di credere anche lui che sia così, come gli dicono i quattro amici che cercando di convincerlo, in realtà i suoi carnefici.

Sta quasi per chiedere il rito abbreviato, si direbbe oggi.

Sta quasi per patteggiare, infatti, ma resiste, va avanti fino in fondo a chiedere.

E Dio risponde.

Sì, arriva nel processo, ma è meno interessante delle domande incessanti di Giobbe. Infatti gli studiosi hanno successivamente spiegato che si tratta di un lavoro redazionale ex-post: i rabbini aggiustarono il finale, con Dio che arriva e rimette in riga l'impudente. In realtà, il vero Libro di Giobbe terminerebbe proprio senza la risposta di Dio, aperto a tutte le risposte.

Una rivoluzione, in certo qual modo.

Una rivoluzione antropologica, una storia di un'umanità pazzesca, che noi moderni abbiamo a lungo dimenticato, malgrado poi il Vangelo avesse detto cose che, senza Giobbe, non si potevano capire fino in fondo. Pensi all'episodio del cieco nato.

Gli apostoli chiesero a Gesù se avesse peccato lui o sui genitori, per quella disabilità. Ma qual è l'attualità del pensiero di Giobbe, professore. Perché rileggerlo oggi?

Ora, non voglio certo strumentalizzare i libri antichi, ma vedo nel capitalismo post-moderno un grande ritorno di quella religiosità economica del tempo di Giobbe.

In che senso?

Si fa strada il pensiero che i poveri siano colpevoli, dei pigri fannulloni e che, pertanto, anche l'idea di un welfare universale sia sbagliata.

Da Giobbe è tanta strada.

Lo so, ma ci pensi. È il pensiero che deriva direttamente da un certo calvinismo nord-americano e che si va diffondendo anche in Europa, per cui la globalizzazione è diventata una sorta di religione e i poveri sono tali per colpa loro. Una certa idea di meritocrazia vuol colpevolizzare il povero, in quanto demeritevole. Alla fine dal pensiero di Giobbe deriva una critica a questa mentalità.

Spieghiamolo bene.

Giobbe è uno che si trova nel letame, solo e malato, senza alcuna colpa: gli accade, per sventura. E questa ideologia della meritocrazia, spesso, sostiene il contrario: con una certa spocchia fa un discorso sul merito che non è mai dalla parte di poveri.

Professore, ma il contrario della parola meritocrazia è, spesso, la parola «ingiustizia», il luogo dell'abuso e dell'arbitrio.

La parola meritocrazia è una bella parola. Tutti vorremmo che il nostro stipendio, o i voti nei compiti a scuola, fossero all'insegna della razionalità, fossero un rapporto fra merito e performance. Anzi potremmo dire che è un'esigenza di razionalità del mondo.

E la sua critica?

È che occorra spezzare l'idea che l'uomo ricco, di successo, sia di per sé meritevole e che si usi la meritocrazia come legittimazione nei luoghi alti del potere. Legittimare, di volta in volta, chi comanda. Ovviamente non mi riferisco al settore pubblico, dove la rivendicazione del merito è necessaria.

E dove l'assenza del merito è spesso clamorosa.

Sì, ma è appunto uno dei casi, che dicevo prima: uno non critica il merito per lodare i demeritevoli e i fannulloni. Se il mestiere dell'intellettuale, oggi, ha ancora un senso, è quello di dire cose scomode.

Le dica.

Certo. E allora chiedo: che ne facciamo dei demeritevoli? Li mettiamo nei centri di recupero? Li scartiamo?

Un altro grande tema che lei individua in Giobbe è la giustizia.

Giobbe dice una grande verità: esiste la sventura. Ci sono cioè dei fatti che producono grandi danni a noi stessi e alle nostre famiglie e che non vanno ridotti al contratto: c'è qualcosa che ci accade, cioè, e che non è frutto del nostro impegno. Questo è un messaggio importante per il nostro tempo: non c'è sempre una giustificazione morale, del tipo «chissà cosa ha fatto».

Giobbe è il giusto innocente.

Lo sventurato che non ha fatto niente di male. La giustizia negata. Giobbe dice: «Non è colpa mia». Ai suoi amici, che lo attaccano volendo fargli ammettere che c'è un ordine nell'universo, che vogliono fargli riconoscere una giustizia ultima ma a lui invisibile, Giobbe si ribella: «Se Dio è questo Dio, preferisco essere ateo. Non voglio credere». Giobbe sfiora l'ateismo. Lo dicono gli esegeti che i redattori successivi hanno emendato i passi troppo scandalosi: Giobbe arriva quasi a dire che Dio non c'è, se è un Dio che permette il dolore innocente. Meglio che non ci sia, se dovesse essere un mostro.

Un giudizio duro.

No, nel canto di Giobbe c'è una grande speranza: un Dio possibile. Moderno, se vuole, per un mondo che rifiuta la religiosità semplice.

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Ritorna di moda, nei fatti, la tesi che il povero, il malato è colpevole del suo stato. Intervista a Luigino Bruni su "La sventura di un uomo giusto".

di Goffredo Pistelli

pubblicato su Italia Oggi il 24/12/2016

La sventura di un uomo giusto rid 250Luigino Bruni, ascolano, classe 1966, insegna alla Lumsa di Roma, dove è ordinario di Economia politica, ma ha portato da poco in libreria, per le Edizioni Dehoniane di Bologna-Edb, La sventura di un uomo giusto. Una rilettura del libro di Giobbe.

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Contro la tesi che il povero se la meriterebbe

Ritorna di moda, nei fatti, la tesi che il povero, il malato è colpevole del suo stato. Intervista a Luigino Bruni su "La sventura di un uomo giusto". di Goffredo Pistelli pubblicato su Italia Oggi il 24/12/2016 Luigino Bruni, ascolano, classe 1966, insegna alla Lumsa di Roma, dove è ordinario ...
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Questo terremoto ci ha lasciato vivi ma ci ha rubato l'anima. E' da questa che dobbiamo ricominciare. Perché per costruire una chiesa c'è bisogno dell'anima collettiva di una terra.

di Luigino Bruni

pubblicato su Famiglia cristiana il 2/11/2016

Santa Maria in Pantano rovine ridLa mattina del 30 ottobre stavo percorrendo in auto la Salaria, passando accanto al paese natio di mia madre, Torre Santa Lucia, già evacuato dopo il 24 agosto, un antico borgo che avvolge la collina come un foulard bellissimo. Pensavo alle pietre di quel paese e degli altri, mentre mi avvicinavo ad  Arquata. E il pensiero è andato naturalmente al mio bisnonno Benedetto, che sull’ inizio del secolo era emigrato, come altri suoi compaesani, per molti anni in America. Tornato, aveva messo tutti i dollari guadagnati nella sua casa, fatta di pietre di travertino: non li aveva "in-vestiti", li aveva "in-murati". E a suo figlio, mio nonno Domenico aveva dedicato gli anni migliori della sua vita spaccando pietre in quella cava di travertino poco più in alto, per edificare quelle case bianche. In quei massi squadrati e scolpiti, ora crollati, c’ è molto sudore di molte generazioni.

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Poi, passando sotto Arquata, vedevo il paese ancora in piedi, nonostante il primo sisma. Il cartello sulla destra diceva ‘2 km’, e, data la splendida giornata autunnale, avevo già pianificato una passeggiata nei luoghi della memoria, quando sarei tornato da Roma nel primo pomeriggio. Ma mentre ero dentro questi pensieri, l’ auto inizia a sbandare in modo anomalo, vedo cadere un albero sulla strada a pochi metri, grande polvere ovunque. Era tornato. Ovunque si piange per le Santa Maria in Pantano ridpersone, ma in Italia si piange anche per le pietre, perché non sono soltanto pietre. Sono il nostro patrimonio, cioè il dono (munus) dei padri (patres), la sola cosa che ci hanno lasciato in queste terre di contadini, che quando riuscivano a comprare un terreno e a costruirci sopra una casa con le proprie mani e forze, era come se dicessero: "il tempo della schiavitù è finito, non siamo più ‘sotto padrone, siamo diventati liberi". Ancora analfabeti, parlanti solo lo splendido dialetto, ma non più servi. Ecco perché commuoversi di fronte a quelle antiche case cadute non è romanticismo né sentimentalismo, né disprezzare il dolore per chi muore: è qualcosa di serissimo come il sudore povero e vero dei nostri nonni, come la loro speranza. E poi, accanto o sopra le case, c’ erano le chiese, fatte con le stesse pietre bianche, con lo stesso sudore di generazioni.

Ecco perché come l’orologio della torre di Amatrice fermo alle 3.36 è stata l’ icona del terremoto di Agosto, quel gruppettino di cristiani in ginocchio davanti le macerie di San Benedetto è l’ immagine più forte del terremoto di domenica scorsa. In quelle suore, in quei frati, anziani, disabili, giovani, alcune donne, inginocchiati mentre la terra ancora tremava, c’ è quasi tutto il senso di quello che sta accadendo nel centro Italia, e di quanto potrà e dovrà accadere in futuro. Quando un terremoto fa tremare e crollare tutto, non ci si inginocchia per le telecamere o per i selfie per Facebook. Neanche per paura. Ci si inginocchia per quella azione semplicissima, cosa che abbiamo quasi tutti dimenticato: per pregare. Saper pregare è un capitale personale e civile di grande valore, è una capacità fondamentale della persona e delle comunità. È una risorsa morale e civile preziosissima sempre, che diventa essenziale quando si attraversano le lunghe notti, le distruzioni, i terremoti. Chi ha appreso l’ arte del pregare - dai genitori, dai nonni, dal dolore -, e l’ ha saputa custodire diventando adulto, si ritrova dentro un autentico patrimonio dai rendimenti altissimi e crescenti nel tempo: è importante saper pregare da bambini, è cruciale saperlo fare ancora da adulti, quando l’ innocenza delle prime preghiere non c’ è più, e deve tornare. Pregare assomiglia al disegno. Tutti sappiamo disegnare da bambini, ma diventando grandi lo dimentichiamo, se non lo coltiviamo tutta la vita, o se siamo degli artisti e dipingiamo per ‘vocazione’.

Santa Maria in Pantano interno ridIn mezzo a quel manipolo di persone inginocchiate abbiamo visto gli ‘artisti della preghiera’ , chi per vocazione sa pregare: suore e frati. Hanno pregato sempre, ma questa volta, dopo i crolli, li abbiamo visti, tutto il mondo li ha visti, in piazza, a dirci che pregare è una faccenda anche civile. E abbiamo capito tutto, anche se non sappiamo spiegarlo. Ci siamo improvvisamente ricordati che nel nostro mondo dei consumi e della finanza, delle televisioni e dei social media, esiste ancora chi per ‘vocazione’ spende la vita per pregare, c’ è chi impara e coltiva quest’ arte tutta la vita, e lo fa anche per noi. E, inginocchiati tutti, abbiamo capito che quello che era accaduto in quella piazza distrutta era qualcosa di estremamente vero e importante, come lo sono le cose che si fanno mentre la terra trema forte. Che era importante per noi, per tutti, anche per chi la fede non ce l’ ha. Tutti, credenti e non, abbiamo capito che la città è più ricca quando c’ è qualcuno che sa pregare, anche se sono pochi, fosse anche una persona soltanto. Dietro il dolore di case e chiese crollate ci sono molte cose. Non soffriamo solo perché si perdono occasioni di lavoro e profitti, anche, ma sarebbe troppo poco; soffriamo perché sappiamo di non avere più la fede per costruire e ricostruire quelle chiese: “Se il Signore non ricostruisce la città, invano noi mettiamo pietra su pietra” (Salmo).

Prendere coscienza di questa povertà del nostro tempo, che nessun ‘patto di stabilità’ metterà in evidenza, può essere il primo passo di una ricostruzione spirituale ed etica delle città distrutte. I fondi nazionali ed europei potranno darci ricorse per i materiali, i restauri, le tecniche anti-sismiche. Per costruire supermercati a forma di chiesa, per i musei, bastano le risorse tecniche, i capitali, il mercato. Ma per costruire una chiesa c’ è bisogno del cemento invisibile dell’ anima collettiva di una terra. I nostri nonni ce l’ avevano, era popolare, semplice, non teologica, e noi sappiamo, se siamo onesti, che quell’ anima non ce l’ abbiamo più, e per questo quelle chiese distrutte non le sappiamo ricostruire. Potremo fare qualcosa di simile, ma non uguale, perché quel cemento invisibile non ce l’ abbiamo più, e non sappiamo riprodurlo. Quell’ anima non può mettercela né il governo, né l’ Europa. Potremmo mettercela solo noi, se ne avessimo conservata un po’ in qualche angolo, o se questo grande dolore la farà rinascere dalle sue ceneri.

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Questo terremoto ci ha lasciato vivi ma ci ha rubato l'anima. E' da questa che dobbiamo ricominciare. Perché per costruire una chiesa c'è bisogno dell'anima collettiva di una terra.

di Luigino Bruni

pubblicato su Famiglia cristiana il 2/11/2016

Santa Maria in Pantano rovine ridLa mattina del 30 ottobre stavo percorrendo in auto la Salaria, passando accanto al paese natio di mia madre, Torre Santa Lucia, già evacuato dopo il 24 agosto, un antico borgo che avvolge la collina come un foulard bellissimo. Pensavo alle pietre di quel paese e degli altri, mentre mi avvicinavo ad  Arquata. E il pensiero è andato naturalmente al mio bisnonno Benedetto, che sull’ inizio del secolo era emigrato, come altri suoi compaesani, per molti anni in America. Tornato, aveva messo tutti i dollari guadagnati nella sua casa, fatta di pietre di travertino: non li aveva "in-vestiti", li aveva "in-murati". E a suo figlio, mio nonno Domenico aveva dedicato gli anni migliori della sua vita spaccando pietre in quella cava di travertino poco più in alto, per edificare quelle case bianche. In quei massi squadrati e scolpiti, ora crollati, c’ è molto sudore di molte generazioni.

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Terremoto, per ricostruire serve il cemento della preghiera

Questo terremoto ci ha lasciato vivi ma ci ha rubato l'anima. E' da questa che dobbiamo ricominciare. Perché per costruire una chiesa c'è bisogno dell'anima collettiva di una terra. di Luigino Bruni pubblicato su Famiglia cristiana il 2/11/2016 La mattina del 30 ottobre stavo percorrendo in auto ...
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Dove era la politica, dove erano le istituzioni, le chiese, la società civile, i sindacati, mentre il nostro paese si riempiva in questi due decenni dalla zizzania dell'azzardo? Dove eravamo tutti?

di Luigino Bruni

pubblicato su Vita il 07/10/2016

Azzardo Vita ridLe invasioni barbariche dell’azzardo è soprattutto un segnale chiarissimo del degrado morale del nostro Paese. Solo un popolo eticamente degradato può lasciarsi occupare da questo virus che, a differenza della peste che uccideva Padre Cristoforo e Don Rodrigo, colpisce e uccide soprattutto i più deboli, i più fragili, i più poveri. Dove era la politica, dove erano le istituzioni, le chiese, la società civile, i sindacati, mentre il nostro paese si riempiva in questi due decenni di questa zizzania, che ha soverchiato e affogato gli antichi giochi popolari che si chiamavano totocalcio, la lotteria Italia, persino le smorfie del lotto?

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Dove eravamo noi? Dove ero io? Sono queste domande che non dovrebbero lasciarci dormire nell’osservare che nonostante il parziale risveglio degli ultimi anni da alcune componenti della società civile l’impero pubblico-privato dell’azzardo continua ad avanzare, è arrivato nel cuore delle nostre città, dei nostri ragazzi, anziani, malati di depressione.

Non ci siamo accorti, ad esempio, che gli sponsor delle squadre di calcio, che nell’era pre-azzardo di stato erano i prodotti del nostro Made in Italy, si sono via via trasformati nei loghi, sempre molto brutti, delle società di scommesse e dell’azzardo (che sono le stesse), che sono diventati i veri padroni dello sport professionistico e non solo. E non solo nel calcio professionistico. Non ci siamo accorti che lo sport stava morendo ucciso dall’azzardo che è il suo opposto e la sua negazione, perché lo sport è la prima immagine della verità di uno dei grandi programmi della tradizione occidentale: virtù batte fortuna.

C’è tutto questo, e molto di più, dietro il patto scellerato di cui si è resa responsabile la FIGC, che imitando il CONI, hanno almeno avuto il merito di rendere visibile e pubblico un processo che da anni stava andando avanti in vari sottoboschi. Ma c’è anche una buona notizia: questa volta, a differenza degli anni passati, ce ne siamo accorti subito, e abbiamo iniziato a protestare, a gridare, a urlare, in difesa del paese, dello sport, dei giovani, dei poveri, venduti ‘per un paio di sandali’ (Profeta Amos). E continueremo a farlo, finché non potranno non ascoltare, e finché non cambieranno. L’età dell’azzardo omertoso è finito.

Il libro di Giobbe inizia con una scommessa: quella tra Satana e Dio. Alla fine nessuno dei due vince: vinse Giobbe, che era l’oggetto della scommessa. Il giusto sventurato, sciagurato, malato e urlante sul mucchio di spazzatura. Saranno i nostri giobbe e i loro veri amici, come vogliamo essere noi, che potranno far crollare gli imperi di sabbia dell’azzardo, che come tutti gli imperi, prima o poi crollerà.

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Dove era la politica, dove erano le istituzioni, le chiese, la società civile, i sindacati, mentre il nostro paese si riempiva in questi due decenni dalla zizzania dell'azzardo? Dove eravamo tutti?

di Luigino Bruni

pubblicato su Vita il 07/10/2016

Azzardo Vita ridLe invasioni barbariche dell’azzardo è soprattutto un segnale chiarissimo del degrado morale del nostro Paese. Solo un popolo eticamente degradato può lasciarsi occupare da questo virus che, a differenza della peste che uccideva Padre Cristoforo e Don Rodrigo, colpisce e uccide soprattutto i più deboli, i più fragili, i più poveri. Dove era la politica, dove erano le istituzioni, le chiese, la società civile, i sindacati, mentre il nostro paese si riempiva in questi due decenni di questa zizzania, che ha soverchiato e affogato gli antichi giochi popolari che si chiamavano totocalcio, la lotteria Italia, persino le smorfie del lotto?

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Azzardo: le nuove invasioni barbariche

Dove era la politica, dove erano le istituzioni, le chiese, la società civile, i sindacati, mentre il nostro paese si riempiva in questi due decenni dalla zizzania dell'azzardo? Dove eravamo tutti? di Luigino Bruni pubblicato su Vita il 07/10/2016 Le invasioni barbariche dell’azzardo è soprattutt...
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Dal Rapporto Sviluppo sostenibile de Il Sole 24 ore, dedicato alla Sostenibilità economica, sociale e ambientale

di  Luigino Bruni

pubblicato su Il Sole 24 ore il 28/09/2016

La tragedia del terremoto del centro Italia si sta rivelando un esperimento naturale perfetto sulla fragilità e resilienza del nostro Paese, dei nostri territori, delle nostre comunità. È una riflessione sulla sostenibilità del nostro sistema sociale, e sulla nostra resilienza. Con la forza che solo le tragedie hanno, abbiamo visto con una nitidezza estrema una radiografia del sistema Italia. La nostra è la splendida terra dei paesini-presepi arroccati sulle pendici dei monti che attrae un numero sempre crescente di investimenti e di turismi, un Paese dove ancora i nonni sono molto importanti, vivono e, questa volta, sono morti con i nipoti che accoglievano durante le vacanze.

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È la terra delle case belle, frutto del genio dei mastri artigiani del passato, che sanno costruire muri a secco e case umili non meno belle delle chiese e dei palazzi. Il Paese dove le chiese dicono ancora identità, preghiere, storia, fede popolare e quindi vera, dove la madonnina di Arquata rimasta in piedi riesci ancora a sorprenderci e a ‘dirci’ qualcosa. Una terra ferita da cui è emersa, poi, una stupenda solidarietà, che resta ancora il nostro grande patrimonio: siamo un paese ancora capace di migliaia di abbracci veri ed eterni, che sa ancora mischiare le lacrime, dove sappiamo ancora soffrire per il dolore di persone sconosciute, ma non così lontane da non sentirle prossimi.

Ma questa tragedia ci ha mostrato anche la terra delle strutture e infrastrutture troppo fragili, delle regole rispettate a metà nella speranza che non arrivino mai i controlli, dei soldi che finiscono troppo spesso nei posti sbagliati, dei politici che propongono di usare il superenalotto per ‘aiutare’ le vittime del terremoto, come se i soldi ‘dimenticassero’ la storia che li ha generati.

Italia, paese dell’estetica ma non il paese dell’etica pubblica e spesso neanche di quella privata, perché mentre posso far bellissima la mia casa e lasciare brutto il parco sotto-casa, se non coltivo l’etica pubblica nessuna etica privata è seria né sostenibile. Nel lavoro di restauro di chiese e duomi (Siena) sono stati trovati pezzi di oro nascosti e impossibili da vedere. C’è una anima della nostra tradizione economica e civile che dice che il lavoro ben fatto è intrinseco al lavoro stesso, che sa che la prima ragione del lavoro non sono i controlli né evitare le multe, ma il riconoscimento che le cose che lavoriamo hanno una vocazione in sé, che va conosciuta e rispettata. I muri vanno fatti bene, e basta, e tutti speriamo che se nessun terremoto ci dimostrerà quel lavoro ben fatto. Anche perché il costo di alcuni eventi molto improbabili (come terremoti o alluvioni) è talmente alto da dover essere considerato un assoluto, quando l’etica e il lavoro ben fatto diventano praticamente tutto. L’analisi costi-benefici misura solo alcune dimensioni del lavoro ben fatto, ma ce ne sono altre che ogni lavoratore conosce, che nessun controllo può individuare, ma dalle quali dipende molto della qualità del nostro lavoro, della vita delle comunità e dei territori. L’etica è tutto questo, e quindi è una cosa molto seria per ogni buona economia. Ce lo ricorda Primo Levi: “Ma ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del ‘‘lavoro ben fatto’’ …. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i nazisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale». Non c’è nessuna sostenibilità della nostra economia e dei nostri territori senza reimparare a fare i ‘muri dritti’, non per incentivo ma per dignità.

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Dal Rapporto Sviluppo sostenibile de Il Sole 24 ore, dedicato alla Sostenibilità economica, sociale e ambientale

di  Luigino Bruni

pubblicato su Il Sole 24 ore il 28/09/2016

La tragedia del terremoto del centro Italia si sta rivelando un esperimento naturale perfetto sulla fragilità e resilienza del nostro Paese, dei nostri territori, delle nostre comunità. È una riflessione sulla sostenibilità del nostro sistema sociale, e sulla nostra resilienza. Con la forza che solo le tragedie hanno, abbiamo visto con una nitidezza estrema una radiografia del sistema Italia. La nostra è la splendida terra dei paesini-presepi arroccati sulle pendici dei monti che attrae un numero sempre crescente di investimenti e di turismi, un Paese dove ancora i nonni sono molto importanti, vivono e, questa volta, sono morti con i nipoti che accoglievano durante le vacanze.

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La lezione dell’ultimo terremoto: rivalutare l’etica del lavoro ben fatto

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Intervista a Luigino Bruni sull'esito del referendum che ha segnato l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea

di Loredana Suma

pubblicato su InTerris il 25/06/2016

In realtà hanno sempre avuto un piede fuori, a cominciare dalla moneta, dalla guida a sinistra e non ultimo il sistema metrico. Rappresentano l’antitesi nella loro essenza, i primi a dare il voto alle donne, i primi a far indossare le minigonne, i primi ad avere una rete fognaria, ma nessun’altro è come loro conservatore. Mantengono saldi legami con l’ex impero se pensiamo al Commonwealth, una monarchia ben salda sul trono, parate e salve di cannone per ogni quando. La domanda da farsi è: ma si sono mai sentiti europei?

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Fondamentalmente non hanno mai subito il dominio di nessuno e sia l’indipendenza geografica che quella mentale è nel loro Dna. Adesso escono dalla scena delle diatribe europee sapendo di creare un forte squilibrio, occorre capire quanto la bilancia della storia in questo momento vada a loro favore, visto che la questione più spinosa è quella finanziaria, attorno alla quale la City muove le fila dell’economia non solo europea ma d’oltreoceano. Eppure molti cittadini corrono in banca per cambiare la valuta da sterline in euro. Probabilmente un segnale che non proprio tutto quadra esiste e lo dimostra che i voti decisivi siano stati veramente pochi.

Per approfondire il caso Brexit, abbiamo intervistato il Professor Luigino Bruni, economista e storico del pensiero economico, autore di numerose pubblicazioni e attualmente Docente di Economia politica presso l’Università Lumsa di Roma.

Prof. Bruni, i cittadini britannici sia pure per una manciata di voti hanno deciso l’uscita dalla Ue, sono veramente consapevoli di ciò che comporta?

“Evidentemente no, altrimenti sarebbero rimasti, perché hanno solo da perdere da questa operazione: nel giro di un anno si vedranno le conseguenze soprattutto per le classi medio basse, non certo per le banche della City. Oggi è un giorno di lutto, lo è soprattutto per quella tradizione liberale inglese che almeno dai tempi di Hume e Smith ha insegnato al mondo che non c’è un buon futuro per l’economia e la democrazia senza apertura e cooperazione. Questa è una grande involuzione, una scelta anacronistica e nostalgica di un impero che non c’è più. L’Inghilterra sta facendo la scelta che fece Venezia nel ‘500 quando invece di capire che il mondo era cambiato e che l’asse si stava spostando fuori dal Mediterraneo continuò a pensare guardando indietro, alle antiche glorie e non diede vita ad una grande unificazione delle città italiane. E così iniziò il suo declino inarrestabile”.

Per la macroeconomia europea può rappresentare realmente la minaccia di una débâcle?

“L’Europa dovrebbe reggere tutto sommato bene a questa crisi, chi più rischia è la stessa Gran Bretagna che si troverà molto più vulnerabile ed esposta alle grandi speculazioni internazionali, che sono già cominciate, basta guardare cosa sta succedendo in tutte le borse del mondo e alla sterlina che è ai minimi storici da 30 anni”.

Per la microeconomia, il cittadino comune, l’uomo della strada cosa deve aspettarsi?

“Se è inglese e se è un lavoratore dipendente della working class non deve aspettarsi dei tempi felici perché il paradiso fiscale che l’Inghilterra sta sempre più diventando attirerà dei fondi di investimento le cui ricadute non saranno certamente per i poveri. Tutta questa operazione ha due grandi motori: la City e la “pancia”; la City non vuole più i vincoli dell’Europa in termini di speculazione finanziaria e vuole trasformarsi sempre di più in una Panama di alto profilo. Poi c’è la “pancia” degli inglesi -soprattutto degli anziani- che hanno paura dei rifugiati e degli emigranti. Ma l’avidità e le paure non hanno mai fatto figli intelligenti e buoni”.

La Brexit ha rinfocolato i sentimenti di indipendenza della Scozia e dell’Irlanda pensa che questo potrà segnare un passo in tale direzione?

“Certamente le cose si complicano ed erano già complicate all’interno del Regno Unito. Ma soprattutto si complica lo scenario internazionale e si buttano via 70 anni di fatiche nella costruzione dell’architettura europea, il sangue di tanti soldati inglesi che riempiono i cimiteri di tutta Europa, le speranze di una Unione Europea che servisse da modello all’Africa, al Sud America ed ad altri paesi”.

Per l’Italia, che impatto si prospetta? Il Paese è in grado di ammortizzare eventuali contraccolpi economici?

“E’ troppo presto per poterlo dire ma dipenderà molto dagli scenari europei. Comunque non sono giorni felici: c’è molta tristezza in chi crede che la pace non è mai garantita e si può distruggere in un giorno quanto costruito in almeno tre generazioni. I costruttori di Babele e i costruttori dell’arca di Noè sono sempre gli uni accanto agli altri: oggi hanno vinto i muratori della torre di Babele”.

Bisogna attendersi un giro di vite per chi dalla Comunità Europea vuole andare a studiare o a lavorare in Gran Bretagna?

“Non è ancora chiaro questo scenario comunque è stato sempre difficile farlo specie negli ultimi anni quando gli studenti europei hanno cominciato a pagare più di 10.000 sterlina all’anno per corsi avanzati. Il Processo di allontanamento della Gran Bretagna dall’Europa è iniziato molto tempo fa: questo referendum, se avesse vinto il “remain”, paradossalmente avrebbe potuto segnare una inversione di tendenza e l’inizio di una nuova era. Ma questi discorsi li lasciamo alla storia dei se e dei ma. Il 24 giugno 2016 resterà una delle date della storia europea e purtroppo non sarà ricordato come una bella data, da nessuno, soprattutto dagli inglesi”.

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Intervista a Luigino Bruni sull'esito del referendum che ha segnato l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea

di Loredana Suma

pubblicato su InTerris il 25/06/2016

In realtà hanno sempre avuto un piede fuori, a cominciare dalla moneta, dalla guida a sinistra e non ultimo il sistema metrico. Rappresentano l’antitesi nella loro essenza, i primi a dare il voto alle donne, i primi a far indossare le minigonne, i primi ad avere una rete fognaria, ma nessun’altro è come loro conservatore. Mantengono saldi legami con l’ex impero se pensiamo al Commonwealth, una monarchia ben salda sul trono, parate e salve di cannone per ogni quando. La domanda da farsi è: ma si sono mai sentiti europei?

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Brexit, la Gran Bretagna torna un’isola

Intervista a Luigino Bruni sull'esito del referendum che ha segnato l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea di Loredana Suma pubblicato su InTerris il 25/06/2016 In realtà hanno sempre avuto un piede fuori, a cominciare dalla moneta, dalla guida a sinistra e non ultimo il sistema metrico...
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Dal Rapporto Sviluppo sostenibile, dedicato all’impresa sociale de Il Sole 24 ore

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Sole 24 ore il 31/05/2016

Il capitalismo green sta operando una autentica rivoluzione nel nostro modo di intendere le imprese e la loro responsabilità ambientale e sociale. C'è, però, un aspetto della metafora “verde” che non viene sufficientemente enfatizzato nei molti dibattiti sull'evoluzione delle imprese. È il passaggio dalla metafora animale a quella vegetale.

Le imprese del XX secolo si sono strutturate sul modello animale: una forte divisione funzionale del lavoro e un ordine gerarchico.

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Questa organizzazione gerarchico-funzionale ha consentito loro di correre molto, di spostarsi in cerca di opportunità, di reagire agli stimoli e ai cambiamenti degli ambienti, di diventare l'organismo di maggiore successo in un tempo di grande “cambiamento climatico”, soprattutto se confrontate con le comunità civili e politiche, molto più lente, democratiche, diffuse, ancorate al territorio. Le imprese sono state e sono i grandi vincitori della storia evolutiva del nostro tempo velocissimo. Ad un certo punto, però, con l'arrivo di internet e delle reti, che somigliano molto alle piante l'ambiente del mondo umano è cambiato drasticamente. La stessa immagine della rete o della ragnatela (web) ci ricorda molto da vicino la vita diffusa dei vegetali, non certamente gli organi e le gerarchie degli animali.

Gli alberi e il mondo vegetale hanno una caratteristica fondamentale: sono ancorati al suolo, hanno radici. Questo ancoraggio alla terra ha rappresentato nel tempo un grande svantaggio evolutivo, perché ha impedito alle piante di fuggire dai predatori o di spostarsi durante le crisi dell'ambiente circostante (incendi o mutamenti climatici). Questo grande limite ha però prodotto una enorme opportunità: hanno dovuto imparare a sopravvivere perdendo anche il 50 o l'80% del loro corpo, riuscendo a non morire anche quando vengono divorate dagli animali e ridotte a poca cosa. Per riuscire in questa operazione miracolosa, le piante hanno dovuto imparare a svolgere le loro funzioni vitali con tutto il loro corpo.

Noi animali abbiamo avuto un grande vantaggio evolutivo sulle piante grazie allo sviluppo di organi, con una forte divisione funzionale. Respiriamo con i polmoni, ascoltiamo con le orecchie, vediamo con gli occhi. Le piante, invece, non avendo organi, vedono, respirano, sentono con l'intera estensione del loro corpo. Noi abbiamo un sistema gerarchico per pensare e decidere, le piante ‘pensano e decidono' con le foglie, con i rami, col fusto, con le radici. La loro vulnerabilità legata alla sedentarietà le ha portate a spalmare in tutte le loro cellule le loro funzioni vitali.

Gli organi specializzati degli animali ci hanno consentito una grande efficienza e un enorme successo cognitivo, che però paghiamo con un'altra grande vulnerabilità: è sufficiente perdere un organo vitale per morire. È molto più difficile uccidere una pianta che uccidere un animale. Una grande vulnerabilità è diventata una maggiore resilienza alla morte.

Le organizzazioni che oggi vogliono muoversi in questo nuovo ambiente deve imparare a respirare, ascoltare, ricordare, parlare con tutto il corpo: come le piante. Devono quindi ripensare e stravolgere la rigida struttura gerarchica. Chi vuol sopravvivere e crescere nella nuova economia è sempre più chiamato ad evolvere decentrando e spalmando tutte le funzioni (compresa quella imprenditoriale), rinunciando ad un controllo gerarchico di tutti i processi e decisioni, attivando e responsabilizzando tutte le cellule del corpo. In realtà, nel nostro modello di sviluppo esistono imprese organizzate secondo il paradigma vegetale: sono le cooperative. La forza della cooperazione consiste nell'aver sviluppato una distribuzione delle funzioni in tutto il corpo, rinunciando alla rigida organizzazione gerarchica per attivare l'intera compagine sociale. Le cooperative hanno imparato a respirare, sentire, decidere con tutto il loro corpo, e lo hanno fatto ripensando i diritti di proprietà dell'impresa e il governo. Essendo ancorate ai territori sono state molto più lente e in genere meno efficienti delle imprese capitalistiche, ma si sono mostrate molto più resilienti alle crisi ambientali, esterne e interne. E quando muoiono, il loro fallimento dipende molto spesso dall'aver rinunciato alla metafora vegetale per imitare gli animali più veloci e attraenti, adottando la loro governance e cultura. Se le cooperative e le imprese di comunità perdono le loro capacità di utilizzare tutte le cellule per respirare e vivere, si ritrovano solo con gli svantaggi dell'ancoraggio al territorio.

È probabile che i protagonisti capaci di abitare con successo il “tempo della ragnatela” saranno organizzazioni sempre più diffuse e orizzontali, ma che assomiglieranno alle “vecchie” cooperative. Il vulnus delle imprese nella new economy della rete è infatti il loro essere cambiate nella cultura e nella governance ma non ancora nei diritti di proprietà. I proprietari dei nuovi giganti del web sono ancora troppo pochi, i profitti (enormi) sono ancora molto concentrati in poche mani. Saranno i diritti di proprietà e quindi la distribuzione della ricchezza e la democrazia economia le sfide della sostenibilità del nuovo capitalismo vegetale. Finché non inizieremo a pensare a nuove forme di proprietà diffuse nelle nuove foreste globali, ci daremo un look green ma resteremo predatori.

 

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Dal Rapporto Sviluppo sostenibile, dedicato all’impresa sociale de Il Sole 24 ore

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Sole 24 ore il 31/05/2016

Il capitalismo green sta operando una autentica rivoluzione nel nostro modo di intendere le imprese e la loro responsabilità ambientale e sociale. C'è, però, un aspetto della metafora “verde” che non viene sufficientemente enfatizzato nei molti dibattiti sull'evoluzione delle imprese. È il passaggio dalla metafora animale a quella vegetale.

Le imprese del XX secolo si sono strutturate sul modello animale: una forte divisione funzionale del lavoro e un ordine gerarchico.

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La sfida vera: l’azienda «vegetale»

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Dal Rapporto Sviluppo Sostenibile del Sole 24 ore curato da Laura La Posta

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Sole24ore,  il 02/03/2016

L'economia di un Paese dipende soprattutto dai suoi capitali. Nella seconda metà del XX secolo, l'Italia è stata capace di un vero e proprio miracolo economico e civile perché disponeva di capitali sociali, morali, spirituali, comunitari, che il sistema nel suo insieme fu capace di “mettere a reddito”. Non avremmo trasformato un paese a povertà diffusa in una delle potenze economiche mondiali senza quei patrimoni (il dono dei padri: patres munus) fatti di virtù civili, di valore del sacrifici, di fede, di ideali; non avremmo triplicato negli anni Settanta il numero delle imprese (da 300mila a un milione) senza l'etica contadina e artigianale del lavoro ben fatto.

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Senza dimenticare quel capitale immenso fatto di cura e accudimento delle donne: un patrimonio enorme, non riconosciuto e non remunerato.

Oggi l'Italia del XXI secolo fa una grande fatica a produrre flussi economici (e tra questi occupazione e Pil) perché ha deteriorato e logorato i suoi capitali, non solo quelli industriali, ma anche e soprattutto i suoi capitali sociali, civili, morali. E se non ricominciamo a vedere, misurare, accudire, manutenere, ricostituire gli stock, i flussi saranno sempre più scarsi. Gli interventi nei capitali, però, non seguono il ciclo politico-elettorale dei paesi. I frutti che generano si vedono nel lungo periodo, e a raccoglierli non solo quelli che hanno piantato gli alberi. Ecco perché la cultura politica dei tempi ordinari non è capace di ricostruire i capitali, ma solo di misurare e spingere i flussi. E così si comporta come quell'apicoltore che, di fronte alla diminuzione del miele nelle arnie, continua a incentivare le api e non si accorge che il problema sta nel deterioramento dei fiori e delle piante nel territorio circostante. Se volesse veramente aumentare il miele, dovrebbe uscire dalla sua azienda e mettersi a piantare nuovi alberi da frutto.

Oggi l'Italia non tornerà protagonista nella scena economica mondiale ed europea se non inizierà ad investire, diversamente e di più di quanto non stia facendo da decenni, nei luoghi dove si formano i capitali morali e civili della gente. La scuola, e l'università in primis, in una società moderna – ce lo dice una filosofa laicissima come Martha Nussbaum, non solo papa Francesco – deve intensificare la formazione umanistica dei giovani, la storia, la letteratura, la poesia, l'arte, perché è lì che si rigenerano i grandi codici simbolici generativi anche di flussi economici. Le tecniche e gli strumenti che stanno inondando scuola e università non sono la priorità dell'educazione, anche perché con la velocità che conosce il nostro tempo, nessuna tecnica è capace di insegnare veramente un mestiere, che sempre più si impara facendolo. Una politica veramente per il bene comune non dovrebbe ridurre arte e humanities nella formazione dei nostri giovani (come sta facendo), ma incrementarle, con tutte le (poche) energie morali che ancora le restano.

E poi bisognerebbe lavorare di più sulla coesione sociale, che è l'intreccio dei capitali civili di un popolo. La crescente diseguaglianza distrugge la coesione sociale, come la distrugge la riduzione degli spazi pubblici abitati, o la proliferazione dell'azzardo.

Abbiamo bisogno di innovazioni economiche e sociali. Ma, giova ricordarlo, il primo e più antico uso della parola innovazione è botanico: c'è innovazione quando un ramo emette un nuovo bocciolo. L'albero innova fiorendo, generando nuova vita. Non si innova, allora, senza radici, buona terra, albero, rami. E senza la mano e la cura del contadino o del giardiniere. Le innovazioni necessarie alla nostra economia hanno bisogno di molte cose, tra queste buona finanza e buone banche. Ma prima vengono le radici e la fertilità dell'humus. Torneremo ad innovare veramente se cureremo le radici e l'humus inaridito e se avremo mani esperte e generose, compresa le mani del mercato e quella pubblica. Altrimenti continueremo a vedere le arnie vuote e ce la prenderemo con le api.

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Dal Rapporto Sviluppo Sostenibile del Sole 24 ore curato da Laura La Posta

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Sole24ore,  il 02/03/2016

L'economia di un Paese dipende soprattutto dai suoi capitali. Nella seconda metà del XX secolo, l'Italia è stata capace di un vero e proprio miracolo economico e civile perché disponeva di capitali sociali, morali, spirituali, comunitari, che il sistema nel suo insieme fu capace di “mettere a reddito”. Non avremmo trasformato un paese a povertà diffusa in una delle potenze economiche mondiali senza quei patrimoni (il dono dei padri: patres munus) fatti di virtù civili, di valore del sacrifici, di fede, di ideali; non avremmo triplicato negli anni Settanta il numero delle imprese (da 300mila a un milione) senza l'etica contadina e artigianale del lavoro ben fatto.

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Investire su humanities e coesione sociale

Dal Rapporto Sviluppo Sostenibile del Sole 24 ore curato da Laura La Posta di Luigino Bruni pubblicato su Il Sole24ore,  il 02/03/2016 L'economia di un Paese dipende soprattutto dai suoi capitali. Nella seconda metà del XX secolo, l'Italia è stata capace di un vero e proprio miracolo economico e ...
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Una opportunità per riflettere ed agire sulle tante schiavitù di oggi

di Luigino Bruni

Logo Anno Santo Misericordia ridNell'umanesimo biblico ogni giubileo è giubileo della misericordia, ma una misericordia  soprattutto sociale, politica economica: fondamentale era nel giubileo degli ebrei liberare quegli schiavi che erano diventati tali per debiti. Se vogliamo che questo giubileo non resti solo una faccenda privata e  intimistica dei singoli cristiani, dobbiamo cogliere questa grande occasione che ci dà papa Francesco per dar vita a grandi iniziative di perdono e di misericordia economica, bancaria, civile. Ad esempio interrogandoci sulla finanza e sui tanti debiti e sui tanti schiavi del nostro tempo, ridotti in schiavitù da un sistema sbagliato.

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La vera domanda che da economista di comunione mi pongo all'inizio di questo giubileo è: "possiamo far si che questo grande evento diventi anche un evento economico, civile, politico che cambi i nostri rapporti economico finanziari, che riformi una finanza che rende schiavi?" Buon anno santo!

Riportiamo in apertura di questo anno santo l'articolo scritto su Avvenire da Luigino Bruni in data 16 novembre 2014 a commento della istituzione del giubileo nell'Esodo. Buon anno santo a tutti, anno di misericordia anche economica e civile

Il tesoro del settimo giorno

pubblicato su Avvenire il 16/11/2014

Logo Levatrici d EgittoA Montgomery, Alabama, in una piccola chiesa battista, ascoltai il sermone più straordinario che avessi mai ascoltato: l’argomento era il libro dell’Esodo e la lotta politica dei neri del sud. Dal suo pulpito il predicatore mimò l’uscita dall’Egitto e ne espose le analogie col presente; piegò la schiena sotto la frusta, sfidò il Faraone, esitò timoroso davanti al mare, accettò l’alleanza e la legge ai piedi della montagna.

M. Walzer Esodo e rivoluzione

Gli umanesimi che si sono mostrati capaci di futuro, sono fioriti grazie a rapporti non predatori con il tempo e con la terra. Il tempo e la terra non li produciamo; li possiamo solo ricevere, custodire, accudire, gestire, come dono e promessa. E quando non lo facciamo, perché usiamo tempo e terra a scopo di lucro, l’orizzonte futuro di tutti si annuvola e si accorcia. L’umanesimo biblico aveva tradotto questa dimensione di radicale gratuità del tempo e della terra con la grande legge del sabato e del giubileo, con la cultura del maggese: “Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto, ma il settimo anno la lascerai riposare e la lascerai incolta; mangeranno i poveri del tuo popolo e ciò che resta lo mangeranno le bestie della campagna. … Per sei giorni farai i tuoi lavori, ma nel settimo giorno ti cesserai, perché possano riposare il tuo bue e tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e lo straniero” (23,10-12).

Non siamo noi i padroni del mondo. Lo abitiamo, ci ama, ci nutre e ci fa vivere, ma siamo suoi ospiti e pellegrini, abitanti e possessori di una terra tutta nostra e tutta straniera, dove ci sentiamo a casa e viandanti. La terra è sempre terra promessa, mèta di fronte a noi e mai raggiunta. E lo è anche la terra su cui abbiamo costruito la nostra casa, quella del nostro quartiere, quella dove cresce il grano del nostro campo.

Alle radici della cultura biblica del maggese non c’è solo una tecnica saggia e sostenibile di coltivazione della terra. Nell’Esodo il maggese lo troviamo assieme al sabato e al giubileo, ed è quindi espressione di una legge più profonda e generale che riguarda la natura, il tempo, gli animali, le relazioni sociali, è profezia radicale di fraternità umana e cosmica. Puoi usare la terra sei giorni, non il settimo; puoi farti servire dal lavoro di altri uomini per sei giorni, non il settimo. Puoi e devi lavorare, ma non sempre, perché sempre lavoravamo quando eravamo schiavi in Egitto. L’animale domestico lavora sei giorni per te, ma il settimo non è per te. Il forestiero non è forestiero tutti i giorni, nel settimo è persona di casa con e come tutti. C’è una parte della tua terra e della tua ‘roba’ che non è tua, e che devi lasciare all’animale selvatico, allo straniero, al povero. Ciò che hai non è tutto e soltanto per te. Appartiene anche all’altro da te, che non è mai così ‘altro’ da uscire dall’orizzonte del ‘noi’. Tutti i veri beni sono beni comuni.

Ma se sulle cose e sulle relazioni umane c’è impresso uno stigma di gratuità, allora ogni proprietà è imperfetta, ogni dominio è secondo, nessun straniero è veramente e soltanto straniero, nessun povero è povero per sempre. Il cristianesimo ha, profeticamente, mandato in crisi la ‘lettera’ della legge del sabato, ma non per ridurre il settimo giorno agli altri sei. Nel ‘regno dei cieli’, dove i poveri sono chiamati felici e i servi amici, i primi sei giorni sono chiamati a convertirsi alla profezia di gratuità e di fraternità universale racchiusa nell’ultimo.

La legge del settimo giorno ci dice allora che gli animali, la terra, la natura non hanno valore solo in rapporto a noi umani, valgono anche in se stessi. La terra e il lago vanno rispettati, e quindi lasciati riposare liberi dal nostro imperio e dal nostro istinto acquisitivo, non solo perché i loro frutti saranno per noi più sani e buoni: vanno rispettatati per il loro valore intrinseco e per la loro dignità, che dovremmo riconoscere e non oltraggiare anche quando una terra non è messa a cultura, e quando in un lago non c’è nessun pesce da pescare. Perché i campi, i laghi, i boschi sono creazione e dono, come lo siamo noi umani, gli animali, il mondo. È la fraternità della terra la legge che ispira il maggese, il sabato, il giubileo.

La diversità radicale del settimo giorno ci ricorda, poi, che le leggi dei sei giorni, quelle delle asimmetrie e delle diseguaglianze, non sono né le uniche né le più vere, perché il settimo giorno è il giudizio sulla giustizia e sull’umanità degli altri sei. Il grado di umanità e di civiltà vera di ogni società concreta si misura sulla base dello scarto tra il sesto e il settimo giorno. L’ultimo giorno  diventa allora la prospettiva da cui guardare e giudicare gli altri sei, la loro qualità etica, spirituale, umana. Quando manca il settimo giorno, il lavoro diventa schiavitù per chi lavora, servitù e assenza di respiro per la terra e per gli animali; il forestiero non diventa mai fratello, il povero solo scarto e mai redenzione di sé e della città. Gli imperi hanno sempre tentato di eliminare l’idea stessa del settimo giorno e l’utopia concreta in esso contenuta, pensando così di eliminare il giudizio sulle ingiustizie da loro perpetrate nel sesto – è bello pensare che mentre i sacerdoti ebrei scrivevano il libro dell’Esodo, o almeno alcuni brani di esso, si trovavano schiavi in Babilonia, senza sabato. Per questo lo amavano e lo desideravano come grande speranza e promessa di libertà da tutti gli idoli e da tutti gli imperi, e come giudizio sul loro tempo: la profezia di un ‘giorno’ diverso è sempre rinata nelle sofferenze e nelle schiavitù, e può rinascere ancora.
Finché salviamo la profezia del settimo giorno teniamo viva la speranza degli umili e degli oppressi e di tutti coloro che non si accontentano delle schiavitù e delle umiliazioni dei sei giorni della storia. E diciamo che vogliamo che quelle ingiustizie non siano per sempre.

La legge del settimo giorno interpella tutte le dimensioni della vita. Come singole persone ci invita a non consumarci e non possederci fino in fondo, a lasciare spazio nella nostra anima non occupato dai nostri progetti, perché vi possano fiorire semi che non sappiamo di ospitare. Senza questa dimensione di gratuità e di rispetto del mistero che siamo, alla vita manca quello spazio di libertà e generosità dove vive l’humus spirituale che fa maturare il ‘già’ nel ‘non-ancora’. È il luogo intimo e prezioso della generatività più feconda. È lì, nella terra libera perché non ‘messa a reddito’ per noi, dove ci raggiungono le grandi sorprese della vita che la cambiano per sempre, dove nasce la creatività vera. È dal quel pezzo di terra incolta e non sfruttata del giardino che riusciamo a vedere la linea più alta dell’orizzonte tra cielo e terra, dove i nostri occhi malati di infinito si distendono e trovano finalmente riposo.

Ma la logica del maggese (da maggio, il mese in cui nel mondo romano si lasciavano riposare i campi) dice cose importanti anche alle comunità e alle istituzioni. Una comunità senza maggese non ha tempo per la festa, non è accogliente, si impossessa delle persone e dei beni, non conosce la fraternità, e quindi non vi si sente il soffio del ‘respiro’ dello spirito. Dove, invece, è presente i suoi indicatori sono chiari e forti: le gerarchie e il potere durano solo sei giorni, la gratuità della festa e l’efficienza del lavoro hanno la stessa dignità. I bambini e i poveri si sentono sempre a casa, perché ci sono zone della case non occupate e lasciate libere per loro.

La cultura del maggese non è la cultura del capitalismo che sperimentiamo, che per la sua natura idolatrica vive di un culto perenne e totale, che ha bisogno di consumatori-lavoratori sette giorni su sette: “Farete attenzione a quanto vi ho detto: non pronunciate il nome di altri dèi” (23,13). E così una grande indigenza della nostra generazione, forse la più grande, è la morte del settimo giorno, che è stato fatto scomparire dal nostro codice simbolico collettivo. Perché il valore del settimo giorno non è solo un settimo del totale: è lievito e sale di tutti gli altri, che senza di esso restano sempre e tutti azzimi e sciapi. È soltanto il non-giogo del settimo giorno che rende sostenibili, persino leggeri e soavi, i gioghi di tutti gli altri.

Ci siamo lasciati rubare il settimo giorno, lo abbiamo barattato con la cultura del week-end (dove i poveri sono ancora più poveri, gli animali ancora più soggiogati, gli stranieri ancora più stranieri). E la notte del settimo giorno sta inesorabilmente abbuiando gli altri sei. La terra non respira più, e a noi manca la sua aria. Abbiamo il dovere di ridonarle e ridonarci respiro, di ridonarlo ai nostri figli che hanno diritto a vivere in un mondo con un giorno diverso in più, a rifare l’esperienza del dono del tempo e della terra.

Ma possiamo ancora sperare. La profezia del settimo giorno non è morta, la Bibbia l’ha custodita per noi. Con essa ha custodito il suo giudizio sui nostri sei giorni diventati sette tutti identici, e ha conservato, sempre per noi, la sua promessa. La parola è viva, genera e ci rigenera sempre. Ci ridona tempo e terra, ci allarga gli orizzonti, ci fa sentire e vedere cieli più limpidi: “Mosè salì con Aronne, Nadab, Abiu e i settanta anziani d'Israele. Essi videro il Dio d'Israele: sotto i suoi piedi vi era come un pavimento in lastre di lapislazzuli, limpido come il cielo” (24,9-11).

 Tutti i commenti di Luigino Bruni su Avvenire sono disponibili nel menù Editoriali Avvenire  

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Una opportunità per riflettere ed agire sulle tante schiavitù di oggi

di Luigino Bruni

Logo Anno Santo Misericordia ridNell'umanesimo biblico ogni giubileo è giubileo della misericordia, ma una misericordia  soprattutto sociale, politica economica: fondamentale era nel giubileo degli ebrei liberare quegli schiavi che erano diventati tali per debiti. Se vogliamo che questo giubileo non resti solo una faccenda privata e  intimistica dei singoli cristiani, dobbiamo cogliere questa grande occasione che ci dà papa Francesco per dar vita a grandi iniziative di perdono e di misericordia economica, bancaria, civile. Ad esempio interrogandoci sulla finanza e sui tanti debiti e sui tanti schiavi del nostro tempo, ridotti in schiavitù da un sistema sbagliato.

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Per dedicarsi completamente ai fatti di Parigi, domani Avvenire modifica la sua programmazione domenicale ed il 3° articolo di Luigino Bruni sul Qohelet non verrà pubblicato. Noi ne pubblichiamo l'incipit, scritto pensando proprio ai fatti di Parigi.

di Luigino Bruni

prayforParis Michel Pochet rid"E questo sangue odora come nel giorno, quando il fratello disse all’altro fratello: «Andiamo ai campi».".

Salvatore Quasimodo, Uomo del mio tempo

Tutto è un infinito Abele. Un eterno venerdì santo. Ora è solo il tempo delle lacrime mescolate con quelle dei fratelli francesi.

Stavo scrivendo le ultime righe di questo articolo quando mi hanno raggiunto, ferendomi il cuore, le notizie di Parigi. Ho smesso di pensare, di scrivere: dentro soltanto un infinito dolore. “Tutto è vanità”, è stato questo il primo messaggio che mi è arrivato nella notte da amici parigini. Il canto di Qohelet continua, si mescola oggi con le nostre lacrime. La Bibbia ci dona ancora parole per dire i dolori indicibili, impensabili, assurdi. Tutto è un infinito Abele.

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Dieu pleure avec nous! è un dipinto che Michel Pochet ha realizzato per i fatti di Parigi del 13 novembre 2015

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Ad Angus Deaton, economista britannico, il Nobel per l’economia 2015, “per le sue ricerche sui consumi, la povertà e lo sviluppo”.

di Luigino Bruni

pubblicato su Focolare.org il 14/10/2015

Il Nobel 2015 assegnato ad Angus Deaton per i suoi studi sullo sviluppo economico, sul benessere, sulla diseguaglianza, sui consumi e sulle determinanti della povertà è un segnale molto importante: dopo alcuni anni in cui, in piena crisi finanziaria, Stoccolma ed i suoi consulenti continuavano a premiare gli economisti che avevano studiato e promosso l’economia e la finanza e avevano contribuito a generare la crisi, col Nobel a Deaton si torna a premiare, nel luogo più importante per la scienza contemporanea, scienziati sociali a tutto tondo, continuatori della scienza politica o civile che è all’origine dell’economia moderna.

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La politica di Stoccolma è stata alquanto bizzarra negli ultimi anni: dal 2010 al 2013, mentre il capitalismo stava rischiando di implodere sotto una crisi finanziaria mai conosciuta prima di allora, i Nobel per l’Economia sono stati assegnati ad alcuni economisti tra i maggiori teorici di quel paradigma economico e finanziario che stava mostrando tutti i suoi drammatici limiti. Come se, durante un’estate con il più alto numero di incendi dolosi mai registrati, venissero assegnati premi a coloro che studiano tecniche sofisticate di accensione avanzata di incendi. Ecco perché questo Nobel e anche, in misura diversa, quello dello scorso anno assegnato al francese Jean Tirole potrebbero indicare una prima inversione di tendenza essendo Deaton molto più simile a premi Nobel come Amartya Sen, Joseph E. Stiglitz, Elinor Ostrom che ai più recenti Eugene Fama e Lloyd Stowell Shapley.

Non dobbiamo dimenticare che la crisi finanziaria ed economica che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo non è indipendente dalle teorie economiche degli ultimi decenni, perché a differenza degli astrofisici le cui teorie non modificano le orbite dei pianeti, gli economisti e le loro le teorie condizionano fortemente le scelte economiche. Negli ultimi anni i migliori dipartimenti di economia del mondo si sono riempiti di economisti sempre più matematici, con una formazione umanistica sempre più scarsa, espertissimi di modelli iper-specializzati e non più capaci in massima parte di avere una visione di insieme del sistema economico, e quindi di associare i loro modelli con la realtà economica e sociale.

Inoltre il premio a Deaton che fa seguito a quello dato a Tirole, potrebbe indicare un ritorno di una teoria economica più europea, più attenta alla dimensione sociale della professione, una maggiore sensibilità per i temi del benessere collettivo e non solo dei profitti e delle rendite individuali.  Questa possibile alba troverà però il suo mezzodì se i prossimi Nobel vedranno più economisti filosofi e meno economisti matematici, come scriveva già nel 1991 l’economista inglese Robert Sugden: “L’economista  oggi deve tornare a essere più filosofo e meno matematico”. Un invito che allora non fu raccolto dalla professione, ma forse siamo ancora in tempo.

Angus Deaton poi è ancora un economista che sa scrivere libri, non solo articoli matematici. Consiglio a tutti il suo ultimo libro “La grande fuga”, nel quale il neo laureato Nobel si domanda, da autentico scienziato sociale e legittimo erede del suo compatriota Adam Smith (filosofo ed economista) se l’umanità potrà conoscere in futuro una stagione di progresso senza disuguaglianza, una domanda fondamentale quando oggi il prezzo del progresso lo stiamo pagando con una crescente disuguaglianza nel mondo e una diminuzione di felicità. L’economia potrà tornare ad essere una scienza morale amica della società se tornerà a porsi questa e simili domande, abbandonate troppo velocemente per rispondere ad altre domande molto più facili e molto meno utili al progresso umano.

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Ad Angus Deaton, economista britannico, il Nobel per l’economia 2015, “per le sue ricerche sui consumi, la povertà e lo sviluppo”.

di Luigino Bruni

pubblicato su Focolare.org il 14/10/2015

Il Nobel 2015 assegnato ad Angus Deaton per i suoi studi sullo sviluppo economico, sul benessere, sulla diseguaglianza, sui consumi e sulle determinanti della povertà è un segnale molto importante: dopo alcuni anni in cui, in piena crisi finanziaria, Stoccolma ed i suoi consulenti continuavano a premiare gli economisti che avevano studiato e promosso l’economia e la finanza e avevano contribuito a generare la crisi, col Nobel a Deaton si torna a premiare, nel luogo più importante per la scienza contemporanea, scienziati sociali a tutto tondo, continuatori della scienza politica o civile che è all’origine dell’economia moderna.

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Nobel Economia: un’inversione di tendenza

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Il sogno é un dono. È un fatto di gratuità, proprio come la buona impresa, in particolare l'impresa nascente. Per questo senza sogni, non nascono imprese.

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Vita (498 KB) , settembre 2015

Logo Vita 2015La storia dell'Occidente e il nostro codice simbolico collettivo è popolato di sogni. La Bibbia è anche una grande raccolta di sogni e di sognatori, che riescono a dire l'indicibile quando le parole della veglia non bastano per dire le parole più grandi. Il sognatore più grandi di tutti è Giuseppe nel libro della Genesi (capitoli 37 e seguenti), che a causa dei suoi sogni di ragazzo nisce schiavo in Egitto venduto dai suoi fratelli, ma a che a causa della sua capacità di interpretare i sogni degli altri salverà se stesso, il faraone e il suo popolo dalla carestia. Dalle carestie si esce imparando, e reimparando mille volte, a sognare.

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Il nostro tempo sta attraversando la più grande carestia di sogni che la storia umana abbia conosciuto. La carestia di sogni prodotta da questo capitalismo individualistico e solitario è una forma molto grave di povertà, perché mentre la mancanza di pane non estingue la fame, se ci priviamo dei sogni niamo presto per non accorgerci più della loro assenza. Ci stiamo abituando ad un mondo impoverito di sogni spenti dalle merci. E così, adattati e non felici, abbassiamo lo sguardo verso le vetrine e gli smarthphones, ma questi pochi centimetri di distanza non bastano per poter sognare cose grandi, che hanno bisogno soltanto delle distanze delle stelle.

I sogni sono sempre cose serie, ma decisivi sono i “sogni ad occhi aperti”, quelli che chiamiamo progetti, aspirazioni, voglia di riscatto e di giustizia, desideri di futuro e di felicità, quelli che ci fanno intravvedere il nostro posto nel mondo e la nostra vocazione. Questi sogni grandi sono quelli della giovinezza, la stagione dei sogni inniti; ma restiamo vivi e generativi nché restiamo capaci di sognare, e magari di sognare insieme.

Il sogno è fondamentale per vivere perché dice gratuità (niente come i sogni ci arriva come dono), come l'impresa. Anche se nella nostra cultura l'associazione tra impresa e gratuità può sembrare impropria o ingenua, in realtà nelle imprese nascenti c'è molta gratuità. L'impresa nasce da moventi molto più potenti dei profitti, e quando nasce per fare protti in genere non riesce a farli, o se ci riesce non ne viene fuori nulla di buono per la società. È troppo poco il protto per far nascere cose grandi, e le vere imprese sono una di queste cose grandi. Se ascoltiamo le storie vere di imprenditori ci troviamo sempre di fronte a sogni e a gratuità, anche quando sono scritti su spartiti fatti di business plan, prospetti nanziari. La gratuità è l'energia non rinnovabile degli imprenditori che durano e fanno migliore il mondo.

L'imprenditore è, prima di ogni altra cosa, un sognatore per vocazione. Quando inizia la sua impresa, tra le mani non ha altro che uno scrigno di sogni. Tutte le sue energie sono orientate alla realizzazione di questi sogni, anche se poi scoprirà vivendo che la realtà è stata diversa da quella sognata, a volte più bella, sempre sorprendente. Si resta imprenditore nché il sogno è vivo. Quando invece le delusioni e il cinismo inevitabile della vita adulta prendono il sopravvento, l'imprenditore si trasforma in altro, quasi sempre in speculatore, che invece di vivere di sogni che lo proiettano verso il domani sopravvive con le rendite su quanto ha conquistato ieri.

È la trasformazione da sognatore in speculatore percettore di rendite la principale malattia cui è soggetto l'imprenditore, perché vivere per anni restando all'altezza della generosità dei primi sogni è molto doloroso e costoso. E così spesso si nisce per accontentarsi dei piccoli risvegli.

Le imprese, tutte le imprese, sono inevitabilmente soggette al ciclo della trasformazione dei sogni in cinismo. Muoiono così, ma possono anche risorgere se, ad ogni età, si riesce a rifare un nuovo sogno. I sogni imprenditoriali da adulti sono forse più preziosi di quelli giovanili, perché sulla terra ci sono poche cose più grandi e nobili di un adulto che ricomincia a sognare ad occhi aperti.

Le carestie economiche e finanziarie passano. Queste carestie, prima o poi, finiscono naturalmente, anche se a volte con grandi costi. Le carestie di sogni non terminano da sole. Finiscono soltanto se, ad un certo preciso punto, decidiamo di reimparare a sognare. Non è impossibile. Lo abbiamo saputo fare tante volte, e lo vediamo fare ogni giorno. Anche agli imprenditori. Le persone, le imprese e i popoli continuano a rinascere chiudendo gli occhi e reimparando a sognare.

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Il sogno é un dono. È un fatto di gratuità, proprio come la buona impresa, in particolare l'impresa nascente. Per questo senza sogni, non nascono imprese.

di Luigino Bruni

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Impresa. Non si vive non si cresce se c'è carestia di sogni

Il sogno é un dono. È un fatto di gratuità, proprio come la buona impresa, in particolare l'impresa nascente. Per questo senza sogni, non nascono imprese. di Luigino Bruni pubblicato su pdf Vita (498 KB) , settembre 2015 La storia dell'Occidente e il nostro codice simbolico colletti...
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"C'è chi ostacolerà le aperture del papa." Intervista a Luigino Bruni sul recente viaggio di Papa Francesco negli USA

di Francesco Lo Dico

pubblicato su: Il Giornale di Sicilia il 29/09/2015

Papa Francesco Barack ObamaL’immaginario hollywoodiano che lo ha subito involto nei luccicori della star gli sta stretto. Ligio ai precetti di Madonna Povertà, papa Francesco ha scostato da sé i facili strepiti delle cronache mondane al ritorno dalle Americhe. Gli astri appartengono al regno del transeunte, ha chiarito Bergoglio. «Sono un servo di Dio, e questa è una cosa che non passa», ha ammonito il Santo Padre in un tripudio di microfoni.

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Libera dagli schiamazzi del mainstream, la grande sostanza politica del suo viaggio Oltreoceano non muta di una virgola. E consegna a seguaci e detrattori, feconde pagine di riflessione sulle quali è giocoforza interrogarsi. «La trasferta nel Nuovo continente rafforza il pontificato di Francesco e la sua missione», chiosa l’editorialista di Avvenire Luigino Bruni. «Il Papa combatte per una Chiesa più aperta e inclusiva, che dia voce a chi non ha voce. Un sogno condiviso da milioni di persone che vedono in Francesco, prim’ancora che un profeta, un testimone», annota il docente di Economia della Lumsa.

Professore, la trasferta del Papa si è conclusa. È tempo di bilanci. Come ne esce la figura di Francesco?

«Francesco ha enunciato in America le sue tesi di sempre: dai poveri al capitalismo che uccide, dalla cultura dello scarto alle diseguaglianze. Ma il contesto in cui le ha richiamate, da Cuba a Washington, ne ha amplificato la forza politica. Il Papa ha detto le cose giuste nel posto giusto. Ha chiesto una riforma dell’Onu, al fine di dare finalmente voce a chi non ne ha mai avuta. Ed aver parlato di pena di morte e traffico d’armi al Congresso Usa è stata una mossa coraggiosa, quanto geniale».

La trasferta a New York, era particolarmente insidiosa. E invece anche al Congresso sono fioccati gli applausi.

«Bergoglio deve tanto successo alla straordinaria intuizione di essersi presentato nel Nuovo Continente come americano delle due Americhe, figlio di immigrati. La sua vicenda personale ha dato forza di verità alle istanze levate davanti al gotha politico statunitense. Attraverso le sue origini e il suo percorso, Francesco ha dimostrato che l’America è più grande degli Usa, e che la cultura americana nasce dagli scarti dell’Europa. Un tema che gli ha consentito peraltro di indicare nel tema degli immigrati, un’emergenza che non va lasciata racchiusa nella Torre di Babele dell’opulenza di pochi».

Alla luce di questi importanti successi, il Papa è riuscito a conquistare anche il cuore dei più scettici?

«La trasferta Oltreoceano non fa che accentuare la polarizzazione del dibattito che ruota intorno alla sua figura. Chi in passato ne contestava le tesi oggi gli è ancora più ostile. Chi lo accusava di comunismo ora potrà contestargli di aver stretto la mano a Fidel Castro, mentre chi lo accusava di essere antimoderno potrà mettere all’indice le sue riflessioni sul mercato e sull’economia che uccide».

E intanto, anche sul fronte interno, alcuni settori della Chiesa annunciano un pesante affondo contro le aperture del Santo Padre a divorziati e omosessuali. Ma il Papa, in America, è sembrato andare dritto per la sua strada.

«La questione è in realtà molto semplice da comprendere. Da quando ha intrapreso il pontificato, Francesco non ha fatto altro che portare avanti le profonde convinzioni che ne avevano caratterizzato il cammino anche prima di ascendere sul soglio di Pietro. Bergoglio si batte per una Chiesa più aperta, disponibile al dialogo, non ideologica e non clericale. Posizioni che gli hanno attirato l’ostilità di alcune frange conservatrici della Chiesa. Il documento preparato da alcuni cardinali in pensione in merito a matrimonio e famiglia, è in questo senso il preludio di un acceso confronto, che vedrà nell’imminente Sinodo sulla famiglia un importante test. Il viaggio in America può essere considerato uno spartiacque, al di là del quale si apre per il Papa un anno di dissensi. Le componenti più chiuse della Chiesa alzeranno l’asticella dello scontro».

Eppure anche negli Usa Francesco ha messo tutti in guardia dal rischio che viene da fondamentalismi e chiusure troppo rigide.

«L’aria rivoluzionaria portata da Francesco ha lasciato molti spiazzati. Il Papa vorrebbe una Chiesa dove l’acqua che viene data alla gente sia quella pubblica e non quella dell’acquasantiera. Una cosa che non piace a chi ha oggi una visione rigida e non ha voglia di aprirsi».

Perché certi ambienti della Chiesa fanno così fatica a seguire la rotta tracciata dal Papa?

«Parte della società italiana è poco avvezza a comprendere le ragioni di chi solitamente era additato come peccatore. Alcuni vescovi e cardinali molto avanti con l’età, vivono certe aperture come qualcosa di inconcepibile. Ma il mondo è molto cambiato e che la Chiesa è chiamata a un’importante sfida che Francesco reputa centrale. Se per un verso non si possono inseguire troppo da vicino i fenomeni contemporanei, è pur vero che i cattolici non possono restare a guardare un mondo che corre veloce e chiede alla fede nuove risposte».  

Una cosa sembra abbastanza chiara dopo questo viaggio: Francesco ha ormai la leadership incontrastata su temi etici e diseguaglianze. Lo dimostrano le bacchettate all’Onu.

«La forza di Francesco è che non ha interessi da difendere. A differenza dei grandi poteri secolari, il papato di Bergoglio è lontano da logiche autoreferenziali. Il Santo Padre dà voce a chi non ha voce senza averne alcun ritorno personale. È per questo che aver chiesto una riforma dell’Onu appare come un atto molto forte. Il Papa vuole che le Nazioni Unite siano al servizio del bene comune e non più bloccate da veti incrociati. Francesco ha ammonito l’organizzazione internazionale, perché è ancora troppo legata al passato e poco capace di interpretare un mondo globalizzato che non è più quello della Seconda guerra mondiale e richiede oggi nuove soluzioni».

Il no alle ideologie, e altre frecciate qua e là: Francesco si è scrollato di dosso le accuse di essere un pericoloso estremista rosso?

«La voce del Papa esprime una novità. Francesco si rivolge a un mondo che non è più ideologico, e non è più diviso dalle vecchie barricate tra credenti e non credenti. Una parte di umanità, al di là della fede professata, lo vede come un alleato. Ed è perciò evidente che tutta la gente che crede nel bene comune, ateo o diversamente credente, viva il messaggio del Papa come un messaggio di speranza. Dopo il viaggio a Cuba e negli Stati Uniti, la posizione è ancora più chiara. Il Papa è una delle pochissime voci che ricorda temi e valori propri di persone che non hanno la forza per imporli all’attenzione. Francesco aggrega sulla base dei contenuti e non in nome di bandiere ideologiche».

Anche in America Bergoglio ha puntato su una formulazione molto originale del tema delle diseguaglianze, incentrata sui cambiamenti climatici. Un importante spunto per i policy maker di tutto il mondo?

«Il tema delle diseguaglianze, sempre più evidenti a causa del mutamento climatico, è stato formulato già in passato da alcuni studiosi. Ma il Papa ne ha fatto con il suo esempio un’importante cassa di risonanza anche in America. La sua forza di penetrazione è considerevole pure tra i non credenti. Molti autorevoli laici pensano che la sua enciclica sull’ambiente non sia soltanto un semplice documento cattolico, ma che sia il più importante studio sul bene comune degli ultimi decenni».

E negli States hanno avuto grande risalto anche le visite a carcerati e vittime della pedofilia.

«Chiedere scusa e pronunciare parole durissime contro i pedofili, così come recarsi nelle carceri, è una cosa non del tutto inedita. Ciò che conferisce a questi atti una certa intensità emotiva è la visione del mondo che Francesco incarna con il suo esempio. Il Papa ha fatto della cultura dello scarto un pilastro del suo pontificato. Francesco viene molto ascoltato perché non è solo un profeta, ma anche e soprattutto un testimone».

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"C'è chi ostacolerà le aperture del papa." Intervista a Luigino Bruni sul recente viaggio di Papa Francesco negli USA

di Francesco Lo Dico

pubblicato su: Il Giornale di Sicilia il 29/09/2015

Papa Francesco Barack ObamaL’immaginario hollywoodiano che lo ha subito involto nei luccicori della star gli sta stretto. Ligio ai precetti di Madonna Povertà, papa Francesco ha scostato da sé i facili strepiti delle cronache mondane al ritorno dalle Americhe. Gli astri appartengono al regno del transeunte, ha chiarito Bergoglio. «Sono un servo di Dio, e questa è una cosa che non passa», ha ammonito il Santo Padre in un tripudio di microfoni.

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«Il viaggio in Usa uno spartiacque»

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Papa Francesco - Enciclica Laudato si’. Custodire la terra con profezia ma senza demonizzazioni

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Il Regno (1.52 MB) n.7/2015

Logo Il Regno 2Questo inizio di XXI secolo sarà ricordato anche per la fine della critica al capitalismo,  che  invece aveva  caratterizzato buona parte del XX. Il capitalismo è diventato l’ambiente dentro il quale viviamo e ci muoviamo, e vi siamo talmente immersi da non avere più la capacità culturale di guardarlo per analizzarlo, criticarlo, rivolgergli le domande fondamentali dell’equità, della giustizia, della verità.

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Anche le varie forme d’impresa responsabile, o la stessa economia del settore non profit, si concepiscono all’interno dello stesso sistema capitalistico e sono a questo funzionali e sempre più essenziali – in Italia, ad esempio, circa la metà delle grandi organizzazioni non profit riceve direttamente o indirettamente finanziamenti dalle multinazionali dell’azzardo, inclusi importanti movimenti cattolici –.

In questa povertà di pensiero critico, si comprende il valore e la portata storica della Laudato si’, che è anche una lucida e profetica critica del capitalismo finanziario e tecnologico. E lo fa a vari livelli, tutti essenziali.

Innanzitutto, la Laudato si’ di Francesco è un grande discorso concreto di bene comune. Non è un discorso «sul» bene comune come categoria (di questi, tra i cattolici, ce ne sono fin troppi), ma è un esercizio di bene comune – nel linguaggio antico dovremmo dire che in questa enciclica il bene comune non è l’oggetto materiale bensì l’oggetto formale: si guarda il mondo dalla prospettiva del bene comune, che diventa criterio etico di giudizio globale.

Oggi, soprattutto in Occidente, non riusciamo a vedere la questione etica del mondo proprio perché ci manca la categoria di bene comune – e quindi anche quella strettamente collegata di beni comuni –, la grande assente della nostra civiltà dei consumi e della finanza.

Eppure la nostra epoca ha conosciuto nella propria carne che cosa siano i mali comuni: guerre mondiali, pericolo atomico, epidemie e, oggi, il terrorismo globalizzato. Abbiamo imparato che cosa significhi essere anche un corpo quando cadevano le bombe sulle case dei ricchi e su quelle dei poveri, quando la follia suicida-omicida uccideva manager e operai; ma dall’esperienza del male comune non abbiamo imparato la sapienza del bene comune.

Non abbiamo appreso collettivamente che il bene primo di una società (nel senso che se manca sono minacciati anche i beni secondi) è il bene comune, quello di tutti e di ciascuno. E così, giorno dopo giorno, legge dopo legge, non-legge dopo non-legge, stiamo dando vita alla «civiltà  dell’interesse  privato»,  che  con ideologie sempre più sofisticate sta convincendo tutti che gli «scarti» siano un prezzo da pagare al benessere dell’élite, e che è normale e inevitabile che il 10% degli abitanti del pianeta utilizzi energia per l’aria condizionata negli appartamenti e per i SUV, e che il 90% che non ha né aria condizionata né SUV sia condannato a subire le conseguenze di un pianeta sempre più inquinato da chi è sopra di lui.

Ancora una volta la storia umana conferma e amplifica la verità del Vangelo: non solo Lazzaro continua a stare sotto la tavola del ricco epulone a raccogliere le briciole della sua opulenza, ma da quella tavola sempre più imbandita con prodotti che nascono dalle terre sfruttate dei tanti poveri del pianeta ormai gocciolano sul capo di Lazzaro anche i rifiuti, le scorie, la sporcizia, che rendono immangiabili quelle poche briciole di pane.

Un umanesimo integrale

Papa Francesco è capace di vedere tutto ciò e di dirlo a tutti, per renderci almeno un po’ meno tranquilli nei nostri banchetti opulenti. E lo fa con la libertà che nasce da chi ha il solo interesse di servire la verità, che non dipende dai finanziamenti delle multinazionali e della grande finanza, e quindi di dar voce a chi non ce l’ha, denunciando con una forza e un coraggio  inediti l’economia dei nuovi epuloni generatori di briciole inquinate e inique. Lo sguardo migliore sul bene comune, forse il solo giusto, è quello di chi si mette sotto il tavolo accanto a Lazzaro, e da lì guarda verso l’alto.

Un altro tema che ispira tutto l’impianto dell’enciclica è il rapporto uomo-terra letto come relazione  di  reciprocità con pari dignità, perché uomo e terra sono  «creazione»  (c.  II;  Regno-doc. 23,2015,14), reciprocità tra esseri umani e reciprocità tra noi e la terra. Una sola è la custodia: custodia dell’altro uomo («Sono forse io il custode di mio fratello?»: Gen 4,9), e custodia della terra (l’Adam deve coltivare e custodire il giardino: cf. Gen 2,15). La parola ebraica che l’autore della Genesi usa in entrambe le custodie – che poi saranno negate – è la stessa (shamar), a ricordarci che se non custodisco l’altro uomo, ogni altro uomo e donna, non sarò capace di custodire né la terra né me stesso (se non custodisco l’altro divento presto incapace anche della cura di me stesso: resta solo l’edonismo nichilista).

Dove non c’è la custodia il fratricidio prende il posto della fraternità e la terra viene macchiata dal sangue – ma Dio e i suoi amici veri e non ruffiani riescono ancora a sentire l’odore del sangue delle vittime («La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo»: Gen 4,10). Ed è per questa ragione che «l’ecologia integrale» (c. IV; Regno-doc. 23,2015,30) di cui parla la  Laudato si’ può nascere solo da un «umanesimo integrale» (c. III; Regno-doc. 23,2015,22).

L’antropocentrismo «deviato» – come il papa definisce quella visione, alimentata anche da alcune teologie cristiane parziali, che vede tutto l’universo in funzione del benessere degli esseri umani – è il primo errore da rettificare per costruire una relazione corretta con la terra e con natura, una relazione che Francesco, francescanamente, chiama di fraternità: «quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale, niente e nessuno è escluso da tale fraternità» (n. 92; Regno-doc. 23,2015,20).

Al tempo stesso, l’uomo è realmente il centro del processo di deterioramento che sta subendo la vita del pianeta, un deterioramento che non mette in discussione la sopravvivenza della terra (che nella sua storia ha superato «crisi» molto più devastanti di quella da noi prodotta) ma la sopravvivenza dell’homo sapiens. Inoltre – e questo il papa lo sottolinea in molti passaggi della sua lettera – il comportamento irresponsabile dell’uomo, invece di «accudire» depreda la terra e sta producendo una forte perdita di biodiversità nel pianeta e la morte di molte altre specie viventi.

Alcuni  commentatori,  sedicenti amanti del libero mercato – senza spiegare che cosa intendano per «mercato» e per «libero» –, hanno scritto, in Italia e altrove, che papa Francesco è contro il mercato e contro la libertà economica, e vedono in questo un’espressione del suo anti-modernismo e magari marxismo. In realtà, se leggiamo il testo senza occhiali ideologici, troviamo cose molto importanti sul mercato e sull’economia. Francesco ci ricorda che il mercato e l’impresa sono preziosi alleati del bene comune se non diventano un tutto. Il mercato è una dimensione della buona vita sociale, essenziale oggi a ogni bene comune. Ma le parole delle economie non sono né le uniche né le prime.

La regola del mutuo vantaggio

Innanzitutto, il papa denuncia lo snaturamento del mercato. Se è vero, infatti, che la legge aurea del mercato è quella del «mutuo vantaggio» – come ci ricordano Adam Smith, Antonio Genovesi e la migliore tradizione del pensiero economico – e non il vantaggio di una parte a spese dell’altra, allor quando le imprese depredano persone e terra (e lo fanno spesso), stanno negando la natura stessa del mercato. Il papa non fa altro che richiamare l’economia e il mercato alla loro vocazione più vera: il mutuo vantaggio o, nelle parole di Genovesi, «la mutua assistenza» (in Lezioni di economia civile, scritte tra il 1765 e il 1767).

Infine anche riconoscendo il mutuo vantaggio come una legge fondamentale del mercato civile, e magari estendendolo anche al rapporto con altre specie viventi e con la terra (molte esperienze nel rapporto uomo-terra si possono leggere anche in questo senso), esso non deve essere l’unica legge della vita. In questo il papa è in sintonia con grandi economisti contemporanei, tra i quali il premio Nobel A.K.Sen.

Sen nei suoi lavori sulla giustizia parla degli obblighi di potere, e lo fa ispirandosi anche alla tradizione religiosa indiana. Gli obblighi di potere ci spingono ad andare oltre il mutuo vantaggio e il contratto – il suo principale strumento. Il mutuo vantaggio e il contratto non sono sufficienti per la costruzione di una società giusta. Esistono altri obblighi morali e civili che non possono essere ricondotti al principio del mutuo vantaggio. In particolare, gli obblighi di potere sono fondamentali quando abbiamo a che fare con i bambini e con altre specie viventi non umane.

Quando ci troviamo nella condizione d’esercitare un potere nei confronti di altri viventi più deboli e che dipendono decisamente dalla nostra potenza, dobbiamo agire sulla base del riconoscimento dell’asimmetrica possibilità di fare cose cariche di conseguenze per la vita degli altri (cf. A. Sen, The Idea of Justice, Harvard University Press, Harvard 2009; trad. it. L’idea di giustizia,  Mondadori,  Milano  2010).

Dobbiamo  agire  responsabilmente nei confronti del creato perché oggi la tecnica ci ha messo nelle condizioni oggettive di poter produrre unilateralmente conseguenze molto gravi verso altri esseri viventi con i quali siamo legati. Tutto nell’universo è vivo, e tutto ci chiama a responsabilità.

Molto importante, infine, è la questio-e del «debito ecologico» (n. 52; Regno-doc. 23,2015,12), che rappresenta uno dei passaggi più alti e profetici dell’enciclica. La logica spietata dei debiti degli stati domina la terra, mette in ginocchio interi popoli (come la Grecia ma non solo), e ne tiene sotto ricatto molti altri. Molto potere nel mondo è esercitato in nome del debito e del credito finanziari. Esiste però anche un grande «debito ecologico» del Sud del mondo nei confronti del Nord, un 10% dell’umanità che ha costruito il proprio benessere scaricando i costi sull’atmosfera di tutti, e che continua a produrre «cambiamenti climatici» che hanno effetti devastanti proprio in molti tra i paesi più poveri.

L’espressione «cambiamenti» è fuorviante perché è eticamente neutrale. Il papa parla d’«inquinamento» e di deterioramento di quel «bene comune» chiamato «clima» (n. 23; Regno-doc. 23,2015,6). Il deterioramento del clima contribuisce alla desertificazione di intere regioni che influiscono decisamente sulle miserie, le morti delle bambine, dei bambini, delle donne, degli uomini, e le migrazioni (cf. n. 25).

Di questo immenso «debito ecologico» e di giustizia globale non si tiene conto nei tavoli dei potenti, e si pretende magari di dare anche una vernice etica alle chiusure delle nostre frontiere verso chi arriva da noi perché prima gli abbiamo bruciato la casa. Questo debito ecologico non pesa per nulla nell’ordine politico mondiale. Nessuna troika condanna un paese perché ha inquinato e desertificato un altro. E così il debito ecologico continua a crescere sotto l’indifferenza dei grandi e dei potenti.

La nostra civiltà globale ha un bisogno estremo e vitale di profezia. La profezia è sempre stata il primo alimento del bene comune, dentro e fuori le religioni. Ma dove sono, oggi, i profeti? E quei pochi, chi li ascolta?

Papa Francesco è uno dei pochissimi profeti del nostro tempo, e, grazie a Dio, è anche ascoltato. Certamente è ascoltato e amato dai Lazzari. Auguriamoci che sia ascoltato anche da qualche ricco epulone: «Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti» (Lc 16,31).

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Accanto a Lazzaro

Papa Francesco - Enciclica Laudato si’. Custodire la terra con profezia ma senza demonizzazioni di Luigino Bruni pubblicato su pdf Il Regno (1.52 MB) n.7/2015 Questo inizio di XXI secolo sarà ricordato anche per la fine della critica al capitalismo,  che  invece aveva&nbs...